Corte di Appello di Napoli, Sez. Lav., 03 ottobre 2024 - Periodi di riposo dei dirigenti medici
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza
composta dai magistrati: dott. Raffaella Genovese Presidente
dott. Sebastiano Napolitano Consigliere
dott. Arturo Avolio Consigliere relatore riunita in camera di consiglio il 19 settembre 2024 ha pronunciato in grado di appello
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 1505/2021 del Ruolo Generale Sezione Lavoro, vertente
TRA
, rappresentato e difeso dagli Avvocati Giovanni Romano
ed
Egidio Lizza,
APPELLANTE
E
AZIENDA SANITARIA LOCALE NAPOLI 3 SUD, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Rosa Maria Siciliano e Roberta De Stefano,
APPELLATA
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del consiglio dei ministri,
CONTUMACE
OGGETTO: dirigenti medici – riposi – risarcimento del danno - mancata fruizione del riposo minimo di 24 ore ogni 7 giorni - superamento del limite delle 48 ore settimanali - mancata fruizione del riposo minimo di 11 ore consecutive ogni 24 - svolgimento di lavoro notturno per più di otto ore per periodi di 24 ore – danno in re ipsa – direttiva UE 2003/88.
Fatto
Con atto di appello depositato in data 15 maggio 2021, la parte in epigrafe ha proposto appello avverso la sentenza n. 1523 del 18 novembre 2020 con la quale il Tribunale di Torre Annunziata, in funzione di giudice del lavoro, aveva rigettato la domanda dell’attore.
Il ha allegato di lavorare, sin dal mese di giugno del 2008, presso l’Azienda Sanitaria Locale di Napoli n. 3 Sud, con la qualifica di dirigente medico, corrispondente al primo livello del contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria.
Ha dichiarato, poi, di aver osservato un orario di lavoro variabile: con maggiore frequenza dalle 8:00 alle 14:00 circa ed il pomeriggio dalle 14:30 alle 20:30 circa; che, a decorrere dal mese di giugno 2008 ad aprile 2016, non ha usufruito del periodo minimo di riposo giornaliero di 11 ore consecutive; non ha usufruito del periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore ogni 7 giorni; ha superato le 48 ore di lavoro settimanali; ha, nel lavoro notturno, superato le 8 ore in media per periodi di 24 ore; tali condotte del datore di lavoro sono state poste in essere in violazione degli artt. 3, 5, 6 ed 8 della Direttiva 2003/88/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, sostitutiva della Direttiva 93/104/CE, così come modificata ed integrata dalla Direttiva 2000/34/CE.
Tanto esposto in punto di fatto ha adito il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni:
“1) accertare e dichiarare che il Dott. a) non ha usufruito del periodo minimo di riposo giornaliero di 11 ore consecutive; b) non ha usufruito del periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore ogni 7 giorni (in aggiunta alle 11 ore giornaliere di cui innanzi); c) ha superato le 48 ore di lavoro settimanali, comprese le ore di lavoro straordinario; d) ha, nel lavoro notturno, superato le 8 ore in media per periodi di 24 ore, il tutto in violazione degli artt. 3, 5, 6 ed 8 della Direttiva 2003/88/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, sostitutiva della Direttiva 93/104/CE, così come modificata ed integrata dalla Direttiva 2000/34/CE; per l’effetto condannare l’Azienda Sanitaria Locale Sud n. 3, corrente in Napoli a corrispondere al ricorrente la somma di €. 121.231,94, ovvero in subordine la somma di €.112.034,61, ovvero quella diversa somma, maggiore o minore, che verrà accertata in corso di causa, oltre rivalutazione monetaria o maggior danno e interessi legali, dal dovuto al soddisfo, a titolo di risarcimento del danno patito dal ricorrente per tutti i titoli per cui è causa; 3) in subordine condannare la Repubblica italiana e/o la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti a corrispondere al ricorrente la somma di €. 121.231,94, ovvero in subordine la somma di €. 112.034,61, ovvero quella diversa somma, maggiore o minore, che verrà accertata in corso di causa, oltre rivalutazione monetaria o maggior danno ed interessi legali, dal dovuto al soddisfo, a titolo di risarcimento del danno patito dal ricorrente per tutti i titoli per cui è causa. 4) in ogni caso, con vittoria di spese e competenze di giudizio da distrarre”.
La sentenza ha rigettato le domande del ricorrente.
1) In particolare, in relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente alla violazione dell’art.7 del D. Lgs. n. 66 del 2003 il quale prevede che il lavoratore abbia diritto a 11 ore di riposo giornaliero consecutivo ogni 24 ore, la sentenza ha osservato quanto segue.
In primo lugo, quanto all’individuazione dell’orario di lavoro, il giudice di prime cure ha osservato che l’orario risultante dalle timbrature non è necessariamente coincidente con l’orario di lavoro effettivo, potendo ricomprendere anche tempi dedicati ad attività non funzionali all’attività lavorativa.
In secondo luogo, il Tribunale di Torre Annunziata ha rigettato la domanda evidenziando che l’art.7 del D.lgs. 66/03 prevede la possibilità di deroga alla fruizione del riposo frazionato, nel caso di attività caratterizzate “da regimi di reperibilità”. In particolare, il comma 10 dell’art. 28 del CCNL del comparto sanità, relativo al triennio 2016-2018, destinato per volontà delle parti contrattuali ad avere efficacia a partire da data anteriore alla stipulazione, attuando detta deroga, ha previsto che a fronte di una interruzione del riposo per chiamata in reperibilità, il lavoratore debba successivamente fruire delle sole ore mancanti di riposo e non ricominciare da capo l’intero periodo di riposo. Qualora non sia possibile recuperare immediatamente dopoil servizio le ore mancanti per il compimento delle 11 ore di riposo, “quale misura di adeguataprotezione, le ore di mancato riposo saranno fruite, in un’unica soluzione, nei successivi settegiorni, fino al completamento delle undici ore di riposo”. Il ricorrente si sarebbe limitato a dedurre apoditticamente di non aver fruito del risposo minimo giornaliero di 11 ore, rinviandoalla consulenza tecnica in atti, dalla quale nulla emergerebbe in ordine all’eventuale incidenzadi turni di reperibilità sull’interruzione del riposo.
Ancora, il giudice di primo grado ha sottolineato che dalla stessa consulenza di parte risulterebbe che molti orari di inizio e fine turno risultano non leggibili.
Ad ogni caso difetterebbe la compiuta allegazione degli elementi rilevanti.
2) In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo minimo di 24 ore ogni 7 giorni di lavoro la sentenza ha osservato quanto segue.
L’art. 9 D.lgs. 66 del 2003 prevede che “il suddetto periodo di riposo è calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni”. Il ricorrente non avrebbe allegato che i periodi di “lavoro ininterrotto” siano superiori ai 14 giorni utili per verificare se vi sia stata una violazione.
3) In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento delle 48 ore settimanali di cui all’articolo 4, comma 2 del D.Lgs. 66/2003 la sentenza ha osservato quanto segue.
La media delle 48 ore andrebbe calcolata su un periodo mobile di 4 mesi, ai sensi dell’articolo 4, comma 3, del D.Lgs. 66/2003. Considerato, quindi, che il periodo da considerare non è la singola settimana ma è il quadrimestre (se nel periodo non vi sono state ferie né malattie), difetterebbe nel ricorso tale prospettazione.
