Cassazione Penale, Sez. 4, 17 marzo 2025, n. 10460 - Amputazione del braccio dell'apprendista-operaio durante la pulizia della macchina filtro essiccatore. Prassi consolidata di lavaggio a boccaporto aperto 


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta da:

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente

Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore

Dott. DAWAN Daniela - Consigliere

Dott. CIRESE Marina - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sui ricorsi proposti da:

A.A. nato a M. il (Omissis)

B.B. nato a M. il (Omissis)

C.C. nato a M. il (Omissis)

D.D. nato a C. il (Omissis)

avverso la sentenza del 15/05/2024 della CORTE APPELLO di MILANO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore gen. GIULIO ROMANO che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi per tutti i ricorrenti.

Uditi i difensori:

- avvocato RIGHI ANDRFA AUGUSTO del foro di M. in difesa di B.B., C.C., D.D. che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.

- avvocato PLATI LUIGI del foro di P. in difesa di A.A. il quale si riporta ai motivi di ricorso chiedendone l'accoglimento.
 

Fatto


1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Appello di Milano, sull'appello di tutti gli odierni ricorrenti, ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Lodi, il 4.5.2023, all'esito di giudizio ordinario, assolti perché il fatto non sussiste gli originari coimputati E.E. e F.F., aveva condannato A.A. alla pena di anni uno mesi sei di reclusione nonché B.B., C.C. e D.D. alla pena di anni uno e mesi due di reclusione ciascuno oltre al pagamento delle spese processuali, con sospensione condizionale e la non menzione per tutti, in quanto riconosciutili colpevoli: TUTTI:

a) del delitto p. e p. dagli art. 113, 590 commi 2 e 3, cod. pen. in relazione all'art. 583 comma 2 n. 3 cod. pen., perché, in cooperazione tra loro presso la società ACS DOBFAR Spa, con sede in T. (MI), viale (Omissis) e l'unità locale ACSD8 Sita in S., via (Omissis), per colpa consistita in imprudenza, imperizia, negligenza ed inosservanza delle norme della prevenzione antinfortunistiche e in particolare dell'art. 2087 cod. civ. e

A.A. nella qualità di dirigente, manager del reparto di produzione sterile stabilimento ACSD8, dell'art. 18 comma 1 lett. f) e 55 D.Lgs. 81/2008, in quanto ometteva di richiedere da parte dei singoli lavoratori l'osservanza delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e, in particolare, istituendo, avallando e non impedendo la prassi consolidata e quotidiana volta all'ulteriore lavaggio del filtro essiccatore MD1 (matricola (Omissis)), dopo il lavaggio automatico, effettuata tramite l'apertura del portello metallico del boccaporto e la rotazione del filtro essiccatore di 180, così da portare la rete del filtro in posizione da poterla lavare con la canna dell'acqua facendo cadere a terra le impurità per gravità. Tale operazione prevedeva che venisse aperto e sfilato il portello metallico del boccaporto (affinché non cadesse al suolo per gravità nel momento in cui il filtro veniva ruotato) e venisse disattivato il sensore di sicurezza (sensore induttivo) tramite l'applicazione di un bullone nastrato sul sensore stesso, così da simulare la presenza del portello metallico. In tal modo, anche in assenza del portello metallico del boccaporto, è possibile ruotare il filtro essiccatore sul proprio asse orizzontale e azionare la rotazione della pala del sistema di agitazione interna per verificare il grado di pulizia della macchina;

I.I., nella qualità di preposto, caporeparto del reparto di produzione sterile dello stabilimento ACSD8,

C.C., nella qualità di preposto, capoturno del reparto di produzione sterile dello stabilimento ACSD8,

D.D., nella qualità di preposto, vice capoturno del reparto di produzione sterile dello stabilimento ACSD8,

dell'art. 19 comma 1 lettera a) e 56 D.Lgs. 81/2008, in quanto omettevano di sovraintendere e vigilare sull'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e, posta la prassi consolidata e quotidiana volta al lavaggio del filtro essiccatore MD1 con inosservanza delle disposizioni di sicurezza consistita nella disattivazione abituale del sensore di sicurezza (sensore induttivo) tramite l'applicazione di un bullone nastrato sul sensore stesso, omettevano di informare i superiori diretti;

così facendo cagionavano al dipendente lavoratore G.G., apprendista-operaio operatore del reparto di produzione sterile, lesioni personali gravissime; infatti G.G., unitamente a H.H. e J.J., dopo aver aperto il portello metallico e disattivato il sensore di sicurezza del filtro essiccatore MDI secondo la prassi in uso in azienda procedeva alla pulizia del filtro, quindi, dopo alcune operazioni di pulizia a terra, avviava la rotazione della pala rotante del sistema di agitazione, si portava in prossimità del boccaporto insieme a J.J. e inseriva il braccio sinistro all'interno dell'essiccatore, ove la pala rotante rimasta in funzione agganciava il braccio, subendo l'amputazione traumatica del braccio - lesioni personali gravissime.

Con le circostanze aggravanti della lesione gravissima per la perdita di un arto, nonché della violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. In S., il (Omissis)

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.

• A.A. (Avv. Luigi Piati)

Con il primo motivo il ricorrente lamenta contraddittorietà della motivazione con riferimento al vizio di travisamento della prova che si sarebbe concretizzato nel ritenere una dinamica del sinistro così caratterizzata: il lavoratore avrebbe inserito il braccio nell'essiccatore attraverso il boccaporto, credendo di avere spento il movimento delle pale al suo interno. Il Collegio milanese descrive una ricostruzione dei fatti di seguito sintetizzata (che, a parere del difensore ricorrente, risulterebbe disallineata rispetto a quanto emerso all'esito del dibattimento e non fornirebbe alcuna valida ed efficace controdeduzione alle argomentazioni sviluppate in sede di impugnazione): "Come emerge dalla testimonianza del teste J.J., correttamente valorizzato dal primo giudice in quanto al momento dell'infortunio stava svolgendo l'operazione di lavaggio filtro con la persona offesa, i due, dopo aver terminato l'operazione di lavaggio a boccaporto aperto e con il sensore disattivato a mezzo del nastro isolante, verificavano se vi fossero residui di sporco all'interno. Per far ciò, G.G., avendo notato dei puntini, si avvicinava ai comandi del touch screen e li azionava per far girare le pale e controllare meglio insieme al collega, per poi tornare a spegnerle) prima di riavvicinarsi al macchinario ed introdurre il braccio, pensando che il macchinario fosse spento. La stessa dinamica è stata riferita dalla persona offesa in giudizio ed emerge dai filmati di sorveglianza, come descritti nella relazione del consulente tecnico del PM ed ancor più chiaramente nella relazione di infortunio ATS in cui viene dato atto del doppio avvicinamento del G.G. al touch screen per accendere e poi per spegnere il macchinario" (pag. 9 sentenza).

Il dato probatorio sarebbe travisato e il Collegio territoriale, sul solco di una lettura errata degli elementi testimoniali, in adesione al convincimento inesatto del giudice di primo grado, fornirebbe una motivazione che si rivelerebbe illogica ed incongruente a fronte del compendio probatorio.

Le circostanze su cui appare evidente uno scollamento per il ricorrente risultano le seguenti: 1. L'incidente non avviene in fase di lavaggio, ma in fase di osservazione; 2. non esiste alcuna accensione e successivo spegnimento delle pale che possa lasciar intendere che l'infortunato avesse creduto che fossero spente (ciò in quanto nel corso delle SIT del 27.02.17 il G.G. riferisce che "io ed il collega H.H. stavamo controllando ('efficacia del lavaggio effettuata dal J.J.; ho azionato l'agitazione e quindi la rotazione interna delle pale, attraverso la pressione sul quadro comandi touch screen "on/off agitazione" e quando le pale hanno iniziato a muoversi, ho notato all'interno del filtro essiccatore MD7 un puntino bianco; non ricordo esattamente il seguito se non che ho inserito la mano sinistra all'interno del boccaporto"; 3. la dichiarazione non si presterebbe ad alcuna diversa interpretazione perché la persona offesa dichiara di aver inserito la mano sinistra "quando le pale hanno iniziato a muoversi"; 4. il teste J.J. ha riferito che quando il G.G. ha introdotto la mano nel filtro le pale stavano visibilmente girando (ud. 18.10.21 - pag.44); 5. la deposizione del CT del Pubblico Ministero, Ing. K.K., sentito all'udienza del 13.10.22 (pag.15), evidenzia la difformità tra quanto riportato nella propria relazione (laddove nel descrivere l'evento, citando come fonte le SIT dell'infortunato, scrive che il signor G.G. "... si avvicinava nuovamente al quadro di comando con l'intenzione di arrestare la macchina, che purtroppo pare non abbia dato risposta e che quindi non sospendeva la rotazione della pala rotante del sistema di agitazione (estratto dalla SIT del signor G.G. rilasciata alla ATS di Milano)", e quanto invece dichiarato dall'infortunato nelle predette SIT, tant'è che l'ing. K.K., a seguito della contestazione, precisa che "Questo passaggio, questa affermazione effettivamente non la ritrovo nella SIT che mi ha letto lei Avvocato"; 6. la dettagliata e puntuale ricostruzione della sequenza delle operazioni svolta dal CT della Difesa L.L. (così la relazione agli atti e le dichiarazioni rese all'udienza del 18.01.23), all'esito della visione del video che riprende le attività poste in essere dai lavoratori nel frangente, comprova come non vi fu alcuna 'mancata risposta' da parte del touch screen e che dunque, come riferisce in estrema chiarezza l'infortunato, l'inserimento della mano nel filtro fu fatta volontariamente con le pale in visibile e consapevole movimento.

Per il ricorrente, al netto delle ulteriori considerazioni che svolge la Corte d'Appello in merito alla 'irrilevanza' della conoscenza o meno circa la presenza di pale in moto (che saranno oggetto di separata valutazione), non può negarsi che - sotto un profilo meramente fattuale - l'evento si sia verificato in un contesto comportamentale dell'operatore in cui il predetto attivò volontariamente le pale e subito dopo, imprevedibilmente ed inspiegabilmente, introdusse la mano con gli organi palesemente e visibilmente in movimento.

Ne deriverebbe che il capo di imputazione laddove riporta, nella descrizione della dinamica, l'inciso "ove le pale rimaste in funzione" configurerebbe uno scenario non corrispondente alla realtà riferita e contestualizzata dai testi: ed in tale equivoco convergono le sentenze sia di primo che di secondo grado.

A fronte di tali considerazioni, non appare coerente e congruente rispetto al compendio probatorio affermare che il G.G. avrebbe fatto girare le pale per controllare il lavaggio "per poi tornare a spegnerle (o meglio a credere di averle spente)" (pag.8 sentenza) e che indirizzò la mano nel filtro nel convincimento che non girassero in quanto si registra una dinamica esattamente al contrario ovvero che egli attivò il moto ('quando le pale hanno iniziato a muoversi') e purtroppo subito dopo inserì la mano.

