Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 ottobre 2024, n. 26918 - Inadempimento dell'obbligo vaccinale della ausiliaria socio assistenziale presso una RSA



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio - Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere

Dott. PONTERIO Carla - Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo - Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio - Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA



sul ricorso 22455-2023 proposto da:

A.A., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato MAURO SANDRI;

- ricorrente -

contro

FONDAZIONE (Omissis) ONLUS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO 68, presso lo studio dell'avvocato STEFANIA IASONNA, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANTONELLO SILVERIO MARTINEZ;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 239/2023 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 02/05/2023 R.G.N. 970/2022;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PAOLA FILIPPI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l'avvocato STEFANIA IASONNA.

 

Fatto


1. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso, anche d'urgenza, proposto da A.A. nei confronti della Fondazione (Omissis) ONLUS, alle cui dipendenze svolgeva mansioni di ausiliaria socio assistenziale presso una RSA; ricorso volto ad ottenere, in via principale, l'accertamento della illegittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, disposta dalla datrice di lavoro, in data 22 luglio 2021, "per mancata osservanza dell'obbligo vaccinale anti Covid 19"; in via subordinata, il diritto a essere adibita ad altra mansione, con riconoscimento di ferie, festività e ore di recupero nonché al compenso per l'aspettativa non retribuita.

2. La Corte, in sintesi, ha innanzitutto ritenuto che la procedura di accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale, delineata dai commi 3, 4, 5, 6 e 7 dell'art. 4, D.L. n. 44 del 2021, non abbia efficacia costitutiva, ma meramente accertativa, con la conseguenza che il mancato o incompleto espletamento della stessa non invalidava automaticamente il provvedimento di sospensione, in quanto - secondo la Corte milanese - "eventuali difformità rispetto all'iter procedurale descritto possono assumere efficacia invalidante solo ove il lavoratore alleghi ed offra di provare che, ove tale iter fosse stato seguito, non si sarebbero verificate le condizioni che hanno dato luogo alla sospensione"; ipotesi nella specie non ricorrente.

Ha, quindi, ritenuto pacifico che la lavoratrice avesse "l'obbligo di vaccinarsi (in quanto esercente la professione di ausiliario socio-assistenziale in servizio presso una RSA)" e che la stessa non si fosse sottoposta a vaccinazione, "senza che sussistessero cause di esenzione o di differimento". Poiché la sospensione discendeva ex lege dall'accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale, la Corte ha considerato non residuassero "margini di discrezionalità o di valutazione in capo al datore di lavoro", che, correlativamente, non era gravato "di alcun onere di dimostrare l'utilità della sospensione al fine di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro", né poteva risultare rilevante la circostanza che, dopo l'instaurazione del giudizio, la Commissione medica presso l'ASL aveva revocato l'originario giudizio di inidoneità alla mansione espresso dal medico competente.

Quanto all'asserita inosservanza dell'obbligo di ricollocamento della lavoratrice da parte della Fondazione, la Corte ha ritenuto "corretta e condivisibile la valutazione del primo giudice che, sulla base del materiale probatorio acquisito, ha ritenuto dimostrata l'assenza di posizioni lavorative alternative cui adibire l'appellante, che non implichino contatti interpersonali e non comportino, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Sars-Cov2".

Infine, la Corte territoriale ha respinto anche il motivo di gravame attinente al rigetto della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, fondata sulla asserita natura discriminatoria della sospensione perché disposta in ragione delle convinzioni personali e delle opinioni espresse dalla dipendente in relazione alla vaccinazione. Oltre a ritenere inammissibile la domanda, in quanto formulata per la prima volta in appello, la Corte l'ha considerata infondata "in assenza di qualsivoglia elemento a sostegno della lamentata discriminazione".

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con otto motivi; ha resistito con controricorso l'intimata Fondazione.

Il Pubblico Ministero ha depositato memoria in cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

La parte ricorrente ha anche comunicato memoria.