4) In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento per il lavoro notturno delle 8 ore in media, per periodi di 24 ore la sentenza ha osservato quanto segue.
Il Ministero del Lavoro avrebbe chiarito che per calcolare tale limite bisogna effettuare una media tra le ore lavorate e non lavorate, anche su un periodo settimanale. Il ricorrente si sarebbe limitato a formulare allegazioni generiche, senza indicare specificamente in relazione ai quali turni si è avuto lo sforamento ed in che termini concreti, in relazione al singolo turno, vi sarebbe stato il superamento del limite orario, in modo da consentire al Tribunale le necessarie verifiche.
Peraltro, in tema di lavoro notturno, l'art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e l'art. 13 del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, consentono alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità dell'orario di lavoro notturno con eventuale superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
Con l'atto di appello il ha impugnato la sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento delle domande spiegate nel primo grado.
Dopo aver ricostruito le coordinate normative e giurisprudenziali eurounitarie in tema di riposi, ha osservato come la prosecuzione dell’attività lavorativa oltre il limite posto dalla Direttiva 2003/88/CE abbia determinato per il ricorrente una maggiore gravosità dell’attività lavorativa stessa, sicura fonte di danno psicofisico. In particolare, il ricorrente avrebbe lavorato nel periodo considerato per un totale di ore e giorni aggiuntivi, in violazione della Direttiva 2003/88/CE e ciò solo avrebbe determinato il prodursi del danno da usura psicofisica di natura non patrimoniale.
Il danno è stato quantificato in €. 112.034,61, se si considera a base di calcolo il solo importo del trattamento fondamentale dello stipendio, ovvero ad €. 121.231,94, se si considera a base di calcolo anche la retribuzione di posizione. Nello specifico, ai fini del calcolo sono state considerate le ore lavorate in più rispetto ai riposi non fruiti, moltiplicate per il costo orario del solo stipendio mensile tabellare risultante dalle buste paga, ovvero dello stipendio mensile tabellare base sommato alle retribuzioni di posizione risultante dalle buste paga.
Tanto premesso, l’appellante ha articolato i seguenti motivi di impugnazione.
1) Per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo minimo di 11 ore consecutive ha osservato quanto segue.
- L’appellante ha contestato, innanzitutto, la conformità alla direttiva (art. 3 della direttiva 93/104/CE) delle deroghe ai riposi previste dall’art. 17, co. 1, d.lgs. 66 del 2003.
- Per il caso della ritenuta compatibilità della normativa nazionale con quella eurounitaria, l’appellante ha allegato che l’eventuale sospensione del riposo in ragione dell’attivazione dei turni di reperibilità attiva doveva essere eccepita dal datore di lavoro che, invece, si è sottratto all’onere allegatorio e probatorio. Si tratta, infatti, di un evento eccezionale modificativo del diritto la cui violazione è stata contestata dal ricorrente.
Al contrario il ha provato attraverso la produzione degli statini marcatempo la violazione dei riposi de quibus.
Del resto, le deroghe, anche ove giustificate dalla necessità di garantire la continuità assistenziale, incontrerebbero un limite nella tutela dei diritti costituzionalmente garantiti del lavoratore.
L’ASL non avrebbe nemmeno provato di aver consentito al lavoratore di fruire di riposi compensativi, essendosi limitata ad allegare genericamente che gli stessi sarebbero stati concessi. Dagli statini, ad ogni modo risulterebbe che di detti riposi il lavoratore non ha goduto.
- L’appellante ha contestato, poi, il passaggio della sentenza nel quale viene affermato che l’orario risultante dalle timbrature non è sempre coincidente con l’orario di lavoro effettivo.
Sul punto il ha eccepito la violazione degli oneri probatori.
- Nemmeno coglierebbe nel segno la motivazione della sentenza nella parte in cui asserisce l’inattendibilità delle allegazioni attoree in quanto, come risulta dalla stessa consulenza di parte, molti orari di inizio e fine turno sugli statini non sarebbero leggibili.
Sul punto l’appellante ha eccepito che, come risulta dalla consulenza di parte, a scopo cautelativo gli orari che non risultavano leggibili con certezza (di entità, invero, modesta), sono stati tutti segnalati dal CTP, e non sono stati considerati nei calcoli.
2) Per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento del limite delle 48 ore settimanali l’appellante ha osservato quanto segue.
L’art. 4 del d.lgs. 66 del 2003 prevede che detto limite deve essere calcolato con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi. Orbene, il limite risulterebbe superato anche tenendo conto di un calcolo esteso ai quattro mesi. Le allegazioni articolate al riguardo nel ricorso di primo grado, lungi dall’essere generiche, sarebbero, invece, puntuali. La perizia di parte, infatti, riporterebbe le risultanze emergenti dai cartellini marcatempo.
Del resto, l’eccezione al riguardo formulata all’ASL sarebbe essa stessa generica non avendo chiarito l’appellata in che modo l’applicazione del periodo di quattro mesi avrebbe inciso sul calcolo escludendo il denunciato sforamento.
Inoltre, il calcolo basato su quattro mesi non è imposto dalla norma ma è solo un limite massimo reso dalla stessa possibile, applicandosi, altrimenti, quello ordinario settimanale. Ed infatti, una diversa interpretazione che ritenesse ordinario il termine di quattro mesi sarebbe in contrasto con la direttiva 93/104/CE e andrebbe disapplicata. La corretta interpretazione, invece, è quella di ritenere che il termine ordinario sul quale calcolare il superamento delle 48 ore sia quello settimanale e che la contrattazione collettiva o il datore di lavoro pubblico potrebbero estendere detto periodo fino a quattro, sei o dodici mesi, solo al ricorrere di determinate condizioni. Nel caso de quo non c’è stata prova dell’esistenza di contrattazione o determinazioni in tal senso, né del ricorrente di circostanza giustificative.
3) Per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo ininterrotto di 24 ore ogni 7 giorni l’appellante ha osservato quanto segue.
Le allegazioni riportate in ricorso sarebbero puntuali e non generiche. L’atto introduttivo rinvia alla CTP dalla quale emerge che nel periodo dal 2008 al 2016 le ore di mancato riposo ammontano a 146. Dai cartellini marcatempo emerge che in nessun caso si rinviene un recupero nella settimana successiva. Del resto l’ASL avrebbe dovuto fornire prova del recupero del mancato riposo nell’arco dei 14 giorni e a tale onere si è sottratta.
4) Per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno conseguente allo svolgimento di lavoro notturno per più di 8 ore in media per periodi di 24 ore, l’appellante ha osservato quanto segue.
Ha contestato la sentenza che sul punto ha sottolineato che la normativa interna (art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e art. 13 del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66), consente alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità dell'orario di lavoro notturno con eventuale superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
In particolare, l’appellante ha eccepito che nel rapporto di lavoro de quo non risulta essere stata adottata dalla contrattazione collettiva alcuna disposizione che parametrasse la media ad un indicatore differente. Nell’atto introduttivo del primo grado il ha allegato in maniera specifica che le ore eccedenti rispetto al limite de quo siano state 2981. La consulenza tecnica prodotta ha predisposto un prospetto dettagliato che ha individuato i turni notturni in questione. Sul punto alcuna eccezione è stata articolata dall’ASL.