Non vi fu alcuno spegnimento o tentativo di spegnimento tra l'attivazione delle pale ed il volontario inserimento della mano. Inoltre, il lavaggio in senso stretto (ossia l'utilizzo della canna a boccaporto aperto) a nulla rileva perché l'infortunio si verifica in una fase post lavaggio in cui non vi può essere alcuna necessità di introduzione delle mani (necessità che non si rileva invero in alcuna occasione della produzione), dovendo l'operatore eventualmente soltanto osservare e ancor oggi risulta incomprensibile la condotta tenuta dallo stesso.

A tal proposito, per il ricorrente appare priva del richiesto rigore logico l'argomentazione della Corte territoriale che confonde i segmenti di condotta rilevanti causalmente nel caso concreto posto che, se può ritenersi astrattamente ammissibile che, indipendentemente dalle ragioni per cui si era affermata tale prassi di disattivazione sensore in violazione delle disposizioni aziendali, il lavaggio potesse prevedere un conclusivo controllo visivo, rimane sprovvista di spiegazione la condotta del lavoratore di attivazione touch screen e successivo immediato inserimento della mano nel filtro con le pale chiaramente in movimento.

Il focus dell'analisi causale, per giudicarne l'esorbitanza/abnormità rispetto anche ad una possibile prevedibilità da parte del datore di lavoro/dirigente, non può concentrarsi sul compito generalmente riconducibile alle mansioni affidate agli operatori (tra cui - per l'ipotetico lavaggio a canna - sarebbe potuta rientrare l'osservazione post pulizia) bensì sull'azione volontaria di introduzione della mano dopo che era stato attivato, dallo stesso lavoratore, il moto delle pale, azione disancorata da qualsivoglia prevedibile esigenza operativa rispetto sia all'eventuale lavaggio che all'eventuale necessità di osservazione.

Pertanto, a prescindere dalla conoscenza della prassi di disattivare il sensore, non vi sarebbe chi non veda secondo la tesi proposta in ricorso come la connotazione di "imprevedibilità" intrinseca in un'azione quale quella posta in essere dal lavoratore (accensione moto pale e introduzione mano) impatti in maniera dirompente sul nesso causale.

Si sostiene che l'azione posta in essere dal G.G., ad una lettura puntuale e congruente dei contributi probatori, è risultata imprevedibile in relazione anche ad una possibile e contemplabile ipotesi di svolgimento del lavaggio a boccaporto smontato che - come si approfondirà di seguito - non implicava alcuna manipolazione del sensore (nastro sul bullone per 'eludere il dispositivo), ma - come per i lavaggi a fine campagna - prevedeva lo spegnimento del filtro, la semplice apertura ed il conseguente lavaggio manuale (con le pale ovviamente immobili).

Il ricorrente ritiene, pertanto, sussistente il vizio di travisamento che ha generato un compendio motivazionale, con riferimento al nesso di causa, illogico ed incoerente in quanto - al netto della prassi contestata di nastratura bullone - la corte territoriale muove da un dato errato ovvero che la persona offesa avrebbe creduto di spegnere il moto delle pale e avrebbe inserito la mano all'interno nel convincimento che fossero ferme mentre come emerso - egli attivò e, nella consapevolezza, introdusse l'arto.

Con il secondo motivo si lamentano contraddittorietà ed illogicità della motivazione anche con riferimento al vizio di travisamento, riguardo ai brani della sentenza concernenti: a. la prova circa la ritenuta responsabilità dell'imputato A.A. laddove la Corte territoriale ritiene accertato che fosse stato il predetto ad avallare, in violazione delle procedure aziendali, la prassi di "disattivazione del sistema di sicurezza (sensore)" (pag. 9), ricavando tale assunto dai richiami del contenuto dell'interrogatorio reso dall'A.A. in fase di indagini e fatto acquisire al fascicolo; b. il segmento di motivazione in cui la Corte territoriale rileva la consapevolezza dell'imputato dalla circostanza che sarebbe stato lui a svolgere il c.d.

training on the job di lavoratori e dalla circostanza che nel reparto sterile fossero presenti nastro adesivo, cacciavite ecc... (pag. 10).

I sopra indicati vizi della sentenza, in relazione alle circostanze sopra segnalate, sono stati suddivisi in due filoni di doglianza, ma in realtà per il ricorrente risultano tra di loro avvinti poiché entrambi si manifestano a causa di una lettura travisata dell'interrogatorio reso dall'A.A. - i cui passaggi essenziali sono riportati in ricorso - che, in primis, a differenza di quanto continui a sostenere la Corte territoriale, non ha ammesso di conoscere, come ipotesi eccezionale, la prassi di lavaggio manuale del filtro mediante disattivazione del dispositivo di sicurezza (ovvero quella contestata), ma ha dichiarato tutt'altro.

Per il difensore ricorrente, l'imputato riferisce semplicemente che, in casi eccezionali di non perfetta pulizia, 'aprire il boccaporto' e 'rimuovere incrostazioni con la canna dell'acqua' sia una modalità possibile (e soprattutto l'unica da lui conosciuta) che non implica in alcun modo la nastratura del bullone e Telusione del sensore: si spegne la macchina, sì apre il boccaporto e dunque - senza alcuna manomissione del sensore - sì effettua un risciacquo senza pericolo.

La differenza, rispetto al lavaggio automatico, è rappresentata dal getto d'acqua effettuato con canna manualmente che non significa e non prevede alcuna elusione del sensore con nastratura o altro, anche perché sì opera a macchina ferma.

Tale modalità di intervento, sostanzialmente corrispondente alla fase di manutenzione da svolgere in caso dì "cambio campagna" (implicante l'apertura del boccaporto, ad impianto fermo), sarebbe ben differente dalla prassi scorretta emersa a seguito dell'infortunio e soprattutto non prova alcuna consapevolezza dell'A.A. riguardo ad una tipologia dì operazione che, come anticipato in premessa e riconosciuto dai giudici territoriali, non aveva senso perché nemmeno migliorativa della produzione odi fasi di essa.

Per il ricorrente rimane senza una plausibile spiegazione la ragione per cui gli operatori agissero secondo tale modalità e paradossalmente tale inspiegabile scelta si riflette sull'A.A., secondo la chiave di lettura delle testimonianze applicata dai Giudici lombardi, sebbene non si rinvenga un minimo motivo che ne giustifichi una illogica ascrizione al responsabile del sito.

Si dovrebbe, dunque, escludere, per manifesta illogicità ed incongruenza dovuta al travisamento della prova da parte del giudice milanese, che si sia consumato, attraverso l'interrogatorio acquisito, un riconoscimento della pratica, invalsa in reparto tra gli operatori, di "nastrare il bullone sul sensore" e consentire di muovere le pale a boccaporto aperto: A.A. si riferiva ad un lavaggio ben diverso.

Allo stesso modo illogica e oggetto di travisamento probatorio - secondo la tesi proposta in ricorso - sarebbe la seconda argomentazione della Corte d'Appello rispetto a tale asserita consapevolezza: scrive il collegio milanese a questo proposito che "... merita anche sottolineare che lo stesso A.A. ha riferito in interrogatorio che si occupava della prima formazione dei neoassunti, il ed training on the job. All'interno del reparto sterile vi era, inoltre, una cassetta con tutto l'occorrente (nastro adesivo, cacciavite eccetera) per smontare i bulloni del boccaporto e disattivare il sensore del filtro essiccatore. In definitiva in esito all'istruttoria vi è più che la ragionevole certezza che l'appellante (come i preposti a lui subordinati) fosse consapevole della prassi di lavaggio manuale del filtro, per averla anzi egli imposta nello stabilimento...". (pag. 10).

Per il ricorrente non può non constatarsi come risulti contraddittoria la motivazione censurata rispetto alle emergenze dibattimentali; tutti i testimoni, perfino il G.G., non hanno in alcuna occasione riportato che fu indicata o trasferita dall'A.A. una sorta di procedura di lavaggio manuale da effettuare previa disattivazione del sensore (prima con avvicinamento poi con nastro), ma hanno sempre parlato di modalità "tramandata" o meglio vista fare dagli operatori più anziani. Ne deriva che, ove fosse stato un insegnamento dell'A.A. in sede di training on the job, i plurimi testimoni sentiti lo avrebbero certamente fatto presente nel riferire le circostanze in occasione delle quali ne sarebbero venuti a conoscenza: come noto, gli unici due che hanno dichiarato di un coinvolgimento diretto di A.A., nel trasferire tale prassi "pericolosa" ed "inutile", sono stati i "rancorosi" Di M.M. e N.N. (di cui si tratterà in seguito).

La Corte milanese, pertanto, non coglierebbe nel segno e traviserebbe il significato del contenuto dell'interrogatorio in quanto difetta di collegarlo all'intero risultato probatorio: ne consegue un giudizio viziato ed un mancato/illogico/contraddittorio riscontro argomentativo alle censure proposte dall'appellante in sede di impugnazione laddove è stato ampiamente contro dedotto avverso l'assunto di una consapevolezza dell'A.A. di un lavaggio manuale, praticamente quotidiano, che contemplava la disattivazione del sensore. Il quale - si ricorda - ha sempre dichiarato che al limite poteva essere concepita una pulizia, a macchina ferma, con boccaporto aperto e senza alcuna elusione del sensore.

Analogamente, difetterebbe di valore probatorio, e conferma ne sarebbe il riferimento decontestualizzato della Corte territoriale in sentenza, la circostanza della presenza del nastro e del cacciavite nel reparto sterile: l'irrilevanza del dato fattuale ivi evidenziato è testimoniata, da un lato, dall'assenza di prove circa una presenza continuativa di tale materiale, dall'altro, dalla facile e ragionevole deduzione che il responsabile del sito produttivo non avrebbe consentito la presenza di

alcun elemento esterno alla produzione, trattandosi di reparto sterile, in quanto un'eventuale contaminazione avrebbe compromesso il prodotto.

Si censura, inoltre, la sentenza nella parte in cui, in tema di nesso causale, i giudici milanesi aggiungono come sia irrilevante la dinamica del fatto (ovvero se la persona offesa accese le pale ed introdusse volontariamente la mano o se il touch screen non funzionò, generando il convincimento del lavoratore circa l'avvenuto spegnimento) poiché - sostanzialmente questo il senso del brano della motivazione a pag.9 - si scrive "Ove le procedure di lavaggio del filtro fossero state correttamente eseguite - e dunque il boccaporto del filtro essiccatore fosse rimasto chiuso ed il sensore in funzione - l'infortunio non si sarebbe verificato".

Per il ricorrente tale conclusione è condivisibile nella misura in cui si inserisce nel contesto argomentativo una necessaria specificazione che in motivazione manca e che assume rilevanza anche ai fini dell'effettiva conoscenza della prassi in parola (nella sua interezza ovvero comprensiva della circostanza cruciale della disattivazione del sensore): aprire il boccaporto non è una condotta o un'operazione contraria alle disposizioni aziendali e di sicurezza perché - come emerso in istruttoria dibattimentale in diverse fasi del ciclo produttivo risulta contemplata l'apertura, a filtro spento. L'elemento dirimente, dunque, è la nastratura del bullone e l'elusione del sensore per consentire un'irragionevole contestualità "apertura boccaporto" e, "previa attivazione volontaria movimento pale", circostanza sulla quale i giudici milanesi commettono l'errore di travisare il dato fattuale ritenendo in maniera inesatta che, per consentire di aprire il boccaporto, fosse necessario "eludere il sensore", così valutando che avere conoscenza ditale apertura implichi in automatico conoscere della manipolazione del presidio. Al contrario, aprire il boccaporto ed eventualmente quanto eccezionalmente eseguire un lavaggio manuale con la canna, fermo restando il funzionamento del sensore ed il blocco delle pale, non realizza alcuna violazione delle disposizioni di sicurezza e/o aziendali posto che trattasi di operazione da svolgere a macchina ferma comunque.

