Cassazione Penale, Sez. 4, 06 novembre 2024, n. 40695 - Incendio all'interno della casa di riposo. Omissione di misure organizzative idonee ad arginare il rischio 


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta da:

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente

Dott. SERRAO Eugenia - Relatore

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere

Dott. CENCI Daniele - Consigliere

Dott. LAURO Davide - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a M il (omissis)

B.B.nato a M il (omissis)

COMUNE DI SERRADIFALCO

avverso la sentenza del 11/01/2024 della CORTE APPELLO di CALTANISETTA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere EUGENIA SERRAO;

udito il Procuratore generale, in persona del Sostituto dott.ssa SILVIA SALVADORI, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

udito il difensore, Avv. GIUSEPPE PANEPINTO, per A.A.e B.B., che ha concluso per l'accoglimento dei ricorsi;

udito il difensore Avv. ANTONIO ONOFRIO CAMPIONE per il COMUNE DI SERRADIFALCO, che ha concluso per l'accoglimento dei motivi di ricorso

 

Fatto


1. La Corte di appello di Caltanissetta, con la sentenza indicata in epigrafe, ha parzialmente riformato, riducendo la pena e disponendone la sospensione anche per A.A., la pronuncia con la quale il 1 dicembre 2022 il Tribunale di Caltanissetta aveva dichiarato A.A.e B.B. responsabili del reato di cui agli artt. 113 e 589, commi 1 e 2, cod. pen. condannandoli anche al risarcimento dei danni, in solido con il responsabile civile Comune di Serradifalco, in favore delle costituite parti civili C.C., D.D. e E.E., da liquidarsi in separato giudizio.

2. Secondo l'accusa, gli imputati avevano cagionato, nelle rispettive qualità di datore di lavoro e di responsabile della prevenzione incendi, per colpa generica e per violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la morte di F.F. a seguito di un incendio sviluppatosi il 3 ottobre 2012 nella Casa di riposo P. Ingrao di Serradifalco. In particolare, si contestava loro di aver violato: a) l'art. 20 D.Lgs. 8 marzo 2006, n. 139, non essendo la casa di riposo in possesso del certificato di prevenzione incendi o di segnalazione certificata di inizio attività; b) l'art. 46, comma 2, D.Lgs. 9 aprile 2008, n.81, per aver omesso di adottare misure idonee a prevenire gli incendi e a tutelare l'incolumità dei lavoratori e degli ospiti; c) l'art. 43, comma 1 -bis, D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso di garantire la presenza di mezzi di estinzione idonei alla classe incendio e al livello di rischio presenti sul luogo di lavoro; d) l'art. 63, comma 1 Art.IV punto 1.5.11 D.Lgs. n. 81/2008, per avere omesso di dotare le vie e le uscite di emergenza di illuminazione di sicurezza di intensità sufficiente e tali da entrare in funzione in caso di guasto dell'impianto elettrico; e) l'art. 51 I. 16 gennaio 2003, n.3, per aver omesso di vigilare sul rispetto del divieto di fumo, consentendo che si sviluppasse un incendio a seguito dell'accensione di una sigaretta da parte di F.F., ospite della casa di riposo.

3. Il fatto è stato così accertato: la casa di riposo denominata "Padre G. Ingrao" è di proprietà del Comune di Serradifalco; la gestione del servizio di assistenza agli anziani, a seguito di gara ad evidenza pubblica, era stata affidata - sotto il controllo e la vigilanza dell'Ente pubblico - al Consorzio di cooperative Progetto Vita e in particolare, alla consorziata Aprilia '89; tra i servizi oggetto di affidamento erano inclusi servizi socio-assistenziali e sanitari a persone anziane autosufficienti e non; alle ore 3:50 del 3 ottobre 2012 la centrale operativa del Comando provinciale Carabinieri di Caltanissetta segnalava che all'interno della casa di riposo si era sviluppato un incendio; all'arrivo dei carabinieri, l'operatore socio-sanitario di turno, G.G., aveva informato gli agenti di aver messo in salvo tutti gli anziani ad eccezione di un uomo, rimasto all'interno di una stanza del primo piano; i militari non erano riusciti a entrare nell'edificio per la mancanza di strumenti idonei ad affrontare l'ambiente buio e ormai saturo di fumo; l'impianto elettrico al primo piano era malfunzionante, ma non si erano attivate le luci di emergenza; alle ore 4:25 erano intervenuti i vigili del fuoco che, entrati nell'edificio, avevano accertato nella stanza n. 12 al primo piano la presenza del corpo esanime di un uomo, identificato in F.F., dell'apparente età di circa 65 anni, con una gamba amputata, riverso sul pavimento e adagiato sul fianco destro; l'origine dell'incendio era stata individuata, per la presenza di alcuni oggetti ancora in fiamme, in corrispondenza del letto e del comodino ove si trovava il F.F. ed era stata ricondotta all'utilizzo di una sigaretta o di un accendino; il letto presente in corrispondenza del lato destro della medesima stanza, a differenza di quello della vittima, era sostanzialmente integro e completo di lenzuola e copriletto con accanto un comodino sul quale era appoggiato un telefono collegato a un caricatore; all'interno della struttura, che ospitava 27 anziani, erano presenti gli estintori ma non vi erano rilevatori di fumo né idranti.

4. A.A. e B.B. propongono ricorso per cassazione censurando la sentenza, con il primo motivo, per violazione e falsa applicazione degli artt. 20 D.Lgs. n. 139/2006, 43, 46 e 63 D.Lgs. n. 81/2008, 9 I. 8 novembre 1991, n. 3811, 27 D.M. 13 aprile 2011 disp. att. art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n.81/2008. I ricorrenti sostengono che entrambi i giudici di merito sono incorsi in evidente violazione di legge ritenendo applicabile alla casa di riposo la normativa antincendio che prescrive l'acquisizione di regolare certificato antincendio per le case,di riposo con più di 25 posti letto; in base alla normativa attuativa del D.Lgs. n. 81/2008 e in base alla normativa regionale richiamata dalla legge n.381/1991, è ammessa una tolleranza del 10% in aumento dei posti letto tale da consentire di classificare la casa di riposo tra le strutture per le quali, in quanto regolate dal Titolo III del D.M. 9 aprile 1994, non è necessario il certificato antincendio. Le cooperative sociali sono, inoltre, con riguardo alla normativa antincendio, soggette a procedure e adempimenti coerenti con l'attività che svolgono. I giudici di merito, con motivazione illogica e contraddittoria hanno, da un lato, incluso la casa di riposo P. Ingrao nella cat. A e, dall'altro, hanno ritenuto che la medesima casa di riposo necessitasse di certificato di prevenzione antincendi, sebbene esso sia previsto esclusivamente per le strutture di cui alle cat. B e C, tra le quali sono le case di riposo con capienza superiore ai 25 posti letto. Inoltre, la casa di riposo era in possesso di un valido documento di valutazione dei rischi e tutti i presidi di prevenzione presenti erano idonei e sufficienti per la categoria delle case di riposo con capienza fino a 25 posti letto, al netto del margine di tolleranza del 10% previsto in deroga dalla normativa attuativa, trattandosi di una struttura comunale in perfetta regola con gli standard previsti per la categoria di appartenenza, come peraltro chiaramente indicato nella consulenza di parte prodotta dalla difesa.

