OSSERVAZIONI SCRITTE SUL DDL 89
di Francesco Bartolo Morelli
Professore associato di Diritto Processuale Penale
Università di Messina
In ragione delle mie competenze mi occuperò solo della nuova fattispecie penale.
In ordine all’introduzione dell’art. 609 ter c.p.p. vanno formulate osservazioni anzitutto in tema determinatezza della fattispecie, quindi tipicità, e concorso di norme, data la possibile sovrapposizione con l’art. 609 bis c.p.p.
Il problema della fattispecie è soprattutto di determinatezza.
Di seguito vengono indicate e specificamente commentate le singole porzioni della norma che presentano problemi di determinatezza, per diverse ragioni.
1. COMPORTAMENTI INDESIDERATI. Che il comportamento non sia desiderato dal suo destinatario è connotato tipico della violenza sessuale, poiché essa è la versione forzosa, imposta, di un atto sessuale che, nel reciproco consenso, è del tutto fisiologico e lecito. Ma questa fattispecie non intende essere di violenza sessuale, occorrendo non sovrapporsi a quella norma. Qui non stiamo parlando di alcunché che possa essere desiderato e piacevole se fatto con il consenso di entrambi, ma stiamo parlando di un comportamento degradante che resterebbe tale anche se rivolto a chi, astrattamente, presterebbe il consenso all’atto sessuale. Non stiamo dunque parlando di nulla che comporti l’intervento, seppur minimo, sul corpo altrimenti si tratterebbe immediatamente di violenza sessuale. Di cosa dunque staremmo parlando che possa essere desiderato? Un atto verbale o un gesto? Dunque come si proverebbe che un atto del genere è desiderato? Prima ancora, come si raccoglierebbe un consenso a un tale atto, a una battuta a una allusione a un gesto? È un connotato del tutto nelle mani della persona offesa la quale basta asserisca che non desiderava, senza che mai nessuno possa smentirla, perché questo fattore venga riscontrato, poiché non si tratta di un atto materiale, quindi non reca tracce, è la proiezione di un sentire emotivo interno. Un fattore ingestibile dal punto di vista probatorio e fuori contesto, poiché non abbiamo ancora travalicato la soglia della violenza sessuale. Probabilmente da eliminare.
2. CONNOTAZIONE SESSUALE. Se si vuole incriminare una condotta del genere occorre essere più specifici, altrimenti la fattispecie si espande senza controllo. Il 90% del turpiloquio comune è a connotazione sessuale. E poiché non possiamo incriminare il turpiloquio, occorre perimetrare il requisito. Per esempio si potrebbe pensare all’evocazione di atti sessuali che si riferiscano esplicitamente alla persona offesa, quale soggetto attivo o passivo. Ma allo stato il requisito è così vago da comprendere il normale turpiloquio, ossia una condotta assolutamente non incriminabile.
3. DIGNITÀ DELLA PERSONA. Le fattispecie penali tutelano molti beni della persona, tra cui la dignità. E tuttavia devono farlo descrivendo la condotta che compromette la dignità, non semplicemente evocando il bene protetto. Del resto, la dignità non è come la libertà, la segretezza delle comunicazioni, la libertà del domicilio o della circolazione. La dignità è una condizione della persona oltremodo complessa e generica e si compromette in infiniti modi. Quando è lesa la dignità, oggettivamente intesa? Nessuno dispone di una definizione di dignità, come per gli altri beni, per questo il costituente, avendola bene a mente, non l’ha mai nominata quale oggetto diretto della tutela. Qui occorre ritagliare e descrivere quella porzione di dignità direttamente coinvolta da questa dinamica, se ci si riesce, poiché altrimenti ognuno la interpreterà secondo la sua personalissima sensibilità, ossia arbitrariamente: così farà la persona offesa, il pubblico ministero e, infine, il giudice. Anche questo, come il precedente, è un requisito non passibile di prova.