Tanto premesso in punto di violazione della normativa, in punto di danno l’appellante ha chiesto il risarcimento del danno da usura psicofisica conseguente allo stress e all’allontanamento dalla vita familiare, affettiva e sociale.
Si è costituita l’ASL Napoli 3 sud chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.
L’Azienda ha ammesso che la normativa italiana ha privato i dirigenti medici del diritto a un periodo minimo di riposo giornaliero ininterrotto e a un limite massimo nell’orario settimanale. In particolare, la l. 244 del 2007, introducendo un comma 6 bis al d.lgs. 66 del 2003 ha stabilito che le disposizioni che garantivano, in attuazione delle direttive eurounitarie, un riposo giornaliero di 11 ore consecutive non si applicavano al personale sanitario. Il d.l. 112 del 2008, nel modificare il comma 1 dell’art. 17 del d.lgs 66 del 2003 ha previsto che le disposizioni di cui agli artt. 7, 8, 12 e 13, sui riposi ecc., potevano essere derogate dalla contrattazione collettiva nazionale.
A fronte di tale normativa la contrattazione collettiva ha previsto alcune garanzie pur tenendo conto delle esigenze della continuità assistenziale (ad esempio l’art. 7 del CCNL della dirigenza medica e veterinaria del 17 ottobre 2008 e il CCNL del Comparto del 10 aprile 2008 nella parte in cui ha integrato l’art. 26 del CCNL del 7 aprile 1999 sull’orario di lavoro).
A causa del mancato rispetto delle direttive europee nel 2014 la Commissione europea ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia.
L’Italia, onde evitare la condanna, con l’art. 14 della l. n. 161 del 2014, con efficacia dal 25 novembre 2015, abrogando l’art. 17, co. 6 bis, del d.lgs 66 del 2003 ha riallineato la normativa interna a quella eurounitaria. E’ stato, così, previsto un riposo di 11 ore ogni 24, un limite massimo di 48 ore settimanali, 24 ore di riposo settimanale, e 4 settimane di riposo annuale. La l. 161 cit., poi, ha impegnato le Regioni a garantire i servizi attraverso una più efficiente allocazione delle risorse e la riorganizzazione delle strutture e dei servizi.
Ciononostante, gli organici dei sanitari non sono stati riempiti ed il turn over è stato bloccato in forza di legge (l. 311 del 2004, art. 1, co. 180, deliberazione di giunta regionale n. 460 del 2007, l. n. 191 del 2009, art. 2, co. 76).
- Tanto premesso, l’ASL ha eccepito che il diritto del ricorrente non può decorrere, come dallo stesso preteso, dal 2008: la direttiva 2003/88/CE, infatti, non avrebbe carattere self executing e l’ASL non avrebbe potuto violare la normativa nazionale all’epoca in vigore.
- Ad ogni modo l’ASL versava in una situazione di carenza di organico e nell’impossibilità di assumere nuove unità di personale, dovendo, però, al contempo assicurare i livelli essenziali di assistenza con le unità in dotazione.
- Le ore lavorate in più sono state regolarmente pagate. Il numero delle stesse non sarebbe quello allegato dal ma quello risultante dalla relazione del direttore dell’U.O.C.
G.R.U. Esposito dalla quale emerge anche il relativo titolo.
- Molti degli orari risultanti dalla documentazione prodotta risulterebbero non leggibili.
- Per quanto riguarda, poi, la domanda di risarcimento del danno conseguente alla violazione dell’art.7 del D. Lgs. n. 66 del 2003 il quale prevede che il lavoratore abbia diritto a 11 ore di riposo giornaliero consecutivo ogni 24 ore, l’appellata ha osservato quanto segue.
In primo luogo, quanto all’individuazione dell’orario di lavoro l’orario risultante dalle timbrature non è necessariamente coincidente con l’orario di lavoro effettivo, potendo ricomprendere anche tempi dedicati ad attività non funzionali all’attività lavorativa.
In secondo luogo, l’art.7 del D.lgs. 66/03 prevede la possibilità di deroga alla fruizione del riposo frazionato, nel caso di attività caratterizzate “da regimi di reperibilità”. Il ricorrente si sarebbe limitato a dedurre apoditticamente di non aver fruito del risposo minimo giornaliero di 11 ore, rinviando alla consulenza tecnica in atti, dalla quale nulla emergerebbe in ordine all’eventuale incidenza di turni di reperibilità sull’interruzione del riposo.
In terzo luogo, il riferimento per il calcolo delle 11 ore non potrebbe essere dalle 00:00 alle 24:00, ma dovrebbe essere dall’inizio della prestazione lavorativa.
- In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo minimo di 24 ore ogni 7 giorni di lavoro l’appellata ha osservato che il ricorrente non avrebbe allegato che i periodi di “lavoro ininterrotto” siano superiori ai 14 giorni utili per verificare se vi sia stata una violazione.
- In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento delle 48 ore settimanali di cui all’articolo 4, comma 2 del D.Lgs. 66/2003 l’appellata ha osservato che la media andrebbe calcolata su un periodo di 4 mesi, ai sensi dell’articolo 4, comma 3, del D.Lgs. 66/2003.
- In relazione alla domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento per il lavoro notturno delle 8 ore in media, per periodi di 24 ore l’appellata ha osservato che il ricorrente si sarebbe limitato a formulare allegazioni generiche, senza indicare specificamente in relazione ai quali turni si è avuto lo sforamento ed in che termini concreti, in relazione al singolo turno, vi sarebbe stato il superamento del limite orario. Peraltro, in tema di lavoro notturno, l'art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e l'art. 13 del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, consentirebbe alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità dell'orario di lavoro notturno con eventuale superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
Sul diritto al risarcimento del danno l’appellata lo ha escluso, oltre che per l’assenza delle denunciate violazioni, anche perché le ore supplementari sono state regolarmente pagate, il lavoratore non ha mai rivendicato alcunché mostrando, così, di prestare acquiescenza, sarebbero, comunque, carenti le allegazioni, prima che le prove sui danni subiti.
Non si sono costituiti gli altri convenuti.
Il fascicolo è stato assegnato al nuovo relatore (assegnatario dell’intero ruolo a decorrere dal 9.6.2023), con udienza già fissata per il 21 settembre 2023, sostituita dalla trattazione scritta ex artt.127 c.3, 127 ter cpc. e successivamente rinviato.
All’odierna udienza, acquisite le note dei procuratori delle parti, la Corte ha deciso la causa con trattazione scritta come da dispositivo in atti.
Diritto
L’appello del è parzialmente fondato.
1. La mancata fruizione del riposo minimo di 11 ore consecutive ogni 24.
- L’orario di lavoro effettivo. I periodi dedicati ad altre attività durante l’orario di lavoro.
E’, innanzitutto, fondato il motivo di appello con il quale il ha contestato la decisione di primo grado relativamente alla domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo minimo di 11 ore consecutive.
Sul punto la sentenza di prime cure ha osservato che l’orario risultante dalle timbrature non è necessariamente coincidente con l’orario di lavoro effettivo, potendo ricomprendere anche tempi dedicati ad attività non funzionali all’attività lavorativa.
L’ASL Napoli 3 Sud ha difeso la decisione sostenendo che il tempo non dedicato direttamente alla prestazione lavorativa, sebbene formalmente rientrante nell’orario di lavoro, non possa ritenersi in esso incluso.
