Cassazione Civile, Sez. Lav., 06 febbraio 2025, n. 3045 - Nessuna violazione privacy nel riprendere il dipendente che ruba
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio - Presidente
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere
Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere
Dott. CIRIELLO Antonella - Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 6358-2024 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato presso l'indirizzo PEC dell'avvocato GIOVANNI CASSARINO, che lo rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
SI.A.M. SICIL ACQUE MINERALI Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l'indirizzo PEC dell'avvocato GIORGIO TERRANOVA, che la rappresenta e difende;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1486/2023 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 02/01/2024 R.G.N. 111/2022;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/2024 dal Consigliere Dott. ANTONELLA CIRIELLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito l'avvocato GIOVANNI CASSARINO.
Fatto
1. La Corte d'Appello di Catania, con sentenza del 7 dicembre 2023, ha respinto il reclamo presentato da A.A., confermando la legittimità del licenziamento disciplinare disposto dalla SI.A.M. SICIL ACQUE MINERALI Srl
La Corte ha ritenuto che la contestazione disciplinare fosse conforme ai requisiti di specificità e tempestività previsti dall'art. 7 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), escludendo qualsiasi violazione del diritto di difesa del lavoratore, nonostante le censure di genericità e tardività sollevate dal reclamante.
2. Nel richiamare la giurisprudenza in materia di controlli difensivi, la Corte ha valutato le videoregistrazioni prodotte dalla società come legittime, ritenendo che fossero dirette alla tutela del patrimonio aziendale e non al controllo delle prestazioni lavorative. Quanto alla sanzione espulsiva, è stata ribadita la sua proporzionalità rispetto alla gravità della condotta contestata, ossia la sottrazione di beni aziendali, sottolineando che tale comportamento aveva compromesso in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti.
3. La Corte ha fondato la valutazione dell'intenzionalità della condotta su elementi oggettivi, quali il significativo scostamento tra la merce effettivamente caricata e quella prevista, nonché sulla reiterazione del comportamento illecito. La produzione delle prove, comprese le videoregistrazioni, è stata giudicata conforme alla normativa vigente, e le contestazioni del lavoratore relative al presunto carattere ritorsivo del licenziamento sono state rigettate, non essendo stato provato alcun motivo illecito determinante il recesso.
4. Per la cassazione di tale sentenza, A.A. ha proposto ricorso articolando dodici motivi. La società ha resistito con controricorso; il Pubblico Ministero ha depositato memoria.
Diritto
5. I dodici motivi proposti, ognuno dei quali è articolato in molteplici e diversificate doglianze, possono essere così sintetizzati.
5.1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della Legge n. 300/1970, sostenendo che la contestazione disciplinare rivolta al lavoratore non sarebbe stata sufficientemente specifica e dettagliata.
Il ricorrente denuncia altresì l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, con particolare riferimento alla mancanza di una descrizione dettagliata delle circostanze fattuali e delle fonti probatorie poste a fondamento degli addebiti disciplinari, nonché alla carenza di elementi idonei a dimostrare il carattere doloso della condotta contestata.
In particolare, sostiene che il giudice di merito non avrebbe valutato correttamente il contenuto della nota disciplinare, la quale si limitava a riportare, in modo generico, gli episodi contestati, senza specificare gli elementi fattuali da cui il datore di lavoro avrebbe desunto la condotta illecita. Inoltre, il ricorrente evidenzia come non sia stata adeguatamente considerata la memoria difensiva presentata dal lavoratore, nella quale si sottolineava la mancanza di volontarietà della condotta, né il verbale di audizione, che avrebbe dimostrato il carattere non doloso dei comportamenti addebitati.
Il ricorrente sottolinea, altresì, che il carattere generico della contestazione disciplinare avrebbe pregiudicato il diritto di difesa del lavoratore, impedendogli di predisporre un'efficace replica agli addebiti.
5.2. Con il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e dell'art. 68, comma 4, del CCNL, lamentando che la contestazione disciplinare sarebbe stata tardiva, giacché il datore di lavoro avrebbe già disposto nelle date delle presunte irregolarità (3 e 12 settembre 2019) della documentazione relativa ai piani di carico e delle videoregistrazioni. Inoltre, prosegue il ricorrente, se parte datoriale avesse contestato i fatti il primo giorno successivo agli eventi del 3 settembre avrebbe evitato che il lavoratore reiterasse involontariamente l'errore.
Nel medesimo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta l'omesso esame di fatti decisivi che avrebbero dimostrato la tardività della contestazione, nonché l'omessa considerazione dei fogli presenza e dei certificati medici, dai quali sarebbe emerso che il lavoratore era stato presente almeno un giorno tra il 13 e il 15 settembre 2019 (il che avrebbe ben consentito al datore di lavoro la contestazione dell'addebito in quel periodo) l'omessa valutazione delle buste paga di settembre 2019, dalle quali si sarebbe potuto evincere che il lavoratore non risultava in ferie tra il 13 e il 20 settembre 2019, contrariamente a quanto sostenuto dal datore di lavoro, l'omesso esame dei vari atti difensivi in cui le suddette circostanze erano state illustrate, l'omessa valutazione dei verbali d'udienza ove i testi B.B. e C.C. avevano riferito in merito alle modalità di visione delle videoregistrazioni, così evidenziando la tardività della contestazione il conseguente pregiudizio della difesa del lavoratore.
