aggiornamento: febbraio 2025
Ministero della Giustizia
Criteri guida per la redazione di codici di comportamento delle associazioni rappresentative degli enti
Introduzione
Il presente documento intende offrire indicazioni e criteri guida alle associazioni rappresentative degli enti che possono adottare codici di comportamento per la costruzione dei modelli di organizzazione e gestione, in base all’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001 (di seguito, decreto), disciplina che, come noto, ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
Come sarà meglio chiarito nel prosieguo, tale disposizione prevede il coinvolgimento del Ministero della giustizia nel procedimento di approvazione dei predetti codici di comportamento e, in questa prospettiva, il documento qui presentato persegue una duplice finalità.
Da una parte, esso ha lo scopo di informare le associazioni rappresentative degli enti in merito ai criteri guida che orientano l’esame dei codici di comportamento comunicati al Ministero della giustizia ai sensi del predetto art. 6, comma 3; dall’altra parte, il documento si propone di delineare un quadro metodologico per la predisposizione e/o l’aggiornamento dei codici di comportamento da parte delle associazioni medesime.
Resta inteso che la scelta di dotarsi di un modello organizzativo e le modalità della relativa implementazione rimangono di esclusiva pertinenza di ciascun ente.
D’altro canto, è indubitabile che i codici di comportamento ispirano ormai largamente l’attività di predisposizione dei modelli organizzativi da parte degli enti destinatari della normativa di cui al d.lgs. n. 231/2001; pertanto, l’accuratezza contenutistica e metodologica dei codici si riflette sulla concreta attività di prevenzione del rischio reato messa in campo dalle singole realtà organizzative.
Nella prospettiva di rafforzare le strategie di collaborazione tra il settore pubblico e quello privato, allo scopo di assicurare il più efficace esercizio dei poteri di auto-regolamentazione in funzione preventiva, che fanno capo ai soggetti privati, e che costituiscono il fulcro della disciplina dettata dal d.lgs. 231 del 2001, il documento punta dunque alla elaborazione di un framework interpretativo e operativo; costituendo così una “bussola” che orienti le iniziative di adozione e/o di aggiornamento dei codici di comportamento di categoria e, per l’effetto, supporti le correlate attività di orientamento da esse svolta in favore degli enti rappresentati.
A supporto della opportunità di definire i menzionati criteri guida militano, inoltre, almeno due ulteriori ordini di motivi, legati rispettivamente all’evoluzione della elaborazione giurisprudenziale e al dato comparatistico (che, con riguardo al d.lgs. n. 231/2001, ha sempre rappresentato un referente importante).
Quanto al primo profilo, la Corte di Cassazione ha di recente offerto un contributo ermeneutico decisivo (Cass. Sez. VI, 11 novembre 2021 [dep. 15 giugno 2022], n. 23401) proprio in riferimento alla funzione rivestita, nel contesto della valutazione di idoneità del modello da parte del giudice, dai codici di comportamento delle associazioni rappresentative degli enti.
I giudici di legittimità, nel ribadire che tali codici non costituiscono una «regola organizzativa esclusiva ed esaustiva» e che il modello organizzativo deve essere «quanto più singolare possibile», hanno tuttavia sottolineano come la procedura ex art. 6, comma 3 del decreto sia «funzionale […] da un lato, a fissare, attraverso le c.d. linee guida, parametri orientativi per le imprese nella costruzione del “modello organizzativo”; dall’altro, a temperare la discrezionalità del giudice nella valutazione dell’idoneità del modello stesso».
Da ciò consegue che, «in presenza di un modello organizzativo conforme a quei codici di comportamento, il giudice sarà tenuto specificamente a motivare le ragioni per le quali possa ciò nonostante ravvisarsi la “colpa di organizzazione” dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario, che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato».