L’affermazione non è condivisibile.
La direttiva 93/104/CE, nell’individuare la nozione di orario di lavoro ai fini dell’applicazione delle tutele in essa previste, si riferisce a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni [...]”; la nozione di periodo di riposo è individuata, in negativo, in relazione a quella di orario, ed è indicata in “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro” (art. 2, nn. 1 e 2).
La Corte di giustizia, nella sua funzione interpretatrice, ha precisato (sentenza del 9 settembre 2003, C-151/02 Jaeger; confermata dalla sentenza del 11 gennaio 2007, n. 437 C-437/05)) che si tratta di “nozioni di diritto comunitario che occorre definire secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alle finalità della detta direttiva”. Ciò significa che i singoli Stati membri non possono “definire unilateralmente la portata di tale nozione”, né “subordinare a qualsivoglia condizione il diritto dei lavoratori a che i periodi di lavoro e, correlativamente, quelli di riposo siano tenuti in debito conto”.
La Corte si è pronunciata sulla definizione dell’orario di lavoro proprio nell’ambito della qualificazione del servizio di guardia di un medico ospedaliero. Tale servizio richiedeva la presenza fisica nella struttura, l’effettuazione delle prestazioni eventualmente necessarie. Nel reparto era presente una stanza con letto nella quale poteva dormire quando non erano richieste le sue prestazioni.
Alla luce di ciò, la Corte ha chiarito che al fine di stabilire se un certo periodo di servizio rientri nella nozione di orario di lavoro, occorre che sussistano gli obblighi di “essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità”; tali doveri rendono “impossibile ai medici interessati di scegliere il luogo in cui stare durante le [eventuali] attese, rientrano nell’esercizio delle loro funzioni”. La Corte ha precisato che rientrano nell’orario di lavoro anche le fasi temporali in cui il lavoratore riposi o, addirittura, dorma.
Il giudice europeo ha, infatti, chiarito che “la possibilità, per i medici che svolgono un servizio di guardia secondo il regime della presenza fisica in ospedale, di riposarsi, e anche di dormire, durante i periodi in cui non si richiede la loro opera è irrilevante al riguardo”. “Siffatti periodi di inattività professionale ineriscono infatti al servizio di guardia effettuato dai medici secondo il regime della presenza fisica in ospedale, dato che, a differenza del normale orario lavorativo, la necessità di interventi urgenti dipende dalle circostanze e non può essere preventivamente programmata”. Il lavoratore, essendo comunque costretto a “restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale” e risultando limitata la sua libertà di gestire il proprio tempo, non può ritenersi in riposo anche quando materialmente non eroghi una prestazione o, addirittura, dorma.
Tale interpretazione, continua la Corte di giustizia, “non può essere rimessa in discussione dalle obiezioni relative alle conseguenze di ordine economico e organizzativo” che deriverebbero da tale interpretazione. Emerge, infatti, dal quinto 'considerando' della direttiva 93/104 che «il miglioramento della sicurezza, dell'igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico».
Escludere, pertanto, dalla nozione di «orario di lavoro» le ore di guardia svolte secondo il regime della presenza fisica sul luogo di lavoro equivarrebbe a rimettere in discussione l’obiettivo della direttiva 2003/88, che è quello di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, facendo in modo che essi possano beneficiare di periodi minimi di riposo e di adeguati periodi di pausa (v. CGUE sentenza del 21 febbraio 2018, C-518/15, sentenza del 3 ottobre 2000, Simap, C‑303/98, EU:C:2000:528, punto 49).
Alla luce di quanto premesso deriva che il periodo di servizio di guardia che svolgono i medici ospedalieri secondo il regime della presenza fisica nel centro sanitario, dev'essere interamente considerato come rientrante nell'orario di lavoro, indipendentemente dalle prestazioni lavorative realmente effettuate, anche, quindi, se il medico ha dedicato una parte dell’orario al sonno. La Corte, infatti, non qualifica l’eventuale addormentamento del sanitario come “periodo di riposo”, ai sensi della direttiva. Questo, infatti, non ricorre solo in assenza della prestazione lavorativa ma deve ricorrere, altresì, il requisito dell’adeguatezza.
L’art. 2, n. 9, della direttiva 88 del 2003, infatti, qualifica come «riposo adeguato»: “il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l'organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine”. E’ evidente, quindi, che il riposo discontinuo durante un turno di guardia ospedaliero non può ritenersi connotato dall’adeguatezza, per cui deve rientrare nell’ambito dell’orario di lavoro, né sarebbe legittimo un sistema di calcolo solo parziale (e non integrale) delle ore di presenza ‘inattiva’ sul luogo di lavoro (CGE, sentenza del 1 dicembre 2005, C-14/2004, Dellas). Tale impostazione è stata confermata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 34125 del 2019 la quale, rinviando alle motivazioni della Corte di giustizia, a partire dalla sentenza SIMAP del 3 ottobre 2010 (C- 303/98) e successivamente confermate, ha sottolineato come gli elementi caratteristici della nozione di "orario di lavoro" sono da individuarsi nell'obbligo di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la propria opera, “anche nel caso in cui sia a messa a disposizione del medico sul luogo di lavoro una stanza con un letto per riposare nei periodi di inattività: così sent. 9.9.2003 cit., relativa al servizio di guardia degli assistenti medici organizzato dal Comune di Kiel”.
A maggior ragione devono ritenersi ricompresi nell’orario di lavoro i periodi, non collocati nel servizio di guardia ma nell’orario ordinario, durante i quali occasionalmente capiti che il sanitario non debba erogare la prestazione non essendo la stessa richiesta dalle esigenze del reparto.
- La derogabilità dei riposi giornalieri.
L’appellante ha contestato, poi, la sentenza di primo grado nella parte in cui ha rigettato la domanda evidenziando che l’art.7 del D.lgs. 66/03 prevede la possibilità di deroga alla fruizione del riposo frazionato, nel caso di attività caratterizzate “da regimi di reperibilità”.
In particolare, ha affermato il tribunale di Torre Annunziata, il comma 10 dell’art. 28 del CCNL del comparto sanità, relativo al triennio 2016-2018, destinato per volontà delle parti contrattuali ad avere efficacia a partire da data anteriore alla stipulazione, attuando detta deroga, ha previsto che a fronte di una interruzione del riposo per chiamata in reperibilità, il lavoratore debba successivamente fruire delle sole ore mancanti di riposo e non ricominciare da capo l’intero periodo di riposo. Qualora non sia possibile recuperare immediatamente dopo il servizio le ore mancanti per il compimento delle 11 ore di riposo, “quale misura di adeguata protezione, le ore di mancato riposo saranno fruite, in un’unica soluzione, nei successivi sette giorni, fino al completamento delle undici ore di riposo”. Il ricorrente si sarebbe limitato a dedurre apoditticamente di non aver fruito del risposo minimo giornaliero di 11 ore, rinviando alla consulenza tecnica in atti, dalla quale nulla emergerebbe in ordine all’eventuale incidenza di turni di reperibilità sull’interruzione del riposo.
Sul punto la censura dell’appellante coglie nel segno.
Occorre, a questo punto, innanzitutto valutare i limiti del potere derogatorio riconosciuto dalla direttiva europea agli ordinamenti statali.