5.3. Con il terzo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 115 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., lamentando l'erroneo utilizzo di videoregistrazioni che, a suo dire, non sarebbero state ritualmente depositate, anche dal punto di vista formale relativamente al rispetto delle norme imposte dalle regole sul deposito telematico (art. 16-bis L. n. 179/2012); deduce, nel medesimo motivo, la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115, 116 e 416 c.p.c., evidenziando che la Corte territoriale avrebbe, a fronte delle eccezioni del ricorrente, tardivamente ed erroneamente ritenuto ammissibili e utilizzabili le videoregistrazioni prodotte dalla società resistente, nonostante la loro tardività e l'assenza di verifica della loro autenticità.
5.4. Con il quarto motivo, riproponendo e ampliando doglianze già prospettate nel terzo motivo, lamenta la violazione dell'art. 416 c.p.c e dell'art. 16-bis, comma 1, della L. n. 179/2012 e l'omesso esame di una doglianza decisiva sollevata in appello in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5 c.p.c; in particolare, avrebbe errato la Corte nel non rilevare che le videoregistrazioni erano state prodotte dalla società resistente solo dopo la sua costituzione in giudizio, in violazione del termine perentorio di dieci giorni prima dell'udienza per il deposito della memoria difensiva e dei documenti. Inoltre, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 16-bis, comma 1, della L. n. 179/2012, evidenziando che il deposito delle videoregistrazioni, avvenuto dopo la costituzione della parte resistente, sarebbe stato effettuato in modalità fisica (tramite supporto digitale), anziché in via telematica, come richiesto dalla normativa per i documenti prodotti successivamente alla costituzione in giudizio.
Infine, il ricorrente lamenta, sotto forma di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., la circostanza che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente interpretato la doglianza sollevata con l'atto di reclamo, poiché la censura non era riferita alla tipologia del supporto informatico utilizzato per il deposito delle videoregistrazioni, bensì alla modalità di deposito, che sarebbe dovuto avvenire esclusivamente in forma telematica.
5.5. Con il quinto motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., il ricorrente articola molteplici distinti profili di censura, relativi all'utilizzo delle videoregistrazioni nel procedimento disciplinare e alla valutazione delle prove da parte della Corte d'Appello, che denuncia come omesso esame di fatti decisivi.
In particolare, il ricorrente deduce:
-la violazione dell'art. 4 della L. n. 300/1970 in cui sarebbe incorsa la corte non considerando che gli impianti di videosorveglianza utilizzati non rispettavano i requisiti di autorizzazione previsti dall'art. 4, commi 1 e 2, dello Statuto dei Lavoratori, in quanto non risultava né un accordo sindacale né un'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro; né i lavoratori erano stati adeguatamente informati sull'uso dei sistemi di controllo;
-la violazione dell'art. 646 c.p. (appropriazione indebita), in cui sarebbe incorsa la Corte poiché i fatti contestati, relativi alla presunta sottrazione di pedane di merce, riconducibile alla fattispecie di appropriazione indebita; per l'effetto, le riprese video non avrebbero potuto essere utilizzate come strumento di accertamento della condotta contestata.
-l'omesso esame di fatti decisivi (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello che avrebbe trascurato il non corretto posizionamento delle telecamere (almeno una telecamera era orientata verso un'area interna dello stabilimento, così come la Corte territoriale non avrebbe considerato il divieto di controlli a distanza dei lavoratori) e i vizi della relazione tecnica di conformità dell'impianto di videosorveglianza (28 giugno 2018); detta relazione, pur attestando la conformità tecnica dell'impianto, non aveva specificato se le modalità di utilizzo avessero rispettato le disposizioni normative sul controllo a distanza dei lavoratori; lamenta, ancora, il ricorrente l'omesso esame della relazione dello Studio Tecnicomega sulla durata della conservazione delle immagini e dei documenti allegati (schema dell'impianto e della durata della conservazione delle immagini), da cui sarebbe risultato che le immagini venivano conservate per sole 48 ore, aspetto in contrasto con le affermazioni della società resistente, secondo cui le immagini erano state visionate dal responsabile della logistica diversi giorni dopo i fatti contestati;
l'omesso esame dell'atto di reclamo con cui il ricorrente aveva dedotto che le riprese erano state utilizzate non per ragioni di sicurezza, ma al fine specifico di monitorare l'attività lavorativa con intento ritorsivo (come dimostrato dalle deposizioni dei testi B.B. e di C.C.), deposizioni anche esse non esaminate; l'omesso esame del verbale di udienza del 4 dicembre 2020; l'omesso esame dell'atto di reclamo, dal quale la Corte territoriale avrebbe potuto evincere che la condotta contestata era frutto di un errore di lettura dei piani di carico e non di un intento doloso; l'omesso esame dei due filmati prodotti in giudizio che avrebbero dimostrato un utilizzo elusivo delle telecamere per controllare la normale attività lavorativa del ricorrente, con finalità differenti da quelle dichiarate dalla società resistente;
5.6. Con il sesto motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c., il ricorrente articola diverse censure relative all'utilizzo delle videoregistrazioni nel giudizio e alla ripartizione dell'onere della prova.