Un ulteriore argomento, come anticipato – seppur in presenza di numerose differenze tra ordinamenti – giunge anche dall’esperienza comparata, che offre casi di rilievo di documenti di fonte pubblica rivolti agli enti collettivi con funzione di indirizzo e guida. Un settore di particolare interesse è quello del contrasto alla corruzione, in relazione al quale si possono citare – quali esempi di indicazioni a supporto dell’adozione di misure preventive – ad esempio, sia le linee guida adottate dal Ministero della giustizia britannico in relazione al Bribery Act del 2010, sia i diversi documenti di orientamento elaborati dall’Autorità anticorruzione francese (AFA) nel quadro delle riforme introdotte dalla Loi Sapin II del 2016.
Inoltre, in tale ottica va ricordato il ruolo d’impulso delle raccomandazioni ricevute in occasione di recenti esercizi di valutazione da parte di organismi sovranazionali, in specie con il Rapporto di Fase IV del Working Group on Bribery dell’OCSE sull’attuazione da parte dell’Italia della Convenzione sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali.
Appare dunque oggi di grande significatività, particolarmente per le ricadute in punto di responsabilità dell’ente, che i codici di comportamento di categoria possano essere strutturati secondo le migliori prassi, così da aspirare a ottenere l’approvazione da parte del Ministero della giustizia.
Tanto premesso, il documento è strutturato come segue.
Nella prima parte, si ripercorrono le caratteristiche di fondo del d.lgs. n. 231/2001 e si approfondisce, in particolare, la richiamata disposizione di cui all’art. 6, comma 3 del decreto; si analizza, altresì, la normativa di rango secondario (decreto del Ministero della giustizia 26 giugno 2003, n. 201, di seguito, d.m.) e la procedura di approvazione dei codici di comportamento.
La seconda parte del documento è invece dedicata alla individuazione dei criteri guida che orientano l’esame dei codici di comportamento da parte del Ministero della giustizia e alla condivisione di indicazione generali relative alla struttura e alle componenti che detti codici dovrebbero presentare.
1. Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: generalità e finalità della normativa
Con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 è stata introdotta nell’ordinamento italiano la responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
Come chiarito dalla Relazione di accompagnamento al decreto, la riforma è stata sollecitata dalla necessità di allineare il quadro normativo italiano agli obblighi discendenti dalla ratifica di alcuni atti internazionali, tra i quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 1997, sulla scorta della considerazione che «la quasi totalità degli strumenti internazionali e comunitari […] in una pluralità (eterogenea) di materie, dispone la previsione di paradigmi di responsabilità delle persone giuridiche, a chiusura delle previsioni sanzionatorie».
L’articolazione di un tale sistema di responsabilità, chiarisce ancora la Relazione, ha offerto risposta all’esigenza «di colmare un’evidente lacuna normativa del nostro ordinamento», anche in quanto analoghe forme di responsabilità erano, al tempo, «già una realtà in molti Paesi dell’Europa» ed essendo un dato fenomenologico acquisito che «molte pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere […] da soggetti a struttura organizzata e complessa».
Sulla base di tali premesse, il legislatore italiano ha delineato un autonomo sistema di responsabilità a carico dei soggetti collettivi che prevede criteri di imputazione e conseguenze sanzionatorie distinti da quelli che caratterizzano il diritto penale della persona fisica. Giova ricordare, in sintesi, le caratteristiche essenziali di tale disciplina.
Anzitutto, il sistema di responsabilità tratteggiato dal decreto del 2001 è informato ai principi di legalità e specialità, e da ciò discende che i destinatari della normativa – per come individuati all’art. 1 del decreto – potranno essere ritenuti responsabili unicamente in relazione alla commissione dei reati presupposto previamente individuati dalla legge (artt. 24 ss.).
Avuto riguardo alle conseguenze sanzionatorie, la normativa commina, nel rispetto delle regole che ne disciplinano i presupposti di applicazione e la commisurazione, sanzioni di tipo pecuniario, interdittivo, ablatorio e reputazionale (artt. 9 ss.).
Sul piano dell’attribuzione della responsabilità, il decreto identifica puntuali criteri oggettivi e soggettivi. Quanto al primo profilo, affinché l’ente possa essere ritenuto responsabile, si richiede la commissione di un reato presupposto nel suo interesse o a suo vantaggio da parte di una persona fisica – apicale o sottoposto – esponente dell’organizzazione (art. 5).