Per il ricorrente ulteriore doglianza attiene, sempre con riferimento al vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, all'asserita ritenuta prova della consapevolezza dell'A.A., riguardo alla scorretta prassi di lavaggio del filtro, sostenuta sulla scorta delle dichiarazioni rese dai testi N.N. e M.M..

Ritiene il difensore ricorrente che il Collegio milanese non abbia fornito argomentazioni motivazionali idonee e logiche a contrapporsi alle censure articolate nell'atto di appello in merito alla lettura critica delle predette testimonianze (ritenute inattendibili), le uniche a introdurre un coinvolgimento diretto dell'A.A. rispetto alla contestata e vietata modalità di lavaggio con sensore eluso.

Il ricorrente si duole che la Corte d'appello dedica poche righe alle testimonianze in questione, limitandosi a riferire che "Ad avviso della Corte le dichiarazioni dei due testimoni non risultano affatto inquinate da rancore personale e sono del tutto coerenti e credibili, oltre che in linea con le altre testimonianze assunte. Entrambi i testi hanno evidenziato di aver avuto motivi di discussione con A.A. per la pericolosità delle operazioni di lavaggio, ad esempio avendo il M.M. fatto presente che l'utilizzo della canna dell'acqua per il lavaggio era pericolosa perché creava pozze d'acqua per terra in presenza di cavi elettrici" (pag. 10).

La conclusione a cui giunge il giudice di seconde cure non troverebbe alcun appiglio nel materiale probatorio raccolto in sede di istruttoria dibattimentale e ciò per il ricorrente lo si potrebbe agevolmente dimostrare attraverso le seguenti considerazioni.

Il teste N.N. ha maturato una condizione di conflitto nei confronti dell'A.A. rispetto a temi che non attenevano in alcun modo alla "sicurezza", ma sostanzialmente alla sua carriera ed al riconoscimento della sua professionalità/competenza all'interno del sito produttivo. Lo stesso teste - si ricorda - all'epoca ricopriva l'incarico di RSU (rappresentante sindacale), eppure non ha in alcun caso sollevato, quantomeno con le figure prevenzionistiche presenti in azienda (RSPP, datore di lavoro, RLS), tematiche riguardanti la sicurezza.

Il teste Di M.M., dal suo canto, dichiara in maniera palese ed inequivoca che gli attriti con A.A. erano sorti per ragioni che non riguardavano l'ambito prevenzionistico bensì la modalità con cui il suo responsabile aveva gestito una fase critica della sua vita personale e familiare (in relazione ai permessi richiesti dal lavoratore) e che alcuni rilievi da lui esposti all'A.A. (anche quello citato dalla Corte in ordine alla compresenza di acqua e cavi elettrici) sarebbero collocabili esattamente in quel lasso temporale connotato da tensione e conflitto tra i due.

È possibile - si domanda il ricorrente- che soltanto il N.N. abbia visto e si sia ricordato di un foglio affisso nella "visiva" del reparto riportante la modalità di lavaggio incriminata e osservabile da tutti i turni di lavoro? E come mai nessun altro ha sollevato il tema dei cavi e dell'acqua?

Tutti interrogativi a cui la Corte d'Appello non fornisce alcuna risposta in motivazione, valutando sic et simpliciter attendibili e credibili le dichiarazioni dei due testi, in assenza di un esame critico funzionale a valutarne la compatibilità e congruenza rispetto alle altre deposizioni, venendo meno altresì all'obbligo di proporre un'argomentazione valida intesa ad elidere le censure difensive.

Richiamata ampia giurisprudenza di legittimità (Sez. 6 n. 3041/2018, Sez. 6 n. 7180/2004, Sez. 1 n. 10600/2024) si sottolinea che un ruolo determinante, ai fini della valutazione di attendibilità della deposizione, è ricoperto dall'esistenza di contrasto o incompatibilità con altre testimonianze e/o altri elementi probatori.

Si ritiene pertanto sussistente il vizio di assenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in merito alla conoscenza (e tanto meno alla redazione e/o istituzione) da parte del ricorrente della prassi di lavaggio mediante elusione del sensore.

Con il terzo motivo si lamentano, congiuntamente, violazione di legge e vizio motivazionale in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Si lamenta che la Corte d'Appello di Milano rifletta le erronee valutazioni in tema di ricostruzione puntuale dei fatti (in particolare di assenta conoscenza - anzi imposizione - della prassi di lavaggio manuale con sensore eluso da parte dell'imputato A.A.) anche nella parte motiva su cui fonda il rigetto delle doglianze difensive in tema di pena e di mancata applicazione delle circostanze attenuanti ex art.62 bis cod. pen.

Si sottolinea che l'imputato in sede di interrogatorio reso in fase di indagine (addirittura in una fase ante avviso 415 bis cod. proc. pen. e dunque in cui non era nemmeno a conoscenza degli atti investigativi), ha riportato la sua versione dei fatti che è quella dì avere avuto conoscenza di un lavaggio manuale, con canna e getto d'acqua (a macchina ferma), ma come ipotesi eccezionale e soprattutto senza alcuna sua previsione e/o indicazione di eludere il sensore. In tale contesto e senza trascurare il fatto che il G.G. è un collega di lavoro di A.A. (è stato quest'ultimo a chiederne l'assunzione), risulterebbe erroneo fondare il rigetto delle invocate attenuanti generiche sulla ritenuta "assenza di alcun comportamento sintomatico di resipiscenza".

Si sarebbe di fronte, per il ricorrente, ad una motivazione apparente ed illogica in quanto non fornisce alcuna argomentazione in merito alle circostanze che avrebbero indotto i giudici a ritenere manchevole la (richiesta) presa di coscienza nell'attualità rispetto all'asserita consapevole perpetuazione della violazione prevenzionistica. Inoltre, senza in alcun modo motivare in ordine alla (evidentemente ed implicitamente) ritenuta irrilevanza dello stato di incensuratezza.

In punto di eccessività della pena l'entità particolarmente afflittiva della stessa, di cui la difesa si è lamentata nei motivi di appello, secondo la Corte territoriale, troverebbe fondamento sulla circostanza che tale prassi scorretta sarebbe stata istituita dall'A.A. e che l'avrebbe caparbiamente mantenuta nonostante le rimostranze del Di M.M.. Ma per il ricorrente i plurimi dubbi sollevati, anche con i presenti motivi di doglianza, circa una consapevolezza nei termini contestati, unitamente alla incensuratezza ed alla definita ottemperanza alle prescrizioni ATS (circostanze in alcun modo prese in considerazione), inducono a ritenere che la sentenza impugnata debba essere annullata anche in relazione al predetto profilo.

• B.B., C.C. e D.D. (tutti difesi dall'Avv. Andrea Righi)

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 40, comma 2, cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla riconosciuta posizione di garanzia in capo ai ricorrenti, nonché contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 43, comma 3, cod. pen. in ordine al profilo dell'inesigibilità del comportamento dovuto

Il più macroscopico vizio della sentenza impugnata -secondo il difensore ricorrente- sarebbe quello di avere erroneamente ravvisato in capo al B.B., al (Omissis) e al D.D. una posizione di garanzia, rilevante ai sensi dell'art. 40, comma 2, cod. pen., rispetto all'evento lesivo verificatosi.

Si sostiene che, sotto questo preliminare profilo, la sentenza della Corte ambrosiana si discosterebbe sensibilmente dai consolidati parametri giurisprudenziali che individuano il corretto esercizio del potere motivazionale.

Per il difensore ricorrente l'affermazione della penale responsabilità dei propri assistiti sarebbe il frutto dell'attribuzione di una mera "responsabilità da posizione" che si fonderebbe esclusivamente su un elemento puramente formale - la carica di preposti ricoperta degli odierni ricorrenti - di fatto ignorando l'effettiva organizzazione aziendale dello stabilimento e, con essa, le concrete possibilità di intervento di ognuno degli imputati. In contrasto con l'orientamento espresso ex multis da Sez. 4 n. 10704/2012 che ha avuto il merito di chiarire che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull'igiene del lavoro debba fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia rispetto alla sua funzione formale.

Del resto, si sottolinea che è proprio sulla scorta di tale orientamento che il legislatore ha introdotto l'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 cristallizzando il c.d. "principio di effettività", che consente di individuare i titolari della posizione di garanzia secondo un criterio di ordine sostanziale e funzionalistico.

A tal proposito, si segnala che, dal punto di vista formale, le mansioni degli odierni ricorrenti sono facilmente individuabili sulla base delle varie job description acquisite al fascicolo del dibattimento:

- quanto al B.B. (caporeparto), egli "coordina e controlla, attraverso il capoturno, le operazioni di produzione, qualità, sicurezza, salute e ambiente e il corretto impiego per tutte le attività del reparto, curando altresì il training on the job degli operatori";

- quanto al (Omissis) (capoturno), egli "controlla che tutte le operazioni di produzione siano fatte in accordo alle apposite procedure, assicura la compliance

con le leggi di sicurezza, salute ed ambiente, curando altresì il training on thejob degli opera tori";

- quanto, infine, al D.D. (vice capoturno), egli "applica le procedure specifiche ed è responsabile per le proprie competenze e funzioni nel rispetto della normativa vigente in tema di qualità, sicurezza ed ambiente".

Sotto questo profilo per il difensore ricorrente appare ictu oculi evidente come la condanna del D.D. sia del tutto ingiustificata in ordine alle concrete mansioni dallo stesso ricoperte non avendo il vice capoturno alcuna posizione di garanzia in ordine al rispetto di norme antinfortunistiche da parte di altri soggetti, bensì rispondendo solo delle proprie competenze e funzioni nell'applicazione di procedure specifiche.

In via preliminare, però, il difensore ricorrente sottolinea che il percorso motivazionale adottato dalla Corte territoriale appare intrinsecamente contraddittorio. Ed invero, da una parte (pag. 6) si afferma infatti che (Omissis) e D.D., pur presenti in azienda nell'orario in cui si è verificato l'infortunio, "non erano nel reparto sterile ma in uno attiguo (distribuzione) da dove non si poteva vedere quello sterile", dall'altra (pag. 11) si sottolinea che "l'obbligo di vigilanza era agevolmente eseguibile essendo l'ufficio dei capiturno e vice capiturno (B.B. e (Omissis)) diviso dal reparto in cui si trovava il filtro essiccatore da una semplice vetrata".