Deduce, in particolare:
- la violazione dell'art. 2712 c.c., in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello attribuendo piena prova ai filmati prodotti dalla società resistente, nonostante la contestazione del lavoratore che avrebbe negato di essere l'operaio alla guida del montacarichi ripreso nei video;
- la violazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 5 della L. n. 604/1966 in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello ritenendo che fosse onere del lavoratore dimostrare di non essere il soggetto ripreso nei filmati, mentre tale onere incombeva esclusivamente sul datore di lavoro;
-l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello non considerando il reclamo del 10 febbraio 2022, nel quale il ricorrente aveva contestato l'attendibilità dei filmati, il loro contenuto e l'identificazione del soggetto in essi ripreso; la Corte territoriale avrebbe altresì omesso di esaminare l'atto di disconoscimento dei filmati, e la contestazione sulla genuinità e autenticità dei filmati stessi, nonché la doglianza relativa al mancato accertamento della genuinità, autenticità e assenza di manipolazioni delle videoregistrazioni;
5.7. Con il settimo motivo di ricorso, il ricorrente articola quattro censure principali, basate sulla violazione di legge e sull'omesso esame di fatti decisivi, relative alla valutazione delle prove (filmati, testimonianze e documentazione): in particolare deduce: - la violazione dell'art. 5 della L. n. 604/1966 ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., in cui sarebbe incorsa la Corte non attribuendo al datore di lavoro l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo, in particolare la prova che l'autocarro ripreso nei filmati fosse stato caricato proprio dal ricorrente, e che l'operaio alla guida del montacarichi nei video fosse il ricorrente;
-l'omesso esame delle deposizioni dei testi B.B. e C.C. (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), che non avevano identificato nel ricorrente il lavoratore ripreso;
-l'omesso esame dei due filmati prodotti in giudizio (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), in cui sarebbe incorsa la Corte non valutando correttamente i filmati in parola, dai quali avrebbe potuto rilevare l'incertezza sulla identificazione del ricorrente, sul numero di pallet caricati e sulla non volontarietà della condotta;
-l'omesso esame dell'atto di reclamo (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), relativamente ai medesimi aspetti suddetti;
5.8. Con l'ottavo motivo di ricorso, il ricorrente nuovamente deduce censure riferibili, a suo dire, alla violazione di legge e all'omesso esame di fatti decisivi riguardanti la dinamica delle operazioni di carico, la buona fede del lavoratore, e la valutazione delle prove testimoniali e documentali.
In particolare, il ricorrente si duole ancora:
- della violazione dell'art. 5 della L. n. 604/1966 (art. 360, n. 4 c.p.c.), perché la Corte non avrebbe attribuito al datore di lavoro l'onere di provare la giusta causa del licenziamento, dimostrando l'intenzionalità della condotta e la sua gravità;
- dell'omesso esame delle dichiarazioni del teste B.B. (art. 360, n. 5 c.p.c.) secondo cui il "palmare" in dotazione al lavoratore, emette un segnale acustico anche dopo il raggiungimento del numero di pallet previsto dal piano di carico, con la conseguenza che in buona fede l'operatore può procedere per ulteriori pedane, anche perché sotto pressione per i tempi di carico e per la meccanicità delle mansioni; gli stessi argomenti sono sollevati anche come omesso esame delle argomentazioni sull'errore umano nel reclamo, come omesso esame della buona fede, dell'esperienza e dell'affidamento del lavoratore;
- l'omesso esame delle SIT rese alla Polizia Giudiziaria del teste D.D., che aveva riferito che per stabilizzare il carico durante il viaggio e ottimizzare i costi, si tendeva a completare i camion con il numero massimo di pedane (33), circostanza che potrebbe aver indotto l'operatore a seguire, senza intenzionalità dolosa, un criterio diverso da quello indicato nei piani di carico.
5.9.Con il nono motivo di ricorso, il ricorrente deduce violazione di legge e omesso esame di fatti decisivi, con riferimento alla valutazione dei documenti di carico e di trasporto, nonché delle circostanze che avrebbero potuto spiegare eventuali errori del lavoratore. Segnatamente sostiene che la Corte d'Appello avrebbe violato l'art. 5 della L. n. 604/1966, non attribuendo al datore di lavoro la prova della volontarietà e gravità della condotta; avrebbe altresì omesso l'esame dei documenti di carico del 03.09.2019 e del 12.09.2019 (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) dai quali avrebbe potuto escludere ogni carattere doloso della condotta addebitata; l'omesso esame della nota di consegna Unigroup che riportava il numero dei pallet consegnati, potenzialmente in contrasto con quanto contestato e della fattura della ditta Cangemi dalla quale avrebbe potuto chiarire eventuali discrepanze nel conteggio dei pallet e, in ogni caso, l'omesso esame delle argomentazioni contenute nell'atto di reclamo relative alla possibilità di un mero errore nella lettura del piano di carico.
5.10 Con il decimo motivo di ricorso, il ricorrente articola diversi profili di censura, relativi alla violazione di legge e all'omesso esame di fatti decisivi, con particolare riferimento agli sviluppi del procedimento penale correlato ai fatti contestati, e alla mancata dimostrazione del dolo da parte della società resistente. Deduce in particolare: -la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della L. n. 604/1966 (art. 360, n. 4 c.p.c.) per non avere la Corte territoriale attribuito al datore di lavoro l'onere di provare la giusta causa del licenziamento, dimostrando il dolo nella condotta contestata; l'omesso esame della richiesta di archiviazione del P.M. (art. 360, n. 5 c.p.c.) nel procedimento penale correlato, che rilevava la mancanza di elementi di prova e di dolo nella condotta del lavoratore; l'omesso corretto esame del decreto del GIP di fissazione dell'udienza e la violazione degli artt. 409 e 410 c.p.p. (art. 360,comma 1 n. 5 e n. 4 c.p.c.), poiché erroneamente la Corte d'Appello avrebbe attribuito rilevanza al decreto senza considerare che tale atto non implica una valutazione sul merito dell'accusa o sull'intenzionalità della condotta ed è un atto dovuto, privo di implicazioni sostanziali; -l'omesso esame delle argomentazioni contenute nell'atto di reclamo (art. 360, n. 5 c.p.c.) in cui si deduceva l'assenza di prova del dolo.