Sul versante dell’imputazione soggettiva, l’art. 6 del decreto rimanda alla nozione di “colpa di organizzazione”, disponendo – pur secondo una diversa modulazione, a seconda che il reato sia stato commesso da apicali o da sottoposti – che l’ente non può essere ritenuto responsabile se, prima della commissione del reato presupposto da parte del suo agente, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
La medesima disposizione, in particolare, stabilisce altresì che i modelli organizzativi possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della giustizia che «può formulare […] osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati» (art. 6, comma 3).
Appare dunque utile, nella prospettiva del presente documento, soffermarsi sulla procedura da ultimo menzionata, approfondendo sia i profili di disciplina, sia la prassi applicativa.
2. Il procedimento previsto dall’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001. Il ruolo del Ministero della giustizia
Come anticipato, il d.lgs. n. 231/2001 prevede il coinvolgimento del Ministero della giustizia in quanto autorità preposta all’approvazione dei codici di comportamento che, come dispone la normativa (art. 6), possono essere «redatti dalle associazioni rappresentative degli enti» al fine di orientare i soggetti associati nel procedimento di adozione dei modelli di organizzazione e gestione.
Più in dettaglio, l’art. 6, comma 3, stabilisce che i modelli organizzativi «possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati».
Il comma 2 dello stesso articolo delinea i contenuti essenziali dei modelli organizzativi che possono essere adottati dagli enti collettivi, secondo una logica basata sulla identificazione dei rischi e sulla predisposizione di correlate misure di controllo e gestione:
«In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
2-bis. I modelli di cui al comma 1, lettera a), prevedono, ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2019, i canali di segnalazione interna, il divieto di ritorsione e il sistema disciplinare, adottato ai sensi del comma 2, lettera e)».
Al contempo, l’art. 85 del d.lgs. n. 231/2001 («disposizioni regolamentari») prevede espressamente che «con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 [...] il Ministro della giustizia» adotti le disposizioni regolamentari di attuazione del testo di legge.
A tal fine è stato adottato il d.m. n. 201/2003 (in Gazz. Uff., 4 agosto, n. 179), «Regolamento recante disposizioni regolamentari relative al procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, ai sensi dell’articolo 85 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231».
Esso in particolare si occupa, oltre che dei servizi amministrativi correlati alla tenuta dei fascicoli dei procedimenti di accertamento della responsabilità amministrativa degli enti, del «procedimento di controllo» volto all’approvazione, o meno, dei codici di comportamento comunicati al Ministero dalle associazioni rappresentative degli enti.
In particolare, a tale procedimento sono dedicati gli artt. 5-6-7 d.m.
Segnatamente, secondo l’articolo 5, che assegna la competenza in materia alla Direzione generale della giustizia penale (oggi Direzione generale degli affari interni), i codici di comportamento debbono contenere «indicazioni specifiche (e concrete) di settore per l’adozione e l’attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione» previsti dall’art. 6, d.lgs. n. 231/2001; inoltre, l’invio dei codici di comportamento deve essere «accompagnato dallo statuto e dall’atto costitutivo dell’associazione», con la specifica che «in difetto, ovvero quando dall’esame di tali atti risulti che il richiedente è privo di rappresentatività, l’Amministrazione arresta il procedimento di controllo alla fase preliminare, dandone comunicazione entro trenta giorni dalla data di ricezione dei codici».
Ai sensi dell’art. 6, il Direttore generale (oggi) degli affari interni «esamina i codici di comportamento sulla base dei criteri fissati all’articolo 6, comma 2», d.lgs. n. 231/2001, potendo a tal fine avvalersi, nell’ambito degli ordinari stanziamenti del bilancio ministeriale, della consulenza di «esperti in materia di organizzazione aziendale».
