Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 marzo 2025, n. 6314 - Sottrazione di un mazzo di chiavi e licenziamento per giusta causa
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAGETTA Antonella - Presidente
Dott. PONTERIO Carla - Consigliere
Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere
Dott. BOGHETICH Elena - Consigliere-Rel.
Dott. CIRIELLO Antonella - Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 21516-2023 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell'avvocato CLAUDIO LUCISANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GINO SPAGNUOLO VIGORITA;
ricorrente
contro
ACSE Spa - AZIENDA COMUNALE SERVIZI ESTERNI;
intimata
avverso la sentenza n. 200/2023 della CORTE D'APPELLO di SALERNO, depositata il 11/05/2023 R.G.N. 88/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH.
Fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'Appello di Salerno, respingendo il reclamo principale del lavoratore e accogliendo il ricorso incidentale del datore di lavoro, in riforma del provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto tutte le domande proposte da A.A. nei confronti della società AZIENDA COMUNALE SERVIZI ESTERNI-ACSE Spa per l'accertamento della illegittimità del licenziamento intimato per giusta causa in data 4.1.2019.
2. La Corte territoriale, rilevato che il licenziamento era stato preceduto da una contestazione disciplinare concernente tre condotte, ha ritenuto che l'addebito concernente l'appropriazione di un mazzo di chiavi di altra dipendente e relative a numerose serrature di uffici, bagni, cancelli, antifurto, serrature di sicurezza di uffici e bagno, cassetto personale della dipendente e cassettina di sicurezza era da solo sufficiente ad integrare, ai sensi dell'art. 2119 c.c. nonché alla luce della declaratoria contenuta nel CCNL di settore, episodio grave, tenuto conto dell'intensità dell'elemento intenzionale, nonché della qualifica del A.A. (Quadro, cat. A) e del tipo di chiavi sottratte, non risultando, inoltre, provata l'incidenza delle medicine assunte dal lavoratore sulla capacità di mantenere intatta lucidità e memoria. La Corte territoriale aggiungeva che: a fronte dell'accertata sussistenza di una giusta causa di licenziamento, doveva escludersi la ricorrenza di una causa unica determinante invocata dal dipendente ai fini del riconoscimento della natura ritorsiva del recesso; non era stato accertato alcun vizio formale del procedimento disciplinare (non solo perché risultava provata l'affissione e la personale comunicazione al A.A. del codice disciplinare, ma altresì perché tale vizio risultava, comunque, irrilevante a fronte della contrarietà della condotta ai fondamentali doveri di fedeltà, buona fede e correttezza); erano stati rispettati tutti i diritti di difesa del lavoratore (essendo stato, il lavoratore, sentito nel corso del procedimento disciplinare, affiancato dal suo rappresentante sindacale, ed avendo ricevuto un atto di recesso per iscritto e motivato; nessuna eccezione era stata, invece, sollevata quanto ad una eventuale tardività della contestazione o alla violazione di termini). Infine, con riguardo alla legittimazione del soggetto che aveva firmato la lettera di licenziamento, la Corte territoriale ha ritenuto rispettato l'art. 17 del Regolamento aziendale (che istituisce e regola i compiti dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari-UPD), posto che, da una parte, detta previsione non richiede la provenienza dall'UPD del provvedimento di recesso e, dall'altra, era stato accertato che l'unica figura sovraordinata al personale con qualifica di Quadro (come il A.A.) era l'amministratore unico della società (che, per l'appunto, aveva sottoscritto la lettera di licenziamento, essendo il legale rappresentante della società, a seguito di sostituzione dei componenti del Consiglio di amministrazione della società partecipata del Comune di Scafati, sciolto per infiltrazioni della criminalità organizzata), aggiungendo che, in ogni caso, che il combinato disposto degli artt. 17 del Regolamento e 18 della legge n. 300 del 1970 (richiamato dal citato art. 17) non consentivano di ritenere nullo il provvedimento adottato in mancanza di costituzione dell'UPD o sottoscritto da organo diverso dall'UPD.
3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. La società è rimasta intimata.
4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nei successivi sessanta giorni.