4.1. Con il secondo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'affermata violazione di norme di prevenzione e al ritenuto nesso di causalità tra le omissioni colpose loro ascritte e l'evento dannoso. La violazione delle norme contestate, che non sono norme di prevenzione ma di protezione, non ha inciso sul verificarsi dell'evento, determinato da causa naturale. Il rispetto delle norme asseritamente violate avrebbe avuto rilievo se il decesso fosse stato conseguenza dell'inadeguatezza delle misure di protezione o di un tardivo, inadeguato o inefficace intervento di soccorso. In dettaglio, l'art. 51 I. n. 3/2003 è norma posta a tutela della salute dei non fumatori e non già a evitare il rischio di incendio; tutti gli operatori hanno confermato l'esistenza di un espresso divieto di fumo e la predisposizione di adeguati controlli in ordine all'effettivo rispetto di tale divieto; nessun teste ha affermato di essere al corrente del fatto che gli ospiti fumavano all'interno della struttura e nelle loro stanze. La prova dichiarativa ha escluso che gli imputati fossero consapevoli dell'abitudine del F.F. di fumare all'interno della sua stanza, tanto più che i ricorrenti non avrebbero potuto verificare i comportamenti degli ospiti nell'intimità delle loro stanze, soprattutto nelle ore notturne, salvo la predisposizione di illegittimi sistemi di videosorveglianza o di "piantonamento" all'interno delle camere da letto. Con riferimento alla contestazione dell'art. 20 D.Lgs. n. 139/2006, la casa di riposo non necessitava del certificato di prevenzione incendi, che comunque non avrebbe impedito il verificarsi dell'evento, occorso prima che si sviluppasse l'incendio. Con riguardo alla violazione dell'art. 46, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008, il documento di valutazione dei rischi predisposto dal Consorzio Progetto Vita in data 28 marzo 2008 era documento idoneo e sufficiente in relazione ai rischi connessi all'attività svolta nella casa di riposo; in ogni caso, l'errore sulla normativa extra-penale applicata per la classificazione della struttura ricettiva esclude la responsabilità penale. Con riguardo agli artt. 43, comma 1 lett. e-bis, e 63, comma 1 Ali. 4 punto 1.5.11, D.Lgs. n. 81/2008 i ricorrenti sostengono che il rispetto di tali norme non avrebbe impedito l'evento. In ogni caso, la casa di riposo era regolarmente dotata di un numero sufficiente " di estintori, l'istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l'impianto di emergenza non si è attivato per il fatto che l'impianto elettrico del primo piano era ancora in

tensione, e il soccorritore G.G. aveva desistito dal salvataggio del signor F.F. in quanto lo aveva rinvenuto già deceduto. La motivazione è intrinsecamente illogica laddove ha ritenuto fonte di prova della responsabilità l'omessa impugnazione del provvedimento amministrativo di irrogazione di sanzioni. L'evento si è verificato esclusivamente per la condotta imprudente e imprevedibile della vittima e, in ogni caso, il decesso immediato si sarebbe comunque verificato anche nel caso in cui fossero state puntualmente rispettate le norme contestate.

4.2. Con il terzo motivo deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 521, 522, 495, comma 2, e 603, comma 3, cod. proc. pen. nonché 449 e 589 cod. pen. I giudici di merito hanno riconosciuto una causa di morte diversa da quella contestata nel capo di imputazione escludendo qualsiasi fenomeno di flash-fire e condannando gli imputati per morte riconducibile "all'effetto termico derivante dall'esposizione a elevate temperature e ad azione di fiamma". La motivazione è manifestamente illogica anche per travisamento della prova nella parte in cui, in evidente contrasto con la prova scientifica acquisita, con argomentazioni congetturali ha desunto da fatti successivi alla morte (caduta dei calcinacci ed entità delle ustioni) la capacità distruttiva del fuoco e le elevate temperature raggiunte. Il consulente tecnico del pubblico ministero ha ritenuto che per determinare la morte nel fuoco e lo shock neurogeno sia necessario il brusco raggiungimento di elevate temperature, mentre nel caso in esame i vigili del fuoco hanno parlato di incendio "a lenta combustione" e il consulente tecnico della difesa ha evidenziato come la temperatura massima raggiunta dopo 10 minuti dal divampare dell'incendio non potesse superare i 60 gradi. Il dato scientifico, si assume, esclude con certezza che la causa di morte possa essere stata la morte nel fuoco o l'esposizione della vittima a temperature tanto elevate da poter causare uno "shock neurogeno". La difesa degli imputati aveva chiesto disporsi perizia collegiale medico-legale al fine di fugare ogni dubbio circa la causa della morte ma entrambi i giudici di merito, travisando la prova scientifica, non hanno accolto la richiesta. Anche le argomentazioni del giudice di primo grado sono viziate da travisamento della prova e non supportate dal dato tecnico-scientifico in quanto, in sede di autopsia, non sono state rinvenute tracce di monossido di carbonio e tutti i consulenti sono stati concordi nell'affermare che il decesso è intervenuto in tempi così brevi da impedire al F.F. sia l'inalazione dei fumi che l'assorbimento attraverso i tessuti organici del monossido di carbonio sprigionato dall'incendio. Da tanto si sarebbe dovuto desumere che l'evento morte si è verificato prima del divampare dell'incendio. La ricostruzione del consulente del pubblico ministero, che ha attribuito la morte a un effetto termico immediato, acuto e fulminante, è priva di riscontro probatorio;

la motivazione sul punto è carente e illogica, non chiarendo come il contatto diretto con la fiamma possa causare la morte e come sia possibile che la vittima non abbia emesso grida né si sia divincolata nel tentativo di allontanarsi dal fuoco. La motivazione non spiega la prevalenza dell'ipotesi formulata dal consulente del pubblico ministero su quella, ben più plausibile, prospettata dal dott. Cascio circa la riconducibilità del decesso a una patologia acuta di natura miocardica con subentro solo successivo del fuoco, riconducibile alla caduta della sigaretta. Il consulente della difesa ha escluso che il contatto diretto con la fiamma possa essere causa di morte, tanto più che il contatto di fiamma ad elevate temperature avrebbe provocato bruciature uniformi su tutto il corpo. In presenza di un evidente contrasto tra le valutazioni medico-legali dei consulenti di parte i giudici di merito avrebbero dovuto disporre perizia medico-legale. La Corte territoriale ha introdotto contestazioni diverse da quelle formulate dall'accusa (relative alla inidoneità delle dotazioni di personale, alla consistenza del personale in servizio e alla predisposizione di rilevatori di fumo).

