CONFINDUSTRIA
Memoria sui Disegni di Legge in materia di contrasto alle molestie nei luoghi di lavoro
(D.D.L. nn. 89 - 257 - 671- 813)
 

9 dicembre 2024
 

1. Profili penalistici
Prima di affrontare nel merito il contenuto dei suddetti disegni di legge, occorre preliminarmente precisare quanto segue.
Confindustria, in genere, non prende posizione sulla politica criminale del Paese, al di fuori di ciò che riguarda più propriamente il “diritto penale di impresa”.
I disegni di legge oggetto della presente memoria riguardano un tema estremamente delicato, rispetto al quale Confindustria – come si dirà meglio di seguito – ha da sempre dimostrato sensibilità ed attenzione, ritenendo, però, in ogni caso, che la politica criminale in materia debba rimanere di esclusiva responsabilità del Legislatore.
Ciò premesso, tutti i disegni di legge esaminati – ad eccezione del n. 257 – prevedono l’introduzione di una nuova fattispecie di reato all’interno del Titolo XII del Codice penale, rubricato “Molestie sessuali”.
Per quanto riguarda il contrasto delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, Confindustria ha da sempre ritenuto che il modo più efficace per combattere tale fenomeno riprovevole sia, innanzitutto, la creazione di un’idonea rete di prevenzione.
In questo senso, a nostro avviso, sarebbe opportuno prevedere, in primo luogo, un potenziamento dei centri antiviolenza ed una loro specializzazione. È un dato di realtà infatti che, attualmente, la nostra rete di prevenzione – comunque non sufficiente – è molto più focalizzata sui reati che si commettono in famiglia, che costituisce una fattispecie completamente diversa da quella di cui stiamo trattando, che richiede una specifica preparazione tecnica degli operatori.
Ebbene, come peraltro sottolineato anche dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
1, le Parti sociali hanno responsabilmente avviato un percorso per affrontare e contrastare il fenomeno della violenza e delle molestie nei luoghi di lavoro nel senso ora auspicato. Ciò sia per il tramite della contrattazione collettiva di settore, che per il tramite di accordi interconfederali di portata generale.
In particolare, il senso dell’accordo concluso in materia, nel 2016, tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, in attuazione dell’Accordo quadro europeo del 2007, è esattamente questo: creare dei punti di riferimento validi, al di fuori dall'impresa, perché le persone che pensano di essere state vittime dei comportamenti di cui ci occupiamo, sui luoghi di lavoro, possano rivolgersi con fiducia ad essi e avere assistenza tecnica, psicologica e legale, anche nella fase successiva alla denuncia, che è un momento altrettanto, se non più complesso, di quello della denuncia stessa. Peraltro, con l’occasione del rinnovo del CCNL dei Dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi, si è voluto espressamente richiamare l’accordo per rinnovare l’impegno a rispettarne i contenuti, così come avviene nella contrattazione collettiva di categoria del sistema di rappresentanza di Confindustria.
Ciò posto, comprendendo, ad ogni modo, la scelta del Legislatore di introdurre una fattispecie di reato tipica per l’ipotesi di molestie sessuali – con l’aggravante nel caso in cui il fatto venga realizzato in ambiente lavorativo – riteniamo utile svolgere una riflessione sulle scelte relative alla misura delle pene edittali, nell’ottica del principio della proporzionalità.
Per garantire infatti una condizione minima di razionalità – e, più in generale, al fine non vanificare la finalità rieducativa della pena, prescritta dall’art. 27 Cost., nonché in base al principio di offensività – è necessario, a nostro avviso, dedicare una particolare riflessione sulla proporzione tra sanzione e offesa, avuto riguardo anche ad altre tipologie di reato che potremmo considerare “affini” sotto il punto di vista del diritto tutelato.
La misura della pena prevista per la nuova fattispecie nei disegni di legge esaminati (ossia la reclusione da 2 a 4 anni nel ddl n. 89, fino a 3 anni nel ddl n. 671, da 1 a 3 anni e nel ddl n. 1628 da 6 mesi a 2 anni) potrebbe presentare, a nostro avviso, profili di criticità.
Se confrontate con le cornici edittali previste per reati latamente comparabili, ma che puniscono condotte offensive di molteplici diritti ulteriori rispetto alla dignità della persona (come l’integrità fisica o, addirittura, la vita), le disposizioni in esame rischiano di presentare dei profili di “irragionevolezza” per eccesso. Basti pensare, ad esempio, che le lesioni personali sono punite nel nostro ordinamento con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Tutto ciò viene evidenziato, non certo per chiedere trattamenti di favore per chi realizza comportamenti senz’altro riprovevoli, ma perché venga mantenuto un equilibrio interno al sistema della repressione penale, al fine di preservare i principi costituzionali che governano la materia penalistica nel nostro ordinamento.
Con particolare riferimento, poi, al ddl n. 671, è necessario sollevare perplessità rispetto all’introduzione per il datore di lavoro di un “obbligo di denuncia”, presso le autorità competenti, oltre all’obbligo di procedere sul piano disciplinare, ove venga accertata la realizzazione di una molestia nel luogo di lavoro.
Senz’altro condivisibile è l’obbligo del datore di procedere disciplinarmente nei confronti dell’autore di condotte rientranti nel novero delle molestie, in genere, e sessuali, in particolare. Tale onere, infatti, rientra nell’ambito del più generale obbligo, ex art. 2087 c.c. (sul punto vedi infra), di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Al contrario, non condivisibile, a nostro avviso, oltre che in contrasto con l’assetto del nostro ordinamento penale, è prevedere un obbligo di denuncia a carico del datore di lavoro.
La decisione di attivare le autorità, laddove ve ne siano i presupposti, deve rimanere, a nostro avviso, esclusivamente in capo al soggetto leso e, eventualmente, ai soggetti che sono tenuti a tutelare il corretto funzionamento della giustizia (pubblici ufficiali), non anche ad altri privati in genere (come il datore di lavoro).
Del resto, tra le finalità dell’accordo costituito da Confindustria con Cgil, Cisl e Uil, vi è quella di essere di supporto alla persona che ritiene di esser vittima delle situazioni di cui si tratta, mediante strutture qualificate, anche per la gestione dell’eventuale denuncia, in ragione dei profili di complessità di queste situazioni e della delicatezza degli interessi in rilievo che richiedono, appunto, il coinvolgimento di personale professionalmente preparato.
 