 

Diritto


1. I motivi di impugnazione possono essere come di seguito sintetizzati.

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 4 D.L. n. 44/2021, per avere la Corte di Appello ritenuto erroneamente che la ricorrente potesse essere sospesa senza retribuzione dal servizio, anche in assenza dell'accertamento pubblicistico dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale; si sostiene che "l'accertamento dell'obbligo da parte dell'ASL determinava la perdita del diritto al lavoro dell'obbligato con effetto costitutivo", per cui "la sospensione del diritto al lavoro, ..., non discendeva automaticamente dall'omessa vaccinazione, ma dall'adozione di uno specifico atto amministrativo".

1.2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 2087 c.c., deducendo che la Fondazione non aveva il potere di sospendere senza retribuzione la lavoratrice neanche ai sensi della evocata disposizione del codice civile.

1.3. Il terzo motivo prospetta la violazione dell'art. 2697 c.c.; ribadito l'errore iniziale della Corte, dato dall'aver ritenuto che la sospensione della lavoratrice poteva essere disposta, ai sensi dell'art. 4 D.L. n. 44/2021, in mancanza di un valido provvedimento di accertamento pubblicistico dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale, si deduce che, anche volendo ritenere che la Fondazione avesse il potere di sospendere la lavoratrice ai fini di tutelare la sicurezza del luogo di lavoro ex art. 2087 c.c., controparte avrebbe comunque dovuto provare che la sospensione fosse necessaria al fine di tutelare l'ambiente lavorativo.

1.4. Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 41, comma 9, e 42 D.Lgs. n. 81/2008; errata l'interpretazione e applicazione dell'art. 4 del D.Lgs. n. 44/2021, la Corte avrebbe altresì omesso di accertare l'illegittimità del provvedimento di sospensione poiché il provvedimento di inidoneità temporanea della lavoratrice era stato integralmente riformato dalla Commissione medica e avrebbe omesso di statuire l'illegittimità del provvedimento di sospensione in ragione del fatto che la norma non attribuiva al medico competente una surrettizia verifica dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale, demandata dalla normativa speciale unicamente all'ASL.

1.5. Il quinto motivo deduce la violazione degli artt. 115 c.p.c., 2697 c.c., 4, comma 8, D.L. n. 44/2021, per avere la Corte territoriale violato le disposizioni in materia di riparto dell'onere della prova, in relazione all'obbligo di repêchage in mansioni diverse.

1.6. Il sesto motivo eccepisce la violazione dell'art. 2099 c.c., in quanto "posta l'illegittimità del provvedimento datoriale di sospensione non retribuita disposta dalla Fondazione resistente, la lavoratrice aveva diritto al pagamento dello stipendio relativo a tale periodo".

1.7. Il settimo motivo denuncia la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. perché la Corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente che la deduzione dell'esistenza di una discriminazione per convinzioni personali fosse stata formulata per la prima volta in appello.

1.8. L'ottavo motivo deduce la violazione degli artt. 2 D.Lgs. 216/2003, 15 L. n. 300/70 e 2043 c.c., sostenendo che "la natura discriminatoria della sospensione deriva dal fatto che la medesima è stata pacificamente disposta in quanto la lavoratrice aveva scelto di non vaccinarsi".

2. Al fine di un ordinato iter motivazionale è opportuno premettere il quadro normativo rilevante per la controversia, così come interpretato da recenti arresti di questa Suprema Corte alla luce della giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto infondati i numerosi dubbi di legittimità costituzionale sollevati sulla disciplina adottata dal legislatore a fronte dell'emergenza sanitaria di rilevanza internazionale data dalla diffusione e gravità dell'epidemia da SARS-Cov 2 (cfr. Corte cost. n. 14 del 2023; Corte cost. n. 15 del 2024; Corte cost. n. 186 del 2023).

2.1. Nel presente giudizio trova applicazione l'originaria disposizione di cui all'art. 4 del D.L. 1 aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 2021, n. 76, rubricato "Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SARS-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario".

"(A)l fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza", il comma 1 dell'art. 4 ha previsto l'obbligo vaccinale per "gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1 febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali" e si è individuato nella vaccinazione, da somministrare nel rispetto del piano disciplinato dalla legge n. 178 del 2020, art. 1, comma 457, nonché delle indicazioni fornite dalle regioni, un "requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati".