Risulta dalla giurisprudenza della Corte (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010) che, alla luce del tenore della direttiva 2003/88, dei suoi obiettivi e della sua economia, “le varie prescrizioni ivi enunciate in materia di periodi minimi di riposo, come quella di cui all'art. 3, costituiscono disposizioni della normativa sociale dell'Unione che rivestono importanza particolare e di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quale prescrizione minima necessaria per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute” (v., in particolare, sentenze BECTU, cit., punti 43 e 47, nonché 7 settembre 2006, causa C-484/04, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-7471, punto 38).
Tenuto conto dell'obiettivo principale della direttiva 2003/88, che è quello di proteggere in modo efficace la sicurezza e la salute dei lavoratori, ognuno di essi “deve, in particolare, beneficiare di periodi di riposo adeguati che, oltre ad essere effettivi, consentendo alle persone interessate di recuperare la fatica dovuta al lavoro, devono anche rivestire un carattere preventivo tale da ridurre il più possibile il rischio di alterazione della sicurezza e della salute dei lavoratori che l'accumulo di periodi di lavoro senza il necessario riposo può rappresentare” (sentenze 9 settembre 2003, causa C-151/02, Jaeger, Racc. pag. I-8389, punto 92, e Commissione/Regno Unito, cit., punto 41).
E’ alla luce di tale ratio che eventuali normative o provvedimenti derogatori, ai sensi dell’art. 17 della direttiva, devono essere valutati.
La Corte di giustizia (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010) ha chiarito che, in quanto eccezioni al regime dell'Unione in materia di organizzazione dell'orario di lavoro, previsto dalla direttiva 2003/88, tali deroghe devono avere carattere di eccezionalità e sono di stretta interpretazione: “devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che esse permettono di proteggere” (v. sentenza Jaeger, cit., punto 89).
Più di recente (CGUE da C-529/21 a C-536//21 e da C-732/21 a C-738/21 sentenza del 4 maggio 2023, C-337/10 sentenza del 3 maggio 2012; si veda anche C-518/15 sentenza del 21 febbraio 2018 n. 518) la Corte ha evidenziato e chiarito il concetto di eccezionalità, dichiarando che l’ambito di applicazione della direttiva “deve essere inteso in modo ampio, con la conseguenza che le deroghe a tale ambito d’applicazione […] devono essere interpretate restrittivamente (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 3 ottobre 2000, Simap, C‑303/98,Racc. pag. I‑7963, punti 34 e 35, nonché del 12 gennaio 2006, Commissione/Spagna, C‑132/04,punto 22). Infatti, tali deroghe sono state adottate soltanto allo scopo di garantire il buon funzionamento dei servizi indispensabili alla tutela della sicurezza, della salute e dell’ordine pubblico in caso di circostanze di gravità e di ampiezza eccezionali (sentenza del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C‑397/01 a C‑403/01, Racc. pag. I‑8835, punto 55, e ordinanza del 7 aprile 2011, May, C‑519/09, Racc. pag. I‑2761, punto 19)”. La sentenza del 2023 (in tema di rapporto di lavoro dei vigili del fuoco, applicabile per identità di ratio anche al lavoro dei sanitari) ha ulteriormente precisato che benché determinati servizi debbano affrontare eventi che, per definizione, non sono prevedibili, le attività a cui tali servizi danno luogo in condizioni abituali – e che corrispondono, del resto, esattamente alla missione che è stata impartita a siffatti servizi – possono comunque essere organizzate preventivamente, anche per quanto riguarda gliorari di lavoro del loro personale (sentenza del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C- 403/01, EU:C:2004:584, punto 57). Alla luce dei chiarimenti della Corte di giustizia emerge, quindi, che la eccezionalità non può essere invocata, per giustificare deroghe alle norme sui riposi, quando le condizioni di criticità derivino dalla errata gestione del personale o dalla carenza dello stesso creata dalla errata programmazione dei fabbisogni da parte dello Stato. Tali condizioni, infatti, rientrano, comunque, nell’esercizio dell’attività in “condizioni abituali” e non integrano quell’eccezionalità che ricorre, invece, solo in casi che costituiscono un’eccezione alla normalità per un tempo determinato a causa di particolari e gravi circostanze, quindi straordinari, singolari, insoliti.
Nel campo dei sanitari le deroghe possibili sarebbero quelle di cui all’art. 17, paragrafo 3, lett. c), sub i).
Innanzitutto, però, le stesse sono espressamente subordinata alla condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo, oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, che venga loro concessa una protezione appropriata.
Risulta, poi, dalla giurisprudenza della Corte (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010) che “gli «equivalenti periodi di riposo compensativo» ai sensi dell'art. 17, n. 2, della direttiva 2003/88, per poter essere conformi sia a tali definizioni sia all'obiettivo di tale direttiva […]”, devono essere effettivi ed adeguati; devono, cioè, “caratterizzarsi per il fatto che il lavoratore, durante tali periodi, non è soggetto, nei confronti del suo datore di lavoro, ad alcun obbligo che gli possa impedire di dedicarsi, liberamente e senza interruzioni, ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell'interessato”. I riposi compensativi devono, poi, necessariamente “essere immediatamente successivi all'orario di lavoro che sono intesi a compensare”; non sarebbe, cioè, legittimo differire il riposo perché in tal modo lo stesso verrebbe meno al suo fine “di evitare uno stato di fatica o di sovraccarico del lavoratore dovuti all'accumulo di periodi di lavoro consecutivi (v. sentenza Jaeger, cit., punto 94)”. La Corte di giustizia ha chiarito che tale necessità è legata non solo ad ottenere “un'efficace tutela della salute del lavoratore”, ma anche a “garantire la sicurezza” della prestazione erogata. “Deve pertanto essere prevista, di regola, un'alternanza di un periodo di lavoro e di un periodo di riposo. Infatti, per potersi effettivamente riposare, il lavoratore deve beneficiare della possibilità di sottrarsi al suo ambiente di lavoro per un certo numero di ore che non solo devono essere consecutive, ma anche venire subito dopo un periodo di lavoro, per consentire all'interessato di rilassarsi e smaltire la fatica connessa all'esercizio delle proprie funzioni. Tale esigenza risulta ancor più necessaria quando, in deroga alla regola generale, l'orario di lavoro normale giornaliero è prolungato dallo svolgimento di un servizio di sorveglianza (sentenza Jaeger, cit., punto 95)”.