2. Modifiche al D. Lgs.198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna).
I disegni di legge in esame, oltre a prevedere l’introduzione di una nuova fattispecie di reato per le molestie sessuali, propongono, altresì, di “codificare”, sul piano civilistico e giuslavoristico, le fattispecie di “molestie sessuali nei luoghi di lavoro” e di “mobbing”. Alcune delle proposte, nello specifico, propongono di apportare modifiche all’art. 26 del D. Lgs. 198/2006 (d’ora in poi, più semplicemente, Codice pari opportunità).
Sul punto, Confindustria non può non osservare come il Codice delle pari opportunità, per come da ultimo modificato dalla Legge n. 162/2021, già comprenda molte delle disposizioni proposte nei disegni di legge esaminati, che, in alcuni casi, ne ripropongono il contenuto in modo “pedissequo” (ad esempio, cfr. art. 3 ddl. n. 813 e art. 26, comma 3-ter, Codice pari opportunità).
In generale, è opportuno sottolineare – come evidenziato anche dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
2 – che nell’attuale quadro normativo v’è già una definizione di molestie nel luogo di lavoro intese come discriminazioni (cfr. art. 26 Codice pari opportunità, inserito nel Libro III, Titolo I “Pari opportunità nel lavoro”). Precisamente, la disposizione definisce le molestie come “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” e le molestie sessuali come “comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Definizioni che, peraltro, derivano dalla legislazione euro unitaria.
Allo stesso modo, è possibile affermare che il nostro ordinamento già comprende la fattispecie, di elaborazione giurisprudenziale, del “mobbing”, riconducibile alla più generale definizione di discriminazione (cfr. art. 25 Codice pari opportunità, inserito nel Libro III, Titolo I “Pari opportunità nel lavoro”), intesa come “qualsiasi trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che limiti le opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali o l'accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera per ragioni connesse allo stato di gravidanza, di maternità o paternità (o all’esercizio dei relativi diritti), nonché al sesso, all’età anagrafica o alle esigenze di cura personale o familiare, ponendo così il lavoratore o la lavoratrice interessati in una posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri dipendenti.”.
Inoltre, sempre con riferimento alla nozione di discriminazione, l’articolo 2, D. Lgs. 216/2003, definisce il principio di parità di trattamento come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale e afferma che sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, “aventi lo scopo di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”. Il successivo articolo 4-bis dello stesso decreto stabilisce che devono essere considerati come ritorsione o rappresaglia quei comportamenti pregiudizievoli, posti in essere nei confronti della persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento
3.
Pertanto, per assicurare una maggiore certezza del diritto e, quindi, evitare inutili duplicazioni normative, Confindustria ritiene non necessario introdurre ulteriori disposizioni “definitorie”.
Ciò anche tenuto conto del fatto che le proposte dei disegni di legge esaminati tendono ad avere una portata prescrittiva di carattere più rigido e tipizzato dei comportamenti rispetto alle norme esistenti. Il che renderebbe, a nostro avviso, molto più limitata la possibilità di sussumere i fatti concreti in quelli normativamente descritti e, conseguentemente, rischierebbe di creare, con una sorta di eterogenesi dei fini, un vulnus di tutela per i medesimi soggetti offesi, alla luce della complessità e varietà con cui il fenomeno tende a realizzarsi nel concreto.
Al contrario, le attuali disposizioni consentono al Giudice, di volta in volta, di eseguire un’operazione di “sussunzione”, tenendo opportunamente conto delle peculiarità del singolo caso. Le formulazioni proposte nei disegni di legge, infatti, riguardano comportamenti che possono già essere sanzionati, perché rientranti nelle fattispecie vigenti, dal contenuto decisamente più ampio, secondo il noto brocardo per cui “il più contiene il meno”.
Dunque, l’attuale assetto, a nostro avviso, è idoneo ad assicurare una più ampia tutela per le stesse vittime di un complesso fenomeno che si concretizza nelle forme più varie, diversificate e “imprevedibili”.
 