5.11 Con l'undicesimo motivo di ricorso, il ricorrente articola molteplici profili di censura, che spaziano dalla violazione di norme contrattuali collettive e del codice civile, all'omesso esame di fatti a suo avviso decisivi relativi alla procedura disciplinare, ai documenti di prova e alle testimonianze. In particolare deduce: la violazione dell'art. 68, comma 1, del CCNL in cui sarebbe incorsa la Corte non tenendo conto della previsione contrattuale secondo cui la sanzione disciplinare deve essere commisurata alla gravità della condotta e alla recidiva, che non ricorreva nel caso di specie; la violazione dell'art. 68, comma 4, del CCNL per avere la Corte d'Appello ignorato la previsione contrattuale che impone la tempestiva attivazione della procedura disciplinare da parte del datore di lavoro; la violazione degli artt. 68, 69 e 70 del CCNL per non avere la Corte considerato l'elenco delle condotte sanzionabili, elenco che attribuisce al licenziamento un carattere residuale rispetto a sanzioni conservative e la necessità di valutare la proporzionalità tra la condotta contestata e la sanzione irrogata, aspetto dedotto anche come violazione dell'art. 2106; la violazione del CCNL e dell'art. 7 Statuto dei Lavoratori, in cui sarebbe incorsa la Corte nel non considerare che il licenziamento deve è giustificato solo quale extrema ratio, e non rispettando l'iter disciplinare previsto dall'art. 7 cit., omettendo poi l'esame dei due filmati prodotti in giudizio (aspetto lamentato anche quale omesso esame ex art. 360,comma 1, n. 5 c.p.c.);
detti filmati avrebbero dimostrato l'incerta identificazione del lavoratore, il numero dei pallet e la non volontarietà della condotta; l'omesso esame della testimonianza di B.B., che aveva evidenziato l'eventualità di errori causati dal funzionamento del palmare e della richiesta di archiviazione del P.M. che rilevava la mancanza di elementi di prova e di dolo.
5.12 Con il dodicesimo motivo, in parte riprendendo argomenti già posti a base del primo motivo, il ricorrente articola diversi profili di censura, art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c.) lamentando il mancato esame da parte della Corte d'Appello di elementi decisivi relativi alla finalità e all'utilizzo delle registrazioni video, alla presunta finalità ritorsiva della condotta datoriale, e alla tempistica delle contestazioni disciplinari.
In particolare lamenta che: la Corte d'Appello non avrebbe considerato che i testi B.B. e C.C. avevano chiarito come la visione delle immagini non fosse avvenuta per ragioni di sicurezza, ma per controllare il lavoratore; avrebbe omesso la Corte di considerare che il datore non contestando immediatamente la prima condotta del 3 settembre 2019, avrebbe precluso al procedimento disciplinare di svolgere una funzione preventiva (art. 360, n. 5 c.p.c.) prevenendo il successivo errore del 12 settembre 2019; omettendo quindi di rilevare l'intento ritorsivo del datore finalizzato a cumulare addebiti per giustificare il licenziamento; avrebbe omesso la Corte di considerare come il datore di lavoro avrebbe ben potuto svolgere una contestazione tempestiva alla luce di documenti che evidenziavano la presenza del lavoratore (fogli presenza, certificati medici etc.); avrebbe altresì omesso l'esame delle dichiarazioni dei testi B.B. e C.C., da cui si poteva desumere che il datore di lavoro era consapevole degli errori commessi già a partire dal 3 settembre 2019 e che, nonostante ciò, aveva atteso che si verificasse un secondo errore per cumulare le contestazioni e aggravare la posizione del lavoratore.
6. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente evidenziato come, con una tecnica espositiva poco intellegibile, il ricorrente ha proposto un coacervo di motivi sovrapposti ed estremamente ripetitivi, in cui ha considerato una serie di fatti, circostanze e elementi sia come violazioni di legge che come omesso esame di fatti decisivi, procedendo a ripetizioni continue e pedisseque degli argomenti difensivi già sviluppati e soprattutto, sovrapponendo censure eterogenee, che non consentono di individuare con chiarezza i singoli vizi denunciati, in violazione del principio di specificità richiesto dall'art. 360 c.p.c. (Cass. SS.UU. n. 16990 del2017; Cass. n. 18202/2008; Cass. n.18421/2009). Questa S.C. ha chiarito che è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d'impugnazione eterogenei, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; invero, l'esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l'apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei motivi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente (in termini, cfr. Cass. n. 19443 del 2011; v. poi Cass. n. 23600 del 2012; Cass. n. 25722 del 2014; Cass. n. 671 del 2015; Cass. n. 15651 del 2017).
In ogni caso, le plurime censure di violazione e falsa applicazione di legge, trascurano di considerare che il vizio ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l'indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
Tanto premesso, in termini generali, appare pertanto opportuno evidenziare, relativamente a tutte le richiamate censure con le quali si deduce l'omesso esame di fatti decisivi, che il ricorrente non si confronta con l'interpretazione fornita dalle sezioni unite di questa S.C. dell'art. 360, co.1, c.p.c. n. 5, nella versione di testo introdotta dall'art. 54, co. 1, lett. b), D.L. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012, (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) che ha chiarito come l'omesso esame possa riguardare solo un fatto storico, principale o secondario, che sia stato oggetto di discussione tra le parti e che, se considerato, avrebbe determinato un diverso esito del giudizio; che l'omesso esame di elementi istruttori (ad es. prove documentali o testimoniali) non integra vizio di legittimità se il fatto storico rilevante sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, anche implicitamente; che non è configurabile l'omesso esame di questioni processuali o eccezioni di rito; che non può qualificarsi come "fatto decisivo" il contenuto di atti difensivi, quali memorie, reclami, note d'udienza, poiché si tratta di mere allegazioni delle parti e non di elementi fattuali idonei a condizionare l'esito del giudizio.