Ebbene, come ampiamente dimostrato dalle risultanze del dibattimento di primo grado, nel momento in cui si è verificato l'infortunio il D.D. ed il (Omissis) non erano nell'ufficio dei capiturno, bensì lavoravano in un altro reparto dal quale non si poteva vedere l'operato del G.G..

Ciò nonostante, gli imputati sono stati ritenuti colpevoli di omessa segnalazione e di avere violato l'obbligo di vigilanza perché "l'assunzione della posizione di preposto non è un obbligo, ma nel momento in cui viene accettata importa i correlativi obblighi e responsabilità".

Si affaccerebbe, pertanto, nel tessuto motivazionale della sentenza, un'evidente distonia motivazionale che inficerebbe la tenuta logica dell'argomento speso: da un lato, infatti, si ascrive una responsabilità per culpa in vigilando e carenza di segnalazione che deriverebbe, di per sé solo, dall'assunzione della carica di "preposto" (ossia da un dato oggettivo), dall'altra si ignorerebbero elementi di fatto (primo fra tutti il luogo in cui si trovavano (Omissis) e D.D. al momento del fatto che impediva loro di rendersi conto cosa stesse facendo il G.G.) e si attribuisce importanza decisiva al criterio oggettivo anche nei confronti del D.D., vale a dire l'unico dei tre imputati rispetto al quale nella già evocata job description che discende dall'assunzione della carica di preposto non corrisponde alcun obbligo di vigilanza specifico in relazione alla condotta di altri lavoratori.

Così correttamente "mappata" la porzione di vicenda che riguarda il presente motivo di ricorso, risulterebbe evidente il vizio motivazionale dei giudici di secondo grado, i cui rilievi non colgono nel segno. Se le censure avanzate in sentenza muovono infatti dal presupposto che i prevenuti hanno tutti e tre indistintamente una posizione di garanzia in quanto preposti, non si capisce perché il giudizio di penale responsabilità sia stato esteso a tutti e tre gli imputati quando il dato formale della carica del D.D. disattenderebbe in maniera univoca l'esistenza di qualsivoglia obbligo di vigilanza sulla condotta altrui in capo allo stesso.

Se il giudice del fatto è libero, nel suo sindacato di merito, di valutare discrezionalmente gli elementi offerti dal processo, risalterebbe qui l'illogicità intrinseca (apprezzabile, invece, da codesta Corte) dell'argomento addotto. Da una parte, infatti, si è inteso privilegiare il dato formale; tuttavia, dall'altra, quando il dato formale deponeva nel senso di escludere uno specifico obbligo di vigilanza sulle condotte, si è confermato il giudizio di colpevolezza sul presupposto che tutti gli imputati erano comunque tenuti all'applicazione di procedure specifiche ed al rispetto della normativa in materia di sicurezza.

Assunto che potrebbe essere astrattamente condivisibile per B.B. e Loper-golo, ma, come detto poco sopra, non per il D.D., per il quale non sarebbe possibile ravvisare una posizione di garanzia nemmeno da un punto di vista strettamente formale.

Per il difensore ricorrente deve, pertanto, evidenziarsi la manifesta illogicità della sentenza impugnata per avere la Corte territoriale adottato dei criteri di inferenza non plausibili al fine di valutare la posizione di garanzia del D.D. Il confine delle attribuzioni dei preposti, infatti, dev'essere valutato con specifica attenzione sulla base della job description descritta per ciascun singolo preposto, non potendosi in tutta evidenza individuare una posizione di garanzia "omnicomprensiva" sull'illogico assunto per cui il preposto ha un generico obbligo di vigilanza. Nelle aziende di grandi dimensioni - quale è, appunto, ACS - ogni preposto opera invero all'interno di un perimetro di compiti ben precisi e diversi da quelli attribuiti agli altri preposti. È proprio la job description a descrivere - e, dunque, a perimetrare - compiutamente l'oggetto delle responsabilità dei singoli preposti: in tal senso, con specifico riguardo alla posizione del D.D., si evince che egli è responsabile "per le proprie competenze e funzioni nel rispetto della normativa vigente in tema di qualità, sicurezza ed ambiente", ma non di una posizione di garanzia in ordine al rispetto di norme antinfortunistiche da parte di altri soggetti.

A conferma di quanto sopra, sarebbe sufficiente confrontare la job description relativa al ruolo del vice capoturno con quelle degli altri preposti di grado superiore, che, per l'appunto, descrivono espressamente la sussistenza di una posizione di garanzia per quanto concerne l'applicazione delle procedure corrette, anche in tema di sicurezza.

La manifesta illogicità della motivazione della sentenza della Corte d'Appello, in definitiva, paleserebbe nella parte in cui la Corte territoriale, sulla base di un criterio inaccettabile sul piano logico, ha svolto un indebito ragionamento "in generale", ritenendo che la mera qualifica di preposto comporti un obbligo indiscriminato di vigilanza omnicomprensivo, senza, però, vagliare attentamente le specifiche attribuzioni dei singoli preposti come emergenti dalla job description.

Quanto al B.B. e al (Omissis), invece, pur avendo essi in linea meramente astratta - per come poc'anzi riferito - un obbligo di supervisione e controllo circa il rispetto della normativa antinfortunistica, non è possibile ravvisare tale posizione in concreto sulla scorta del fatto - oggettivo e pacificamente emerso dalle risultanze istruttorie - che gli stessi concretamente non avessero alcuna voce in capitolo, posto che tutte le decisioni all'interno dello stabilimento venivano assunte unicamente ed esclusivamente dall'A.A., dirigente e manager dell'unità locale, come testimoniato dalla totalità dei lavoratori intervenuti nel processo di primo grado.

In quest'ottica verrebbe, dunque, in rilievo il c.d. principio di esigibilità, sotto il cui profilo non può non constatarsi come la pronuncia impugnata si attesti su posizioni esegetiche distoniche rispetto ai "paletti" che, ormai da tempo, la giurisprudenza di codesta Corte ha fissato in tema di esigibilità della colpa e si risolve in un lampante esempio di erronea applicazione della legge penale.

Si ricorda che la colpa ha un versante oggettivo incentrato sulla condotta posta in essere da una violazione di una norma cautelare e un versante di natura più squisitamente soggettiva, connesso alla possibilità dell'agente di osservare tale regola cautelare (il richiamo, ex multis, è a Sez. 4 n. 12478/2015).

In definitiva, per il difensore ricorrente in capo al D.D. non si poteva ravvisare nemmeno dal punto di vista formale ed astratto una posizione di garanzia in ordine al rispetto di norme antinfortunistiche da parte di altri soggetti, ragion per cui si chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza di appello. Quanto al B.B. e al (Omissis), benché, come detto,, essi avessero in linea meramente astratta un obbligo di supervisione e controllo circa il rispetto della normativa antinfortunistica, la posizione di garanzia in capo agli stessi è comunque da escludersi in ragione della concezione funzionale -sostanzialistica della stessa, ben riassunta dal principio di effettività sancito autorevolmente dalle Sezioni Unite del 1992; ragion per cui, anche con riferimento ad essi, si chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza.

Con il secondo motivo si lamenta inosservanza della legge penale in relazione agli artt. 40. 41. commi 1 e 2, e 590, comma 3, cod. pen. con riferimento all'interruzione - per effetto della condotta abnorme, eccentrica e contra se tenuta dal lavoratore - del nesso di causalità tra la condotta omissiva dei preposti e l'evento lesivo verificatosi.

Il difensore ricorrente pone l'accento sul fatto che il giudice di primo grado aveva ritenuto che l'evento lesivo occorso al G.G. fosse 'l'effettiva concretizzazione del rischio specifico che l'osservanza della regola cautelare violata di cui all'art. 19 comma 1 lettera a) D.Lgs. 81/2008 era preordinata a scongiurare" (pag. 25) e tale prospettazione è stata poi condivisa anche dalla Corte d'Appello.

Viene, dunque, in rilievo il c.d. principio di causalità della colpa, secondo cui per potere affermare una responsabilità colposa non è sufficiente che il risultato offensivo tipico si sia prodotto come conseguenza di una condotta inosservante di una determinata regola cautelare, ma, di più, occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata intendeva fronteggiare.

Come accertato dai giudici di merito, nel caso di specie la corretta procedura di lavaggio del filtro essiccatore MD1, per quanto non scritta, prevedeva un semplice lavaggio da effettuarsi a ciclo chiuso senza la necessità di smontare alcunché, meno che meno di bypassare il sensore di sicurezza per ribaltare il filtro, rimuovere il boccaporto e procedere alla relativa pulizia manualmente. Tuttavia, al di là di quella che era la prassi di lavaggio apparentemente in essere presso lo stabilimento ACSD8, l'infortunio si è verificato non già a causa della disattivazione del sensore di sicurezza (inteso come presidio di sicurezza per evitare il rischio specifico), bensì perché il lavoratore ha deciso di inserire il proprio braccio all'interno del macchinario, nonostante vi fossero le pale in movimento, peraltro dallo stesso poco prima deliberatamente azionate, con l'evidente conseguenza che la causalità diretta ed immediata del sinistro non sia ravvisabile nella procedura di lavaggio manuale seguita presso lo stabilimento ACSD8, ma, diversamente, nell'inopinata azione del lavoratore che assume rilevanza ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.

Per quanto tragico e sfortunato sia l'evento occorso al G.G., i giudici del merito avrebbero dovuto considerare il grado di eccentricità del comportamento del lavoratore in maniera diametralmente opposta da quanto fatto in ambedue le sentenze.

Sarebbe evidente che il comportamento del G.G. - il quale, in presenza di segnali evidenti di pericolo (macchinario chiaramente in funzione), inserisce un braccio dentro il macchinario dopo averne azionato il movimento delle pale - descriverebbe una condotta abnorme e volontariamente rischiosa, che esula dall'ordinaria diligenza richiesta in ambiente lavorativo (in aperta violazione degli obblighi stabiliti dall'art. 20 D.Lgs. n. 81/2008) e dalla prevedibilità in capo al datore di lavoro, ovvero, nel caso di specie, ai preposti. Infatti, l'operazione di pulizia del filtro a boccaporto aperto, così come compiutamente ricostruita, avrebbe dovuto essere svolta dall'operatore che, posizionandosi in piedi sul boccaporto ribaltato, con l'ausilio di una canna, poteva pulire eventuali residui o imperfezioni, anche eventualmente con le pale in movimento, con l'ovvio accorgimento di non inserire mani o braccia con le pale in funzione.

Il difensore ricorrente ricorda che, com'è noto, l'ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità cui è strettamente legato il giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l'effettivo rilievo condizionante del fattore considerato: se dalla somma degli antecedenti si elimina col pensiero la condotta umana ed emerge che l'evento si sarebbe verificato ugualmente, allora essa non è condizione necessaria; se, invece, eliminata mentalmente l'azione, emerge che l'evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l'azione e l'evento esiste nesso di condizionamento; nei reati omissivi impropri, invece, il meccanismo controfattuale viene posto in essere immaginando la condotta omessa e verificando se la sua adozione avrebbe impedito o meno la produzione dell'evento. Si rende, pertanto, necessario verificare se, sulla base di un giudizio controfattuale, la specifica violazione della regola cautelare abbia o meno cagionato l'evento, tenendo conto altresì del disposto dell'art. 41, comma 2, c.p., secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento". Perché sia pronunciata una sentenza di condanna, in sostanza, occorre che la condotta contestata costituisca una condicio sine qua non dell'evento, non essendo sufficiente che ne abbia in qualche modo agevolato l'accadere.