Secondo l’art. 7, il medesimo Direttore generale, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del codice di comportamento, può comunicare, «previo concerto con i Ministeri competenti», «eventuali osservazioni in merito alla idoneità dello stesso a fornire le indicazioni specifiche di settore per l’adozione e per l’attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione finalizzati alla prevenzione» dei reati c.d. presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente: laddove a seguito di tali osservazioni pervenga un codice di comportamento aggiornato, «ai fini di un ulteriore esame», il termine di trenta giorni decorre nuovamente; altrimenti, «rimane impedita l’acquisizione di efficacia del codice».
Infine, l’art. 7, comma 3, delinea una fattispecie di silenzio-assenso, poiché prevede che «decorsi trenta giorni dalla data di ricevimento del codice di comportamento, senza siano state formulate osservazioni, il codice di comportamento acquista efficacia».
È bene sottolineare che, in ogni caso, la procedura di approvazione non interferisce con la valutazione di idoneità del singolo modello organizzativo, che rimane di esclusiva competenza del giudice. In altri termini, la conformità di un modello di organizzazione e gestione alle prescrizioni di codici di comportamento che abbia ricevuto l’approvazione del Ministero della giustizia non può mai assicurare, per ciò solo, il positivo esito dello scrutinio giudiziale e l’esonero da responsabilità per l’ente.
3. La prassi applicativa ministeriale
Così richiamate le norme di riferimento, di rango primario e secondario, in materia di procedimento amministrativo di controllo e di valutazione dei codici di comportamento (sia pure per silenzio-assenso), sembra utile qui sintetizzare le principali indicazioni risultanti dalla prassi applicativa ministeriale.
In primis, è bene evidenziare come l’associazione interessata a ottenere l’approvazione del codice di comportamento sia tenuta a dimostrare la propria legittimazione, quindi la propria effettiva rappresentatività, da un canto esibendo lo statuto e l’atto costitutivo (art. 5 d.m.), dall’altro descrivendo compiutamente, nella nota accompagnatoria del codice, i compiti a essa demandati nell’interesse degli enti rappresentati.
Considerato l’accento posto, dalla normativa regolamentare, su tale particolare aspetto – configurante condizione di accesso al procedimento che, ove non soddisfatta, è idonea a precludere anche l’esame del merito del codice – si è ritenuto che la legittimazione possa riconoscersi solo a soggetti muniti di una effettiva e apprezzabile rappresentatività, nell’ambito del traffico e dei rapporti giuridici, a tal fine dovendosi considerare sia l’ambito oggettivo dei compiti assunti, per statuto ed atto costitutivo, dall’associazione medesima, sia l’ambito soggettivo degli enti rappresentati.
L’invio dello statuto e dell’atto costitutivo, oltre a una nota illustrativa che descriva l’ambito di operatività dell’associazione rappresentativa e dei soggetti rappresentati, sono quindi indispensabili affinché il Ministero della giustizia possa dare avvio al procedimento di controllo, e all’esame del merito del codice di comportamento, ai fini della sua eventuale approvazione.
Chiaramente, l’esibizione dello statuto e dell’atto costitutivo non occorre, laddove si tratti del mero aggiornamento di un codice di comportamento già approvato nella versione precedente (avendo quindi il Ministero già a disposizione tali documenti) e laddove al contempo non sia sopravvenuta, nelle more della precedente approvazione, alcuna modificazione dello statuto. In tali casi, è bene che l’associazione espliciti, nella sua nota accompagnatoria, che lo statuto in precedenza inviato al Ministero a corredo del codice approvato, non sia stato medio tempore modificato.
Per quanto concerne la fase propriamente istruttoria e di valutazione del codice di comportamento, giova segnalare come il Ministero della giustizia, nell’ottica di valorizzare il concerto previsto dall’art. 7, d.m. e di dare risalto alle competenze dei Dicasteri e delle Autorità amministrative deputate alla cura degli interessi tutelati dalle fattispecie di reato presupposto, abbia sempre chiesto ed acquisito il contributo dei seguenti Ministeri ed Autorità:
- Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro;
- CONSOB - Divisione Mercati - Ufficio Abusi di Mercato;
- BANCA D’ITALIA - Unità di informazione finanziaria per l’Italia - Servizio Analisi e Rapporti Istituzionali - Divisione normativa e rapporti istituzionali;
- Ministero dell’Interno - Dipartimento di pubblica sicurezza - Ufficio Studi, Ricerche e Consulenza;
- Ministero dell’Economia e delle Finanze - Dipartimento del Tesoro - Direzione IV - Ufficio VIII;
- Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già MISE) – Ufficio legislativo.