Poiché tutti i motivi che deducono tale vizio risultano irrispettosi di tali principi, traducendosi - in sostanza - nella formulazione di un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito nella valutazione del materiale probatorio, mentre tutte le circostanze del cui esame si duole l'odierno ricorrente, sono state invece esaminate dal giudice di merito, gli stessi devono essere disattesi.
Segnatamente risultano inammissibili per le ragioni sopra riportate le doglianze contenute:
- nel primo, secondo e dodicesimo motivo, in cui con riferimento alla contestazione disciplinare si deduce l'omesso esame di documenti e testimonianze che avrebbero dimostrato la genericità e/o la tardività della contestazione disciplinare, l'omesso esame di atti difensivi (reclamo, memoria difensiva) che contestavano la mancata tempestività della contestazione e il presunto intento ritorsivo del datore di lavoro;
- nel terzo, quarto, quinto e sesto motivo, in cui con riferimento alle videoregistrazioni e al loro utilizzo si duole dell'omesso esame delle doglianze sulla tardività del deposito delle videoregistrazioni e sulla loro autenticità, dell'omesso esame dell'atto di reclamo che contestava il mancato rispetto delle regole sul deposito telematico, dell'omesso esame della circostanza che le videoregistrazioni non sarebbero state utilizzabili in assenza di accordo sindacale o autorizzazione ispettiva;
- nel sesto, settimo e ottavo motivo, relativi alla identificazione del lavoratore, con cui si duole dell'omesso esame delle obiezioni relative ai filmati, dell'omesso esame delle deposizioni dei testi B.B. e C.C., dell'omesso esame delle obiezioni relative all'identificazione del soggetto ripreso nei filmati;
- nel nono, decimo e undicesimo motivo, relativamente alla valutazione delle prove, in cui parte ricorrente sottopone a questa corte l'omesso esame della richiesta di archiviazione del procedimento penale, che avrebbe escluso il dolo nella condotta contestata, l'omesso esame delle dichiarazioni testimoniali che avrebbero dimostrato possibili errori di lettura del piano di carico, l'omesso esame delle argomentazioni difensive sulla buona fede del lavoratore e sulla sproporzione della sanzione espulsiva.
Peraltro, tutte le denunce formulate come omesso esame di fatti decisivi risultano precluse, essendosi in presenza d'una doppia sentenza conforme avendo i giudici di merito di primo e secondo grado espresso una valutazione coincidente sugli elementi fattuali acquisiti.
In tal caso, il ricorrente per cassazione, al fine di evitare l'inammissibilità della censura ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 2014; Cass. n. 26774 del 2016 Cass. n. 20994/2019, 8320/2022, 5947/2023). In assenza di tale dimostrazione, la censura si traduce in un'inammissibile richiesta di riesame del merito, preclusa in sede di legittimità.
6.1. Il primo, il secondo e il dodicesimo motivo possono essere esaminati congiuntamente, poiché vertono sostanzialmente sulla contestazione disciplinare, sia per la sua presunta genericità (primo motivo), sia per la sua tardività (secondo motivo), sia, ancora, per il suo utilizzo strumentale a fini ritorsivi (dodicesimo motivo), deducendo il ricorrente violazioni di legge, segnatamente la violazione dell'art. 7 della L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e dell'art. 68 del CCNL, sostenendo che la contestazione disciplinare sarebbe stata generica e tardiva e che ciò avrebbe compromesso il suo diritto di difesa. Inoltre, il ricorrente denuncia una finalità ritorsiva del licenziamento che non sarebbe stata esaminata in sede di reclamo.
Anche tali motivi sono infondati: infatti, la Corte d'Appello ha accertato che la contestazione disciplinare rispettava i requisiti di specificità richiesti dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Essa indicava chiaramente le date degli episodi (3 e 12 settembre 2019), le modalità delle condotte contestate (carico di pedane in eccedenza rispetto al piano) e il valore economico della merce sottratta (circa 2.000 euro).
La giurisprudenza di legittimità (Cass. lav. n. 23304 del 18/11/2010; Cass. n. 23408/2017) precisa che la contestazione non deve contenere una dettagliata elencazione delle prove, ma deve consentire al lavoratore di comprendere e difendersi dagli addebiti, come avvenuto nel caso di specie. Né il datore di lavoro ha obbligo lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere dal giudice, nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, un ordine di esibizione della documentazione stessa (in senso analogo v. pure Cass. lav. n. 18288 del 30/08/2007, conforme id. n. 7153 del 17/03/2008. Cfr. altresì Cass. lav. n. 6337 del 13/03/2013, secondo cui nel procedimento disciplinare, sebbene l'art. 7 della legge n. 300/70, non preveda un obbligo per il datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione, la documentazione su cui essa si basa, egli è però tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, ove il loro esame sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.
6.2. Quanto alla tempestività della contestazione, dalla lettura degli atti si evince che la contestazione è stata formalizzata il 23 settembre 2019, dopo la visione e l'analisi dei filmati e della documentazione interna. La consegna al lavoratore è avvenuta il 26 settembre 2019, subito dopo il suo rientro da un periodo di ferie e malattia.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa S.C., in materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione, espressione del generale precetto di correttezza e buona fede, si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006) e va inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in ragione della complessità di accertamento della condotta del dipendente oppure per l'esistenza di una articolata organizzazione aziendale (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; n. 1562 del 2003; Cass. n. 12141 del 2003).