Trasportato nel caso di specie, tale ragionamento avrebbe per il difensore ricorrente come corollario l'ovvia considerazione che l'evento non si sarebbe certamente verificato se il G.G., pur seguendo una procedura sbagliata, si fosse attenuto alle istruzioni impartitigli e non avesse drammaticamente deciso di inserire un braccio all'interno del macchinario dopo avere egli stesso azionato il movimento delle pale. In tal senso, l'incidenza della mancata vigilanza dei preposti sul processo eziologico sfociato nell'evento lesivo va valutata in relazione al grado di complessità dell'operazione e di tecnicità degli incombenti a cui è chiamato il lavoratore, nell'eventualità che questi possa non essere in grado di rendersi conto dei rischi insiti nel suo particolare modus operandi.

Si sostiene che non si è trattato di una semplice disattenzione ovvero di una situazione momentanea in cui il pensiero e l'attenzione sono lontani dalla realtà circostante, bensì di un moto volontario ed irragionevole del lavoratore foriero di

un rischio eccentrico, che ha determinato l'evento con causalità immediata, così interrompendo il nesso di causalità con la condotta omissiva contestata ai ricorrenti.

Per il difensore ricorrente non merita condivisione, dunque, la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui, nel ricostruire il sistema normativo e giurisprudenziale della sicurezza sul lavoro, ha ritenuto di ravvisare la penale responsabilità degli imputati in considerazione del fatto che il comportamento del lavoratore -pur definito a pag. 9 della sentenza impugnata "imprudente e colposo" - si sia verificato nell'ambito della mansione attribuita al lavoratore, in quanto - e qui si apprezza la manifesta illogicità della motivazione - non valorizza il grado della colpa del G.G. che, pur consapevole del fatto che le pale in quel momento stessero girando - tanto che nel capo d'imputazione si legge che il G.G. "dopo alcune operazioni di pulizia a terra, avviava la rotazione della pala rotante del sistema di agitazione, si portava in prossimità del boccaporto insieme a J.J. e inseriva il braccio sinistro all'interno dell'essiccatore" -, ha deliberatamente ritenuto di inserire il braccio all'interno del filtro essiccatore.

Con il terzo motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 40, comma 1, cod. pen. in punto di asserito nesso di causalità tra l'omissione contestata e l'evento lesivo verificatosi, nonché inosservanza dell'art. 522 cod. proc. pen. per avere la Corte d'Appello di Milano ritenuto che i ricorrenti avrebbero dovuto portare a conoscenza della procedura in uso per il lavaggio del filtro essiccatore non solo i "superiori diretti" come indicato nel capo d'imputazione, ma anche "altre figure".

A prescindere dalle considerazioni contenute nei motivi di ricorso che precedono, si censurano le sentenze di merito anche per aver erroneamente ritenuto sussistente il nesso di causalità tra l'omissione addebitata agli odierni ricorrenti e l'evento lesivo in esame, in violazione dei principi giuridici consolidati in materia della c.d. causalità omissiva.

Richiamato il dictum di S.U. Espenhahn del 2014 nel noto caso (Omissis) (S.U., n. 38343/2014), il ricorrente evidenzia che l'accertamento del nesso di causalità nei reati commissivi differisce dal medesimo accertamento nei reati omissivi, atteso che, mentre nel primo caso il giudice è chiamato allo svolgimento di un giudizio di tipo esplicativo, nel secondo caso si tratta di un giudizio di tipo predittivo; il giudice, cioè, svolge un ragionamento di carattere previsionale interrogandosi sull'evitabilità dell'evento per effetto delle condotte doverose mancate e, più precisamente, su ciò che sarebbe accaduto se l'agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta; in altri termini, il giudice deve aggiungere mentalmente l'azione salvifica omessa e accertare se, in presenza di tale azione, l'evento si sarebbe verificato ugualmente o meno, in aderenza a quanto imposto dall'art. 40, comma 1, cod. pen., secondo cui "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione".

Pertanto, con riferimento alle posizioni del B.B., del (Omissis) e del D.D., l'azione doverosa omessa e contestata nel capo d'imputazione - cioè l'aver omesso di "sovraintendere e vigilare sull'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro" nonché l'aver omesso di "informare i superiori diretti" - quand'anche posta in essere non avrebbe, comunque, scongiurato il verificarsi dell'evento.

Secondo il difensore ricorrente rende necessario scindere le due condotte contestate e valutarle singolarmente.

La prima condotta contestata nel capo d'imputazione è quella di aver omesso di sovraintendere e vigilare sull'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Si sottolinea che l'organizzazione gerarchica della società ACS DOBFAR Spa è chiara (cfr. pag. 11 sentenza di primo grado): ai vertici della stessa ci sono O.O. (in qualità di legale rappresentante), L.L. (in qualità di datore di lavoro) e (Omissis) (in qualità di procuratore speciale), assolti all'esito del giudizio di primo grado. Ciò perché il sinistro oggetto del presente procedimento si è verificato nell'unità locale ACSD8 a capo della quale - come si evince dall'organigramma aziendale acquisito agli atti del procedimento - vi è Angelo A.A. (con qualifica di manager reparto prod. sterile ACSD8); subordinato allo stesso vi è B.B. (caporeparto prod. sterile ACSD8), al di sotto del quale operano tre diverse "squadre" su tre distinti turni di lavoro, rispetto a ciascuna delle quali si individua un capoturno e un vice capoturno: a capo della squadra in cui prestava la propria attività la persona offesa, si individuano C.C. (in veste di capoturno) e D.D. (in veste di vice capoturno).

Così ricostruito l'organigramma societario, con riferimento alla prima contestazione, i ricorrenti ritengono che non è possibile ravvisare il nesso di causalità tra la condotta omissiva contestata e l'evento lesivo verificatosi, in quanto, come è pacificamente emerso dall'istruttoria - nell'ambito della quale è stato addirittura evidenziato come all'interno dello stabilimento si respirasse una sorta di clima di terrore -, i lavoratori seguivano pedissequamente quanto ordinato dall'A.A., con la conseguenza che, anche aggiungendo mentalmente la condotta dei ricorrenti volta a far seguire la corretta procedura di lavaggio, questa non avrebbe comunque scongiurato l'evento, in quanto non sarebbe stata nemmeno presa in considerazione da chi aveva la responsabilità di decidere in che modo si doveva lavorare. Si richiamano, a tal proposito, le dichiarazioni rese dal teste Di M.M., all'udienza del 27.10.2022 riportate in ricorso.

Quanto invece all'omessa condotta di informare i superiori diretti, per il difensore ricorrente appare evidente la fallacia della contestazione mossa agli imputati, atteso che, trattandosi di "consolidata prassi", tutti erano evidentemente a conoscenza della stessa e, in secundis, perché il capo d'imputazione contesta agli imputati di non aver informato i superiori diretti: in sostanza, contesta al D.D. di non aver informato il (Omissis), al (Omissis) di non aver informato il B.B. e, infine, al B.B. di non aver informato l'A.A., vale a dire colui che ha istituito e imposto all'interno dello stabilimento tale "consolidata procedura".

Come già rilevato nell'atto di appello, per il difensore ricorrente delle due l'una: o la procedura di lavaggio che prevedeva la disattivazione del sensore di sicurezza, il ribaltamento del boccaporto e la pulizia dello stesso con le pale in movimento non era una prassi costante bensì un'iniziativa estemporanea - per quanto occasionalmente ripetuta - di alcuni operatori, e quindi qualcuno poteva non sapere e questo qualcuno, se superiore gerarchico, avrebbe dovuto essere informato, oppure si era in presenza di qualcosa che veniva fatta alla luce del sole e, pertanto, era del tutto inutile informare il superiore gerarchico in quanto: a) era stato proprio lui a introdurre questa particolare procedura: b) anche un'eventuale segnalazione non sarebbe stata presa in considerazione perché come visto, alcune decisioni erano nella pratica quotidiana aziendale assolutamente insindacabili e si doveva fare comunque cosi.

Si evidenzia che il capo d'imputazione fa riferimento ad un obbligo di comunicazione ai diretti superiori, mentre la Corte territoriale ha ritenuto provata la penale responsabilità degli imputati per avere omesso di riferire i comportamenti non conformi alle norme in materia di sicurezza sul lavoro ad "altre figure", sostenendo che "l'obbligo di segnalazione non si esauriva con le eventuali comunicazioni all'A.A." (pag. 11), con ciò ponendosi in palese violazione dell'art. 522 coid. proc. pen. in quanto la condotta in questione esulerebbe dal perimetro del capo d'imputazione formulato dal Pubblico Ministero.

Con il quarto motivo si lamentano erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 62-bis cod. pen. , nonché mancanza della motivazione e/o motivazione apparente, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, che sarebbe fondata su argomentazioni di puro stile (pag. 11: "il fatto è particolarmente grave per le conseguenze lesive riportate dal giovane lavoratore e per il grado della colpa, in quanto connessa non già ad una violazione isolata delle norme antinfortunistiche, ma ad una scorretta prassi radicata e quotidianamente applicata") reiterando apoditticamente le motivazioni della sentenza di primo grado con elusione delle censure formulate nell'atto di appello.

Si evidenzia che, con l'atto di appello non solo erano state invocate le circostanze attenuanti generiche, ma erano stati allegati i precisi elementi di carattere positivo che si chiedeva alla Corte territoriale di valutare specificamente a tal fine.

L'impugnata pronuncia risulterebbe contraddittoria, poiché in aperto contrasto con gli atti del processo e, soprattutto, con le risultanze istruttorie che avrebbero, invece, giustificato la concessione delle attenuanti generiche, in quanto il comportamento improvvido del G.G. - qualificato come "imprudente e colposo" dalla Corte d'Appello (pag. 9) e, prima di essa, dal Tribunale come "pericolosa manovra" (pag. 37) - nell'ipotesi in cui non venga ritenuto idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta omissiva degli odierni ricorrenti e l'evento lesivo verificatosi, non poteva che essere valorizzato al fine della concessione delle attenuanti generiche. In ricorso, così come già con l'atto di appello, il difensore richiama, mutatis mutandis, il parallelismo tra le circostanze attenuanti generiche e le circostanze attenuanti ex art. 589-bis, comma 7, cod. pen. in tema di omicidio stradale ed ex art. 590-bis, comma 7, cod. pen. in tema di lesioni personali stradali gravi o gravissime, applicabili allorquando "l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole".

Inoltre, l'avvenuto risarcimento del danno, che, se non consente la concessione della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., come rilevato dalla Corte territoriale a pag. 12 della sentenza qui impugnata, doveva essere valutato - secondo il difensore ricorrente -ai fini della concessione delle attenuanti generiche.

