Cassazione Penale, Sez. 4, 15 aprile 2025, n. 14801 - Caduta mortale del tirocinante muratore: liberarsi da DPI rientra tra le imprudenze prevedibili e prevenibili da parte dei soggetti che assumono posizioni di garanzia


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta da:

Dott. DOVERE Salvatore - Presidente

Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore

Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere

Dott. LAURO Davide - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A. nato a I il (Omissis)

avverso la sentenza del 14/06/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore gen. MARILIA DI NARDO che, riportandosi alla memoria depositata, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

udito il difensore avvocato FEDERICA NARDONI del foro di FROSINONE in difesa di A.A., la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

 

Fatto


1. Con sentenza del 15/10/2021 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in composizione monocratica emessa all'esito di giudizio ordinario l'odierno ricorrente A.A. è stato condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione in quanto riconosciuto colpevole, con altri, del reato di cui al capo A) dell'imputazione (artt. 113 e 589, commi 1 e 2 cod. pen.) perché, nella qualità di legale rappresentante della ditta Edil Pittura S. Snc esecutrice dei lavori di rimozione della copertura in cemento amianto del capannone n. 19 dello stabilimento F. Trasporti di C, lavori avuti in sub-sub appalto dalla Navarra Spa, con condotte concorrenti e tra loro indipendenti, tutti:

"per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e nell'inosservanza delle disposizioni di cui all'art. 2087 cod. civ., nonché in violazione di specifiche norme in materia di prevenzione infortuni di cui al D.Lgs.. 81/08, consentendo e non impedendo che B.B., tirocinante della ditta Edil Pittura S., ma di fatto lavoratore dipendente della stessa dal dicembre 2008 con mansioni di muratore, prestasse la propria opera in condizioni di pericolo senza aver ricevuto idonei dispostivi di protezione individuale e senza avere ricevuto idonea formazione ed informazione sui rischi del lavoro, nonché in assenza di idonei dispositivi collettivi di prevenzione contro i rischi di caduta dall'alto, in esecuzione di lavori su tetti lucernari e coperture del capannone n. 19 dello stabilimento della F. Trasporti di Caserta, cooperavano a cagionare la morte del lavoratore B.B.".

(Omissis)

"A.A., legale rappresentante della ditta Edil Pittura S. e datore di lavoro di B.B., omettendo in violazione degli artt. 18, 36, 76 85, 96, 97, 100, 36, 18, 148 D.Lgs. 81/08, di fornire ai dipendenti idonea formazione ed informazione circa i rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro connessi all'attività dell'azienda, omettendo di attuare quanto previsto nel piano di sicurezza e coordinamento con particolare riferimento all'osservanza dell'installazione di più torrette metalliche a distanza di 10 metri l'una dall'altra con linea vita ovvero di una fune di acciaio a cui agganciare le cinture di sicurezza, omettendo di fornire al lavoratore DPI adeguati ai rischi da prevenire e, nel caso di specie, in presenza di rischi multipli che richiedevano l'uso simultaneo di più DPI, omettendo di predisporre e fornire DPI tra loro compatibili e tali da mantenere, nell'uso simultaneo, la propria efficacia, nonché di adottare le misure di prevenzione collettive adeguate ai lavori da eseguire in quota e cioè le misure di cui all'art. 148 D.Lgs.. 81/08 (allestimento di impalcati, reti anticaduta nella parte sottostante i lucernari costituiti da materiale poco resistente), cooperavano a cagionare la morte del lavoratore B.B. Invero, B.B., assunto come tirocinante nell'aprile 2009 ma alle dipendenze di fatto della Edil Pittura S. dal dicembre 2008, con compiti di muratore, mentre eseguiva lavori in quota, in particolare sul lucernaio del capannone n. 19 dello stabilimento F. di Caserta, consistenti nella rimozione dei laminati plastici di copertura, mentre transitava su uno di questi, precipitava al suolo in quanto il laminato cedeva sotto il suo peso ed il lavoratore, non agganciato ad alcun idoneo dispositivo di sicurezza - in quanto non previsto né installato come evidenziato innanzi - né salvato da sistemi di protezione collettivi come, reti anticaduta, di fatto non installati, in violazione dell'art. 148 D.Lgs.. 81/08, precipitava al suolo da un'altezza di 12 metri e decedeva in conseguenza delle gravissime lesioni riportate, di cui ai referti medici in atti. In C in data (Omissis)".