Dall'obbligo vaccinale il legislatore ha esentato, fra gli appartenenti alle categorie sopra indicate, solo coloro che si trovavano in una condizione di "accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale" (art. 4, comma 2).

Nell'iniziale formulazione la norma, oltre a stabilire una scansione procedimentale volta a regolare le modalità operative dell'obbligo vaccinale e a verificarne l'adempimento a carico degli ordini professionali, delle regioni e province autonome, nonché delle aziende sanitarie locali (commi da 3 a 6), si prevedeva, al comma 6, che l'accertamento da parte dell'azienda sanitaria locale di mancato adempimento dell'obbligo vaccinale "determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS - Cov 2".

Aggiungeva il comma 8 che il datore di lavoro, ricevuta comunicazione dell'accertamento, era tenuto ad adibire "il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio".

L'art. 4 in esame si concludeva con la previsione, in caso di impossibilità di una diversa utilizzazione del prestatore, della sospensione dal servizio, accompagnata dalla privazione della retribuzione e di ogni altro emolumento, ed efficace sino all'assolvimento dell'obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.

In questa prima fase, dunque, il bilanciamento fra il diritto del singolo tutelato dall'art. 32 Cost., comprensivo anche della libertà negativa di non essere assoggettato a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati, e l'interesse della collettività alla tutela della salute pubblica, è stato realizzato dal legislatore prevedendo un modello che, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, "pur individuando in determinate categorie i destinatari dell'obbligo vaccinale, ne delimitava il perimetro in modo tale da rapportarlo al concreto svolgimento dell'attività lavorativa e ammettendo anche la possibilità di utilizzare diversamente, nel contesto lavorativo, coloro che non si sottoponessero alla vaccinazione" (così Corte Cost. n. 186 del 2023). Quindi, la sospensione dall'attività e la conseguente privazione della retribuzione erano subordinate alla previa verifica della impossibilità di utilizzare diversamente il lavoratore non vaccinato.

2.2. La scelta inizialmente operata è stata ripensata dal legislatore che, a seguito dell'aggravarsi della situazione sanitaria, ha reso più stringenti i vincoli posti alle categorie interessate e con il D.L. 26 novembre 2021 n. 172, convertito dalla L. 21 gennaio 2022 n. 3, ha modificato il testo del richiamato art. 4 del D.L. n. 44 del 2021.

In particolare: a) i destinatari dell'obbligo vaccinale sono stati individuati sulla base della sola categoria professionale di appartenenza, senza alcuna considerazione dei servizi e dei luoghi di espletamento dell'attività lavorativa; b) è stato soppresso il potere/dovere del datore di lavoro, previsto dal comma 8 del testo originario, di adibire il lavoratore non vaccinato a mansioni non comportanti rischio di diffusione del contagio, potere/dovere che è rimasto circoscritto alla sola ipotesi di vaccinazione non effettuata a causa di accertato e documentato pericolo per la salute; c) all'accertamento del rifiuto della vaccinazione è stata correlata la sospensione dall'esercizio della professione sanitaria nella sua interezza e non delle sole prestazioni implicanti contatti interpersonali.

La disciplina successiva ha, poi, ribadito l'analoga disposizione contenuta nell'art. 4, comma 6, stabilendo che: "L'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati." (comma 3).

Infine, sul presupposto della contrarietà a diritto dello svolgimento di attività lavorativa in violazione dell'obbligo vaccinale, il legislatore ha previsto, al comma 5, che: "Lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione dell'obbligo vaccinale di cui al comma 1 è punito con la sanzione di cui al comma 6 e restano ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di appartenenza", ed ha affermato l'applicabilità della medesima sanzione alle categorie di personale soggette all'obbligo vaccinale ai sensi degli artt. 4 e 4 bis del decreto legge, come riformulato. Significativo rilevare che il legislatore, rendendo evidente la doverosità della vaccinazione e l'assenza di qualsivoglia discrezionalità da parte dei datori di lavoro, abbia assoggettato a sanzione anche quest'ultimi in caso di omissione degli adempimenti necessari al fine di assicurare il rispetto dell'obbligo vaccinale.