3. Sulla responsabilità del datore di lavoro.
I disegni di legge oggetto della presente memoria prevedono delle disposizioni relative agli obblighi del datore di lavoro, per contrastare il fenomeno delle molestie sessuali nel luogo di lavoro e del “mobbing”. Molte di queste richiamano genericamente l’art. 2087 c.c.
Ancora una volta, Confindustria non può non rilevare il rischio di creare “sovrapposizioni normative”, poco efficaci rispetto all’intento, assolutamente condiviso, di contrastare effettivamente il fenomeno.
Giova in questa sede ricordare, in primo luogo, che l’art. 26 del Codice pari opportunità già dispone espressamente che “[...] 3-ter. I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
A nostro avviso, dunque, appare ampiamente adeguato il quadro normativo vigente. È necessario, pertanto, limitarsi a valorizzare la riconducibilità della responsabilità nell’alveo della responsabilità c.d. “contrattuale”, con ciò che ne consegue soprattutto dal punto di vista dell’onere della prova circa la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento del datore e la lesione del diritto del soggetto offeso.
In altre parole, e ad esempio, è senz’altro ragionevole l’adozione di un adeguato codice disciplinare che consenta di sensibilizzare sul tema la popolazione aziendale e, conseguentemente, indirizzarne i comportamenti nel luogo di lavoro.
Ciò, peraltro, può dirsi già realizzato, anche per il tramite della contrattazione collettiva di settore, posta in essere dagli attori comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, che si dimostra particolarmente avanzata ed attenta sul tema.
Allo stesso modo, è bene sottolineare, come già ricordato, che il sistema delle imprese risulta già adeguatamente impegnato nel porre in essere una rete di prevenzione e protezione di riferimento a favore di quei dipendenti che potrebbero essere “colpiti” da tali problematiche.
Come già previsto anche dall'Accordo europeo in materia, e dall’Accordo Interconfederale attuativo già richiamato, ad esempio, molti sono gli accordi territoriali che prevedono l’attivazione di utili iniziative, come:
- l’adozione dei sistemi “preventivi”, con l’attivazione di un organismo “terzo”, in modo da garantire un’adeguata assistenza da parte di operatori specializzati e, soprattutto, portare al di fuori del contesto aziendale la gestione della fattispecie;
- l’adozione di sistemi interni “di richiamo” che consentono di intervenire in maniera tempestiva, senza la necessità di rispettare rigide formalità e, quindi, al di fuori del contesto disciplinare vero e proprio, ai primi eventuali “segnali” di fenomeni disdicevoli. Ciò con lo scopo di tentare, per quanto nelle possibilità del datore di lavoro, di fermare sul nascere problematiche di tal genere, sempre nel rispetto della riservatezza e dignità dei soggetti coinvolti.
Resta in ogni caso fermo, che è onere del datore, una volta accertati i fatti denunciati, agire disciplinarmente nei confronti del responsabile. A nostro modo di vedere, però, a tal fine non risulta necessaria l’introduzione di alcuna norma ad hoc, in quanto, ad esempio, i codici disciplinari dei contratti collettivi di lavoro delle organizzazioni comparativamente più rappresentative – che disciplinano la maggior parte dei rapporti di lavoro privato nel nostro Paese – già ricollegano ai comportamenti illeciti di cui trattasi specifici provvedimenti disciplinari.
Sotto il profilo della natura contrattuale della responsabilità, poi, occorre sottolineare quanto segue.
Un generico riferimento alla responsabilità del datore di lavoro per qualsiasi fattispecie di molestie e/o “mobbing”, che avvengano nel posto di lavoro, potrebbe condurre ad esiti non pienamente compatibili con i principi generali che governano la responsabilità civile nel nostro ordinamento.
In questo senso, è quantomeno opportuno distinguere a seconda che i fenomeni in questione avvengano a livello “verticale” o “orizzontale”.
Nel primo caso, la condotta illecita è posta in essere direttamente dal datore di lavoro e, quindi, nulla quaestio sulla sussistenza e sulla natura contrattuale della relativa responsabilità civile.
Nel secondo caso, invece, la condotta interviene nell’ambito dei rapporti interpersonali tra colleghi di pari o diverso livello, esulando dall’ambito di applicazione degli obblighi
contrattuali del datore di lavoro e configurandosi, invece, il profilo della responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.) in capo al lavoratore che ha realizzato il comportamento molesto.
Ebbene, in quest’ultimo caso, il riferimento di legge, sic et simpliciter, alla responsabilità ex art. 2087 c.c. è evidentemente improprio, in quanto conferma una responsabilizzazione senza colpa del datore di lavoro.
Infatti, come chiarito di recente dalla Corte di Cassazione, l’art. 2087 c.c. «non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento» (ex multis, Cass. Civ., Sez. Lav., 31049/2022) e non obbliga il datore a garantire «un ambiente di lavoro a “rischio zero”» (Cass. Civ., Sez. Lav., 3282/2020).
Addossare, genericamente, al datore di lavoro la responsabilità per fatti dei propri dipendenti, anche laddove siano frutto di una iniziativa estemporanea e imprevedibile degli stessi, priva di qualsiasi nesso con le mansioni ad essi affidate, rischia di attribuire impropriamente alla disposizione in esame una natura oggettiva. Ciò perché, in questi frangenti, viene a mancare del tutto quel nesso causale che è l’unico presupposto che può giustificare una attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro.
È sempre necessario infatti che, per potersi configurare la responsabilità del datore di lavoro (per condotte dei propri dipendenti rientranti nelle ipotesi di molestie e “mobbing”), al comportamento del lavoratore si accompagni un comportamento colposo del datore che non abbia attuato idonee misure di prevenzione e protezione per la realizzazione di un ambiente sicuro per il proprio personale.
Pertanto, è necessario quantomeno chiarire che il datore di lavoro non risponderà in tali casi, ai sensi dell’art. 2087 c.c., laddove dimostri di aver dato corso alle iniziative di prevenzione e protezione ai sensi dell’art. 26, comma 3-ter, Codice pari opportunità, e/o a quelle derivanti dall’Accordo stipulato dalle parti sociali nel 2016, attuativo dell’Accordo quadro del 2007.
 