4.3. Con il quarto motivo deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 449 e 589 cod. pen., 2, 18 e 32 D.Lgs. n. 81/2008, 16 e 20 D.Lgs. n. 139/2006, 192 e 546, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. I ricorrenti ritengono che la sentenza sia viziata nel punto in cui ha riconosciuto la loro posizione di garanzia. Con riferimento a B.B. i giudici di merito hanno desunto la sussistenza di un formale incarico di RSPP sulla scorta di meri attestati di frequenza e del rapporto familiare con il datore di lavoro, omettendo di valutare il motivo di appello con il quale si affermava che la posizione di garanzia deve necessariamente derivare da un atto formale di conferimento dell'incarico o quantomeno dall'assunzione spontanea da accertarsi in concreto. La sentenza è viziata da travisamento della prova nella parte in cui ha confuso gli elementari attestati in materia di primo soccorso e spegnimento incendi con il titolo ben più oneroso di RSPP, che la ricorrente non ha mai conseguito. È anche intrinsecamente contraddittoria nella parte in cui ha affermato la responsabilità della ricorrente pur avendo riconosciuto il ruolo di RSPP in capo al fratello A.A. e pur avendo ritenuto che la stessa fosse priva di conoscenze tecniche specifiche. Con riguardo a A.A., la sua posizione di garanzia è stata desunta dal fatto che gli fosse stata affidata la gestione dell'attività assistenziale ed è frutto di travisamento della prova documentale, dalla quale emerge che il Comune ha affidato il servizio di assistenza agli anziani al Consorzio Progetto Vita, che ha assunto sia la gestione che la titolarità del servizio di assistenza, mentre la cooperativa Aprile '89 si è limitata a fornire il personale. I giudici di merito hanno immotivatamente ritenuto che il consorzio avesse delegato a terzi lo svolgimento di tale attività attribuendo ingiustificatamente ogni responsabilità al legale rappresentante della cooperativa Aprile '89 piuttosto che a quello del consorzio. L'art. 16 D.Lgs. n. 139/2006 prevede che l'attività di prevenzione incendi sia di spettanza dei titolari delle attività soggette ai controlli, per cui tenuto alla predisposizione del certificato di prevenzione incendi e del documento di valutazione dei rischi era il titolare del Consorzio Progetto Vita che aveva ricevuto in appalto la gestione del servizio di assistenza agli anziani. I giudici sono incorsi in travisamento della prova tralasciando la circostanza che lo stesso documento di valutazione dei rischi era stato redatto dal Consorzio Progetto Vita e che la richiesta al Comune di Serradifalco proprietario della struttura degli adempimenti di cui al D.Lgs. n. 81/2008 era stata inoltrata al Comune di Serradifalco dal medesimo Consorzio Progetto Vita. La Corte territoriale, investita di apposito motivo di appello sul punto, ha omesso ogni valutazione in merito.

5. Il responsabile civile Comune di Serradifalco propone ricorso per cassazione censurando la sentenza, con il primo motivo, per violazione e falsa applicazione degli artt. 83 cod. proc. pen. e 185 cod. pen. in relazione all'art. 1571 cod. civ., al D.Lgs. n. 139/2006 e al D.Lgs. n. 81/2008, nonché per violazione del principio di legalità di cui all'art. 1 cod. pen. Secondo il Comune ricorrente il contratto stipulato con la cooperativa Aprile '89 è un contratto di locazione con vincolo di destinazione dell'immobile a casa di riposo stipulato all'esito di una procedura ad evidenza pubblica. Conseguentemente, i doveri legali derivanti dalla normativa antinfortunistica gravano esclusivamente sul datore di lavoro in quanto non connessi alla manutenzione dell'immobile locato. Il Comune non aveva diritto di ingerenza nello svolgimento dell'attività della cooperativa, non poteva imporre adempimenti né effettuare ispezioni o sostituirsi al soggetto onerato; i controlli ai quali il giudice di merito ha attribuito rilievo determinante avevano la sola funzione di garantire che la destinazione impressa all'immobile dal Comune non venisse modificata. Anche qualora fosse stato stipulato un contratto di appalto, difetta una norma che estende al committente l'osservanza della normativa antinfortunistica. Il Comune è stato condannato senza che vi sia una norma che ne sancisca la responsabilità concorrente con gli imputati.

5.1. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 546, 192 cod. proc. pen. e 40 cod. pen. nonché vizio della motivazione in relazione al motivo di appello sulla carenza di legittimazione passiva del Comune. La Corte territoriale ha omesso di indicare le ragioni per le quali la qualificazione del contratto tra società e Comune come appalto invece che come locazione comportasse la responsabilità di quest'ultimo nel controllo sulla prevenzione incendi. Risulta omessa la disamina di quella parte del motivo di appello nella quale il Comune aveva evidenziato come lo stesso giudice di primo grado avesse individuato come unico responsabile dell'obbligo di prevenzione incendi l'imputato A.A.senza estendere tale obbligo al locatore, sottoponendo alla Corte territoriale una contraddizione rimasta senza replica.

5.2. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 74 cod. proc. pen., 2043 e 2059 cod. civ. Con il secondo motivo di appello aveva evidenziato l'insussistenza dei presupposti per il risarcimento dei danni alle parti civili costituite, trattandosi di fratelli non conviventi senza rapporti con il defunto. La Corte territoriale ha ritenuto la censura generica e inammissibile violando la normativa civilistica che impone alla parte civile l'onere della prova del danno, non essendo sufficiente provare la parentela. In difetto totale di prova del danno il giudice penale avrebbe dovuto rigettare la domanda piuttosto che ritenerla inammissibile sul presupposto che il relativo giudizio spetta al giudice civile, considerato che il giudice civile ha il potere di determinare soltanto il quantum e non l'art, devoluto esclusivamente alla cognizione del giudice penale.

5.3. Con il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 546, 192 cod. proc. pen. e 40 cod. pen. nonché vizio di motivazione. La Corte territoriale, nel rigettare il motivo di appello sulla insussistenza del diritto al risarcimento, è incorsa in motivazione omessa o apparente, limitandosi apoditticamente a sostenere la sussistenza del rapporto affettivo tra il defunto e le parti civili con un mero richiamo al quadro probatorio emerso in primo grado e con un rinvio alla cognizione del giudice civile.

5.4. Con il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 533 cod. proc. pen. In dibattimento non è stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio del fatto che il F.F. sia morto a causa dell'incendio e non prima; tanto avrebbe dovuto indurre i giudici a pronunciare sentenza assolutoria, non essendo emersi dall'istruttoria dibattimentale elementi idonei a escludere con certezza la tesi del consulente medico-legale della difesa. Il medico curante aveva evidenziato un quadro clinico del F.F. connotato da gravissime patologie cardiache e respiratorie, perfettamente compatibili con le cause del decesso indicate dal consulente della difesa; il consulente del pubblico ministero, per contro, ha fondato le sue conclusioni sul fatto che nei polmoni e nel sangue non sono state rinvenute tracce di monossido di carbonio ma tale osservazione prova il contrario o quantomeno determina un ragionevole dubbio sull'effettiva causa del decesso. La Corte territoriale ha omesso di esaminare il motivo di appello che si fondava sulle deduzioni medico-legali del consulente degli imputati trascurando di operare un confronto tra le diverse posizioni degli esperti e di pervenire, rilevando la sussistenza di due posizioni totalmente contrapposte sulle cause del decesso, all'applicazione della regola del mancato superamento di ogni ragionevole dubbio.

5.5. Con il sesto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 546, 192 e 40 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione con riferimento al terzo motivo di appello, essendosi la Corte territoriale limitata alla mera ripetizione della elencazione delle prove assunte in primo grado senza alcun apporto autonomo indicativo delle ragioni dell'adesione alle conclusioni del giudice di primo grado. La Corte territoriale ha omesso di spiegare le ragioni ostative alla plausibilità della ricostruzione alternativa.

6. All'odierna udienza, disposta la trattazione orale ai sensi degli artt.23, comma 8, D.L. 28 ottobre 2020, n.137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n.176, 16 D.L. 30 dicembre 2021, n.228, convertito con modificazioni dalla legge 21 maggio 2021, n.69, 35, comma 1, lett. a), 94, comma 2, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n.150, 1, comma 1, legge 30 dicembre 2022, n.199 e 11, comma 7, D.L. 30 dicembre 2023, n.215, le parti hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe.

