Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 febbraio 2025, n. 4166 - Malattia professionale della operatrice di asilo nido: no al risarcimento se prima del 2007 non era stato ancora acclarato dalla scienza medica il rischio connesso alla mansione specifica
Presidente Di Paolantonio - Relatore Fedele
Fatto
1. La Corte d'appello di Venezia ha accolto il gravame proposto dal Comune di (OMISSIS) e rigettato la domanda avanzata da M.S. – dipendente dell'ente comunale dal 1992 con mansioni, fino al 2016, di educatrice di asilo nido, ed in seguito, per riscontrata inidoneità alla mansione, di impiegata amministrativa – per ottenere il risarcimento dei danni per violazione di norme di sicurezza tipiche e in generale dell'obbligo prevenzionale di cui all'art. 2087 cod. civ., lamentando di aver sviluppato una malattia professionale (sofferenza discale lombare con lieve rigidità rachidea) nello svolgimento delle mansioni di operatrice di asilo nido, patologia riconosciuta di origine professionale da parte dell'INAIL.
2. Per quel che qui rileva, la Corte territoriale ha ritenuto che il Comune avesse adottato tutti i comportamenti e le cautele che la tecnica e la scienza suggerivano nel momento storico per il periodo relativo al caso di specie, considerato che dalle risultanze di causa era emerso che l'ente avesse avuto conoscenza di un possibile rischio specifico soltanto a far data dal 2007; di conseguenza, prima di tale data, non era configurabile un obbligo di sicurezza di questo tipo in capo al Comune, trattandosi di carichi inferiori ai limiti di legge e di movimenti per i quali non esistevano prescrizioni specifiche. A partire dal 2007, la lavoratrice, che aveva seguito corsi di sicurezza, era stata sottoposta a sorveglianza sanitaria specifica e periodica e il Comune aveva provato di aver provveduto a sostituire gli arredi con altri nuovi ed ergonomici, sicché poteva escludersi l'imputabilità a fatto e colpa del datore di lavoro della patologia in menzione, peraltro di natura multifattoriale, avendo lo stesso posto in essere tutto “quanto richiedibile” per prevenirla.
3. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione M.S. articolando cinque motivi, cui resiste il Comune di (OMISSIS) con controricorso.
4. Le parti hanno depositato memoria.
Diritto
1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di merito erroneamente escluso l'esistenza di dati scientifici o epidemiologici aventi ad oggetto la nocività dell'attività lavorativa delle educatrici di asili nido e quindi la conoscibilità del rischio prima del 2007.
1.1. La censura è inammissibile in quanto non si adduce l'omesso esame di un fatto storico bensì la ricostruzione e la valutazione resa dal giudice di merito in ordine alle conoscenze scientifiche raggiunte prima del 2007 in base alle risultanze di causa, la cui motivazione, chiara in tal senso, non può essere vagliata nella sua congruità in relazione al compendio documentale.
In effetti, nell'illustrazione del motivo si prospetta un'ipotesi di travisamento della prova, riportando analiticamente i passaggi dei documenti in base ai quali, secondo la ricostruzione sviluppata dalla ricorrente, risulterebbe dimostrata in bibliografia l'esistenza del rischio specifico per la lavorazione in esame prima del 2007. Tuttavia, la censura, nei termini dedotti, non vale a configurare un'ipotesi di travisamento della prova denunciabile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., nei ristretti margini tracciati da questa Corte a Sezioni Unite (05/03/2024, n. 5792), venendo piuttosto in rilievo una critica valutativa degli elementi addotti dal giudice di merito per addivenire al proprio convincimento, insindacabile, nei ridetti termini, in sede di legittimità.