In definitiva, in questa seconda fase, con la modifica introdotta dal D.L. n. 172/2021, fermo il precetto dell'obbligo vaccinale e il divieto di attività lavorativa nel caso di violazione di detto obbligo, il legislatore ha scelto di non esigere più dal datore di lavoro uno sforzo di cooperazione volto all'utilizzazione del personale inadempiente in altre mansioni e il giudice delle leggi ha ritenuto non irragionevole detta scelta, in considerazione delle finalità di tutela della salute pubblica che attraverso la stessa, nella situazione di emergenza venutasi a delineare, si intendeva perseguire (cfr. Corte Cost. n. 14 del 2023).

2.3. Avuto riguardo alle conseguenze che derivano dall'eventuale illegittimità della sospensione del lavoratore non vaccinato, la Corte Costituzionale, nell'escludere l'illegittimità della norma nella parte in cui prevede anche la sospensione dell'obbligo retributivo, ha evidenziato che questo obbligo, in assenza di prestazione, può sorgere solo in presenza di mora credendi del datore di lavoro, ossia di rifiuto ingiustificato dell'attività lavorativa che, invece, il dipendente avrebbe potuto legittimamente rendere. Invece, il rifiuto della prestazione offerta dal lavoratore non vaccinato non integra mora credendi, perché fondato sulla carenza di un requisito essenziale di carattere sanitario per lo svolgimento della prestazione stessa e ciò giustifica anche la sospensione dell'obbligo retributivo, come la mancata previsione dell'assegno alimentare. Infatti, nel caso di mancato adempimento all'obbligo vaccinale, è il lavoratore che decide di sottrarsi unilateralmente alle condizioni di sicurezza che rendono la sua prestazione lavorativa legittimamente esercitabile (cfr. Corte cost. n. 15 del 2023).

La pronuncia appena citata ha pure evidenziato che, una volta elevata dalla legge la vaccinazione a requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati, il datore di lavoro, messo a conoscenza della accertata inosservanza dell'obbligo vaccinale da parte del lavoratore, è tenuto ad adottare i provvedimenti di sospensione dal servizio e dalla retribuzione; ciò in sintonia con l'obbligo di sicurezza imposto al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. e dall'art. 18 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, con valenza integrativa del contenuto sinallagmatico del contratto individuale di lavoro, in quanto la vaccinazione anti SARS-CoV-2 ha ampliato il novero degli obblighi di cura della salute e di sicurezza prescritti dall'art. 20 del D.Lgs. n. 81 del 2008, nonché degli obblighi di prevenzione e controllo stabiliti dal successivo art. 279 per i lavoratori addetti a particolari attività. Posto che la prestazione offerta dal lavoratore che non si è sottoposto all'obbligo vaccinale non è conforme al contratto, come integrato dalla legge, è certamente giustificato - secondo la Corte costituzionale - il rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro e lo stato di quiescenza in cui entra l'intero rapporto è semplicemente un mezzo per la conservazione dell'equilibrio giuridico-economico del contratto.

2.4. Sulla base di tali condivise premesse, questa Corte Suprema ha sancito che, affinché il prestatore, sospeso dal servizio, possa pretendere a titolo risarcitorio le retribuzioni non corrisposte sino alla successiva riammissione, è necessario che lo stesso non si trovasse nelle condizioni richieste dalla normativa per essere sottoposto all'obbligo vaccinale, e ciò con riferimento ad entrambe le fasi di cui si è dato conto (in termini, Cass. n. 12211 del 2024; conf. Cass. n.  15697 del 2024).

Con l'ulteriore conseguenza che anche il diritto sopravvenuto, che certo non può valere a conferire retroattivamente legittimità ad una sospensione che tale non era al momento della sua adozione, vale, però, ad escludere che le retribuzioni perse a partire da detta data possano integrare un danno ingiusto risarcibile. Ciò in quanto, divenuta irricevibile la prestazione di lavoro sulla base dello ius superveniens, viene meno la mora credendi che del risarcimento da illegittima sospensione costituisce il necessario presupposto (ancora Cass. nn. 12211 e 15697 del 2024 cit.).

