REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIZZO Aldo Sebastiano
Dott. CAMPANATO Graziana
Dott. LICARI Carlo
Dott. FOTI Giacomo
Dott. MASSAFRA Umberto

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) S.M.;
2) S.A.;
3) S.G.M.;
4) S.A.I.;
5) S.F.;
6) S.An.;
contro
1) G.A.G. N. IL ***;
2) F.M. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 186/2006 CORTE APPELLO SEZ.DIST. di SASSARI, del 24/10/2007;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/01/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MASSAFRA Umberto;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. BAGLIONE Tindari che ha concluso per l'annullamento con rinvio al giudice civile;
Udito, per le parti civili, l'Avv. DIAZ Pietro del Foro di Sassari che chiede l'accoglimento del ricorso;
Udito il difensore Avv. Mancini Giuseppe del Foro di Roma in sostituzione dell'Avv. Federici Pasqualino che chiede il rigetto dei ricorso della parte civile.

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 3.10.2005 il giudice monocratico del Tribunale di Sassari - Sezione distaccata di Alghero riconosceva G.A.G. e F.M., nelle rispettive qualità (ed assieme al direttore dei lavori S.A. che definiva separatamente la sua posizione con patteggiamento) colpevoli del reato di omicidio colposo in pregiudizio dell'operaio S.P. (commesso il ***), condannandoli, con attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, alla pena condizionalmente sospesa di mesi otto di reclusione ciascuno oltre al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili alle quali veniva anche assegnata una provvisionale provvisoriamente esecutiva di Euro 10.000 a favore di ciascuna di esse.
In particolare, secondo l'imputazione, ai due era contestato di aver cagionato la morte del S. per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza, nonché nell'inosservanza delle norme antinfortunistiche, in particolare del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, non avendo accertato, prima di procedere ai lavori, che il tetto della chiesa suddetta o comunque la copertura, ove erano in corso lavori, avente funzione di semplice protezione dalle infiltrazioni di acqua piovana, avesse resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali d'impiego (non effettuando, a tal fine, saggi sul contrafforte destro, parte in cui detti lavori dovevano essere effettuati) e non adottando i necessari apprestamenti atti a garantire l'incolumità delle persone addette disponendo l'uso di cinture di sicurezza, né prevedendo che, dovendo utilizzare, la copertura suddetta come piano di calpestio, il tetto fosse, quantomeno, adeguatamente rinforzato al fine di evitare cedimenti.

Gli eventi storici sono stati pacificamente ricostruiti come segue.

Il Comune di ***, in esito a gara d'appalto, commissionò all'impresa vincitrice, di cui era titolare G.A.G., i lavori di restauro e consolidamento della chiesa parrocchiale di ***, secondo progetto dell'arch. S.A., cui fu anche affidata la direzione dei lavori;