2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ., anche in relazione all'art. 115 cod. proc. civ., per avere il Giudice di secondo grado erroneamente escluso la violazione dell'obbligo di sicurezza da parte del Comune di (OMISSIS). In particolare, si addebita alla Corte territoriale di avere male interpretato tale “norma di chiusura” del sistema perché, pur dando atto della intrinseca nocività posturale delle mansioni svolte, non ha individuato la responsabilità del Comune per non aver posto in essere le misure atte a prevenire la patologia, anche prima del 2007, visto che la letteratura scientifica aveva individuato nella movimentazione dei carichi e nelle posture incongrue fattori di rischio specifici.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Esso non individua, infatti, una specifica normativa precauzionale che la Corte distrettuale avrebbe violato e fa leva solo sull'art. 2087 cod. civ. che i giudici di secondo grado non hanno erroneamente interpretato né violato in quanto hanno accertato che, prima del 2007, le conoscenze dell'epoca non suggerivano particolari cautele in relazione all'attività lavorativa di educatrice degli asili nido, tanto più che il rischio si riduceva in ragione dell'età dei bambini accuditi; così argomentando, la Corte lagunare ha fatto corretta applicazione dei principi secondo cui «in materia di tutela della salute del lavoratore, l'art. 2087 cod. civ. non delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell'esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell'ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi, particolarmente quando vengono in questione attività che per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all'aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, ecc.) comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all'umidità degli ambienti, alla loro temperatura, ecc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro; rispetto a detti lavori ‒ importanti una necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi ‒ non è configurabile una responsabilità del datore di lavoro, se non nel caso in cui questi, con comportamenti specifici ed anomali, da provarsi di volta in volta da parte del soggetto interessato, determini un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell'attività che il lavoratore è chiamato a svolgere» (Cass. Sez. L, 25/01/2021, n. 1509).
Né vale richiamare, in senso contrario, la documentazione scientifica in atti da cui si evincerebbe, secondo la ricorrente, che era bensì esigibile, prima del 2007, una diversa diligenza nella predisposizione di azioni precauzionali e preventive e/o di misure di sicurezza “innominate” a fronte dei fattori di rischio cui era esposta la dipendente; tale eccezione si risolve in una censura di erronea valutazione del compendio documentale che fuoriesce dal perimetro dei vizi denunziabili ai sensi dell'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. Giova ribadire, infatti, che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis; il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le tante, Cass. Sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass. Sez. L, 11/01/2016, n. 195; Cass. Sez. 5, 30/12/2015 n. 26110).
3. Con il terzo motivo si deduce, sempre ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ., in combinato disposto con gli artt. 3,21,22,47,48,49 ed all. VI del d.lgs. n. 626 del 1994 e con l'art. 4 del d.P.R. n. 547 del 1955, per non avere la Corte distrettuale applicato tale disciplina sin dalla sua entrata in vigore alla stregua dell'assunto, errato, che prima del 2007 non era configurabile un obbligo di sicurezza di questo tipo in capo al Comune; al contrario, se le mansioni erano di per sé nocive, come evidenziato dal c.t.u., dovevano applicarsi quantomeno le disposizioni del d.lgs. n. 626 del 1994 che si riferiscono (art. 47) alle attività che comportano movimentazione manuale dei carichi con obbligo di informazione, di sorveglianza sanitaria e di predisposizione del documento di valutazione dei rischi, anche precedentemente al 2007.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Il giudice d'appello, all'esito dell'accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità, ha evidenziato che «nel periodo anteriore al 2007 non sono emersi elementi probatori sufficienti per ritenere che da parte del datore di lavoro fosse conoscibile ed esigibile la necessità di adottare misure organizzative finalizzate alla riduzione del rischio di sovraccarico delle educatrici, anche a fronte della natura multifattoriale della patologia per cui è causa, riscontrabile anche in soggetti non svolgenti questa tipologia di prestazioni» (così, specificamente, a § 14 della sentenza); ed ha poi aggiunto, in altro passaggio argomentativo della pronuncia, che la consapevolezza anche da parte degli operatori ‒ medici competenti e medici del lavoro ‒ che l'adozione di determinate posture ovvero di arredi ergonomici potesse ridurre il verificarsi del danno in soggetti che svolgevano la stessa professione della ricorrente era stata acquisita soltanto in anni recenti (dopo il 2011 secondo il convegno di Venezia), anche a fronte di dati statistici non rilevanti (v. sentenza § 16 e § 15, dove si richiama l'esito della riunione per la sicurezza del 2009 da cui si desume l'assenza di dati sull'attività delle educatrici degli asili nido, prevedendo «la normativa la movimentazione di carichi kg. 15 per le donne e kg. 25 per gli uomini (e) nella realtà specifica i bambini normalmente sono al di sotto di questi pesi»).
In esito a tale puntuale accertamento, la Corte distrettuale non aveva, quindi, alcuna necessità di richiamare i fattori di pericolosità indicati nell'Allegato VI del d.lgs. n. 626 del 1994, atteso che era emerso in concreto come, prima del 2007, l'attività delle educatrici non fosse comunque ritenuta a rischio.