Il Tribunale sammaritano ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione quanto al reato imputato all'odierno ricorrente al capo B (art. 148 D.Lgs.. 81/08 per avere ",omesso, prima dell'inizio dei lavori sul lucernario e sulla copertura del capannone n. 19 dello stabilimento F. Trasporti Spa di C, di accertare che questi avessero resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai (tanto che il laminato plastico della copertura cedeva sotto il peso del lavoratore B.B.) ed avere omesso, essendo dubbia tale resistenza, di provvedere e di adottare i necessari apprestamenti - oltre alle misure di protezione collettiva - atti a garantire l'incolumità delle persone addette, come impalcati, tavole sopra le orditure, reti anticaduta (nella parte sottostante i lucernari, costituiti da materiale poco resistente), e idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta; in Caserta il 9 agosto 2009)".

Con sentenza del 14/06/2024 la Corte di Appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado quanto a A.A.

2. Le condotte descritte in imputazione e ritenute dimostrate si inseriscono nell'ambito di lavorazioni per la rimozione di amianto presente sul tetto di un capannone di proprietà della committente F. Trasporti, lavori che questa aveva affidato a " Serra Al Sud ". Quest'ultima, su autorizzazione della prima, aveva subappaltato il lavoro di bonifica alla "Navarra Spa", la quale, a sua volta aveva incaricato delle operazioni di smantellamento del materiale contenente amianto la "Snc Edil Pittura S." e un'altra impresa.

Secondo l'imputazione e la ricostruzione dei fatti offerta dalle sentenze di merito, Ferraro Alessandro, in qualità di responsabile dei lavori nominato dalla committente, aveva omesso di verificare l'effettiva e corretta applicazione delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza generale (PGS) lasciando che fosse approvato un piano operativo di sicurezza (POS) della Edil Pittura, in contrasto con le previsioni del PGS e con quanto previsto dall'art. 81 D.Lgs.. 81/2008, in quanto non comprendente la predisposizione di dispositivi di sicurezza collettivi, come reti o tavolati per coprire i lucernari presenti sul tetto ove erano realizzate le operazioni di rimozione dell'amianto; C.C., quale coordinatore per la sicurezza, in relazione alla fase di progettazione ed esecuzione lavori, in violazione della funzione di alta vigilanza assegnatagli, non provvedeva adeguatamente alla sicura organizzazione complessiva del cantiere, approvando il suindicato piano operativo inidoneo a garantire la sicurezza dei lavoratori e, per quello che interessa in questa sede, A.A., quale titolare della Snc Edil Pittura S. e datore di lavoro di B.B., operaio tirocinante, essendo anche responsabile dei servizi di prevenzione e protezione, restava assente dal cantiere, neppure delegava un preposto che controllasse le attività svolte dai dipendenti e non predisponeva dispositivi di sicurezza collettivi.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, A.A. deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.

Il ricorrente opera una lunga premessa ricordando come i lavori fossero stati preceduti dalla redazione di un programma di intervento in cui venivano, altresì, stabilite le modalità di esecuzione dello stesso, attraverso, peraltro, la evidenza di dispositivi di protezione sia individuali che collettivi. Una prima programmazione aveva previsto la installazione di una teleferica, cui ancorare con ganci i singoli lavoratori, correttamente imbracati all'interno di una protezione soggettiva che, anche in caso di scivolamento o altro, li avrebbe mantenuti comunque legati al cavo stesso. Era, poi, stata prevista la realizzazione di una rete di protezione la cui operatività sarebbe scattata qualora, nonostante l'aggancio alla suddetta linea teleferica, si fossero verificati fenomeni di caduta dall'alto che, appunto, la rete avrebbe globalmente impedito. In sostanza, erano stati cumulativamente previsti originariamente sia strumenti di protezione individuale che collettivi.

Successivamente, data la ritenuta sicura affidabilità della teleferica, e considerata la interferenza della rete metallica nella esecuzione dei lavori - la cui esecuzione sarebbe stata contestualmente più complessa e più pericolosa con la presenza della rete - i tecnici della stazione appaltante decidevano di non utilizzare lo strumento di protezione collettiva, peraltro non specificamente richiesto dalla normativa in esame.