l'impresa aggiudicataria fu poi autorizzata a subappaltare alla ditta individuale di F.M. i lavori di impermeabilizzazione del manto sottotegole e di posa del manto di copertura; i lavori furono consegnati il 7 marzo 2001, con espressa richiesta all'impresa, da parte del direttore dei lavori, di applicare il PSC; l'appaltatore redasse, quale concreto piano di dettaglio del PSC (Piano di sicurezza e coordinamento), il POS (Piano operativo di sicurezza), che fu fatto proprio e sottoscritto anche dal subappaltatore. Il 20 marzo 2001 la p.o. S.P. - dipendente a tempo indeterminato della ditta F. - stava operando sul tetto della chiesa, insieme a P.S. (che lavorava proprio vicino a lui), dipendente della medesima ditta, nonché al muratore D.G.M. (intento a rimuovere le tegole dal solaio posto, sullo stesso lato, a un livello più alto di quello su cui operavano S. e P.) e il manovale I.S. (incaricato di spostare tegole), entrambi dipendenti dell'impresa G..
Detti operai quel giorno indossavano scarpe antinfortunio, guanti e casco, ma non cinture di sicurezza (rinvenute dai carabinieri all'interno del cantiere e presumibilmente usate, secondo quanto riferito da alcuni operai, durante il montaggio del ponteggio). Sul tetto non erano posizionate tavole per rafforzarne la resistenza. Le opere da eseguire sul tetto consistevano, in generale, nella rimozione delle tegole, la regolarizzazione del massetto di fondo, l'impermeabilizzazione e il successivo riposizionamento del manto di tegole (che temporaneamente venivano depositate, anche a mezzo di carriola, sul ponteggio, utilizzato pertanto come piano di deposito oltre che come parapetto di sicurezza). Le opere dovevano essere compiute su due contrafforti, posti a destra e a sinistra della navata centrale della chiesa; si era iniziato da quello destro. La mattina dell'incidente i lavori erano cominciati, come al solito, intorno alle h. 8.00-8.30; S. e P., operanti sul contrafforte destro, e precisamente sul solaio posto a quota inferiore, avevano completato lo smantellamento delle tegole e quel giorno erano stati incaricati di demolire gli intonaci della parete verticale di collegamento tra i solai posti a diversa quota - collegati mediante scala metallica appoggiata alla parete medesima - (operazione necessariamente preventiva rispetto a quella di impermeabilizzazione del solaio, implicante il risvolto della guaina su tale parete), e vi stavano procedendo utilizzando mazzuolo e scalpello. Verso le h. 10.30 S., stante il cedimento del solaio nel punto in cui egli stava lavorando, precipitava nel vuoto da un'altezza di circa cinque metri. Prontamente soccorso, veniva trasportato al pronto soccorso dell'ospedale civile di *** e quindi trasferito al reparto rianimazione, ove decedeva poco dopo.

La Corte di Appello di Cagliari - Sezione distaccata di Sassari, con sentenza in data 24.10.2007, riformava totalmente la suddetta sentenza della sezione distaccata di Alghero del Tribunale di Sassari, assolvendo il G. e il F. dal reato loro ascritto perché il fatto non costituisce reato.

La Corte territoriale non ravvisava l'integrazione dell'elemento soggettivo del reato, ritenendo che la condotta omissiva colposa contestata (adozione dei necessari apprestamenti, quali tavole sopra le orditure, sottopalchi e cinture di sicurezza) non appariva normativamente esigibile, dal momento che, ai sensi e per gli effetti del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, era stata preventivamente ed adeguatamente accertata la resistenza del solaio e non vi era motivo per metterla in dubbio, laddove l'evento letale non si era verificato per un degrado dovuto agli agenti atmosferici o perché la tecnica costruttiva adoperata rendesse il solaio inidoneo al calpestio e a sostenere il peso degli operai (che avevano potuto completare tranquillamente la fase di smantellamento delle tegole), ma per una difformità costruttiva imputabile all'originario costruttore che nel punto del solaio oggetto di cedimento aveva impropriamente utilizzato, in difformità dalle regole dell'arte e dalla stessa tipologia prescelta e altrove adottata, un travetto in laterocemento anziché una trave di metallo.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione, per gli effetti civili, il difensore e procuratore speciale delle parti civili.

Dall'ostico testo del ricorso si desumono i seguenti motivi.

Il vizio motivazionale e la violazione di legge (atteso il reiterato richiamo dell'art. 606 c.p.p., comma, 1 lett. B) ed E)).

Si assume che nessuna parte dell'edificio poteva essere ritenuta "a priori" sicura atteso il progetto di consolidamento, ripristino e rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e alla luce della nozione datane dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. c).

Alla luce delle premesse della sentenza, l'evento non poteva definirsi imprevedibile, poiché si era pianificato in previsione di esso.

Atteso che era mancato l'accertamento della sicurezza di ogni parte dell'edificio interessata ai lavori, s'imponeva "la cautela strumentale delle tavole ripartitrici e quando queste non fossero state apprestate, per ciò solo, non avrebbe potuto essere omessa quella della cintura di sicurezza" che "astraeva totalmente dal concreto".