Ancora, si pone l'accento: a. sull'incensuratezza di tutti e tre gli odierni ricorrenti; b. sul fatto che si tratta di un reato colposo e, quindi, secondo il disposto dell'art. 43, comma 3, cod. pen., "contro l'intenzione"; c. sul ruolo di minor importanza rivestito dai ricorrenti nella causazione del sinistro, come anche accertato in ambedue i giudizi di merito; d. sul comportamento processuale degli stessi che hanno presenziato personalmente a quasi tutte le udienze del presente procedimento penale. Tutti elementi che si sostiene dovranno essere valutati liberamente dall'eventuale giudice del rinvio, ma che evidenziano come le sentenze di merito siano viziate per non aver correttamente ponderato tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie, trincerandosi dietro all'apodittica asserzione per cui il fatto è grave e la condotta degli imputati è stata sistematica.

Tutti i ricorrenti chiedono, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.

3. Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe.
 

Diritto


1. Tutti i motivi sopra illustrati tendono a sollecitare a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Peraltro, gli stessi si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.

Ne deriva che tutti i proposti ricorsi vanno dichiarato inammissibili essendo ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Bu "lotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E, ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).

Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.

2. Per quello che rileva in questa sede il fatto è stato così ricostruito dai giudici di merito.

In data 13 febbraio 2017 intorno alle ore 19.00 durante il secondo turno lavorativo (dalle ore 14.00 alle ore 22.00), l'operaio G.G. mentre si trovava sul posto di lavoro presso lo stabilimento ACSD8 di S. della società ACS DOBFAR Spa subiva un infortunio nel corso delle operazioni di pulizia della macchina filtro essiccatore con matricola n. (Omissis) MI, numero di fabbrica 1155 e sigla (Omissis), posta nel reparto sterile, in particolare subiva l'amputazione traumatica del braccio sinistro, qualificabile, dunque, quale lesione personale gravissima avendo determinato la perdita di un arto.

In esito agli accertamenti svolti emergeva che l'infortunio era avvenuto durante la pulizia del filtro essiccatore del macchinario a boccaporto aperto, quando, nel tentativo di rimuovere la presenza di residui di prodotto sulla rete all'interno della macchina, il braccio sinistro della persona rimaneva incastrato. In particolare, come ricordava già il giudice di primo grado, emergeva dalle testimonianze assunte che, nello stabilimento ACSD8 di S., la procedura quotidiana di lavaggio del filtro essiccatore durante il c.d. cambio lotto prevedeva, oltre a quella prescritta automatica (a boccaporto chiuso) una fase ulteriore, al fine di evitare la presenza di residui di prodotto sulla rete all'interno della macchina, tale da compromettere la qualità del prodotto de! lotto successivo.

L'ulteriore passaggio consisteva nella rimozione del boccaporto dal macchinario, che era avvitato da otto bulloni che venivano rimossi per il tramite di una chiave sterilizzata presente all'interno del reparto all'interno di una cassetta degli attrezzi. Il tutto veniva riposto su un carrello a rotelle, presente anch'esso all'interno del reparto. Uno di questi bulloni veniva incollato con lo scotch al sensore di interblocco posto nei pressi del boccaporto, affinché il sistema lo percepisse come chiuso e la macchina potesse, così, essere azionata anche a portellone aperto. Con la canna dell'acqua si procedeva, quindi, alla rimozione degli eventuali residui, anche salendo sul cassone metallico del motore per poter vedere il boccaporto dall'alto e procedere al lavaggio direzionando meglio il getto, mentre la macchina e le pale al suo interno erano azionate per il tramite dei comandi posti sul predetto monitor touchscreen. Terminata l'operazione, la macchina veniva riportata alla posizione iniziale e si ricontrollava la buona riuscita della pulizia. Nel caso di ulteriori residui, si continuava la pulizia manuale, altrimenti si procedeva a rimontare il portellone per il tramite degli otto bulloni, lasciando la macchina spenta e aperta ad asciugare, in attesa del lotto di prodotto successivo.

È rimasto provato che l'operazione che era stata posta in essere al momento dell'infortunio era un'operazione che era divenuta prassi quotidiana, ad ogni cambio lotto, ad ogni passaggio da un prodotto ad un altro della stessa tipologia.

In tale contesto il G.G., nel ricontrollare il lavoro di pulizia del filtro effettuato nel corso del secondo turno lavorativo del 13.02.2017 (dalle ore 14.00 alle 22.00) unitamente al collega J.J., subiva l'amputazione traumatica del proprio braccio sinistro, che era rimasto incastrato tra la paia rotante e la parete interna del macchinario.

Alla luce di tali risultanze probatorie, secondo i giudici di merito era possibile trarre la conclusione per cui la procedura di lavaggio a boccaporto aperto fosse dunque invalsa tra i lavoratori del reparto sterile dello stabilimento ACSD8 di S.. In particolare, essa veniva tramandata dai lavoratori con più anzianità di servizio a quelli neoassunti, su indicazione dei capiturno e dei vice capiturno i quali, a loro volta, prendevano ordini dal caporeparto, che, a sua volta, riceveva le direttive dal manager del reparto sterile A.A.

3. In premessa va rilevato, quanto al ricorso dell'A.A., che viene denunciato un travisamento della prova che tale non è.

Costituisce, infatti, ius receptum che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla I. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).

Nel caso dì specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione

in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese nel precedente grado e riproporre la propria diversa lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.

4. Come ricorda la sentenza impugnata la linea difensiva dell'A.A., anche in sede di gravame del merito, si è imperniata su filoni argomentativi, entrambi motivatamente confutati dai giudici si appello, con argomentazioni con cui il ricorrente non si confronta criticamente.

Con il primo motivo la difesa dell'A.A. aveva contestato la ricostruzione del nesso di causalità deducendo che la procedura di lavaggio del filtro a boccaporto aperto, seppur di prassi utilizzata nello stabilimento in cui è avvenuto l'infortunio in luogo di quella corretta a ciclo chiuso, non prevedeva che le pale fossero in movimento mentre si utilizzava la canna d'acqua: infatti le pale della macchina, dopo aver disattivato il sensore, venivano fatte girare a boccaporto aperto quel tanto che bastava per procedere al lavaggio manuale, che veniva effettuato a pale ferme, per poi riattivarne il movimento per riportarle nella posizione originaria. Il giorno dell'infortunio, invece, il G.G., dopo che la procedura di lavaggio era completata, aveva riattivato le pale per controllare l'efficacia della procedura di lavaggio e, notati dei residui all'interno della macchina, inspiegabilmente aveva inserito il braccio all'interno del boccaporto nonostante le pale in movimento. L'infortunio era, dunque, causalmente riconducibile al comportamento imprevedibile ed abnorme del lavoratore, mentre la procedura di lavaggio scorretta ne era stata solo l'occasione e non la causa.

Il tema sarà affrontato al successivo par. 5 in quanto comune a tutti i ricorrenti.

Il secondo tema difensivo dell'A.A. afferisce all'insussistenza del dolo, laddove non vi sarebbe prova della consapevolezza della scorretta prassi di lavaggio del filtro da parte dell'imputato.

Orbene, con motivazione logica e congrua la Corte milanese ha confutato tale motivo sul rilievo, in primis, che l'A.A. ha ammesso in interrogatorio di esserne stato cosciente, seppur qualificandola come ipotesi eccezionale.

Quanto a quest'ultima affermazione, però, la Corte territoriale ricorda (cfr. pag. 18) che i testi assunti in dibattimento, come ampiamente riportato nella pronunzia impugnata (pagg 18 Ss.), l'hanno invece definita una "prassi quotidiana, ad ogni cambio lotto" (cosi il teste P.P.), tramandata sistematicamente ai neo assunti dagli operatori più anziani (testi Q.Q... R.R. e S.S.) ed hanno anche riferito che tale procedura di lavaggio, ritenuta più accurata ed efficace di quella a boccaporto chiuso, era stata indicata come necessaria ai capiturno proprio da A.A. (testi T.T., capoturno, e Di M.M., operatore del reparto dal 2010 al 2015). Il teste N.N., RSU dello stabilimento in questione, ha perfino affermato che nel 2014 su disposizione di A.A. era stato applicato un foglio al vetro della camera sterile con le indicazioni per il lavaggio manuale del filtro che, come rilevato dal primo giudice, sebbene non indicassero come eludere il sensore del boccaporto apponendovi il bullone, implicitamente presupponevano tale operazione, necessaria per far ribaltare la macchina e far scorrere l'acqua.

A fronte di tali concordi emergenze istruttorie, i giudici del gravame del merito evidenziano che la difesa contesta l'attendibilità delie sole testimonianze di N.N. e Di M.M., che ritiene inquinate da motivi personali di rancore, non senza ammettere però che gli attriti del Di M.M. con l'A.A. - dovuti alla richiesta dì giustificare le assenze per la malattia della moglie- si erano poi risolti una volta consegnata dal Di M.M. la documentazione richiesta, e che la deposizione del medesimo teste pur "nella sua condizione conflittuale " aveva degli elementi di verità, ad esempio sul fatto che secondo la prassi di lavaggio le pale durante il lavaggio dovevano essere spente.

Ad avviso della Corte territoriale le dichiarazioni dei due testimoni non risultano affatto inquinate da rancore personale e sono del tutto coerenti e credibili, oltre che in linea con le altre testimonianze assunte. Entrambi i testi - come si legge in sentenza - hanno evidenziato di avere avuto motivi di discussione con A.A. per la pericolosità delle operazioni di lavaggio, ad esempio avendo il M.M. fatto presente che l'utilizzo della canna dell'acqua per il lavaggio era pericolosa perché creava delle pozze d'acqua per terra in presenza di cavi elettrici.

Quanto alla sua consapevolezza, la Corte fiorentina pone anche significativamente l'accento sul fatto che lo stesso A.A. ha riferito in interrogatorio che si occupava della prima formazione dei neoassunti, il cd. training on the job. E, ancor più, sul fatto che all'interno del reparto sterile vi era, inoltre, una cassetta con tutto l'occorrente (nastro adesivo, cacciavite eccetera) per smontare i bulloni del boccaporto e disattivare il sensore del filtro essiccatore.

Con motivazione logica e congrua, i giudici del gravame del merito danno conto che, in definitiva, in esito all'istruttoria, è emersa la più che ragionevole certezza che l'A.A. (come i preposti a lui subordinati) fosse consapevole della prassi di lavaggio manuale del filtro, per averla anzi egli imposta nello stabilimento, come osservato sin dalla sentenza di primo grado. Il fatto che tale prassi si sia poi evoluta prevedendo, anziché la disattivazione manuale del sensore col bullone, il fissaggio del sensore con il nastro è stato logicamente ritenuto che non muti la realtà dei fatti, giacché si verte in ipotesi in cui su richiesta dello stesso manager si effettuava una prassi che prevedeva la manomissione del presidio di sicurezza (il sensore) volto proprio a scongiurare rischi quale quello verificatosi.

Né viene ritenuta valere, a contrario, la considerazione tale prassi si è dimostrata a posteriori non essere più efficace del lavaggio automatico, effettuato secondo la procedura prescritta, essendo tale circostanza non nota al momento dei fatti, quando il lavaggio manuale era richiesto nella convinzione (erronea o meno) di eliminare meglio i residui di sporco.