Diritto
1. Con il primo motivo (subarticolato in otto censure) di ricorso, si denunzia, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1368, 1370, 1372, 1374, 1175, 1375 c.c. in combinazione con gli artt. 1324, 1334 c.c., 39 Cost. e 18 della legge n. 300 del 1970 avendo, il lavoratore, sin dal primo grado segnalato che l'intero procedimento disciplinare ("dalla contestazione dell'addebito all'irrogazione della sanzione") era stato gestito in autonomia dal dott. B.B., in qualità di Amministratore della società e non quale membro dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari-UPD, con conseguente nullità del provvedimento per inesistenza. La Corte territoriale ha errato nell'interpretare l'art. 17 del Regolamento della società, da ritenersi vincolante (anche perché sottoscritto con le organizzazioni sindacali e ampiamente pubblicizzato tra i dipendenti), che prevede l'intervento dell'UPD (ossia di un organo collegiale formato dall'impiegato addetto al personale, dal Responsabile apicale del personale, dal Direttore generale o Dirigente apicale della società) "per l'applicazione delle sanzioni", e non solo per il procedimento istruttorio, mentre è irrilevante che i singoli atti e snodi del procedimento debbano essere sottoscritti dal Direttore generale; l'art. 2 del Regolamento, inoltre, prevede che le disposizioni ivi dettate sono "un adattamento delle norme stabilite dall'art. 54 del D.Lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall'art. 1, co. 44 della legge n. 190 del 2012, confluite nel D.P.R. n. 62 del 2013" e, pertanto, tale riferimento esplicito alla regolamentazione vigente nel pubblico impiego doveva guidare l'interprete (e la giurisprudenza elaborata in materia di pubblico impiego prevede la nullità del provvedimento ove il procedimento disciplinare sia instaurato da un soggetto diverso dall'UPD di cui all'art. 55 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001); interpretare la norma nel senso di prevedere la collegialità solamente per la fase precedente all'adozione del provvedimento disciplinare è irragionevole, perché si lascerebbe ad un unico soggetto la decisione di un atto realmente pregiudizievole per il lavoratore. Inoltre, il ricorrente rileva che la società non poteva unilateralmente disapplicare il Regolamento (nell'interpretazione offerta dallo stesso ricorrente), che la sanzione è nulla per incompetenza di chi ha gestito il procedimento disciplinare e adottato l'atto di licenziamento, o, in subordine, va applicato l'art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970 per malafede e scorrettezza della condotta datoriale.
2. Con il secondo motivo si denunzia, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 3, violazione dell'art. 112 c.p.c. per avere la Corte di appello deciso solo su una parte della domanda proposta dal lavoratore, il quale ha sempre contestato la legittimità della "gestione" del potere disciplinare da parte del dott. B.B. quale Amministratore unico (ossia di tutti gli snodi del procedimento disciplinare fino al provvedimento di recesso): "il licenziamento disciplinare doveva ritenersi nullo in quanto irrogato da chi non aveva il potere di irrogarlo".
3. Con il terzo motivo si denunzia, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 3, violazione dell'art. 112 c.p.c. posto che il lavoratore aveva chiesto, nei vari atti processuali, l'applicazione, in via subordinata (rispetto ai primi commi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970), dei commi 4, 5 e 6 dell'art. 18 citato e la Corte di appello non ha mai valutato la condotta scorretta e in malafede della società (in relazione alla violazione del procedimento disciplinare).
4. Con il quarto motivo si denunzia, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 3, violazione degli artt. 2106, 2119 c.c. e 52 del CCNL di settore, posto che le contestazioni disciplinari non erano tali da giustificare il recesso (non potendo ritenersi avverata una condotta, da parte del A.A., di sottrazione delle chiavi della collega).
5. Preliminarmente, in ordine alla questione della validità della notifica del ricorso per cassazione (effettuata alla parte personalmente e non al suo procuratore), questa Corte ha già affermato che la notifica del ricorso per Cassazione alla parte personalmente, anziché al difensore costituito nel giudizio nel quale è stata resa la sentenza impugnata, non ne determina l'inesistenza giuridica, ma semplicemente la nullità, sanabile in forza della rinnovazione della notifica, sia quando il ricorrente vi provveda di propria iniziativa, anticipando l'ordine contemplato dall'art. 291 cod. proc. civ., sia quando agisca in esecuzione di esso, senza che rilevi che alla rinnovazione si provveda posteriormente alla scadenza del termine per impugnare (Cass. n. 19702 del 2011; in senso conforme, Cass. n. 15236 del 2014; Cass. n. 24450 del 2017; Cass. n. 11069 del 2022; Cass. n. 10155 del 2024).