Si richiamano le osservazioni dell'ing. C., secondo il quale il subappaltatore avrebbe dovuto far usare le cinture di sicurezza con funi di trattenuta, e degli altri consulenti; in particolare dell'ing C. (CT del P.M.) secondo il quale, fra l'altro, la struttura del solaio era comunque inidonea al calpestio: il ricorrente rileva che fosse, pertanto, illogico ed illegittimo ritenere che non ricorressero le esigenze per l'adozione dei necessari apprestamenti di sicurezza.

Si critica l'argomentazione della Corte secondo cui non può darsi per assodato che "il tetto della chiesa avesse funzione di semplice protezione dalle infiltrazioni... e non fosse calpestabile", circostanza che derivava non solo da quanto affermato dall'Ing. C., del quale non era stato confutato il calcolo, ma anche dagli altri consulenti: del resto, se non era assodata detta funzione di calpestio, allora questa era dubbia e quindi implicava una diversa conclusione della sentenza.

Si sostiene che l'infortunio era avvenuto anche "perché non prevenuto con gli opportuni apprestamenti" ed evidenzia l'imperizia e negligenza dell'accertamento, atteso che dallo stato del contrafforte sinistro, profondamente degradato, avrebbe dovuto trarsi l'illazione analogica circa lo stato di quello destro, laddove per questo ci si era arrestati all'"esame visivo".

Si contesta la pertinenza del richiamo, nel caso di specie, del principio dell'affidamento", applicabile in caso di condotta colposa a seguito di attività d'"equipe".

Si rilevano contraddizioni e illogicità delle conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza e l'omessa considerazione della omnidirezionalità della fune di trattenuta della cintura di sicurezza il cui omesso apprestamento comunque rientrava nella colpa generica.

Si asserisce che anche la colpa "dell'originario costruttore" era stata considerata nell'oggetto del progetto e del piano e che era illogica la conseguenza che traeva la sentenza circa l'adeguato accertamento della resistenza del solaio.

Si afferma che l'appello (deve ritenersi: la sentenza di appello) aveva affrontato due delle tre cause dell'evento (omesso apprestamento delle cinture e l'omesso accertamento statico) ma non l'omissione delle tavole ripartitaci del carico, laddove ognuna di esse era da sola sufficiente a cagionare l'evento.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

La sentenza di primo grado ha ritenuto che non era stato effettuato alcun saggio sulla parte destra del solaio (come da ammissioni degli stessi imputati) laddove era invece necessario verificare attraverso gli strumenti tecnici adeguati le condizioni del solaio, atteso che la constatata compromissione della parte sinistra, a causa degli agenti atmosferici, avrebbe dovuto allertare l'appaltatore e il subappaltatore inducendoli a sospettare che analogo problema potesse presentarsi in tutta la struttura e quindi anche sulla parte destra, mentre gl'imputati si era fidati solo della valutazione visiva, omettendo, in violazione delle regole generali di prudenza, diligenza, perizia e della norma di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, di adottare rinforzi sul tetto e le cinture di sicurezza, anche in conformità del POS.
Come evidenziato in premessa, la sentenza impugnata ha, invece, negato tale argomentazione evidenziando:
- che non poteva rimproverarsi la mancata esecuzione di altri saggi sul contrafforte di destra, sulla scorta del positivo collaudo statico effettuato a suo tempo, atteso il principio dell'affidamento e della circostanza che l'esame tipico dei "carotaggi" necessariamente a campione e in maniera casuale implicava l'alta probabilità che alcuno di essi avrebbe evidenziato l'anomalia costruttiva vera causa, imprevedibile, dell'evento; inoltre solo sul contrafforte di sinistra era emerso qualche segno di degrado mentre quello di destra appariva integro;
- che le osservazioni del C.T. del P.M., che sostenevano la tesi sposata dal primo giudice, erano fondate su dati fattuali assolutamente incerti ed anzi mere ipotesi tratti da una visione dei luoghi successiva all'evento;
- che era irrilevante anche il riferimento alla pendenza del solaio, al rischio di scivolamento e al mancato utilizzo della cintura di sicurezza (quindi al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10 richiamato anche nel PSC), sia perché nel caso concreto era stato installato un parapetto sia per le modalità con cui si era verificato l'incidente (per caduta verticale da un foro e non già per scivolamento obliquo).