5. Comune ad entrambi i ricorsi e l'affermazione che il grave infortunio verificatosi sarebbe da ricondurre unicamente alla responsabilità del lavoratore, in quanto, diversamente da quanto ipotizzato in una prima fase, l'infortunio in questione non si sarebbe verificato perché il lavoratore avrebbe aderito alla prassi sconsiderata di eliminare il sensore di sicurezza, bensì perché lo stesso avrebbe inserito le mani nel macchinario con le pale che egli stesso aveva attivato ancora in funzione.

Ebbene, con motivazione logica e congrua i giudici del merito hanno entrambi ritenuto che fosse ininfluente se le pale in questione fossero o meno in movimento perché incombeva, come da pacifica giurisprudenza di questa Corte, sui titolari delle posizioni di garanzia anche di scongiurare i rischi derivanti da comportamenti incauti del lavoratore stesso.

In altri termini viene ritenuto influente che il lavoratore possa avere inserito la mano nel macchinario con le pale ancora in funzione perché il sistema prevenzionale corretto avrebbe dovuto impedire tale possibilità.

Nel caso di specie, inoltre, è stato accertato che il lavoratore stava eseguendo un compito che rientrava nelle sue mansioni: come testualmente dallo stesso affermato già nelle prime s.i.t., egli era incaricato anche della "conduzione e lavaggio del filtro" ed il controllo visivo era strettamente connesso a quello del lavaggio del filtro, anzi ne costituiva parte integrante poiché egli stava verificando, unitamente al Pagani, l'efficacia del lavaggio ad acqua appena svolto.

Si trattava di un'operazione che, come rilevato già dal primo giudice, rientrava non solo nelle sue attribuzioni, ma proprio nel segmento di lavoro a lui affidato e che pertanto non può essere definito in termini di esorbitanza, né di abnormità.

Come emerge dalla testimonianza del teste J.J., correttamente valorizzata dai giudici del merito in quanto si tratta del soggetto che al momento dell'infortunio stava svolgendo l'operazione di lavaggio filtro con la persona offesa, i due, dopo aver terminato l'operazione di lavaggio a boccaporto aperto e con il sensore disattivato a mezzo del nastro isolante, stavano verificando se vi fossero residui di sporco all'interno. A tal fine, G.G., avendo notato dei puntini, si era avvicinato ai comandi del touchscreen e li aveva azionati per far girare le pale e controllare meglio insieme al collega, per poi tornare a spegnerle (o meglio credere di spegnerle) prima di riavvicinarsi al macchinario ed introdurre il braccio, pensando che il macchinario fosse spento.

In sentenza si dà atto che la medesima dinamica è stata riferita dalla persona offesa nel corso del giudizio ed emerge dai filmati di sorveglianza, come descritti nella relazione del consulente tecnico del P.M. ed ancora più chiaramente nella relazione di infortunio ATS in cui viene dato atto del doppio avvicinamento del G.G. al touchscreen per accendere e poi per spegnere il macchinario. E, a fronte della difesa dell'imputato che aveva posto in rilievo come nelle prime s.i.t. rese dal G.G. pochi giorni dopo i fatti, non si accennasse all'azione di spegnere il motore, prima di recarsi a controllare, i giudici del merito ritengono logicamente che tale circostanza possa spiegarsi anche con lo stato di comprensibile turbamento della vittima pei I trauma subito.

Rileva sul punto la Corte territoriale, conformemente alla costante giurisprudenza di legittimità, che, a ben vedere, il fatto che le pale siano rimaste in movimento per una mancanza di cautela del lavoratore, piuttosto che per un'erronea risposta del touchscreen, è irrilevante al fine di escludere la responsabilità dell'appellante, una volta accertato che l'infortunio si è verificato nel corso di una prassi da lui avallata e del tutto scorretta, eseguita in violazione delle procedure (che prevedevano il lavaggio a macchina chiusa) e con la disattivazione del sistema di sicurezza (sensore) funzionale proprio ad impedire eventi lesivi per i lavoratori derivanti dal contatto con le lame del macchinario, quale quello verificatosi.

È stato chiarito e va qui ribadito che il datore di lavoro il quale abbia utilizzato in maniera anomala la macchina è responsabile delle lesioni patite dal lavoratore, a prescindere dalla sussistenza di un difetto di costruzione o di funzionamento della stessa, avendo con la sua condotta ampliato l'area di rischio infortunistico (Sez. 4, n. 36257 del 01/07/2014, Colucci, Rv. 260294 - 01).

Il datore di lavoro è responsabile delle lesioni patite dall'operaio - si legge in altra condivisibile pronuncia - allorquando abbia consentito l'utilizzo di una macchina, la quale, pur astrattamente conforme alla normativa CE, per come assemblata ed in pratica utilizzata abbia esposto i lavoratori a rischi del tipo di quello in concreto realizzatosi (Sez. 4, n. 49670 del 23/10/2014, Fagnani, Rv. 261175 -01).

In casi come quello che ci occupa il datore di lavoro è responsabile delle lesioni occorse all'operaio in conseguenza dell'uso del macchinario, il quale, pur non presentando alcun difetto di costruzione o di montaggio, per come in concreto utilizzato ha comunque esposto i lavoratori a rischi del tipo di quello in concreto realizzatosi (così Sez. 4, n. 22819 del 23/04/2015, Baiguini Rv. 263498 - 01 che ha precisato che il datore di lavoro è tenuto ad accertare la compatibilità dei dispositivi di sicurezza adottati, i quali, pur se sofisticati, potrebbero rilevarsi insufficienti in ragione delle modalità con cui la macchina è in concreto utilizzata).

In tale contesto il comportamento del lavoratore, quand'anche imprudente e colposo, non vale ad interrompere il nesso causale proprio in ragione della circostanza che la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti a osservarne le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché a tale fine occorre che gli stessi dimostrino di aver adottato ogni cautela possibile e di aver rispettato le corrette procedure aziendali.

Poiché incombe sul datore di lavoro il precipuo obbligo d'impedire prevedibili imprudenti condotte dei lavoratori, mediante il rigoroso rispetto delle procedure di sicurezza e, non ultimo, l'approntamento di personale di vigilanza capace di negare l'accesso a procedure pericolose, non v'è dubbio che l'imprudente scelta della vittima di inserire il braccio all'interno del boccaporto è avvenuta nell'ambito di un'operazione eseguita in virtù di una scorretta prassi aziendale adottata, in violazione delle procedure aziendali, per un malinteso convincimento che in tal modo il lavaggio sarebbe stato più efficace. Ove le procedure di lavaggio del filtro fossero state correttamente eseguite- e dunque il boccaporto del filtro essiccatore fosse rimasto chiuso ed il sensore in funzione - l'infortunio non si sarebbe verificato.

La decisione della Corte territoriale di escludere la configurabilità di un comportamento abnorme del lavoratore è, perciò, pienamente conforme al principio secondo cui perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta colposa del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia eccezionale ed imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia.

Non integra il "comportamento abnorme", idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l'evento lesivo o mortale patito dal lavoratore, il compimento da parte di quest'ultimo di un'operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo, che il garante è chiamato a governare (ex multis Sez. 4 n. 43852/2018).

Ulteriormente declinando tale principio, la più recente giurisprudenza di legittimità, abbandonando il criterio dell'imprevedibilità del comportamento del lavoratore nella verifica della relazione causale tra condotta del responsabile civile ed evento, ha chiarito che affinché "la condotto del lavoratore possa ritenersi abnorme ed idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (cfr. da ultimo Sez. 4, n. 46841 del 3/10/2023, Bovini, non mass; Sez. 4, n. 27779 del 20/4/2023, Scopelliti, non mass; Sez. 4, n. 51455 del 05/10/2023, Fiochi, Rv. 285535 - 01; Sez. 4, n. 43852 del 19/07/2018, Bartolini, Rv. 274266 - 01; Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603; sulla base dei principi enunciati da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106, in motivazione)"

Ciò nel solco del consolidato dictum secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis Sez. 4 n. 7364 del 14/01/2014, Scar-selli, Rv. 259321).

Costituisce, infatti, ius receptum il principio secondo cui in tema di infortuni sul lavoro, il principio informatore della materia è quello per cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore

In caso di incidente originato dall'assenza o dalla inidoneità delle misure di sicurezza, o addirittura in casi come quello che ci occupa di una invalsa prassi elusiva dei presidi antinfortunistici, nessuna efficacia causale può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che eventualmente abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del comportamento del lavoratore, con la conseguenza che un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il datore di lavoro ha adempiuto a tutti gli obblighi che gli sono imposti in materia di sicurezza.

In buona sostanza, entrambi i giudici di merito hanno escluso che l'eventuale condotta imprudente dell'operaio avesse costituito un antecedente causale dell'evento, conformemente al principio pacifico anche in ambito civilistico secondo cui nel caso di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227, comma 1, cod. civ., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si sia verificato l'infortunio; o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, ricorrendo,

in tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degradata a mera occasione dell'infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante" (Sez. 6 civ., n. 8988/2020)

Va dunque ribadito che la condotta dell'infortunato, il quale per una incauta scelta operativa propria ma effettuata nell'ambito di una prassi scorretta di utilizzo di un macchinario elusiva dei sistemi prevenzionali non può essere idonea ad assumere valenza interruttiva del nesso di causalità tra il verificarsi del danno e la responsabilità del titolare della posizione di garanzia, in presenza di una situazione di rischio accettata da quest'ultimo, il quale sia venuto meno all'obbligo di assicurare lo stato di efficienza e sicurezza del mezzo di lavoro, proprio perché l'interruzione del nesso di condizionamento a causa del comportamento imprudente del lavoratore richiede che la sua condotta si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Il comportamento è dunque interruttivo non perché eccezionale, ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è tenuto a governare. Ne consegue che la responsabilità del lavoratore è esclusa laddove il sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità. (Sez. 4, n. 49373 del 05/10/2018, Baglietto, non mass.).

6. Gli altri ricorrenti diversi dall'A.A. insistono molto in ordine all'effettività della loro presenza in loco all'atto dell'incidente trascurando che, laddove i giudici di merito hanno evidenziato che l'incidente in questione è occorso in virtù dell'invalsa prassi di aggirare i presidi antinfortunistici tesi ad impedire che si operasse a portellone aperto, la responsabilità va ascritta a coloro che quella prassi, in ragione della collocazione nell'organigramma aziendale, avevano tollerato se non favorito.

Gli stessi deducono, in secondo luogo, il difetto di un loro concreto potere di intervento e, dunque, l'inesigibilità di una condotta diversa da quella adottata. Ciò in quanto dall'istruttoria era pacificamente emerso che A.A., manager del reparto era a conoscenza della scorretta prassi di lavaggio del filtro essiccatore ed anzi l'aveva indicata come procedura da seguire.

La tesi che si sostiene è che non era possibile contrastare le sue decisioni, come dimostrava la vicenda del D., che, a seguito delle proprie rimostranze, era stato costretto a trasferirsi.