3.2. Non vale dunque denunciare la violazione dell'allegato VI e sostenere che il mancato tempestivo adempimento dell'obbligo di valutazione del rischio concreta in sé un quid di colpevolezza datoriale, perché l'accertamento condotto dalla Corte territoriale secondo cui, anteriormente al 2007, la letteratura scientifica non inseriva la lavorazione in parola tra quelle esposte a rischio per movimentazione dei carichi, avrebbe reso irrilevante tale eventuale omissione in quanto, anche se la P.A. avesse rispettato detto obbligo nei termini richiesti dalla ricorrente, non avrebbe mai potuto considerare il rischio specifico collegato alla patologia poi manifestatasi e qui denunciato, non avendo, come evidenziato, dati statistici sufficienti che ne segnalassero la consistenza.
Non a caso, la Corte territoriale ha richiamato l'art. 3 comma 1 lettera b) del d.lgs. n. 626 del 1994 laddove impone un obbligo datoriale di valutazione ed eliminazione o, se non possibile, di riduzione del rischio lavorativo ma pur sempre in relazione «alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico», che sole consentono di cogliere quei fattori di rischio della lavorazione e di approntare i dovuti interventi precauzionali per eliderli o ridurli, in base all'allegato VI.
3.3. D'altro canto, la stessa ricorrente non esamina nel dettaglio l'allegato VI e i fattori di rischio ivi contemplati né si confronta con quanto affermato al § 22 della sentenza sulla diversità della esposizione a rischio a seconda della “sezione di assegnazione” affermandone la mancata prova dell'accentuazione di esso per la ricorrente («né parte appellante ha provato che la lavoratrice fosse stata adibita in via prevalente o continuativa alla sezione lattanti, ovvero che il suo rischio avesse in qualche modo superato ‒ per responsabilità del Comune ‒ le soglie tollerabili in quanto necessarie allo svolgimento dei suoi compiti»).
3.4 In definitiva, dall'iter argomentativo della Corte territoriale si desume che, ove pure si volesse individuare uno specifico inadempimento datoriale del Comune rispetto alla mancata predisposizione del documento di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994, questo sarebbe irrilevante, in quanto avrebbe carattere meramente formale e se ne dovrebbe escludere l'incidenza sostanziale, atteso che, lo si ripete, prima del 2007 non era stato ancora acclarato dalla scienza medica il rischio specifico connesso alle mansioni solitamente svolte dalle educatrici; sicché, in tale contesto, il motivo di ricorso solo apparentemente deduce una violazione di norme di legge, ma, in realtà, mira ad una rivalutazione dell'apprezzamento fattuale sotteso alle valutazioni operate nella fase d'appello, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi, per tutte: Cass. Sez. U, 27/12/2021, n. 34476 e Cass. Sez. 6-3, 14/04/2017, n. 8758).
4. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, n. 4, e 115 cod. proc. civ., per avere la Corte d'appello disatteso gli elementi di prova proposti dalle parti, esprimendo una motivazione illogica ed apparente circa la pretesa insussistenza della colpa in capo al Comune di (OMISSIS).
4.1. Il motivo è inammissibile.
Nel giudizio di legittimità una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può essere formulata per lamentare un'erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, perché la violazione della norma processuale può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. Sez. 1, 01/03/2022, n. 6774, Cass. Sez. 6-1, 17/01/2019, n. 1229, Cass. Sez. 6-L, 27/12/2016, n. 27000).
5. Infine, con il quinto motivo di ricorso si prospetta, ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ., in relazione agli artt. 1176 e 1218 cod. civ. ed agli artt. 32 e 41 Cost., per avere la Corte d'appello escluso la configurabilità di un obbligo di sicurezza da parte del Comune nel periodo antecedente al 2007; in realtà, il Comune di (OMISSIS) non ha dimostrato che l'adempimento all'obbligo di sicurezza non fosse esigibile, essendo adottabili, già prima del 2007, misure organizzative, tecniche «conoscibili e attuabili alla luce dei progressi della scienza e della tecnologia ergonomica».
5.1. Anche tale motivo solo apparentemente formula una censura di violazione di norme di diritto, ma in sostanza tenta di rimettere in discussione l'accertamento fattuale del giudice del merito e, come tale, si rivela inammissibile.
6. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. L'oggettiva incertezza delle questioni di fatto rilevanti nel caso specifico consente di ravvisare valide ragioni, ex art. 92 cod. proc. civ., per compensare le spese di legittimità.
7. Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
8. In considerazione della natura della controversia, venendo in rilievo dati sensibili, ai sensi dell'art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, va disposto l'oscuramento di ufficio delle generalità di M.S..
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente fra le parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità di M.S..