 

Diritto


1. In ordine logico, si esaminano in primo luogo i motivi di ricorso da considerare inammissibili.

2. In merito all'asserita violazione del principio di corrispondenza tra imputazione e sentenza, con Sez. U Carrelli (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Rv.248051 - 01), il Supremo consesso ha affermato che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non può esaurirsi nel mero confronto letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, si sia venuto a trovare nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. La censura svolta dai ricorrenti riguardante il processo causale che ha condotto al decesso di F.F. attiene alla circostanza che nel corso del processo si è accertato che il corpo della vittima è stato attinto dalle fiamme senza che si sia verificato il fenomeno del c.d. flash-fire, ossia l'incendio di una nuvola di vapore, descritto nel capo d'imputazione. Si tratta, in primo luogo, dì un profilo del fatto che non determina una radicale trasformazione degli elementi essenziali sui quali si è fondata l'accusa; inoltre, tale accertamento risulta effetto di valutazione di atti del processo sui quali la difesa ha avuto modo di argomentare. La censura svolta con riguardo alla riconduzione della responsabilità degli imputati a omissioni non contestate, segnatamente l'inidoneità delle dotazioni di personale e la mancata predisposizione di rilevatori di fumo, concerne profili di negligenza nell'organizzazione del servizio di assistenza e nella predisposizione di presidi di sicurezza antincendio riconducibili a colpa generica secondo massime d'esperienza ampiamente enunciati nella sentenza di primo grado sui quali la difesa ha avuto modo di argomentare. Difetta, con riguardo a entrambi i profili di censura, l'enunciazione delle prove contrarie che la difesa non sarebbe stata posta in condizione di introdurre nel giudizio.

3. Con riguardo al dedotto vizio di travisamento della prova, in caso di sentenze dei due gradi di merito conformi, tale genere di censura è inammissibile se il dato probatorio asseritamente travisato non è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n.45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 - 01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217 - 01) e se non ne viene allegata la decisività. Nei ricorsi si rinviene solo una generica enunciazione di tale vizio senza alcuna allegazione circa l'introduzione ex novo nella sentenza di appello di dati probatori non esaminati dal Tribunale.

4. Le censure che deducono la violazione di legge in ipotesi di condanna per mancato rispetto di talune norme cautelari non superano il vaglio di ammissibilità, laddove la sussistenza di plurimi profili di colpa, non specificamente contestati, non consentirebbe di pervenire a diverso esito del giudizio. Va rimarcato, in proposito, che il giudice di primo grado ha fondato il giudizio di condanna su un profilo di colpa del tutto trascurato nei ricorsi: in dettaglio (pag.27), la responsabilità per colpa degli imputati è stata affermata con riguardo alla assoluta inidoneità delle dotazioni di personale a fronte del numero di degenti presenti nella struttura, nella misura di uno a 27, tanto più che tra i degenti taluni erano solo parzialmente autosufficienti e almeno il 10% non autosufficienti, includendo tra questi ultimi proprio il F.F.. La mancata osservanza delle prescrizioni relative al divieto di fumo nei locali è stata, dunque, posta in correlazione con l'assenza di personale e le allegazioni difensive tendenti ad escludere tale profilo di colpa si risolvono in una istanza di rilettura delle emergenze istruttorie, inammissibile in fase di legittimità.

5. Con riguardo al diniego dì rinnovazione istruttoria, è stato chiarito in precedenti pronunce della Corte di legittimità che "Il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità" (Sez. 6, n.2972 del 04/12/2020, dep. 2021, G., Rv. 280589 - 01; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 257741 - 01); tale provvedimento può essere motivato anche implicitamente in presenza di un quadro probatorio definito, certo e non abbisognevole di approfondimenti indispensabili (Sez. 4, n. 47095 del 02/12/2009, Sergio, Rv. 245996 - 01). Il giudice di appello ha, infatti, l'obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento nel caso in cui la richiesta di parte è riconducibile alla violazione del diritto alla prova, che non sia stato esercitato per forza maggiore o per la sopravvenienza della stessa dopo il giudizio, o perché la ammissione della prova, ritualmente richiesta nel giudizio di primo grado, sia stata irragionevolmente negata da quel giudice (Sez. 3, n. 13076 del 14/02/2024 Xiumei Rv. 286075 -01). In tema di prova scientifica, inoltre, il vizio di motivazione deducibile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. sussiste solo qualora risulti che le conclusioni del consulente di una delle parti siano tali da dimostrare la fallacia di quelle espresse da altro consulente e recepite dal giudice.

5.1. Tali ipotesi non ricorrono nel caso in esame. Il percorso causale che ha condotto al decesso di F.F. è stato accertato sulla base di dati certi: da un lato, l'esame autoptico e la consulenza medico-legale prodotta dal pubblico ministero e, dall'altro, la prova che nella stanza in cui il F.F. dormiva le fiamme si erano concentrate in corrispondenza del suo letto e del comodino accanto. Le condizioni in cui è stato trovato l'uomo, con ustioni che interessavano quasi il 60% del corpo di secondo, terzo e quarto grado, fino alla carbonizzazione di arti inferiori, bacino e arti superiori, soprattutto delle mani, hanno convinto il consulente medico-legale del fatto che l'uomo fosse stato avvolto dalle fiamme quando era ancora vivo (pag. 18) e che la morte fosse riconducibile a meccanismi vasogenici e vasospastici tali da causare insufficienza cardiorespiratoria acuta quale conseguenza dell'effetto termico acuto delle fiamme.

5.2. La ricostruzione offerta dal consulente medico-legale del pubblico ministero è stata ritenuta, con argomenti logici, compatibile con i rilievi eseguiti nella stanza dalla polizia giudiziaria; in dettaglio, dagli accertamenti espletati dal nucleo operativo radiomobile di Caltanissetta nell'immediatezza del fatto, documentati anche mediante rilievi fotografici, si era accertato che le fiamme si erano sviluppate in corrispondenza del luogo ove si trovava la vittima mentre, nella medesima stanza, il letto posto sul lato destro era sostanzialmente integro e completo di lenzuola e copriletto con un comodino sopra il quale era ancora presente un telefono collegato a un caricatore. Tra i resti del comodino della vittima vi era una rotellina in metallo del tutto simile a quelle utilizzate negli accendini; nella medesima stanza, nel corridoio e in altre stanze dell'edificio erano stati rinvenuti diversi mozziconi di sigarette e sul tavolo della stanza posta di fronte a quella della vittima erano stati rinvenuti anche un pacchetto di sigarette e un accendino. La prova dichiarativa, come riportato a pag. 14 della sentenza di primo grado, aveva dimostrato che il F.F. era un fumatore incallito e che, nonostante il formale divieto di fumo, gli ospiti a volte erano sorpresi a fumare e ammoniti dagli operatori.