In ogni caso, si sostiene che il vice capoturno non aveva una posizione di garanzia rispetto all'osservanza della normativa antinfortunistica.

Deducono, inoltre, i ricorrenti diversi dall'A.A. che la sentenza impugnata ha attribuito loro un ulteriore profilo di colpa di tipo commissivo - l'aver contribuito a diffondere la prassi pericolosa di lavaggio manuale - diverso da quello di tipo omissivo contestato, ovvero la mancata segnalazione della prassi ai superiori, con conseguente nullità della sentenza.

Come si legge nella sentenza impugnata, con riferimento, ai soggetti penalmente responsabili dell'infortunio occorso alla persona offesa, già il primo decidente ha esaminato le singole posizioni degli imputati, in relazione alla loro conoscenza della procedura "alternativa" di lavaggio del filtro essiccatore. E ha riscontrato che della stessa erano certamente a conoscenza D.D., quale vice capoturno e C.C., quale capoturno, avendo peraltro effettuato l'operazione di rimozione del boccaporto anche personalmente ed essendo altresì colui che pochi minuti dopo l'infortunio aveva rimosso dal boccaporto il bullone nastrato. Quanto all'A.A., egli stesso aveva definito l'anomala prassi di pulizia del filtro essiccatore a boccaporto aperto ed era collegato tramite +un impianto di videosorveglianza all'impianto in questione.

Ebbene, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, la Corte fiorentina ha ritenuto le censure difensive non fondate.

Ricorda la Corte che B.B. quale caporeparto, C.C. quale capoturno e D.D. quale vice capoturno sono imputati del reato di lesioni colpose subite dal G.G. sotto un duplice profilo: l'omessa vigilanza sull'osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e l'omessa segnalazione ai superiori dei comportamenti non conformi a tali norme, nella specie la prassi di lavaggio del filtro praticata nello stabilimento in cui è avvenuto l'infortunio. E dunque due sono i profili di colpa attribuiti a tali imputati nella contestazione ai sensi dell'art 19 comma 1 lett. a) D.Lgs. 81/08.

Non è contestato che tutti gli imputati fossero a conoscenza della prassi in uso per il lavaggio del filtro essiccatore, ed allora la Corte territoriale correttamente rileva che l'obbligo di segnalazione non si esauriva con le eventuali comunicazioni all'A.A., quale manager del reparto (peraltro mai effettuate) ma poteva investire altre figure; ad esempio la segnalazione poteva essere fatta ai delegati in materia di igiene e sicurezza nel corso delle riunioni periodiche cui avevano accesso anche i capiturno. E sul punto i giudici del gravame del merito ricordano la testimonianza del V., delegato in materia di sicurezza, il quale ha riferito che la prassi scorretta dì lavaggio in uso nello stabilimento di San Giuliano Milanese non era seguita in alcun altro stabilimento della società e non gli era stata mai segnalata, perché altrimenti sarebbe intervenuto essendo tale pratica, oltre che pericolosa, anche controproducente per la sterilità del prodotto;

L'obbligo di vigilanza di tutti era inoltre agevolmente eseguibile essendo l'ufficio dei capiturno e vicecapiturno diviso dal reparto in cui si trovava il filtro essiccatore da una semplice vetrata ed essendo presente nel reparto un impianto di videosorveglianza.

La procedura di lavaggio come svolta era evidentemente pericolosa sotto plurimi profili: era effettuata a boccaporto aperto con la disattivazione del sensore di sicurezza volto al controllo del movimento delle pale ed inoltre creava diversi centimetri di acqua sul pavimento, in presenza di cavi elettrici come riferito dal Di M.M.. Il lavoratore che si è in concreto infortunato era inesperto in quanto assunto pochi mesi prima e neppure aveva ricevuto una formazione specifica in tema di lavaggio quotidiano del filtro essiccatore.

Immune da censure di legittimità appare la conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale nel confermare la responsabilità colposa degli odierni ricorrenti, per l'omissione degli obblighi di vigilanza e di segnalazione a loro spettanti ed è stata correttamente ritenuta anche in capo a D.D., il quale, quale preposto (vicecapoturno), aveva anch'egli l'obbligo di vigilate sul corretto svolgimento delle operazioni di produzione in accordo con le norme di sicurezza, essendo egli tenuto all'applicazione delle procedure specifiche ed al rispetto della normativa in materia di sicurezza. Corretto è il rilievo che l'assunzione della posizione di preposto -capoturno o caporeparto - non è un obbligo, ma nel momento in cui viene accettata importa i correlativi obblighi e responsabilità.

La sentenza impugnata afferma la responsabilità di B.B., (Omissis) e D.D. per aver omesso di vigilare sull'osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza e di segnalare l'anomala e consolidata prassi di lavaggio del macchinario ai superiori, ritenendo, quindi, integrata la condotta colposa tipica omissiva contestata nell'imputazione, laddove la considerazione che i predetti imputati avevano avallato e per primi praticato la scorretta procedura, tramandandola ai neoassunti, ha un mero valore rafforzativo nella motivazione del giudizio di responsabilità.

In ogni caso la linea difensiva riproposta in questa sede nell'interesse di (Omissis), (Omissis) e D.D. secondo cui il fatto che fosse stato l'A.A. l'ispiratore della prassi di cui si è più volte detto, per cui non c'era nessun onere da parte loro di informare i superiori che ben conoscevano la stessa non poteva evidentemente trovare accoglimento da parte di giudici del merito.

In primis, perché si è appena ricordato che l'A.A. poteva essere bypassato rivolgendosi ad altri soggetti investiti di garanzie nell'ambito della tutela della sicurezza dei lavoratori.

L'esempio del Di M.M., al contrario di quello che sostengono i ricorrenti, dimostra che denunciare si poteva.

Ma soprattutto, B.B., (Omissis) e D.D. ricoprivano, ciascuno nell'ambito dei loro compiti, autonome posizioni di garanzia che non hanno adempiuto.

In proposito si deve sgombrare ogni dubbio, il fatto che si venga meno al proprio obbligo di vigilanza sul rispetto delle normative prevenzionistiche in materia di sicurezza del lavoro in esecuzione di precise scelte organizzative da parte dei propri superiori non esonera i sottoposti che rivestono specifiche ed autonome posizioni di garanzia dalla loro responsabilità avendo gli stessi il dovere di non uniformarsi e di denunciare la pratica di prassi lavorative che mettano a rischio l'incolumità dei lavoratori. Ciò nel solco del consolidato principio secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è, per intero, destinatario dell'obbligo di tutela imposto dalla legge, sicché l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile a ogni singolo obbligato (Sez. 4, n. 928 del 28/09/2022, dep. 2023, Bocchio, Rv. 284086 - 01 in una fattispecie relativa ad omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità del direttore generale di una società per un infortunio occorso successivamente alla cessazione dalle sue funzioni sul rilievo che le omissioni a lui ascrivibili risultavano causalmente connesse all'evento, pur determinato dalla sommatoria di condotte di molteplici garanti; conf. Sez. 4, n. 6507 del 11/01/2018, Caputo, Rv. 272464 - 01; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253850 - 01; Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245527 - 01).

7. Deve, dunque, rilevarsi la correttezza delle determinazioni della Corte territoriale in quanto in linea con il principio - che va qui ribadito - per cui in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro e gli altri soggetti titolari di posizioni di garanzie in materia di sicurezza de! lavoro devono vigilare per impedire l'instaurazione di prassi "contra legem" foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, ove si verifichi un incidente in conseguenza di una tale prassi instauratasi con II consenso o la tolleranza del preposto, anche l'eventuale ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa, integrando essa stessa la colpa per l'omessa vigilanza sul comportamento del preposto" (vedasi la recente e condivisibile Sez. 4, n. 46575 del 27/11/2024, Paci, non mass.; conf. Sez. 4, n. 20092 del 19/01/2021, Zanetti, Rv. 281174 - 01; Sez. 4, n. 10123 del 15/01/2020, Chironna, Rv. 278608 - 01 in una fattispecie, relativa al decesso di un lavoratore colpito da una macchina escavatrice perché, in violazione dell'art. 12, comma 3, D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, si trovava nel campo di azione di tale mezzo, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione del datore di lavoro che aveva escluso l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire la presenza dei lavoratori nello scavo, secondo la prassi instauratasi in contrasto con la legge). Già in precedenza, peraltro, era stato condivisibilmente affermato che, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, sì attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi " contra legem", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/03/2018, Fassero, Rv. 272960 - 01; conf. Sez. 4, n. 18638 del 16/01/2004, Rv. 228344 - 01).

8. Comune a tutti i ricorsi è la doglianza, che si palesa manifestamente infondata, in punto di mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Sul punto, come si rileva in sentenza, la difesa di A.A. aveva posto ai giudici del merito l'accento sul suo comportamento processuale e sulla disponibilità a fornire i chiarimenti sul fatto in sede di indagini, unitamente all'incensuratezza. La difesa di B.B., (Omissis) e D.D. ne aveva, invece, evidenziato lo stato di incensuratezza e le regolari condizioni di vita nonché il contributo offerto alla verificazione dell'evento dalla verosimile condotta negligente dell'infortunato.

Il giudice di primo grado aveva negato le circostanze generiche, rilevando l'assenza di elementi utili in tal senso e giudicando non sufficiente il risarcimento effettuato dalla società, a fronte dell'assenza di alcun comportamento sintomatico di resipiscenza da parte degli imputati. E la corte territoriale ha condiviso tale argomentazione rilevando che il fatto è particolarmente grave per le conseguenze lesive riportate dal giovane lavoratore e per il grado della colpa, in quanto connessa non già ad una violazione isolata delle norme antinfortunistiche, ma ad una scorretta prassi radicata e quotidianamente applicata. Inoltre, ha posto l'accento sul fatto che nessuno degli imputati ha mostrato di aver maturato consapevolezza della propria condotta, sicché non si intravedono ragioni per concedere le invocate attenuanti. A.A., inoltre, ha reso dichiarazioni tese a sminuire la propria responsabilità, avendo qualificato la procedura di lavaggio invalsa nello stabilimento come meramente eccezionale, in contrasto con la realtà dei fatti accertata dall'istruttoria.

Il provvedimento impugnato appare, pertanto, collocarsi nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimunendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con

esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale).

Va ricordato che questa Corte di legittimità ha anche chiarito che, con un indirizzo assolutamente prevalente, che è legittima in tali casi la doppia valutazione dello stesso elemento (ad esempio la gravità della condotta) purché operata a fini diversi, come possono essere il riconoscimento del fatto di lieve entità, la determinazione della pena base, o la concessione ed il diniego delle circostanze attenuanti generiche (cfr. ex multe Sez. 2, n. 24995 del 14/5/2015, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 dell'11/10/2013 dep 2014, Rv. 258011; Sez. 4, n. 35930 del 27/6/2002, Rv. 222351

9. Né può porsi in questa sede la questione di un'eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d'appello, in con siderazione della manifesta infondatezza del ricorso.

La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen (così Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. U., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv 7.31164, e Sez. U. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).

10. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.

Così deciso il 21 gennaio 2025

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2025