È stato anche condivisibilmente affermato: "dal complesso delle disposizioni dettate dal legislatore... si evince che, sorto l'obbligo di legge a partire dalla data sopra indicata, l'attività imposta ai datori di lavoro aveva solo finalità accertativa dell'avvenuto rispetto dell'obbligo medesimo, sicché anche l'eventuale omissione da parte del datore di lavoro della procedura indicata dal comma 3 (omissione passibile di sanzione amministrativa) non rende possibile e lecita una prestazione ormai vietata dal chiaro disposto della legge" (così, Cass. n. 12211 del 2024).

Tanto in coerenza con quanto ritenuto dalle Sezioni unite di questa Corte che, in sede di riparto di giurisdizione, hanno più volte ritenuto che l'autorità amministrativa preposta è tenuta unicamente ad accertare il compimento di una fattispecie legale specificamente regolata, ossia che - nei termini stabiliti dalle stesse disposizioni di legge - si sia determinato il "fatto" dell'inadempimento all'obbligo vaccinale, per darne, quindi, attestazione e comunicazione; si tratta di un atto, di mera verifica dell'essersi determinato il "fatto" dell'inadempimento all'obbligo imposto dalla legge, che ha "natura dichiarativa" e che non richiede alcun apprezzamento discrezionale, con la conseguenza che la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario perché viene in rilievo un diritto soggettivo nei cui confronti la pubblica amministrazione non esercita alcun potere autoritativo correlato all'esercizio di poteri di natura discrezionale (Cass. SSUU n. 28429 del 2022; conf. Cass. SS.UU. n. 9403 del 2023; Cass. SS.UU. n. 15262 del 2024).

3. Tutto ciò premesso in diritto, i motivi del ricorso non meritano accoglimento.

3.1. Il primo motivo può essere esaminato in connessione con il secondo, il terzo e il quarto motivo, in quanto tutti, nella sostanza, censurano la sentenza impugnata, sotto vari profili, avuto essenziale riguardo alla pretesa violazione della disciplina introdotta dall'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021, conv., con modificazioni, nella L. n. 76 del 2021.

Le doglianze ruotano, infatti, sull'assunto che la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione della lavoratrice non poteva essere disposta al di fuori di un accertamento della violazione dell'obbligo di sottoporsi alla vaccinazione effettuato senza il rispetto delle procedure previste dalla disposizione evocata; si sostiene la natura "costitutiva" dell'atto di accertamento da parte dell'ASL.

Si nega altresì che il provvedimento possa trovare giustificazione nell'art. 2087 c.c. ovvero anche nel D.Lgs. n. 81 del 2008, anche perché l'originario giudizio di inidoneità emesso dal medico competente era stato revocato dalla Commissione medica presso l'ATS Brianza.

Alla stregua dei principi già affermati da questa Corte e innanzi richiamati, le censure non hanno pregio.

Innanzitutto, perché dall'entrata in vigore della disciplina richiamata è sorto immediatamente l'obbligo, per determinati lavoratori individuati dalla normativa, di sottoporsi a vaccinazione per rendere la prestazione, in mancanza della quale la stessa difettava di un requisito legale essenziale per essere resa; di modo che la complessa attività procedimentale stabilita dalla stessa disposizione aveva solo la finalità strumentale di accertare e dichiarare l'avvenuto rispetto dell'obbligo vaccinale e anche l'eventuale omissione della procedura da parte del datore di lavoro non rendeva "possibile e lecita una prestazione ormai vietata dal chiaro disposto della legge" (cfr. Cass. n. 12211/2024 cit.).

Inoltre, perché il prestatore, unilateralmente sospeso dal servizio, intanto poteva pretendere a titolo risarcitorio le retribuzioni non corrisposte in quanto non si trovasse nelle condizioni richieste dalla normativa per essere sottoposto all'obbligo vaccinale (ancora Cass. n. 12211/2024 cit.) e non perché non è stata seguita la procedura prevista per l'accertamento dell'inadempimento all'obbligo vaccinale, inadempimento comunque mai posto in contestazione.