Nel caso di specie la Corte di appello ha esaminato la censura di tardività ritenendola infondata, "tenuto conto che i fatti si sono verificati nelle giornate del 3 e del 12 settembre 2019, cui è seguita la contestazione disciplinare del 23 settembre 2019; essendo decorso un lasso di tempo davvero contenuto, non possono di certo ritenersi compromesse, come dedotto dal reclamante, le esigenze sottese al tempestivo esercizio del potere disciplinare, quali la garanzia del diritto di difesa del lavoratore e la certezza sulla sorte del rapporto. Sicché devono ritenersi inconducenti le articolate difese del lavoratore volte a provare la presenza in servizio dello stesso nei giorni seguenti al primo fatto contestato, non senza osservare che il decorso di circa venti giorni dalla commissione del primo episodio appare adeguato al fine di consentire al datore di lavoro di vagliare la condotta del dipendente sotto il profilo disciplinare e, nella specie, anche al fine di verificare se la stessa avesse carattere isolato ovvero reiterato; rileva, infine, la circostanza incontestata evidenziata dal giudice di prime cure, che solo in data 16 settembre 2019 i componenti del Consiglio di amministrazione della Siam, titolare del potere di irrogare la sanzione espulsiva, ricevevano dal responsabile dell'ufficio logistica, B.B., la relazione contenente la segnalazione dei fatti disciplinarmente rilevanti, accaduti in data 3 e 12 settembre 2019".
La Corte territoriale, poi, ha pure chiarito, concordando con il giudice di primo grado, che non viola il principio di tempestività l'avere parte datoriale contestato congiuntamente i due episodi, poiché, "il lavoratore non può pretendere di addossare al proprio datore di lavoro la responsabilità della reiterazione colpevole di comportamenti illeciti, i quali peraltro, anche singolarmente considerati, avrebbero potuto giustificare la sanzione espulsiva", ma va ulteriormente osservato che la tempestività della contestazione non ha quale fine di impedire la reiterazione dell'illecito quanto piuttosto di consentire al lavorate di potersi adeguatamente difendere".
La sentenza impugnata, dunque, ha ritenuto che la successione temporale delle contestazioni disciplinari non fosse sintomo di un intento ritorsivo del datore di lavoro, ma derivasse dalla necessità di valutare compiutamente la reiterazione della condotta, né il ricorrente ha fornito elementi concreti a supporto della presunta finalità ritorsiva del licenziamento (v. infra sub 7).
Pertanto, i tre motivi in considerazione si rivelano infondati, mentre sono inammissibili, come già evidenziato sub. 6, tutte le censure di omesso esame di atti difensivi, di questioni processuali o di valutazione di elementi probatori in essi contenuti.
6.3. Il terzo, quarto, quinto e sesto motivo possono essere esaminati congiuntamente, poiché vertono sostanzialmente sulla illegittimità delle videoregistrazioni prodotte dalla società resistente, di cui il ricorrente sostiene la tardività di deposito, il mancato rispetto delle norme sul deposito telematico (art. 16-bis L. n. 179/2012), la violazione dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori per assenza di autorizzazione sindacale o ispettiva, l'omessa verifica della loro autenticità e della corretta identificazione del soggetto ripreso nei video, la violazione dell'art. 2712 c.c., poiché il ricorrente avrebbe disconosciuto la conformità dei filmati alla realtà.
Tutte le censure sono infondate; la Corte d'Appello, con ampia motivazione in cui ha richiamato i provvedimenti dei primi giudici, ha accertato che i filmati sono stati depositati su supporto digitale e resi accessibili alle parti già nel giudizio di primo grado. Non si tratta, quindi, di prove tardive introdotte in appello. L'eccezione di tardività sollevata dal ricorrente è stata ampiamente esaminata e rigettata in sede di merito, con motivazione congrua e logicamente fondata; né emerge alcun concreto pregiudizio per il contraddittorio e il diritto di difesa de lavoratore.
A ciò si aggiunga che correttamente la Corte territoriale ha spiegato che "la fase sommaria del procedimento cd. Fornero, in quanto deformalizzata e celere, non contempla le decadenze di cui all'art. 416 c.p.c.
Né vi sono state irregolarità del deposito delle videoregistrazioni tramite il processo telematico, in violazione del precetto dell'art. 16 bis cit.; in proposito è appena il caso di chiarire, che solo recentemente, a partire dal settembre 2024, con l'introduzione delle nuove specifiche tecniche del Processo Civile Telematico (ex art. 34 DM 44/2011 - Provvedimento 7 agosto 2024), è stato possibile tecnicamente il deposito telematico di documenti video. E, in ogni caso, la Corte d'Appello ha accertato che nella vicenda in esame il deposito avvenne regolarmente essendo stati i documenti depositati su supporto digitale e resi accessibili alle parti già nel giudizio di primo grado, senza che fosse quindi pregiudicato il contraddittorio né il diritto di difesa, avendo avuto modo il lavoratore di visionare i filmati.
6.4. Quanto poi alla legittimità dell'utilizzo delle videoregistrazioni, la Corte, ha ritenuto che le riprese fossero finalizzate alla tutela del patrimonio aziendale, come consentito dall'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, e non al controllo diretto dell'attività lavorativa, richiamando al riguardo, l'ampia ed esaustiva motivazione del giudice della fase sommaria, sia in ordine alla disciplina di cui all'art. 4 della legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificata dall'art. 23 del D.Lgs. 23/2015, che in ordine ai recenti arresti della giurisprudenza di legittimità relativa ai controlli difensivi. Alla luce della suddetta motivazione sono da disattendersi le censure relative all'utilizzo delle videoregistrazioni.
In particolare, la pronuncia del primo giudice, richiamata dalla conforme sentenza oggi impugnata, nell'esaminare le finalità della videosorveglianza, ha chiarito che le telecamere erano state installate nel piazzale esterno dell'azienda, cioè in un'area aperta al transito di soggetti esterni, e non in locali interni riservati ai dipendenti.