Nella sentenza C—180/14 del 23 dicembre 2015 la Corte, con specifico riferimento ai sanitari, ha ribadito che “l’aumento dell’orario di lavoro giornaliero che, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2003/88, gli Stati membri possono effettuare, riducendo la durata del riposo concesso al lavoratore durante una giornata lavorativa prestata deve in linea di principio essere compensato mediante la concessione di periodi equivalenti di riposo compensativo, costituiti da un numero di ore consecutive corrispondente alla riduzione operata e di cui il lavoratore deve beneficiare prima di iniziare il periodo lavorativo successivo. In linea generale, il fatto di concedere tali periodi di riposo solo in “altri orari”, non avendo più un nesso diretto con il periodo di lavoro prolungato dovuto all'attività straordinaria, non tiene adeguatamente conto della necessità di rispettare le principi generali di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori che costituiscono il fondamento del sistema di organizzazione dell'orario di lavoro dell'Unione (v., in tal senso, sentenza Jaeger, C‑151/02, EU:C:2003:437, punto 97)”. Né potrebbe, in senso contrario, invocarsi la formulazione dell'art. 17, n. 2, della direttiva 2003/88, laddove consente che sia concessa al lavoratore un'altra «protezione appropriata» in luogo dei riposi compensativi immediati: la Corte, infatti, ha chiarito che tale possibilità è ammessa “soltanto in casi eccezionali” e tuttavia “ciò non toglie che” tali alternative protezioni appropriate “devono comunque garantire il rispetto dei principi della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori” (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010, v., per analogia, sentenza Jaeger, cit., punto 98). “Anche se l'art. 17, n. 2, della direttiva 2003/88 deve quindi essere interpretato nel senso che conferisce un certo margine di discrezionalità agli Stati membri e, eventualmente, alle parti sociali al fine di stabilire, in casi eccezionali, una protezione appropriata per i lavoratori interessati, nondimeno tale protezione, che riguarda la sicurezza e la salute dei lavoratori, è anche volta, come il periodo minimo di riposo giornaliero previsto all'art. 3 di tale direttiva o il periodo equivalente di riposo compensativo previsto al suo art. 17, n. 2, a consentire ai detti lavoratori di rilassarsi e smaltire la fatica connessa all'esercizio delle loro funzioni”.
La Corte ha chiarito che è lasciato un certo margine di discrezionalità agli Stati membri per quanto riguarda le misure appropriate da attuare (sentenza del 24 febbraio 2022, Glavna direktsia «Pozharna bezopasnost i zashtita na naselenieto», C-262/20, EU:C:2022:117, punto 48 e giurisprudenza ivi citata) e, però, tale obbligo deve essere attuato in modo da conseguire gli obiettivi di tutela fissati dalla direttiva stessa (CGUE da C-529/21 a C-536//21 e da C-732/21 a C-738/21 sentenza del 4 maggio 2023).
In altri termini quella che appare come una clausola aperta, e che sembrerebbe consentire di aggirare la regola dei riposi compensativi immediati, in realtà è stata restrittivamente interpretata dalla Corte di giustizia la quale ha chiarito che una normativa o un provvedimento nazionali che la applicassero senza tener conto degli effetti sulla salute dei lavoratori si esporrebbe ad una censura di anticomunitarietà con ogni conseguenza in punto di interpretazione conforme, disapplicazione e tutela risarcitoria (ed infatti nella citata sentenza del 2010 la Corte di giustizia ha ritenuto non costituire protezione appropriata una normativa francese che escludeva i riposi compensativi senza farsi carico, in maniera adeguata, della tutela della salute dei lavoratori; la normativa francese, infatti, “non solo svuota di sostanza un diritto individuale espressamente conferito da tale direttiva, ma è altresì in contrasto con l'obiettivo di quest'ultima (v., in tal senso, con riferimento all'art. 7, n. 1, della direttiva 2003/88, sentenza BECTU, cit., punto 48)”).
Nel settore della dirigenza medica il potere derogatorio non è stato esercitato dal legislatore e nemmeno, in maniera compiuta, dalla contrattazione collettiva dopo la riforma del 2014.
Ed infatti, come premesso, i CC.NN.LL. del periodo 2016-2019 e 2019-2021 si limitano a prevedere che nel caso in cui ricorrano “ragioni eccezionali”, e, quindi, non sia possibile rispettare la normativa sul riposo compensativo, “quale misura di adeguata protezione, le ore di mancato riposo saranno fruite nei successivi sette giorni fino al completamento delle undici ore di riposo” (art. 24, co. 15).
A bene vedere la previsione contrattuale non fa che ripetere la norma europea richiamando il presupposto della eccezionalità al fine di giustificare la deroga al riposo compensativo immediatamente successivo e individuando come unico limite quello del godimento non oltre sette giorni. Senza chiarire quali siano le condizioni di eccezionalità si rimette, in sostanza, la scelta, e la responsabilità, al dirigente della struttura il quale dovrà, pertanto, motivare la deroga al riposo e alla fruizione immediata di quello compensativo, chiarire quali siano le ragioni eccezionali (non prevedibili, non rientranti nelle condizioni abituali, legate a particolari e gravi circostanze).
Nel periodo antecedente alla riforma del 2014, che pure viene qui in rilievo in quanto l’appellante lamenta violazioni ascrivibili anche a tale periodo, il decreto legge 112 del 2008 ha derogato alle tutele previste dalla normativa eurounitaria e nazionale, limitatamente al settore medico e sanitario: l’art. 41, comma 1,3 del citato D.L. 25-6-2008 n. 112 ha disposto la non applicazione ai dirigenti medici degli artt. 4 (durata massima dell’orario di lavoro) e 7 (riposo giornaliero) del D Lgs 66/2003 superando, quindi, i limiti del monte ore settimanale (48 ore di lavoro settimanali) e di riposo giornaliero (11 ore consecutive nell’arco di 24 ore dall’inizio dell’attività lavorativa), previsti dalle Direttive.
La normativa prevedendo un’eccezione secca all’applicazione delle norme sui riposi si è posta in palese violazione della direttiva europea e della sua ratio. La Commissione Europea, infatti, ha avviato una procedura di infrazione presso la Corte di Giustizia Europea contro l’Italia (procedura di infrazione n. 2011/4185) ritenendo che le deroghe ai massimali di durata del lavoro, voluta dal legislatore italiano per l’esigenza di garantire la reperibilità del personale per le guardie mediche si fosse spinta indebitamente oltre i limiti consentiti dalla direttiva non potendo, se non formalmente, qualificarsi i medici del servizio pubblico come “dirigenti”.
Alla luce di quanto premesso, nel caso de quo, deve rilevasi che l’ASL resistente non ha allegato situazioni di eccezionalità legate al caso concreto, non ha provato che il dirigente della struttura abbia motivato la deroga al riposo e alla fruizione immediata di quello compensativo, o abbia chiarito quali siano le ragioni eccezionali (non prevedibili, non rientranti nelle condizioni abituali, legate a particolari e gravi circostanze). Così facendo si è sottratta all’onere sulla stessa gravante trattandosi, infatti, di circostanze che per la loro eccezionalità hanno una natura derogatoria di diritti costituzionali e di rilievo eurounitario, ed un effetto estintivo e modificativo degli stessi.
- Ancora, non appare condivisibile la sentenza di prime cure laddove ha basato la decisione anche sul dato che dalla stessa consulenza di parte risulterebbe che molti orari di inizio e fine turno risultano non leggibili.
La circostanza, infatti, è incontestata, ma il CTU ne ha tenuto conto escludendo tali periodi dal computo.
- Nemmeno, infine, coglie nel segno la decisione appellata laddove argomenta sui difetti di compiuta allegazione degli elementi rilevanti. Le allegazioni, infatti, risultano sufficienti. In primo grado il non solo ha descritto la violazione ma ha indicato anche il numero di giorni ed ore che, poi, risultano, specificamente indicati nella perizia allegata.
Alla luce di quanto premesso risulta, dunque, integrata la violazione della normativa nazionale ed eurounitaria sui riposi giornalieri. La sussistenza del danno deriva, come emerge dalla giurisprudenza europea, dalla mancata fruizione del riposo che, di per sé, integra un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Ne consegue il diritto al risarcimento del danno.