Sempre a proposito dell’istruttoria demandata al Ministero della giustizia, pare degna di rilievo la circostanza che l’Amministrazione, pur potendo (e dovendo) analizzare i codici di comportamento, debba essere in condizione di formulare «osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati», come testualmente previsto dall’art. 6, d.lgs. n. 231/2001.
Ciò comporta che i codici di comportamento debbano avere, a loro volta, un contenuto non meramente teorico, ma sufficientemente pratico-descrittivo, tale da lasciar comprendere quale debba essere, secondo miglior scienza ed esperienza, il contenuto dei modelli di organizzazione da adottare poi a cura di ciascun ente rappresentato.
È quindi essenziale, al buon fine del procedimento amministrativo, oltreché dell’effettiva utilità del codice di comportamento, che questo delinei, in maniera sufficientemente chiara, il settore commerciale e/o l’ambito di operatività degli enti rappresentati; correlativamente, il codice di comportamento dovrebbe declinare, in base allo specifico settore interessato ed alle peculiarità dei processi decisionali e finanziari tipici di tale ambito operativo, tutti gli elementi fondamentali del modello organizzativo, o che configurano il presupposto dell’adozione del medesimo, quali appunto, ad esempio, l’individuazione delle attività a rischio-reato, i protocolli da adottare sia per l’adozione e attuazione delle decisioni dell’ente, sia per la gestione delle risorse finanziarie, onde ridurre il rischio entro limiti di tollerabilità che evitano la responsabilità dell’ente.
4. Principi e criteri per l’esame dei codici di comportamento da parte del Ministero della giustizia
Muovendo da tali ultime considerazioni riguardanti la prassi applicativa, appare ora possibile fornire alcune indicazioni in merito ai principi e criteri osservati dal Ministero della giustizia nell’esame dei codici di comportamento presentati dalle associazioni di categoria, ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001.
Un primo ed essenziale aspetto che viene in considerazione attiene all’efficacia del codice di comportamento. Ciò evoca l’effettiva utilità del codice medesimo, intesa come capacità di orientare il comportamento degli associati attraverso la predisposizione di linee guida sufficientemente chiare e suscettibili di essere prese a concreto riferimento per l’adozione del modello di organizzazione e gestione del singolo ente.
In questa ottica, i codici di comportamento devono essere realmente implementabili, offrendo indicazioni in grado a conformare le scelte degli enti rappresentati in sede di predisposizione dei meccanismi preventivi finalizzati a ridurre significativamente l’area del rischio di responsabilità.
Dai codici di comportamento adottati dalle associazioni rappresentative, i singoli aderenti debbono poter ricavare strumenti concreti, sia di tipo interpretativo, sia di taglio pratico-operativo, da poter impiegare nel contesto della propria attività di prevenzione e gestione del rischio.
La valorizzazione di questo criterio si lega, pertanto, specialmente alla necessità di evitare – quale inevitabile riflesso di codici di comportamento astratti e difficilmente traducibili in vere scelte organizzative – il fenomeno della c.d. cosmetic compliance; ossia di modelli organizzativi che attestano l’evidenza dei necessari adempimenti e meccanismi di controllo su un piano di mera forma o di facciata, ma che, nella sostanza, non sono in condizione di inverarsi in presidi efficaci.
Un secondo, importante indice da menzionare riguarda la specificità del codice di comportamento. Anzitutto – come messo in evidenza dalla disamina della prassi applicativa – è essenziale che tale codice delinei, con adeguato livello di dettaglio, il settore commerciale e/o l’ambito di operatività dei soggetti associati, dal momento che le indicazioni fornite devono essere “ritagliate” sulle peculiarità della categoria rappresentata.