5.1. Peraltro, risulta inutilmente dispendiosa e defatigante l'attività volta alla rinnovazione della notifica del ricorso, atteso che il ricorso risulta prima facie inammissibile e manifestamente infondato. Giova in proposito richiamare l'orientamento espresso da questa Corte, che il Collegio pienamente condivide, secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie inammissibile o infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l'integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell'effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. Sez. 6 - 3, 17/06/2019 n. 16141; Cass. Sez. 2, 21/05/2018 n. 12515).
6. Il primo motivo è manifestamente infondato.
6.1. In ordine all''interpretazione degli atti di autonomia privata di natura privata, sia contrattuali che unilaterali, quale il regolamento aziendale, questa Corte ha già affermato che - per sottrarsi al sindacato di legittimità - quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito - alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra.
6.2. Il percorso ermeneutico svolto dai giudici di merito è corretto, in quanto articolato in una "circolarità" che ha impegnato l'interprete sia nell'esegesi del testo sia nella ricostruzione della ratio avuto riguardo allo "scopo pratico" perseguito, e quindi della relativa "causa concreta" (Cass. 17 novembre 2021, n. 34795; Cass. 25 gennaio 2022, n. 2173). Invero, la Corte territoriale non solo ha evidenziato che il tenore lessicale della disposizione del Regolamento impone di ritenere necessario l'intervento dell'UPD solamente nella fase istruttoria precedente alla contestazione disciplinare (mentre è previsto espressamente che la contestazione disciplinare deve essere sottoscritta dal Direttore generale, che, nel caso della presente società, non poteva che essere l'Amministratore unico, mancando figure sovraordinate alla qualifica di Quadro); ma ha, inoltre, evidenziato che la disposizione, mediante la previsione di una collegialità (affidata all'UPD) degli atti concernenti la fase istruttoria e mediante il rinvio espresso al rispetto delle regole procedimentali dettate dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, costituisce un quadro sufficiente di garanzia del rispetto dei diritti di difesa del lavoratore (nel caso di specie procedura garantista rispettata, essendo stata accertata sia la pubblicità del codice disciplinare sia l'audizione del lavoratore con l'affiancamento di un rappresentante sindacale).
6.3. Il richiamo della disciplina dettata per il personale del pubblico impiego (contrattualizzato) ai fini dell'invocata nullità del licenziamento, è fuorviante, posto che, al suddetto personale si applica una puntuale e specifica disciplina (in specie art. 55 bis, che viene espressamente definita "inderogabile" dall'art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001) e che circoscrive il suo campo di applicazione "ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2", tra le quali non rientra la società oggetto della presente controversia (società a partecipazione pubblica da parte del Comune di Scafati).
6.4. In ogni caso, correttamente la Corte territoriale ha rilevato che la violazione della disposizione del Regolamento non può determinare la nullità del provvedimento di recesso in quanto non si tratta di norma avente natura "imperativa" (cfr., con riguardo alle nullità virtuali, Cass. S.U. nn. 8472 e 33719 del 2022 nonché Cass. S.U. n. 26724 del 2007).
7. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente per stretta connessione, sono manifestamente infondati.
7.1. La Corte territoriale, partendo dalla ricostruzione esegetica dell'art. 17 del Regolamento quale disciplina che impone unicamente l'intervento dell'UPD nella fase istruttoria del procedimento disciplinare, ha coerentemente escluso violazioni della procedura (sia quella dettata dal suddetto art. 17 sia quella contenuta nell'art. 7 della legge n. 300 del 1970), in quanto ha rilevato che - come previsto dall'art. 17 citato - le garanzie poste a difesa del lavoratore sono state tutte rispettate, la contestazione disciplinare è stata correttamente adottata dall'Amministratore unico, così come anche l'atto di licenziamento, con ciò dovendosi escludere l'applicazione del comma 6 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. La Corte territoriale ha, pertanto, approfonditamente e compiutamente valutato tutte le domande poste dal lavoratore in merito alla regolarità del procedimento disciplinare.
8. Il quarto motivo è inammissibile.
8.1. La censura formulata come violazione di legge mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.
8.2. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
9. In conclusione, il ricorso va rigettato, nulla sulle spese.
10. Sussistono le condizioni di cui all'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 28 gennaio 2025.
Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2025.