5.3. Il consulente medico-legale del pubblico ministero ha, dunque, attribuito la causa della morte all'effetto termico del calore da "morte nel fuoco" desumendo dalle ustioni presenti sul corpo che la vittima fosse stata avvolta dalle fiamme, esposta dunque ad elevate temperature, mentre era ancora in vita, escludendo che le patologie dalle quali era affetto il F.F. potessero considerarsi causa del decesso. Tali conclusioni sono state accompagnate dalla considerazione dell'effetto termico sviluppatosi nella stanza in maniera circoscritta, concentrandosi nell'ambiente del letto dove il F.F. dormiva, dunque partendo dalla posizione di quest'ultimo e investendo in maniera segmentarla parte della stanza. Secondo quanto si legge a pag. 20 della sentenza di primo grado il consulente ha escluso l'azione concausale nel determinismo del decesso delle patologie che affliggevano la vittima, pur ammettendo che un soggetto con patologie cardiache e respiratorie ha più probabilità di morire in un tempo più celere rispetto a un soggetto normale esposto alle stesse condizioni ambientali. Anche per la presenza sul tronco e sul viso di lesioni dall'aspetto flittenulare (bolle piene di liquido) il consulente ha confermato che la causa della morte fosse l'effetto termico determinato dal fuoco e dall'azione delle fiamme prima che l'ambiente fosse invaso dal fumo, non essendo presenti nel corpo segni dì monossido di carbonio ma piuttosto residui di materiale combusto.

5.4. Il consulente tecnico è stato posto a confronto con il consulente della difesa. In tale contesto, il primo ha espressamente escluso la presenza di segni di emorragia cerebrale o emorragia polmonare o di patologie gastrointestinali o di una patologia cardiovascolare acuta o vascolare-cerebrale acuta tali da determinare il decesso della persona, confermando che quando il F.F. era stato avvolto dalle fiamme era ancora vivo. A fronte delle valutazioni del consulente tecnico medico-legale della difesa, secondo il quale la morte sarebbe avvenuta prima dello sviluppo delle fiamme e del contatto con le stesse quale conseguenza delle patologie (cardiopatia, coronaropatia e fibrosi polmonare) dalle quali il F.F. era affetto, il giudice di primo grado (pag. 33) ha ritenuto condivisibili le valutazioni formulate all'esito dell'esame autoptico dal dott. H.H. in quanto pienamente compatibili con quanto emerso nella fase di ispezione dei luoghi, segnatamente con la posizione della vittima nel punto in cui si era sviluppato l'incendio, dove le temperature avevano raggiunto livelli elevati per il contatto continuo con l'azione delle fiamme, con la corrispondenza dell'innesco del fuoco nel punto in cui si trovava la vittima, con il violento sviluppo delle fiamme in quel punto, tale da distruggere comodino e letto e da determinare notevoli danni al soffitto e alle pareti, con la posizione dell'uomo per terra vicino al letto con ustioni in parte certamente antecedenti la morte.

5.5. Le allegazioni difensive sono state attentamente vagliate, il diritto alla prova contraria non è stato conculcato. Gli elementi acquisiti hanno indotto il giudice a ritenere provato che la vittima sia stata attinta dalle fiamme quando si trovava nel letto e abbia tentato istintivamente di allontanarsi, cadendo a terra a causa della sua disabilità e subendo l'arresto cardiocircolatorio che lo ha condotto alla morte. La presenza di ustioni vitali anche nella parte superiore del corpo, nonché sul tronco, sul fianco e sul volto, in particolare sul lato destro sul quale la persona era riversa sul pavimento, così come la presenza di materiale combusto nei polmoni, sono stati considerati elementi ostativi alla ricostruzione difensiva per cui l'arresto cardiocircolatorio si sarebbe dovuto ricondurre a un malore antecedente lo sviluppo delle fiamme. Il giudice ha rimarcato come il consulente che aveva eseguito l'esame autoptico non avesse rinvenuto elementi idonei a sostenere un determinismo diverso dal fuoco rispetto all'evento morte e come, sotto il profilo scientifico, lo stesso consulente della difesa non avesse smentito tale ricostruzione: il dott. Cascio non aveva, infatti, contestato sotto il profilo medico-legale che l'esposizione al fuoco o ad altre fonti di calore ad elevate temperature sia idonea a provocare la morte; né aveva contestato che la morte, nel caso concreto, fosse intervenuta per arresto cardiocircolatorio e in breve tempo prima che la stanza si riempisse di fumo.

5.6. Ampia motivazione è stata espressa in merito alla valutazione della prova scientifica. Il giudice ha ritenuto non condivisibili le critiche della difesa sia perché fondate su un presupposto erroneo, ossia che la morte della vittima fosse stata ricondotta a una esplosione di gas, laddove il dott. Raffino ne aveva descritto la causa nel contatto diretto della vittima con il fuoco, sia perché l'ipotesi alternativa del malore non era concretamente supportata ed era in contrasto con gli elementi di prova, che dimostravano che il contatto con il fuoco era avvenuto mentre il F.F. si trovava ancora nel suo letto. Irrilevante, per tale ragione, è stato considerato il rilievo secondo il quale nella stanza non vi fosse una temperatura superiore a 60 gradi. L'effetto termico letale era riconducibile, infatti, non alla temperatura della stanza ma al contatto diretto con il fuoco.

5.7. La Corte territoriale ha, poi, evidenziato le circostanze del rinvenimento del cadavere, riverso sul pavimento a fianco del letto con il corpo bruciato. I vigili del fuoco avevano descritto lo stato dei luoghi specificando che l'incendio aveva coinvolto il letto, il comodino e parzialmente l'armadio. Da tale descrizione obiettiva la Corte, esaminata la documentazione fotografica, dalla quale si desume che la gamba del F.F. era rimasta sul letto mentre il corpo era a terra con la schiena sul pavimento, ha dedotto con logica ineccepibile che la vittima avesse cercato di allontanarsi dal fuoco. Inoltre, la Corte ha ribadito che la carbonizzazione di parti del corpo della vittima rendeva irrilevante ogni rilievo inerente alla temperatura raggiunta nella stanza in quanto la morte era stata causata dalla specifica circostanza che il corpo era stato direttamente aggredito dalle fiamme. A pag.7 della sentenza impugnata vi è puntuale replica alle censure degli appellanti inerenti alla causa di morte, avendo i giudici di appello escluso la compatibilità della ricostruzione alternativa formulata dal consulente della difesa con la collocazione del corpo riverso sul fianco e con la presenza agli arti superiori di ustioni da indumenti integralmente consumati dal fuoco. Non risultano allegati argomenti tali da dimostrare la fallacia della ricostruzione causale ritenuta plausibile.

6. Tanto premesso con riguardo al giudizio esplicativo della causa del decesso, si esaminano ora le censure inerenti alla posizione di garanzia degli imputati.

6.1. Tale presupposto della condanna è stato valutato analiticamente con riguardo a A.A. dal giudice di primo grado sulla base della prova documentale. In particolare, a pag. 11 della sentenza di primo grado il giudice ha dato atto dell'acquisizione del documento di valutazione dei rischi del 28 marzo 2008 relativo a struttura residenziale per un numero di ospiti inferiore a 25 consegnato proprio da A.A. in qualità di direttore responsabile della casa di riposo e legale rappresentante della società cooperativa Aprilia '89. Inoltre, a pag. 25 della sentenza di primo grado si è precisato che, al momento del fatto, A.A. era direttore della casa di riposo, presidente e legale rappresentante della cooperativa Aprilia '89, alla quale era stata affidata, nell'ambito del consorzio di cooperative Progetto Vita, la gestione dell'attività assistenziale per anziani all'interno della struttura. In ragione di tale qualifica, il giudice di merito ha riconosciuto a A.A. il ruolo di datore di lavoro ai sensi dell'art. 2, comma 1 lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, corroborato dall'esercizio in concreto del relativo potere. Tale soluzione è, infatti, conforme anche al principio di effettività, seguito dai giudici di merito in linea con il dettato normativo (art. 299 D.Lgs. n.81/2008 - ex plurimis, Sez. 4, n. 22079 del 20/02/2019, Cavallari, Rv. 276265 - 01; Sez. 4, n. 50037 del 10/10/2017, Buzzegoli, Rv. 271327 - 01; Sez. 4, n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269973 - 01). A pag. 13 della sentenza di appello, si è infine constatato che A.A., sulla base del sopralluogo effettuato nel 2013 dai vigili del fuoco, ha ottemperato proprio nella qualità di legale rappresentante della cooperativa Aprilia '89 e di datore di lavoro alle prescrizioni antincendio; tanto a completamento e integrazione della motivazione del Tribunale.