Tale ultima esigenza è strettamente connessa al noto ruolo cui i modelli organizzativi debbono assolvere nel quadro del d.lgs. n. 231/2001: affinché possa dirsi idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, il modello organizzativo e i singoli protocolli di prevenzione adottati in concreto dovranno essere calati nella realtà aziendale in cui sono destinati a trovare attuazione; i meccanismi di risk assessment e risk management di ciascun ente dovranno essere, in altri termini, costruiti “su misura” delle sue caratteristiche e della sua operatività.
L’obiettivo perseguito dai codici di comportamento deve essere, in questo contesto, quello di evitare la riproduzione di modelli di organizzazione caratterizzati da genericità e, quindi, non in grado di reggere al vaglio giudiziario. Tale esigenza è volta ad assicurare l’individualizzazione e la modulabilità, da parte di ciascun ente interessato, delle indicazioni che il codice di comportamento rivolge a tutti gli associati della categoria rappresentata.
Un ulteriore criterio di riferimento riguarda il connotato della dinamicità, da intendersi come capacità del codice di comportamento di fornire indicazioni non eccessivamente rigide, bensì in grado di intercettare un ampio novero di casistiche; indicazioni che possano, dunque, essere adattate, nella trasposizione realizzata dai singoli enti nei propri modelli organizzativi, alle evoluzioni dei fenomeni da considerare e gestire.
Questo carattere richiama la necessità che anche i codici di comportamento – al pari di quanto il d.lgs. n. 231/2001 richiede per i modelli organizzativi – si presentino aggiornati, ossia in grado di risultare adeguati al mutamento della realtà organizzativa e di operatività di riferimento, nonché ai rischi di commissione di illeciti. In ultima analisi, questo criterio assicura che i codici di comportamento siano efficienti, ossia in linea con i cambiamenti che, nel tempo, possono verificarsi all’interno degli enti rappresentati e dei singoli settori commerciali.
5. La struttura e le componenti dei codici di comportamento
Come visto, la duplice finalità del presente documento è, da una parte, informare le associazioni rappresentative degli enti in merito ai criteri guida che orientano la valutazione dei codici di comportamento comunicati al Ministero della giustizia ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001; dall’altra parte, ulteriore obiettivo perseguito è quello di delineare un quadro metodologico di riferimento per la predisposizione e l’aggiornamento di codici di comportamento da parte delle medesime associazioni di categoria.
In proposito, il Ministero della giustizia considera appropriato offrire alcune indicazioni di ordine generale e a carattere orientativo per supportare la elaborazione, da parte delle singole associazioni rappresentative degli enti, di codici di comportamento che rispondano, in particolare, alle esigenze in precedenza illustrate (efficacia, specificità, dinamicità).
Le indicazioni che seguono prendono le mosse dal dato normativo – in specie, dallo ‘schema’ di contenuti dei modelli organizzativi previsto dall’art. 6, commi 2 e 2-bis del decreto – e tengono in conto l’evoluzione della pratica aziendale e delle misure organizzative e di controllo per la prevenzione di illeciti adottate dagli enti collettivi, i rilevanti approdi della giurisprudenza, i più autorevoli contributi dottrinali in materia, le esperienze di diritto comparato.
Un sicuro riferimento è poi offerto, come si è chiarito, dalla prassi applicativa che si è consolidata in relazione alla procedura disciplinata dal citato d.m. del 2003, riguardante la valutazione dei codici di comportamento sottoposti, negli anni, al vaglio del Ministero della giustizia.
In particolare, alcuni codici di comportamento di importanti associazioni rappresentative degli enti approvati dal Ministero della giustizia (in qualche caso presentati già nei primi anni di vita del decreto) non solo hanno contributo in modo significativo a ispirare i singoli associati nella adozione di propri modelli organizzativi, ma hanno anche plasmato delle vere e proprie best practice che si sono diffuse e consolidate e che sono, oggi, patrimonio comune della compliance rilevante ai fini del d.lgs. n. 231/2001.