In linea generale, infatti, (cfr., Cass. Sez. L, Sentenza n. 16711 del 5/8/2020, n. 24563 del 1/12/2016, n. 17966 del 13/9/2016, n. 14710 del 14/7/2015, n. 21225 del 20/10/2015, n. 2886 del 10/02/2014) il danno da stress, o usura psicofisica, si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l'onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.
Con specifico riferimento al lavoro prestato in violazione dei limiti orari, peraltro, questa la Suprema Corte ha ritenuto (Sez. L, Sentenza n. 16398 del 20/08/2004, Rv.576013) di distinguere il danno da "usura psico-fisica", conseguente alla mancata fruizione del riposo, dall'ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una "infermità" del lavoratore determinata dall'attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali e che nella prima ipotesi, a differenza che nella seconda ipotesi, il danno sull'"an" deve ritenersi presunto (così anche Sez. L, Sentenza n. 2455 del 04/03/2000, Rv.534580).
La soluzione si spiega in considerazione della circostanza che nella fattispecie l'interesse del lavoratore leso dall'inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell'art. 36 Cost., sicchè la lesione dell'interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno non patrimoniale.
In ordine al quantum, può farsi utile riferimento alla retribuzione oraria prevista per i dirigenti medici e, quindi, ai calcoli effettuati nella perizia di parte agli atti in quanto i conteggi proposti non sono stati specificamente contestati dall’ASL.
Degli stessi vanno considerate le differenze calcolate con riferimento alla retribuzione mensile e a quella di posizionamento in quanto solo una valutazione complessiva della stessa è idonea a caratterizzare la prestazione erogata e, quindi, il danno da mancato riposo.
L’Asl va, pertanto, condannata al pagamento della somma di euro 32.449,42, oltre rivalutazione e interessi dal dovuto al saldo.
2. La mancata fruizione del riposo minimo di 24 ore ogni 7 giorni.
E’ infondato, invece, il motivo di appello relativo al rigetto della domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata fruizione del riposo minimo di 24 ore ogni 7 giorni di lavoro la sentenza ha osservato quanto segue.
L’art. 9 D.lgs. 66 del 2003 prevede che “il suddetto periodo di riposo è calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni”.
La sentenza di prime cure ha fondato la reiezione dell’istanza risarcitoria sul dato che il ricorrente non avrebbe allegato che i periodi di “lavoro ininterrotto” siano stati superiori ai 14 giorni utili per verificare se vi sia stata una violazione.
L’appellante, al riguardo, ha osservato che, invece, le allegazioni riportate in ricorso sarebbero puntuali e non generiche. L’atto introduttivo rinvia alla CTP dalla quale emerge che nel periodo dal 2008 al 2016 le ore di mancato riposo ammontano a 146. Dai cartellini marcatempo emerge che in nessun caso si rinviene un recupero nella settimana successiva. Del resto, l’ASL avrebbe dovuto fornire prova del recupero del mancato riposo nell’arco dei 14 giorni e a tale onere si è sottratta.
La censura non coglie nel segno.
L’art. 9 nel prevedere che “il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive” ha anche chiarito che “il suddetto periodo di riposo consecutivo e' calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni”.
La norma applica il principio dettato dalla direttiva 2003/88 che all’art. 16 prevede che “per l'applicazione” del riposo settimanale gli stati “possono prevedere” “un periodo di riferimento non superiore a 14 giorni”.
La norma, pertanto, prevede il calcolo su base bisettimanale non come eccezione alla regola, nel qual caso l’onere allegatorio e probatorio sarebbe stato in capo all’amministrazione, ma come elemento costitutivo del diritto al riposo.
Orbene, nel caso de quo, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, il ricorrente in primo grado, ha semplicemente allegato la mancata fruizione del riposo settimanale di 24 ore (cui correttamente ha sommato quello giornaliero; si veda CGUE 477 del 2023) senza allegare, invece, il periodo medio di 14 giorni. Né tale elemento è rinvenibile dalla CTU. Né è possibile, in assenza di allegazioni in primo grado, ricavare il dato dai cartellini marcatempo.
La domanda, pertanto, in parte qua è infondata.
3. Il superamento del limite delle 48 ore settimanali.
Pure infondato è il motivo di appello spiegato in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno conseguente al superamento delle 48 ore settimanali di cui all’articolo 4, comma 2 del D.Lgs. 66/2003.
Sul punto la sentenza ha osservato che la media delle 48 ore andrebbe calcolata su un periodo mobile di 4 mesi, ai sensi dell’articolo 4, comma 3, del D.Lgs. 66/2003. Considerato, quindi, che il periodo da considerare non è la singola settimana ma è il quadrimestre (se nel periodo non vi sono state ferie né malattie), difetterebbe nel ricorso tale prospettazione.
L’appellante ha contestato che il limite risulterebbe superato anche tenendo conto di un calcolo esteso ai quattro mesi. Le allegazioni articolate al riguardo nel ricorso di primo grado, lungi dall’essere generiche, sarebbero, invece, puntuali. La perizia di parte, infatti, riporterebbe le risultanze emergenti dai cartellini marcatempo.
Inoltre, il calcolo basato su quattro mesi non sarebbe imposto dalla norma ma sarebbe solo un limite massimo reso dalla stessa possibile, applicandosi, altrimenti, quello ordinario settimanale. Nel caso de quo non ci sarebbe stata prova dell’esistenza di contrattazione o determinazioni in tal senso né di circostanze giustificative.
L’eccezione non coglie nel segno.
L’art. 6 della direttiva citata prevede che “la durata media dell'orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario”.
Il successivo art. 16 ha disposto che “Gli Stati membri possono prevedere”, “per l'applicazione dell'articolo 6”, “un periodo di riferimento non superiore a quattro mesi”.
Il legislatore italiano (art. 4 d.lgs. 66/2003) ha previsto che “la durata media dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi” e che “i contratti collettivi di lavoro possono in ogni caso elevare il limite di cui al comma 3 fino a sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi”.
Il contratto collettivo 2016-2019 all’art. 24, co. 14, con disposizione poi confermata con la versione del 2019-2021, esercitando il potere riconosciuta dall’art. 4 cit., ha previsto che “Con riferimento all’art.4 del D.Lgs. n. 66/2003, il limite di quattro mesi, ivi previsto come periodo di riferimento per il calcolo della durata media di quarantotto ore settimanali dell’orario di lavoro, comprensive delle ore di lavoro straordinario, è elevato a sei mesi”.
Orbene, la formulazione della norma, nonostante l’infelice formulazione, induce a ritenere che il periodo ordinario di riferimento per il calcolo sia quello di 4 mesi. Tanto si ricava dalla possibilità di elevarlo fino a 12 mesi, prevista dall’art. 4 citato. Possibilità, del resto, realizzatasi con i contratti collettivi, sebbene con disposizione sospetta di illegittimità non essendo legata l’elevazione del periodo, come previsto dalla legge, al ricorrere di obiettive ragioni tecniche che la fonte contrattuale avrebbe dovuto tipizzare e la dirigenza riportare in un’adeguata motivazione.
Essendo, quindi, il periodo di 4 mesi connotato dal carattere dell’ordinarietà, ne deriva che il ricorrente avrebbe dovuto allegare la violazione del limite su tale arco temporale.