6.2. Per quanto riguarda la posizione di garanzia di B.B., il giudice (pag. 26) ha richiamato l'esito della prova dichiarativa a fondamento del giudizio circa il diretto coinvolgimento nella gestione della casa di riposo di entrambi gli imputati, considerati punti di riferimento e centri decisionali per tutte le questioni attinenti all'organizzazione e alla gestione dei servizi. Alle pagg. 14-15 della sentenza impugnata la Corte di appello ha mostrato di condividere le valutazioni del giudice di primo grado spiegando ulteriormente che tale imputata, oltre ad aver effettivamente assunto il ruolo contestato, come ampiamente spiegato dal giudice di primo grado nel rispetto del già enunciato principio di effettività, è stata indicata come persona sottoposta dal datore di lavoro a specifico corso nel documento di valutazione dei rischi in quanto addetta alla gestione dell' emergenza antincendio, con ripartizione di compiti tra tale imputata e il fratello in materia di prevenzione antinfortunistica. L'assunzione effettiva del ruolo contestato è stata desunta, altresì, dalla prova documentale costituita dall'attestato di frequenza quale "addetto alla gestione emergenza antincendio". Deve, dunque, ritenersi sul punto infondata ogni censura.

7. Ulteriore punto della decisione investito dalle censure dei ricorrenti riguarda il ragionamento probatorio svolto dai giudici di merito con riguardo alla fonte e al contenuto dell'obbligo di prevenzione gravante sugli imputati.

7.1. Occorre, in primo luogo, osservare che le censure che tendono a ottenere una nuova valutazione delle prove non sono ammissibili nel giudizio di legittimità, né risulta ammissibile per quanto si è già detto il dedotto travisamento della prova. Risulta quindi frutto di una corretta valutazione della prova, non travisata, l'accertamento della presenza di residui di sigarette nella stanza della vittima e anche in altri ambienti della casa di riposo, da cui sono state desunte la conoscibilità del fatto che vi fossero persone che fumavano all'interno delle stanze e la tolleranza di tale prassi da parte di chi avrebbe dovuto vigilare. Il motivo di ricorso, sul punto, non si confronta con l'assunto in base al quale (pag. 37 sentenza di primo grado) il rimprovero di rilievo penale mosso agli imputati concerne l'omessa attivazione delle misure di prevenzione del rischio incendio rispetto all'attività concretamente ed effettivamente svolta, indipendentemente dalla regolarità formale dei limiti previsti per l'iscrizione all'albo regionale o per l'autorizzazione regionale allo svolgimento di servizi socioassistenziali.

7.2. Dai rilievi eseguiti dalla polizia giudiziaria nell'immediatezza del fatto e da altri documenti acquisiti nel corso dell'istruttoria, il giudice di primo grado (pag. 11) ha accertato che all'interno della struttura non erano presenti rilevatori di fumo né idranti e che i fascicoli sanitari degli ospiti indicavano la presenza nella casa di riposo di anziani in condizioni gravi, non autosufficienti, costretti a letto o sulla sedia a rotelle o affetti da patologie invalidanti. Tra i pazienti non autonomi vi era F.F., che deambulava su sedia a rotelle in quanto privo di uno degli arti inferiori, era affetto da deficit intellettivo e descritto dai testi come "fumatore incallito".

7.3. Si è già ricordato che, qualora la pronuncia di condanna sia l'esito dell'accertamento di plurimi profili di colpa la mancata contestazione di alcuni di essi rende il ricorso inidoneo all'annullamento della sentenza. Occorre, in proposito, precisare che sin dalla sentenza di primo grado il giudizio si è incentrato non solo su quelle norme antinfortunistiche alla cui violazione i ricorrenti negano efficacia eziologica rispetto all'evento, ma soprattutto sulla individuazione dell'area di rischio della quale gli imputati potevano considerarsi gestori e inoltre sulla descrizione di profili di colpa generica declinati su comuni regole di prudenza. La difesa sostiene l'inidoneità delle misure di protezione, quali l'impianto di estinzione, l'impianto di illuminazione di emergenza o le misure di evacuazione, a impedire l'evento ma tace su altri comportamenti omissivi identificati dai giudici di merito.

7.4 Fattori di rischio specifici della situazione concreta, che avrebbero dovuto essere valutati, sono stati individuati nella presenza di fumatori all'interno della struttura e nell'inadeguatezza delle misure adottate rispetto al numero e alle condizioni dì non autosufficienza di alcuni ospiti. Tanto il direttore della struttura, in quanto gestore di tutti i rischi, quanto la responsabile del servizio di prevenzione, in quanto titolare dell'obbligo di informazione, segnalazione e formulazione di proposte risolutive di situazioni potenzialmente pericolose, avrebbero dovuto organizzare (pag. 27 sentenza di primo grado) in maniera idonea l'attività di vigilanza e controllo sul rispetto di regole legali e di regole imposte dalla comune prudenza; tali obblighi non risultano assolti in quanto è stata accertata, come si legge nella sentenza di primo grado, la totale assenza di misure organizzative correlate alla presenza di anziani malati e non autosufficienti nonché l'assenza di vigilanza sull'uso di accendini e sigarette all'interno delle stanze, prive d'impianto di rilevazione di fumo. Soprattutto la carenza di un controllo effettivo idoneo a evitare che gli ospiti utilizzassero accendini o fiammiferi o fumassero all'interno delle stanze in presenza di materiali facilmente infiammabili e l'omessa predisposizione di dispositivi di segnalazione degli incendi in relazione al numero degli ospiti e alle loro condizioni di non autosufficienza sono stati ritenuti causa eziologica rispetto al fatto in concreto verificatosi.

7.5. L'obbligo per il gestore della struttura di avviare il procedimento per ottenere il certificato di prevenzione incendi, inoltre, non è stato desunto esclusivamente dalla circostanza che nella casa di riposo fossero presenti stabilmente 27 ospiti, molti dei quali non autosufficienti, ma anche dal rilievo che la struttura assicurava assistenza di tipo sanitario, così da escludere che la casa di riposo potesse considerarsi alla stregua di una struttura ricettiva destinata esclusivamente a fornire una serie di servizi alberghieri per persone anziane e autosufficienti. La contestazione difensiva circa tale obbligo non vale, pertanto, a destrutturare il percorso logico-giuridico seguito dai giudici di merito per affermare l'elemento soggettivo del reato. Secondo quanto chiaramente indicato a pag. 31 della sentenza di primo grado, infatti, il rischio del quale gli imputati sono stati ritenuti gestori e al quale è stato correlato l'evento in concreto verificatosi, si sostanzia anche nella "omissione di misure organizzative idonee ad arginare il rischio del verificarsi di un incendio, pur in conseguenza di comportamenti imprudenti degli stessi ospiti della struttura, conosciuti e passivamente tollerati". La regola cautelare violata, sotto tale profilo, è stata individuata nel regolamento attuativo dell'art. 16, comma 1, D.Lgs. 8 marzo 2006, n. 139 adottato con D.P.R. 1 agosto 2011, n. 151 in base al quale, oltre a misure di tipo tecnico, si sono fissate misure preventive di tipo organizzativo-gestionale quali il rispetto dell'ordine e della pulizia, i controlli sulle misure di sicurezza, la predisposizione di un regolamento interno sulle misure di sicurezza da osservare, l'informazione e la formazione dei lavoratori, sulla base di conoscenza delle cause e dei pericoli più comuni che possono determinare l'insorgenza di un incendio e la sua propagazione. Con riguardo a tale fonte di regole cautelari prevenzionistiche il ricorso è silente.