Dunque, l'uso della videosorveglianza era destinato alla sicurezza e alla protezione del patrimonio aziendale, come prescritto dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10636/2017).
In altre parole, il lavoratore non era specificamente controllato, ma semplicemente investito dal raggio d'azione delle telecamere mentre svolgeva operazioni di carico all'esterno. I giudici di merito, pertanto, hanno correttamente escluso lesioni della privacy dei lavoratori e ravvisato la proporzionalità del mezzo, giacché le riprese erano effettuate in aree visibili e accessibili al pubblico, senza ingerenze nella sfera privata del lavoratore.
In proposito la sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio espresso dalla CEDU - Grande Camera (sentenza del 17 ottobre 2019, ricorsi n. 1874/13 e 8567/13), secondo cui il livello di privacy è minore negli spazi di lavoro aperti al pubblico rispetto agli ambienti strettamente personali.
Quanto poi alla legittimità dell'utilizzo delle registrazioni, la Corte territoriale ha richiamato il terzo comma dell'art. 4 Stat. Lav., evidenziando come il lavoratore fosse consapevole della presenza delle telecamere, avendo egli stesso ammesso di essere a conoscenza del sistema di videosorveglianza (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata); resta, quindi, escluso il divieto di utilizzabilità probatoria, come ribadito da Cass. Pen., Sez. II, 22 gennaio 2015, n. 2890, che ha escluso che lo Statuto dei Lavoratori vieti i controlli difensivi quando questi sono rivolti alla tutela del patrimonio aziendale.
In ordine poi alla validità dell'installazione delle telecamere, la Corte d'Appello ha evidenziato come la società abbia prodotto documentazione tecnica a supporto della regolarità dell'impianto, tra cui la relazione della ditta Omicron del 26.08.2018, che certificava che le telecamere riprendevano solo le aree esterne dello stabilimento, cioè aree isolate e vulnerabili a intrusioni; né sono emersi elementi tali da dimostrare un intento di sorveglianza sistematica dell'attività lavorativa, come confermato dal giudice della fase sommaria e ribadito dalla Corte d'Appello.
Quest'ultima si è conformata alla giurisprudenza di questa S.C. circa la differenza tra controlli difensivi in senso lato e in senso stretto, i primi qualificati come controlli preventivi generali dell'attività lavorativa, soggetti alle restrizioni dell'art. 4 Stat. Lav., i secondi attivati a seguito di un fondato sospetto su specifici illeciti di un singolo lavoratore ed ha ricondotto la vicenda in esame alla seconda tipologia, specificando come le videoregistrazioni sono state visionate solo dopo che il responsabile della logistica aveva rilevato anomalie nei tempi di carico (cfr. comunicazione su attività di verifica svolta, 16.09.2019), tipologia che, secondo Cass. n. 25732/2021, non è soggetto ai limiti dell'art. 4, commi 1 e 2, Stat. Lav.
6.5. In ordine poi all'utilizzabilità probatoria delle registrazioni nel processo civile, questa corte (Cass. n. 33809/2021) ha chiarito che non esiste un divieto di utilizzabilità probatoria analogo a quello previsto nel processo penale, dovendosi procedere ad un bilanciamento tra privacy del lavoratore e tutela dell'impresa, che deve avvenire secondo i principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza, previsti dal D.Lgs. n. 196/2003.
6.6. Né risulta fondata la doglianza relativa al disconoscimento delle videoregistrazioni, ritenuta dalla corte correttamente generica e priva di elementi concreti, risultando tale disconoscimento inidoneo a inficiare l'attendibilità delle videoregistrazioni, come previsto dall'art. 2712 c.c., che stabilisce che il disconoscimento deve essere specifico e supportato da elementi oggettivi.
Ancora, non risulta alcuna violazione dell'art. 2697 c.c. e dall'art. 5 della L. n. 604/1966, atteso che la Corte territoriale non ha deciso la causa sulla base del criterio di ripartizione dell'onere probatorio, ma ha ritenuto positivamente accertati i fatti, accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità.
Pertanto, i motivi in esame sono infondati in relazione alle dedotte violazione di legge, mentre sono inammissibili, come già evidenziato sub. 6, tutte le censure di omesso esame di atti difensivi e questioni processuali o valutazione di elementi probatori in essi contenuti, quali tra l'altro la dedotta omessa verifica dell'autenticità delle videoregistrazioni, che deve comunque essere esclusa poiché, come osservato dalla Corte territoriale, la genuinità delle videoregistrazioni è stata confermata dal giudice di merito sulla base delle testimonianze e della documentazione accessoria (rapporti interni e piani di carico); per il resto il ricorrente si è dilungato nel contestare mere valutazioni di merito, il che non è consentito innanzi a questa S.C.
Infondata, inoltre, è la censura con la quale il ricorrente lamenta che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente valutato la rilevanza della normativa penale sull'appropriazione indebita (art. 646 c.p.): la valutazione della giusta causa di licenziamento non è subordinata al previo accertamento d'un reato, ma si basa su una valutazione autonoma della gravità della condotta e della conseguente rottura del vincolo fiduciario (Cass. n. 2238/2020).
6.7. Il settimo, ottavo e nono motivo possono essere esaminati congiuntamente, poiché tutti vertono sulla ripartizione dell'onere della prova e sull'attendibilità delle prove. Segnatamente il ricorrente censura la decisione della Corte d'Appello per la violazione dell'art. 5 della L. n. 604/1966, per errata ripartizione dell'onere della prova sulla giusta causa del licenziamento, l'omessa valutazione delle testimonianze di B.B. e C.C., che avrebbero evidenziato incertezze sull'identificazione del lavoratore nei filmati e sull'errore umano nelle operazioni di carico, l'omesso esame di documenti di carico e trasporto (nota di consegna Unigroup, fattura Cangemi), che avrebbero potuto dimostrare la non volontarietà della condotta contestata.