Orbene, nel caso de quo, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, il ricorrente in primo grado, ha semplicemente allegato la violazione della norma senza allegare, invece, il periodo medio di 4 mesi. Né tale elemento è rinvenibile dalla CTU. Né è possibile, in assenza di allegazioni in primo grado, ricavare il dato dai cartellini marcatempo.
4. Lo svolgimento di lavoro notturno per più di otto ore per periodi di 24 ore.
E’, infine, fondato il motivo di appello con il quale il ha contestato la decisione di primo grado relativamente alla domanda di risarcimento del danno conseguente allo svolgimento di lavoro notturno per più di otto ore per periodi di 24 ore.
La sentenza di primo grado ha affermato che il Ministero del Lavoro avrebbe chiarito che per calcolare tale limite bisogna effettuare una media tra le ore lavorate e non lavorate, anche su un periodo settimanale. Il ricorrente si sarebbe limitato a formulare allegazioni generiche, senza indicare specificamente in relazione ai quali turni si è avuto lo sforamento ed in che termini concreti, in relazione al singolo turno, vi sarebbe stato il superamento del limite orario, in modo da consentire al Tribunale le necessarie verifiche.
Peraltro, in tema di lavoro notturno, l'art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e l'art. 13 del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, consentono alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità dell'orario di lavoro notturno con eventuale superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
L’appellante ha contestato la sentenza eccependo che nel rapporto di lavoro de quo non risulta essere stata adottata dalla contrattazione collettiva alcuna disposizione che parametrasse la media ad un indicatore differente. Nell’atto introduttivo del primo grado il ha allegato in maniera specifica che le ore eccedenti rispetto al limite de quo siano state 2981. La consulenza tecnica prodotta ha predisposto un prospetto dettagliato che ha individuato i turni notturni in questione. Sul punto alcuna eccezione è stata articolata dall’ASL.
La censura del coglie nel segno.
Va, innanzitutto, evidenziato come le allegazioni attore del primo grado, su questo punto, non appaiono generiche o insufficienti.
Il ricorrente, infatti, ha indicato il numero dei giorni nei quali c’è stato lo sforamento del limite e, nella perizia, tale numero complessivo è stato specificato anno per anno.
Nel merito non vi è stata specifica contestazione da parte dell’ASL sulle allegazioni attoree.
Coglie nel segno anche la critica alla pronuncia del primo grado laddove la stessa afferma che per verificare il superamento del limite occorre effettuare una media tra le ore lavorate e non lavorate, anche su un periodo settimanale.
Orbene, l’art. 13 del d.lgs. 66 del 2003 prevede chiaramente che “L'orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore”. Le otto ore, quindi, vanno calcolate su base giornaliera. La norma fa, altresì, “salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite”; tale potere, però, nel caso de quo non è stato esercitato dalla fonte contrattuale nazionale, né l’ASL ha allegato diverse fonti locali.
Appare, pertanto, arbitraria e svincolata da un dato positivo l’interpretazione che pretende di calcolare il limite su base settimanale.
Un’interpretazione riduttiva della tutela prevista dalla norma, infatti è da escludere come chiarito dalla Corte di Giustizia UE con sentenza della Sez. 6 del 04 maggio 2023 (in cause riunite da C-529/21 a C-536/21 e da C-732/21 a C-738/21), secondo la quale “l’ambito di applicazione della direttiva 89/391 deve essere inteso in senso ampio, cosicché le deroghe a tale ambito di applicazione, previste all’articolo 2, paragrafo 2, primo comma, della stessa, devono essere interpretate restrittivamente. Infatti, tali deroghe sono state adottate soltanto allo scopo di garantire il buon funzionamento dei servizi indispensabili per la tutela della sicurezza, della salute e dell’ordine pubblico in caso di circostanze di gravità e di ampiezza eccezionali (sentenza del 3 maggio 2012, Neidel, C-337/10, EU:C:2012:263, punto 21 e giurisprudenza ivi citata)”.
Né coglie nel segno la argomentazione secondo la quale, in tema di lavoro notturno, l'art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e l'art. 13 del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, consentono alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità dell'orario di lavoro notturno con eventuale superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
In disparte, infatti, il mancato esercizio del potere di individuazione di un periodo più ampio da parte della fonte contrattuale, è pur vero che sussiste l’esigenza, di pari rango, di assicurare un intervento in prossimità della fine del turno, ovvero di assicurare la copertura del turno successivo. Tale esigenza, però si ricava non dalla normativa in tema di orario notturno ma da quella generale sulla necessità di assicurare l’erogazione di un servizio essenziale a garanzia dei LEA. Si tratta, quindi, di esigenze eccezionali che vanno motivate di volta in volta dalla dirigenza con ordini di servizio e la cui reale esistenza va allegata e provata dal datore di lavoro, trattandosi di fattispecie derogatoria di un diritto di fonte costituzionale e di rilievo eurounitario. Nel caso de quo l’ASL si è sottratta a tale onere allegatorio e probatorio.
Deve ritenersi, pertanto, violato il disposto dell’art. 13 del d.lgs. 66 del 2003; risulta, dunque, integrata la violazione della normativa nazionale ed eurounitaria sul lavoro notturno. La sussistenza del danno deriva, come emerge dalla giurisprudenza europea, dalla mancata fruizione del riposo che, di per sé, integra un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Ne consegue il diritto al risarcimento del danno.
In ordine al quantum, può farsi utile riferimento alla retribuzione oraria prevista per i dirigenti medici e, quindi, ai calcoli effettuati nella perizia di parte agli atti in quanto i conteggi proposti non sono stati specificamente contestati dall’ASL.
Degli stessi vanno considerate le differenze calcolate con riferimento alla retribuzione mensile e a quella di posizionamento in quanto solo una valutazione complessiva della stessa è idonea a caratterizzare la prestazione erogata e, quindi, il danno da mancato riposo.
L’Asl va, pertanto, condannata al pagamento della somma di euro 68.372,77, oltre rivalutazione e interessi dal dovuto al saldo.
Conclusivamente, l’appello va in parte accolto e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l’Asl va condannata al pagamento, in favore del delle somme sopra indicate nella misura di euro 32.449,42 a titolo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del diritto al periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive, e di euro 68.372,77 a titolo di risarcimento del danno conseguente a violazione della normativa sull’orario notturno, oltre rivalutazione ed interessi da dovuto al saldo.
Le spese del doppio grado, atteso l’accoglimento parziale, vanno compensate per la metà e poste per il residuo a carico dell’ASL.
P.Q.M.
La Corte così provvede:
in parziale accoglimento dell’appello condanna l’ASL Napoli 3 Sud al pagamento, in favore di delle somme di euro 32.449,42 a titolo di risarcimento del danno conseguente alla violazione del diritto al periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive, e di euro 68.372,77 a titolo di risarcimento del danno conseguente a violazione della normativa sull’orario notturno, oltre rivalutazione ed interessi da dovuto al saldo.
Condanna l’ASL Napoli 3 Sud, previa compensazione per la metà, al pagamento in favore del della residua metà che quantifica in euro 2.100,00 per il primo grado e in euro
2.500,00 per il secondo grado, oltre spese generali, IVA e CPA, con distrazione. Napoli, 19 settembre 2024
Il Consigliere estensore Il Presidente
Dott. Arturo Avolio Dott.ssa Raffaella Genovese