7.6. La violazione della specifica regola cautelare dettata dall'art. 46 D.Lgs. n.81/2008, in quanto impositiva di misure organizzative, nel caso concreto del tutto mancanti, non risulta posta in dubbio sebbene si tratti di argomento centrale nel ragionamento espresso nella motivazione.

8."L'individuazione degli obblighi prevenzionistici al cui rispetto gli imputati erano tenuti, così come articolata nelle sentenze di merito, è coerente con l'orientamento interpretativo di questa Corte che ha, infatti, già avuto modo di affermare che "La norma dell'art. 40, secondo comma cod. pen., secondo la quale non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, va interpretata in termini solidaristici, alla luce dell'art. 2 Cost., il quale, ispirandosi al principio del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Tale principio è stato affermato in relazione a un caso in cui era stata riconosciuta la responsabilità della direttrice di una casa di riposo per anziani, per omessa predisposizione di misure idonee ad impedire l'accesso ad una scalinata, sulla quale rovinava un ospite della struttura, avendo ritenuto i giudici che alla direttrice della casa di riposo spetti la gestione dei degenti rispetto alle ordinarie esigenze di vita, comprendenti il controllo sulle fonti di pericolo per l'incolumità fisica degli anziani (Sez. 4, n. 11136 del 04/02/2015, Conti, Rv. 262869 - 01). Il caso in esame presenta indubbie affinità con il precedente e può trovare soluzione applicando il medesimo principio in quanto il giudizio di responsabilità risponde al medesimo criterio interpretativo in termini solidaristici dell'art. 40 cod. pen.

9. Sebbene, in base al principio espresso al par.4, tali colpose omissioni renderebbero inidonee le censure concernenti la violazione di alcune regole antinfortunistiche a rendere illegittima la pronuncia di condanna, vale la pena aggiungere quanto segue.

9.1. In base all'art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. 9 aprile 2008, n.91 "Nei riguardi delle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, e delle organizzazioni di volontariato della protezione civile, ivi compresi i volontari della Croce Rossa Italiana e del Corpo Nazionale soccorso alpino e speleologico, e i volontari dei vigili del fuoco, le disposizioni del presente decreto legislativo sono applicate tenendo conto delle particolari modalità di svolgimento delle rispettive attività, individuate entro il 31 dicembre 2010 con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Dipartimento della protezione civile e il Ministero dell'interno, sentita la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro... ".

9.2. Tale disposizione è stata attuata con D.M. 13 aprile 2011 (Disposizioni in attuazione dell'art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, come modificato e integrato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). Il tenore letterale dell'art. 2 D.M. 13 aprile 2011, in quanto funzionale ad adeguare la normativa antinfortunistica alle "particolari esigenze che caratterizzano le attività' e gli interventi svolti dai volontari della protezione civile, dai volontari della Croce Rossa Italiana e del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico e dai volontari dei vigili del fuoco", esclude che tale disposizione attuativa si applichi al caso in esame.

9.3. Con specifico riferimento alle cooperative sociali è, invece, dettata la disposizione dell'art. 7 che, per quanto qui di interesse, integra la normativa antinfortunistica ponendo l'accento su specifici obblighi per i datori di lavoro, consistenti nella valutazione dei rischi "normalmente presenti, sulla base dell'esperienza, nelle attività' di cui all'art. 1, lettere a) e b), della legge 8 novembre 1991, n. 381", nel fornire al lavoratore "adeguate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti in cui egli È chiamato a operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività'" e, in generale, nell'obbligo di assicurarsi "che i volontari ricevano formazione, informazione e addestramento in relazione alle attività' loro richieste".

9.4. Ove, poi, si leggano le regole tecniche di prevenzione incendi previste dal D.M. 9 aprile 1994, risulta evidente che la classificazione della Casa di riposo Padre Ingrao tra le strutture ricettive con capienza fino a 25 posti letto, come invocato dalla difesa dei ricorrenti, non avrebbe esonerato il gestore dagli obblighi previsti al Titolo III, a mente del quale, oltre alle istruzioni da fornire agli ospiti e alle dotazioni per agevolare lo spegnimento dell'incendio, è stabilito che "Deve essere assicurato per ogni eventuale caso di emergenza il sicuro esodo degli occupanti". Tale disposizione, che in una struttura ospitante persone non autosufficienti assume particolare cogenza, integra e specifica la contestata violazione dell'art. 46, comma 2, D.Lgs. n.81/2008, che, ubicato nella Sezione VI intitolata "Gestione delle emergenze", deve essere intesa come regola cautelare che impone al datore di lavoro l'adozione di misure idonee non solo a prevenire gli incendi ma anche, e più in generale, a tutelare l'incolumità dei lavoratori al verificarsi di un incendio, come meglio specificato nell'allora vigente D.M. 10 marzo 1998.

9.5. Tanto al fine di confermare la correttezza del ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale allorché ha ritenuto irrilevante, nell'accertamento del comportamento esigibile ai fini dell'art. 589, comma 2, cod. pen. in relazione all'attività concretamente svolta, il rispetto degli standard di sicurezza previsti dalla normativa regionale a finì di regolarità amministrativa della struttura.

10. Con riguardo all'accertamento della responsabilità civile del Comune di Serradifalco, a pag. 13 della sentenza di primo grado è stato chiarito che gli atti di gara e dì affidamento prevedevano l'obbligo dell'Ente aggiudicatario della gestione della casa di riposo di garantire l'assistenza ad anziani anche non autosufficienti e di riservare almeno cinque posti per ospiti non abbienti individuati dal Comune secondo la normativa in materia di assistenza sociale; l'amministrazione comunale, in qualità di concedente la gestione del servizio, è stata ritenuta titolare di poteri di controllo e vigilanza, oltre che di manutenzione straordinaria. Successivamente all'evento, anche il Comune è stato destinatario di prescrizioni formulate dai vigili del fuoco in ordine all'adeguamento della struttura rispetto all'attività svolta e all'effettivo numero degli ospiti della casa di riposo. A pag. 14 della sentenza di primo grado si legge che la casa di riposo, inizialmente gestita in via diretta dall'ente pubblico, era stata concessa in affidamento a seguito di procedura di selezione e stipula di una convenzione di affidamento del servizio di assistenza agli anziani del 16 maggio 2008.

10.1. In base all'avviso di gara emanato il 30 giugno 2011 dal Comune di Serradifalco erano ammessi a partecipare alla gara, per quanto qui di interesse, i soggetti di cui all'art. 34 D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163, ossia: a) gli imprenditori individuali, anche artigiani, le società commerciali, le società cooperative; b) ì consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, e del D.Lgs. 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'art. 2615-ter cod. civ., tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'art. 36, nonché le cooperative sociali di tipo A (da intendere di gestione dei servizi socio-sanitari di cui all'art. 1 lett. a) legge 8 novembre 1991, n.381) e loro consorzi, purché aventi tra i fini statutari lo svolgimento dell'attività in favore degli anziani.