Orbene, è pacifico che gli accertamenti sul contrafforte di destra furono solo "visivi", mentre su quello di sinistra erano stati effettuati i cd. "carotaggi". La decisione di non effettuare questi ultimi anche sul lato di destra sulla base della "logica deduzione" che la tecnica costruttiva fosse omogenea in tutto il solaio, rimane pur sempre una soggettiva deduzione (di cui non è nemmeno dato apprezzare la valenza tecnica), per quanto la si possa ritenere "razionale, assennata, adeguata" come si esprime la Corte territoriale. L'impugnata sentenza, poi, afferma che, attesa l'anomalia costruttiva solo nel punto in cui era precipitato il S., era "altamente probabile" che gli accertamenti tramite carotaggi, necessariamente "a campione", non avrebbero evidenziato la citata anomalia e la conseguente inadeguatezza portante di quel punto del solaio.

Non è dato comprendere come, sulla base della mera casualità dei prelievi e della struttura del solaio, possa dedursi con certezza tale alta probabilità di sostanziale inutilità, nel caso di specie, di un accertamento eseguito in modo tecnico e non già meramente "visivo", ma certo è che, quand'anche il difetto costruttivo del solaio nel punto in cui precipitò il S. potesse definirsi imprevedibile - conclusione alla quale la Corte di Appello perviene dopo aver disatteso, prevalentemente perché "non pare accettabile" quanto affermato in senso contrario dal C.T. del P.M. ing. C.- comunque le operazioni delle quali il S. era stato incaricato di svolgere a ragguardevole quota dal piano di terra erano altamente e palesemente rischiose sicché per la loro esecuzione abbisognavano, indipendentemente dal dettato del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70 che richiama il preventivo accertamento della indubbia (e quindi certa) resistenza di lucernari, tetti, coperture e simili (e quindi anche del tetto della chiesa, fosse o meno calpestatale), quanto meno dell'adozione della cintura di sicurezza con funi di trattenuta che sarebbe sicuramente valsa ad impedire il tragico evento.

Tale misura prevenzionale, oltre ad essere dettata dalle norme di comune prudenza e diligenza, onde l'omessa sua adozione in caso di attività lavorative con le suddette caratteristiche di elevato rischio per l'incolumità personale del lavoratore, rientra comunque nella colpa generica, è altresì prevista anche dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 376 che va interpretata nel senso che l'accesso ai posti elevati di edifici deve essere reso sicuro ed agevole mediante l'impiego di mezzi appropriati di sicurezza in tutti i casi in cui devono eseguirsi lavori di manutenzione e riparazione, a nulla rilevando che simili lavori siano normali o straordinari, in quanto la finalità della norma è di prevenire la caduta dall'alto dei lavoratori che devono accedere ed operare in simili condizioni ad altezze pericolose. Questa norma, inoltre, non esclude che il datore di lavoro doti i lavoratori che accedono al tetto di cinture di sicurezza, essendo essi esposti a pericoli di caduta e vigili perché di tale mezzo facciano effettivo uso (cfr. Cass. pen. Sez. 4, 12.6.1987 n. 10925 Rv. 176860).
Consegue, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello nonché la condanna di G.A. e F. M. alla rifusione in favore delle parti civili delle spese sostenute in questo giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice competente in sede civile in grado di appello e condanna G.A.G. e F.M. alla rifusione delle spese a favore delle parti civili che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2010