4. CLIMA INTIMIDATORIO, OSTILE, DEGRADANTE, UMILIANTE, OFFENSIVO. Identici problemi anche per questo elemento. Nessuno di questi aggettivi riesce a evadere da una valutazione personalissima e soggettiva potendo acquistare un minimo di oggettività. Per non parlare di ciò che è offensivo, aggettivo certamente da eliminare. L’offesa sta nel campo delle emozioni, e le emozioni sono soggettive, assolutamente non oggettivabili, quindi non provabili. Una persona può ritenersi offesa da ciò che per un’altra è assolutamente innocuo. Si tratta di un elemento del tutto non valutabile, se non alla stregua dell’arbitrio del valutatore. Non vorremmo mai che il giudice si limitasse a sentire che la persona offesa si è sentita offesa, umiliata, degradata, e dunque ritenesse integrata la fattispecie. Vogliamo che il giudice possa raggiungere la prova su questa circostanza. Allora dovrà esserci non un clima intimidatorio, ma una intimidazione; non un clima ostile, ma un ostacolo alla vita della persona offesa (posto che ognuno è liberissimo di essere ostile senza motivo con chicchessia); una specifica umiliazione, una specifica offesa. Ma la prova deve essere l’offesa, non il clima offensivo o l’emozione percepita dalla persona offesa. Altrimenti è un reato in bianco. Inoltre, è inopportuno il riferimento al clima come categoria in sé. Elementi del genere qualcuno potrebbe ritenerli inevitabili quando si incrimina l’associazione a delinquere di stampo mafioso, e non tutti beninteso, ma per reati del genere la fattispecie deve assumere concretezza. I contesti non possono mai essere oggetto di prova, ma solo di racconti, di narrazioni. E qui il padrone della narrazione è la persona offesa. È un reato posto tutto nelle sue mani e chiunque potrebbe essere tentato di farne un uso malevolo. Il riferimento al clima va eliminato del tutto, potendo al massimo essere sostituito da eventi precisi.
In generale ci sono troppi elementi che non sono materialmente passibili di alcuna prova. Il che rende il processo assolutamente incapace di accertare alcunché. Qui il processo può solo decidere di stare da una parte o dall’altra, ma senza alcun supporto probatorio. E quindi si tratta, per definizione, di un non processo, poiché è senza prova.
Ulteriore aspetto problematico sono i tempi della querela. Si tratta di ben dodici mesi, passati i quali se qualche prova c’era sarà svanita. Non capisco perché una simile dilatazione, visto che i provvedimenti in discussione molto opportunamente offrono numerose tutele extrapenali (tanto più funzionali dello strumento penale che forse ci si dovrebbe limitare a quelle) che mettono la persona offesa nelle condizioni di querelare subito. Non si tratta di violenza sessuale, credo che questo sia l’equivoco di fondo.
Allo stesso modo, in forza di un parallelo ingiustificato con quest’ultima fattispecie, la querela non è rimettibile, ma non credo abbia senso che non lo sia. Si rimettono querele per fatti ben più gravi. S’impone un processo che, come abbiamo visto, nulla dirà mai sul fatto, dunque se reato dev’essere, che almeno la vicenda sia risolvibile tra le parti con reciproca soddisfazione.
L’ultimo inciso, «si applicano le disposizioni di cui all’articolo 61», è del tutto inutile: si applicano sempre le disposizioni dell’art. 61 c.p. Sarebbe la prima volta che il legislatore si spinge a ribadire una ovvietà del genere. Ma una volta detta, una ovvietà non è più una ovvietà, quindi potremmo del tutto logicamente pensare che, da domani, ove il legislatore non l’abbia detto (ossia riguardo a tutti gli altri reati dell’ordinamento), l’intero sistema delle aggravanti non si applichi.
Ferrara-Messina, lì 13 novembre 2024
Prof. Avv. Francesco Bartolo Morelli
fonte: senato.it