Tanto premesso, si ritiene utile ripercorrere le principali direttrici che dovrebbero guidare le associazioni rappresentative degli enti nella elaborazione di propri codici di comportamento, tratteggiando, a seguire, la struttura di massima e le componenti che detti codici dovrebbero presentare. Giova puntualizzare che i criteri guida qui definiti non possono in alcun modo considerarsi esaustivi e richiedono un successivo intervento di concretizzazione e specificazione a cura di ciascuna associazione rappresentativa, da declinarsi sulle caratteristiche della categoria di riferimento.
Quadro normativo e finalità generali della disciplina ex d.lgs. n. 231/2001. I codici di categoria, come detto, hanno l’obiettivo anzitutto di orientare i comportamenti degli associati. In tale prospettiva, appare indispensabile che nel codice di comportamento sia ricompresa una sezione introduttiva che delinei, in modo chiaro e sufficientemente puntuale, i caratteri di fondo della disciplina prevista dal d.lgs. n. 231/2001, le finalità della stessa, l’apparato sanzionatorio, nonché le importanti funzioni – preventiva, di esonero, riparatoria – rivestite dai modelli di organizzazione e gestione nel quadro del decreto.
Questa componente del codice di comportamento si lega anche a una esigenza di piena conoscibilità della normativa e di prevedibilità delle relative conseguenze sanzionatorie, per indirizzare le scelte organizzative dei singoli enti in relazione alla consapevole adozione, o meno, di un modello organizzativo.
Distinzione tra “parte generale” e “parte speciale” del modello organizzativo. La prassi che si è imposta sin dai primi anni di vigenza del d.lgs. n. 231/2001 quanto alla struttura dei modelli di organizzazione e gestione è stata quella di prevedere una suddivisione in “parte generale” (comprensiva dell’articolazione dell’ente, del suo settore di attività, della sua forma giuridica etc.) e “parte speciale” (relativa, in particolare, agli specifici protocolli di prevenzione) (v. infra).
I codici di comportamento delle associazioni rappresentative degli enti devono, pertanto, suggerire agli associati di elaborare modelli organizzativi articolati tenendo conto di tale “bipartizione” di fondo, illustrando i caratteri delle due parti del modello e fornendo, altresì, una esemplificazione dei contenuti da includere in ciascuna di esse.
Elementi della c.d. “parte generale” del modello organizzativo. La parte generale del modello organizzativo ha l’obiettivo di delineare la fisionomia dell’ente ed è altresì la sede in cui trovano collocazione alcuni dei principali elementi costitutivi del modello individuati dal d.lgs. n. 231/2001 (l’Organismo di Vigilanza, il sistema disciplinare, i meccanismi di whistleblowing, etc.).
Ciò premesso, quanto alle componenti da ricondurre alla parte generale del modello organizzativo che dovrebbero essere richiamate nei codici di comportamento – senza che ciò pregiudichi la possibilità, per le singole associazioni, di indicare componenti ulteriori e/o di dettagliare maggiormente quelli di seguito elencati – si ricordano:
- l’organizzazione e le caratteristiche operative delle singole realtà;
- l’individuazione dei destinatari del modello organizzativo;
- la metodologia seguita per la individuazione e gestione dei rischi (avuto riguardo, in particolare, alla costruzione del sistema di controllo e alla procedimentalizzazione delle attività che comportano un rischio di reato);
- il Codice etico, che richiama l’insieme dei valori, dei diritti e delle responsabilità dell’ente nei confronti dei c.d. portatori di interesse e che prescrive o vieta determinati comportamenti, prevedendo del caso sanzioni in rapporto alle violazioni (sistema disciplinare);
- l’Organismo di Vigilanza, previsto dall’art. 6 d.lgs. n. 231/2001, chiamato a vigilare sull’adozione dei modelli organizzativi da parte dell’organo dirigente a ciò preposto e sul loro funzionamento, sulla loro osservanza e sul loro aggiornamento. I codici di comportamento debbono fornire indicazioni riguardanti la composizione dell’Organismo di Vigilanza, il suo ruolo, le sue funzioni e i suoi poteri, i flussi informativi e il suo funzionamento operativo, i rapporti con gli altri organi di controllo;
- i canali di segnalazione interna (whistleblowing), in linea con le previsioni di fonte europea di cui alla direttiva (UE) 2019/1937;
- la comunicazione al personale e la sua formazione;
- il sistema di monitoraggio, i principi di controllo sul modello organizzativo e l’aggiornamento dello stesso.