Rinviando per le censure formulate ai sensi dell'art. 360 comma 1, n. 5, alle considerazioni già espresse sub 6, occorre evidenziare l'infondatezza della censura di violazione dell'art. 5 della L. n. 604/1966, norma della quale i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione in conformità ai principi nomofilattici. E infatti la Corte ha ritenuto che il datore di lavoro avesse assolto all'onere probatorio dimostrando la giusta causa del licenziamento attraverso videoregistrazioni, documentazione aziendale e testimonianze, conformemente al principio di diritto consolidato.
Questa corte da tempo ha chiarito come ricorre una violazione dell'art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia, appunto, attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia per legge e non invece quando, come nel caso di specie, oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395, Cass. 2238/2020).
La Corte d'Appello ha anche valutato le dichiarazioni dei testi B.B. e C.C. e le ha ritenute non decisive, poiché essi non hanno escluso la corrispondenza tra le operazioni di carico contestate e quelle documentate nei video. Anche i documenti di carico e trasporto sono stati esaminati, ma la Corte li ha ritenuti non idonei a escludere la responsabilità del lavoratore, in quanto le discrepanze riscontrate nei carichi erano coerenti con le contestazioni aziendali: in tal modo ha svolto un accertamento in fatto e un critico scrutinio delle risultanze istruttorie, il che è insindacabile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1197).
Né, per le ragioni sopra chiarite (sub 6) sono ammissibili le censure relative alle testimonianze e ai documenti di carico ex art. 360, n. 5, c.p.c., essendosi sopra chiarito che a tale censura osta, a monte, l'esistenza d'una doppia conforme.
6.8. Infine, sono infondati il decimo e undicesimo motivo, che possono essere oggetto di esame congiunto vertendo sostanzialmente sulla proporzionalità della sanzione disciplinare e sulle conseguenze del procedimento penale. Con tali motivi il ricorrente contesta la decisione della Corte d'Appello per asserita violazione dell'art. 2106 c.c. e degli artt. 68-70 del CCNL, per mancata valutazione della proporzionalità del licenziamento rispetto alla gravità della condotta, nonché per omesso esame della richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero nel procedimento penale, che avrebbe escluso la sussistenza di dolo, per omessa ed errata considerazione del decreto del GIP di fissazione dell'udienza, interpretato dalla Corte come elemento a conferma del dolo.
Il ricorrente, tuttavia, non coglie il nucleo essenziale della motivazione: infatti la Corte, giudicando della proporzionalità del sanzione espulsiva, ha ritenuto, richiamando le motivazioni svolte dal giudice di primo grado, che la gravità della condotta (l'abusivo impossessamento di beni aziendali commesso sfruttando le proprie mansioni di addetto al carico e scarico della merce e caratterizzato dalla reiterazione del comportamento illecito) fosse idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, indipendentemente dalla recidiva o dall'assenza di dolo inteso in senso penalistico. Tale valutazione è stata operata in continuità con la decisione del giudice di primo grado, che ha evidenziato come la sottrazione di beni aziendali da parte del dipendente configuri una violazione del rapporto fiduciario di gravità tale da giustificare il recesso.
La decisione si pone in linea con i principi sviluppati da questa S.C. che ha affermato la sussistenza di una chiara proporzionalità tra il comportamento addebitato e il licenziamento, in quanto il recesso è giustificato ogniqualvolta il comportamento del lavoratore sia idoneo a minare il vincolo fiduciario, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 2009, n. 14586).
La Corte ha escluso che la condotta potesse ritenersi colposa o frutto di errore, evidenziando molteplici elementi di intenzionalità, quali la sistematicità delle operazioni e le risultanze dell'istruttoria processuale.
Né, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, assume rilievo il procedimento penale, poiché l'ordinamento civile e quello penale rispondono a criteri probatori e finalità differenti (Cass. Sez. L., 09/02/2006, n. 2851) e la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero non esclude automaticamente la rilevanza disciplinare della condotta, ben potendo il licenziamento per giusta causa essere legittimo anche in assenza di un'accertata responsabilità penale.
Tali censure, formulate ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., sono inammissibili stante la doppia conforme Ad ogni modo è appena il caso di aggiungere che le censure sono state comunque oggetto di esame in sede di reclamo, avendo la Corte correttamente evidenziato come gli atti penali riportati non rappresentino un accertamento definitivo dei fatti.
7. Dell'inammissibilità del motivo, nell'ambito delle censure sollevate con il dodicesimo motivo, con cui è dedotta l'omesso rilievo del carattere ritorsivo del licenziamento, si è detto sub. 6. Ad ogni modo, anche a tale ultimo riguardo è appena il caso di segnalare che la Corte territoriale ha correttamente condiviso la decisione di prime cure secondo cui "- quanto al licenziamento, invero, il motivo illecito deve risultare l'unico determinante del recesso e di ciò il lavoratore deve fornire rigorosa prova, anche presuntiva (cfr. Cass. n. 17087/2011; Cass. n. 6282/2011; Cass. n. 16155/2009)" pervenendo al rigetto del motivo, peraltro, in ragione delle generiche e irrilevanti circostanze allegate dal reclamante (inspiegabile accanimento e inspiegabile severità e fermezza che avrebbero caratterizzato l'intero procedimento disciplinare).
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e le spese regolate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 5000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2025.