10.2. Obbligo dell'affidatario, in base all'avviso di gara, era l'utilizzo dell'immobile locato come Casa di riposo per anziani "con tutti i relativi obblighi e oneri previsti dalla specifica normativa", riservandosi il Comune tanto la facoltà di verificare la destinazione d'uso dell'immobile oggetto di locazione quanto quella di procedere "a verifiche e valutazioni periodiche circa l'attività e la qualità dei servizi" e di "far eseguire d'ufficio accertamenti e quant'altro necessario per consentire il regolare svolgimento degli obblighi contrattuali" nel caso di persistenti e gravi inadempienze nella gestione della casa dì riposo, compresa l'impossibilità di assicurare il regolare e corretto funzionamento della stessa. La Corte di appello ha confermato il giudizio di responsabilità civile dell'Ente territoriale sul presupposto che nel capitolato si menzionavano in modo particolareggiato i requisiti del servizio da prestare agli anziani ricoverati presso la struttura con indicazione della ricettività della stessa e, soprattutto, considerando che in base all'art. 12 del capitolato il Comune si era riservato il controllo sui servizi resi, in relazione ai quali l'appaltatore si obbligava al rispetto della normativa antinfortunistica.

10.3. Il ragionamento svolto dai giudici di merito, che hanno ricondotto alla previsione dell'art. 2049 cod. civ. la responsabilità civile del Comune in quanto Ente tenuto alla vigilanza sul corretto espletamento del servizio di assistenza agli anziani da svolgersi nella casa di riposo, è coerente con l'individuazione della fonte di responsabilità della cooperativa affidataria del servizio, e segnatamente di coloro che all'interno della cooperativa svolgevano il compito di datore di lavoro e di responsabile delle misure organizzative antincendio, nell'omessa adozione di misure organizzative efficaci per evitare l'evento in concreto verificatosi. Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento, oltre al colpevole, le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui, secondo la generale previsione dell'art. 185, comma 2, cod. pen. Tale disposizione rimanda, tra l'altro, all'art. 2049 cod. civ., il quale stabilisce che i datori di lavoro ("padroni") e committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti (domestici) e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui costoro sono adibiti. L'interpretazione condivisa dell'art. 2049 cod. civ., superando l'originaria configurazione della responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio da identificarsi almeno in una culpa in eligendo o in vigilando, si fonda sul rilievo che il testo normativo non concede al responsabile la prova liberatoria e ne afferma la natura di responsabilità oggettiva per fatto altrui. È sufficiente, in altre parole, che un soggetto si avvalga dell'attività dì un altro per il perseguimento di propri fini. Tale appropriazione di attività ne comporta l'imputazione nel suo complesso, sia con riguardo agli effetti favorevoli che a quelli pregiudizievoli (Sez. U civili, n.13246 del 16/05/2019, Rv.654026-01; Sez. 3 civile, n.4298 del 14/02/2019, Rv. 652666-01). Considerato che tale forma di responsabilità si correla ai vantaggi che derivano a colui che si avvale dell'altrui attività, la giurisprudenza di legittimità ritiene sufficiente il nesso di occasionalità necessaria tra l'esercizio delle incombenze, da cui è derivato il danno al terzo, e la produzione di esso. Tale nesso è considerato elemento costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione e all'illiceità del fatto del preposto.

Sulla base di tale elaborazione giurisprudenziale, il nesso di occasionalità necessaria sussiste quando le funzioni esercitate hanno determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo. Oltre alla responsabilità civile del datore di lavoro per la condotta delittuosa possa in essere dal dipendente non strettamente inerente alle mansioni affidategli ma comunque ad esse legato da un nesso di occasionalità necessaria relativa allo svolgimento dell'attività lavorativa, analoga responsabilità può configurarsi nel caso in cui l'ente pubblico abbia affidato a un soggetto privato l'espletamento di un servizio pubblico la cui gestione abbia reso possibile l'illecito, qualora, come nel caso in esame, l'ente proponente eserciti poteri di vigilanza. Proprio la gestione del servizio di ricovero per anziani anche non autosufficienti, con riserva di alcuni posti a soggetti specificamente indicati dal Comune proprietario dell'immobile, ha creato un nesso di occasionalità necessaria tra l'evento lesivo e la posizione dell'Ente territoriale. Tanto è sufficiente per affermare la responsabilità civile del Comune ricorrente ai sensi dell'art. 2049 cod. civ. su base puramente oggettiva, così come correttamente specificato dai giudici di merito.

11. I motivi di ricorso sviluppati dal Comune di Serradifalco con riguardo all'accoglimento della domanda generica di risarcimento del danno avanzata dalle parti civili risultano inammissibili.

11.1. L'esercizio dell'azione civile nel processo penale limita la pretesa, nell'ambito dei più ampi rimedi riconosciuti al danneggiato dal diritto civile, al risarcimento ed alle restituzioni previsti dall'art. 185 cod. pen., dunque in stretta e immediata correlazione con il danno criminale; oltre il suddetto limite, l'esercizio dell'azione civile nel processo penale comporta anche talune alterazioni derivanti dal fatto che l'accertamento del danno civile deve essere condotto secondo le regole del processo penale e che l'azione penale non può subire rallentamenti a causa dell'esercizio delle azioni extrapenali. In particolare, l'incondizionata possibilità per il giudice penale di affermare che le prove acquisite non consentono di pervenire alla liquidazione del danno riverbera con evidenza i suoi effetti sull'onere di allegazione e di prova spettante alla parte civile, che può scegliere, senza incorrere in alcuna nullità, a differenza di quanto avviene nel processo civile (Sez. 3 civile, n. 10527 del 13/05/2011, Rv. 61821001), di allegare genericamente di aver subito un danno (Sez. 6, n. 27500 del 15/04/2009, Morrone, Rv. 24452601; Sez. 4, n. 13195 del 30/11/2004, dep.2005, Dorgnak, Rv. 231212). Il legislatore ha, dunque, strutturato un sistema "aperto" dell'azione civile nel processo penale, consentendo all'autorità giudiziaria una valutazione discrezionale, che si adegui alle istanze alle quali si lega nel tempo la funzione del risarcimento del danno ed in rapporto alle diverse tipologie di reato. Il giudice può, infatti, stabilire in relazione al caso concreto se debba valorizzarsi la funzione sanzionatoria della pronuncia risarcitoria, meno astretta alla concreta entità del danno, che sarà liquidato definitivamente ed equitativamente con la pronuncia di condanna penale, ovvero la funzione compensativa e riparatoria, più strettamente legata alla prova del quantum del danno, indipendentemente dalla specificità della domanda.

11.2. Non sussiste, peraltro, l'interesse del Comune ricorrente all'annullamento del punto della decisione concernente gli effetti civili in ragione del fatto che, a norma dell'art. 651 cod. proc. pen., la pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile limita il giudice civile esclusivamente con riferimento al "titolo della responsabilità" affermato nella sentenza penale (Sez.3 civile n.5660 del 14/11/2017; Sez.3 civile n.18352 del 27/08/2014).

12. I ricorsi devono, conseguentemente, essere rigettati; segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 17 ottobre 2024.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2024.