4. Profili di salute e sicurezza sul lavoro.
Per quanto riguarda i riferimenti alla valutazione dei rischi (D. Lgs. n. 81 del 2008) e alle misure da adottare per la prevenzione dei rischi collegati alle condotte vessatorie, la natura dolosa dei comportamenti supera i concetti di fondo della prevedibilità e prevenibilità.
Restano fermi, naturalmente, quei profili informativi, legati alla politica aziendale e alla rete di protezione di matrice contrattuale alla quale si faceva riferimento in precedenza.
Per altri versi, appare francamente fuori luogo la previsione di individuare nel documento di valutazione dei rischi il CCNL “più idoneo al comparto”, insieme a misure di riduzione del rischio adottate in caso di applicazione di un contratto diverso.
La scelta del contratto da applicare in azienda rimane pur sempre una prerogativa del datore di lavoro che, semmai, come detto più volte, sarà onerato dall’adottare adeguati profili informativi e altre misure di riduzione del rischio, valutando la specificità della propria organizzazione e del tipo di attività svolta.
Anche la molteplicità e imprevedibilità dei comportamenti che possono costituire “mobbing”, tanto più se fossero la “somma” di comportamenti di per sé astrattamente leciti, se singolarmente considerati, rende sostanzialmente impossibile adottare una qualsiasi misura prevenzionale, se non di tipo contrattuale.

 

____

1 REPORT FORM FOR THE VIOLENCE AND HARASSMENT CONVENTION, 2019 (No. 190). https://www.lavoro.gov.it/_layouts/Lavoro.Web/AppPages/GetResource?ds=oil&rid=3211.
2 Idem.
3 REPORT FORM FOR THE VIOLENCE AND HARASSMENT CONVENTION, 2019 (No. 190), p. 6.


fonte: senato.it