Le associazioni rappresentative devono altresì includere nei codici di comportamento – oppure chiarire le ragioni per le quali non occorre includere in relazione alla propria realtà di riferimento – specifiche indicazioni che consentano di adattare gli elementi sopra richiamati sulla base dei requisiti dimensionali dei soggetti associati (ad esempio, avuto riguardo ai gruppi e alle piccole imprese).
Queste indicazioni sono di particolare rilievo nell’ottica di indurre gli associati a predisporre modelli organizzativi che siano il più possibile informati alla logica tailor-made, ossia tarati sulla struttura, sul grado di complessità e sulle risorse di quello specifico ente.
Parimenti, in ottica di efficienza e di sistematizzazione, deve prevedersi nei codici di comportamento una sezione dedicata alla c.d. compliance integrata, finalizzata al coordinamento degli adempimenti e delle procedure necessari per assicurare la conformità alle differenti e sovente numerose normative che i singoli enti siano chiamati a rispettare e presidiare. Anche in tal caso, l’eventuale mancata previsione di tali indicazioni deve essere illustrata, indicandone le ragioni.
Elementi della c.d. “parte speciale” del modello organizzativo. La parte speciale del modello organizzativo è la sede in cui trova attuazione l’attività di mappatura del rischio in relazione alle diverse fattispecie di reato presupposto rilevanti ex lege, e in cui sono quindi riportate le cautele finalizzate alla riduzione del rischio reato.
Anche avuto riguardo agli elementi della parte speciale del modello organizzativo da includere nei codici di comportamento delle associazioni di categoria, si ribadisce che le indicazioni che seguono rappresentano uno standard minimo, che lascia aperta la possibilità per le associazioni rappresentative degli enti di prevedere elementi ulteriori o un maggior grado di dettaglio.
Tra le componenti della parte speciale del modello organizzativo si annoverano:
- la elencazione dei reati presupposto previsti dalla normativa e le correlate attività sensibili. Sarebbe, inoltre, di ausilio per i singoli associati che i codici di comportamento individuino le aree di rischio reato più ricorrenti in relazione alla categoria rappresentata (ad esempio, considerando il settore commerciale e/o l’ambito di operatività degli enti rappresentati, l’ambito geografico di riferimento, le caratteristiche organizzative e la forma giuridica in prevalenza prescelta, precedenti dati o statistiche sul punto etc.);
- la metodologia per la costruzione della parte speciale del modello organizzativo, fornendosi agli enti rappresentati indicazioni riguardanti le principali e più consolidate modalità di costruzione di tale parte, ossia quella per fattispecie di reato presupposto e quella per processo.
Come noto, la metodologia che muove dalle ‘famiglie’ di reato prevede che si esaminino le singole fattispecie e le relative modalità di integrazione, che si identifichino le aree di rischio e le concrete possibilità, in rapporto all’attività del dato ente, di commissione di quei reati, e che si individuino gli standard di controllo.
La metodologia basata sui processi segue le medesime scansioni, ma prende appunto avvio dai singoli processi presi in esame per correlare, ad essi, le fattispecie presupposto rilevanti.
Ferma restando la scelta della metodologia da preferire nella valutazione del singolo ente, il codice di comportamento deve illustrare le peculiarità di ciascuna, e fornire esempi concreti che supportino gli associati nella scelta;
- esempi di protocolli di riferimento e controlli preventivi in rapporto alle attività sensibili (prendendo in considerazione, in via esemplificativa, i reati di corruzione di cui all’art. 25 del decreto, in relazione all’esecuzione di contratti con soggetti privati per prestazione di servizi, quali consulenze o collaborazioni, si dovranno indicare procedure pertinenti, come la segregazione delle funzioni, la tracciabilità dei flussi finanziari, verifiche sulle controparti).
fonte: giustizia.it