Infatti, l'obbligo retributivo, in assenza di prestazione, può sorgere solo in presenza di mora credendi del datore di lavoro, ossia di rifiuto ingiustificato dell'attività lavorativa che, invece, il dipendente avrebbe potuto legittimamente rendere. Invece, il rifiuto della prestazione offerta dal lavoratore non vaccinato non integra mora credendi, perché fondato sulla carenza di un requisito essenziale di carattere sanitario per lo svolgimento della prestazione stessa e ciò giustifica anche la sospensione dell'obbligo retributivo.

Circa, poi, il rapporto tra le procedure previste dall'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021 e l'osservanza degli obblighi di sorveglianza sanitaria previsti nell'adempimento degli obblighi derivanti dal D.Lgs. n. 81 del 2008, oltre che dall'art. 2087 c.c., è appena il caso di rammentare che la Corte costituzionale (sentenza n. 15/2023 cit.) ha condivisibilmente sottolineato come gli obblighi di sicurezza imposti da tali normative abbiano valenza integrativa del contenuto sinallagmatico del contratto individuale di lavoro, con la conseguenza che la prestazione offerta dal lavoratore che non si è sottoposto all'obbligo vaccinale non è conforme al contratto, come integrato dalla legge, rendendo certamente giustificato il rifiuto della prestazione da parte del datore di lavoro.

Inoltre, la sentenza impugnata, a ben vedere, neanche ha ritenuto legittima la sospensione alla stregua dell'art. 2087 c.c. ovvero del D.Lgs. n. 81 del 2008, quanto piuttosto in base al precetto contenuto nell'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021, correttamente interpretato, tanto da ritenere ininfluente la revoca dell'originario giudizio di inidoneità del medico competente.

3.2. Il quinto motivo, che lamenta la violazione dell'obbligo di repechage contenuto nell'art., comma 8, D.L. n. 44/21, nella sua originaria formulazione, è inammissibile.

La possibilità o meno che la lavoratrice potesse essere utilizzata in altre mansioni piuttosto che sospesa, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, rappresenta inevitabilmente una quaestio facti, demandata all'accertamento dei giudici del merito.

Come tale può essere sindacato innanzi a questa Corte nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto, tanto più in una ipotesi di cd. "doppia conforme" (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 26 e 27, D.Lgs. n. 149 del 2022).

Sicuramente non attraverso la prospettazione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., che presuppone una ricostruzione dei fatti storici incontestata, mentre nella specie la ricorrente pretende una diversa valutazione delle risultanze probatorie, come è conclamato dal riferimento ai contenuti delle prove testimoniali.

Più volte le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito l'inammissibilità di censure che "sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l'azione", così travalicando "dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti" (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020).

3.3. Il sesto motivo è inammissibile in quanto si fonda su di un presupposto rivelatosi errato anche in seguito al vaglio di legittimità, ovvero la pretesa illegittimità del provvedimento datoriale di sospensione.

3.4. Parimenti non meritano accoglimento le due ultime censure, esaminabili congiuntamente perché riguardano la pretesa al risarcimento del danno sull'assunto che la condotta della Fondazione sia stata discriminatoria.

Posto che la Corte di Appello ha comunque valutato nel merito la questione, giudicandola "infondata", le doglianze, benché prospettino errores in iudicando a mente del n. 3 dell'art. 360 c.p.c., in realtà esprimono solo un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici di merito in ordine alla "lacunosità del quadro assertivo" che - secondo la Corte - determinava "l'assenza di qualsivoglia elemento a sostegno della lamentata discriminazione".

Si tratta di un apprezzamento che investe il merito, non adeguatamente confutato dalle censure in esame.

4. In conclusione, il ricorso, nel suo complesso, è da rigettare; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

Infine, a tutela della ricorrente in relazione a scelte che coinvolgono dati concernenti la personale sfera sanitaria, si deve disporre, in caso di riproduzione in qualsiasi forma della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi della medesima, ai sensi dell'art. 52, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese liquidate in Euro 1.800,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Dispone, in caso di riproduzione in qualsiasi forma del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi di A.A., ai sensi dell'art. 52, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 25 settembre 2024.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2024.