• Datore di Lavoro
  • Lavoratore

 

Ricorso di L., imprenditore, contro la sentenza di condanna per ingiuria, in qualità di datore di lavoro, nei confronti di una propria dipendente. 

 

Nei fatti era accaduto che L. aveva effettuato rilievi negativi sulla condotta lavorativa della dipendente e che quest'ultima, dispiaciuta, aveva esposto il suo rammarico. A questo punto L. aveva criticato la suscettibilità della donna, usando un termine che, per la sostanza organica richiamata, attribuisce - secondo il comune significato recepito da tutti  gli italiani,  romani compresi, e al di là della sua derivazione longobarda (p, 2 delle sentenza, trib.) - al destinatario qualifica di persona meritevole di disprezzo,  di disistima.

 

Ricorso respinto.

 

"Il contesto, ripetutamente sottolineato dal ricorrente, in cui è stato pronunciato il termine, non esclude, non attenua la sua carica offensiva: la A. non è tenuta a sottostare all'uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro. Questi, quando fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li può fare "a modo - suo”, anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica."

 

Proprio il rilievo riconosciuto alla finalità afflittiva e punitiva dell'espressione rende evidente come il L. abbia agito con la consapevolezza, e con la finalità di recar danno, di offendere la dipendente, per il mancato gradimento del precedente rimprovero.


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA.

 IN NOME BEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 QUINTA SEZIONE PENALE

UDIENZA PUBBLICA DEL 05/05/2010

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANGIULIO  AMBROSINI  - Presidente -

Dott.  PIETRO DUBOLINO  - Consigliere -

Dott. ANTONIO BEVERE  - Rel. Consigliere -

 Dott.. GENNARO.MARASCA - Consigliere -

Dott. STEFANO PALLA  - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente.

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) L.***

avverso la sentenza n. 3/2008 TRIBUNALE di AVEZZANO del 22/06/2009

visti gli atti, la sentenza, e il ricorso

udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO BEVERE.         

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Mauro Iacovello che ha concluso per il rigetto.

Udito, per la parte civile, l'Avv. V. Ratico

Uditi difensor Avv.

 

 

Fatto

 

Con sentenza emessa il 22.6.09, il tribunale di Avezzano ha confermato la sentenza emessa il 28.9.07 dai giudice di pace della stessa sede con la quale L. è stato condannato alla pena di €240 di multa, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perché ritenuto colpevole del reato di ingiuria in danno di A..

Il difensore dell'imputato ha presentato ricorso per i seguenti motivi :

1.         violazione di legge in riferimento all'art. 594 cp : la frase rievocata dalla persona offesa nel corso dell'istruttoria dibattimentale "sei una stronza se te la prendi" non esprime un giudizio sulla persona ma un suo specifico comportamento e manca quindi la lesione del bene giuridico protetto dalla norma, che è l'onore.

Il vocabolo stronza è un epiteto forte, che è entrato nel linguaggio comune romanesco. Non ha rilevanza penale in quanto è stato pronunciato da L., che è romano e il cui linguaggio è generalmente colorito e lo è normalmente in ambiente di lavoro, in cui tutti lo conoscono e lo sanno interpretare come del tutto privo di contenuti offensivi.

Trattasi di. un'espressione bonaria, rassicurante e non offensiva, attraverso la quale il L. intendeva chiaramente far capire alla A. pure a modo suo) che non era ii caso di prendersela.

2.         violazione di legge in riferimento agli arti 594 e 42 cp, mancanza di motivazione: la sentenza ha omesso l'ulteriore profilo delle censure avanzate nei motivi del gravame. La sentenza, pur riconoscendo la peculiarità del quadro storico in cui si è svolto il fatto incriminato, non ha motivato sulle ragioni per cui ha egualmente ritenuto la sussistenza dell’elemento psicologico.

Anche se è pacificamente riconosciuto che il reato richiede il solo dolo generico, il giudice deve tenere conto della peculiarità di determinate vicende onde evitare un riconoscimento automatico dei dolo medesimo.

Con la frase pronunciata - che non ha nulla di penalmente offensivo – L.  ha ripreso paternalisticamente e goffamente la persona offesa, per il fatto di crucciarsi per un rimprovero, invitandola a non farlo. Affermare che il L. -  persona adusa ad un linguaggio colorito - abbia percepito nell’espressione usata, la carica offensiva che la sentenza riconosce, è operazione priva di riscontro - sul piano, fattuale  e tale da condurre a una valutazione del fatto su schemi astratti del tutto scollati da una valutazione del caso concreto.

 

Diritto

 

Il ricorso non merita accoglimento,  proprio in virtù dell'attento esame del caso concreto e delle logiche conclusioni che sono contenute nella sentenza impugnata e nella richiamata sentenza del giudice di pace.

Il caso concreto è il seguente:.

a) L., imprenditore e datore  di lavoro della A., ha effettuato rilievi negativi sulla condotta lavorativa della dipendente;

b) L’A. se ne è doluta e ha esposto il suo rammarico;

c) L. ha criticato la suscettibilità della donna, definendola stronza,  usando, cioè, un termine che, per la sostanza organica richiamata, attribuisce - secondo il comune significato recepito da tutti  gli italiani,  romani compresi, e al di là della sua derivazione longobarda (p, 2 delle sentenza, trib.) - al destinatario qualifica di persona meritevole di disprezzo,  di disistima.

Il contesto ripetutamente, sottolineato dal ricorrente, in cui è stato pronunciato il termine, non esclude, non attenua la sua carica offensiva: la A. non è tenuta a sottostare all'uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro. Questi, quando fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li può fare "a modo- suo”, anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica.

Se L. ha percepito la reazione negativa della donna per un precedente  rimprovero, non può impunemente "censurare" la sua suscettibilità con un termine fortemente, dispregiativo.

Proprio il rilievo riconosciuto alla finalità afflittiva e punitiva dell'espressione stronza rende evidente come il L. abbia agito con la consapevolezza, e con la finalità di recar danno, di offendere la dipendente, per il mancato gradimento del precedente rimprovero. Il paternalismo e la goffaggine  invocati come dimostrativi della mancata percezione della carica, offensiva  non sono affatto  scriminanti rispetto alla ritenuta rilevanza penale della condotta del L., aduso a linguaggio colorito:  nel nostro ordinamento il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità dei suoi protagonisti; da una pari effettività di tutta la normativa, senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti, una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni.

In linea generale, il richiamo al concetto del contesto, quale circostanza attenuante o addirittura come causa esimente nei reati contro i diritti della persona, di cui al Titolo XII, capo II non può tradursi in un’insostenibile affermazione di abrogazione, per desuetudine  di norme penali in quanto proiettate in un quadro sociologicamente e/o culturalmente disegnato dal giudice. Questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilità in materia di rispetto della dignità umana, ancor maggiore quando è in gioco la dignità del lavoratore.

Il ricorso va quindi rigettato  con condanna del L. al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi €. 800, oltre accessori come per legge.

 

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi € 800, oltre accessori come per legge.

Roma, 5.5.2010

Depositata in Cancelleria

Roma, lì 29 settembre 2010