Il ricorrente premette ancora come il lavoro in esame sia stato oggetto di interferenze operative di più imprese interessate alla sua esecuzione. Ed evidenzia come anche la ditta Edil Pittura S. avesse redatto un proprio POS, cioè uno specifico strumento di sicurezza, per il quale non erano previsti strumenti di protezione collettiva (ad eccezione della cd. linea vita). Tale dato emerge dalla descrizione della sentenza di primo grado, al foglio 21, ove viene ricostruito il contenuto del POS della Edil Pittura S. che, appunto, individuava gli strumenti di protezione in quelli direttamente riconducibili alla figura del singolo lavoratore.

A parte il profilo relativo all'applicabilità o meno di norme disciplinanti l'applicazione di strumenti collettivi, il ricorrente rileva che le reti di protezione, rappresentanti strumenti di protezione collettiva, non avevano una funzione di prevenzione diretta, ma avrebbero dovuto costituire un supporto la cui validità ed utilità sarebbe dovuta scattare ove vi fosse stata una omissione nell'uso o nella idoneità dello strumento di protezione individuale. Inoltre, l'utilizzazione di strumenti collettivi risulta - ed all'epoca dei fatti egualmente risultava - attivabile solo qualora gli strumenti di protezione individuale non fossero ex se idonei alla tutela del lavoratore, e sempre che Io strumento collettivo non potesse esso stesso essere causa di ulteriori condizioni di pericolo. L'aspetto non è marginale, rappresentando un momento di valutazione da parte dei tecnici che avevano previsto in un primo momento la realizzazione delle reti di protezione collettiva.

Viene posto in rilievo che B.B. non era neanche dipendente della ditta Edil Pittura S. Snc (ma solo tirocinante), di cui lo A.A. era legale rappresentante. Ed infatti, il B.B. poté entrare sul cantiere della F. solo utilizzando il tesserino di dipendente della S. intestato allo D.D. che, trovandosi agli arresti domiciliari con autorizzazione per recarsi a lavoro dal lunedì al venerdì, non poteva ivi accedere il sabato e la domenica (giorno in cui si verificò il grave infortunio). Dunque, fu J.J., figlio dell'odierno ricorrente A.A. (titolare della Edil Pittura S.) a consentire ed indurre all'ingresso B.B., fornendo allo stesso il proprio tesserino di lavoro, non potendo egli utilizzarlo durante i fine settimana, in quanto non autorizzato ad allontanarsi dal proprio domicilio.

Pertanto, per il ricorrente ulteriore tema del processo è quello della consapevolezza in capo a A.A. della presenza sul cantiere di B.B. che, peraltro, non risultava tra i dipendenti della S. e che, di conseguenza, non poteva ritenersi neanche in possesso di tutte le necessarie informazioni operative per quella tipologia di lavoro.

In tale contesto, si sostiene che anche gli addebiti di mancata formazione, ovvero di prevedibilità dell'evento, non possono che essere rivalutati all'interno della reale cornice di svolgimento dei fatti. E tenendo presente che milita sicuramente nella direzione di una non consapevolezza in capo allo A.A. della presenza in cantiere del B.B. la stessa ricostruzione dell'accusa che, in ordine a tale specifico aspetto, imputa al solo J.J., in concorso con la stessa vittima, il delitto di cui all'art. 494cod. pen. In effetti - si sostiene - è la stessa impostazione accusatoria ad escludere a monte in capo a A.A. la consapevolezza di un'illegittima presenza del B.B. sul cantiere al posto del figlio.

Dopo tale breve premessa, il ricorrente, con il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 589, comma 1 e 2, cod. pen. nonché agli artt. 40,41e113cod. pen.

Il ricorrente affronta i temi della responsabilità in ordine alla redazione del Piano di sicurezza e sugli obblighi incombenti ai singoli soggetti interessati alle opere eseguite sul capannone n. 19 di cui al capo d'imputazione, dell'errata valutazione dei profili soggettivi di competenza e della ripartizione della responsabilità nel contratto di subappalto oggetto della odierna contestazione, anche in ordine alla predisposizione delle modalità esecutive del Piano di Sicurezza.

La vicenda in esame - si legge in ricorso - presenta profili assolutamente peculiari, in ordine alla ricostruzione dei rispettivi ambiti di operatività, riconducibili ai soggetti interessati alla progettazione ed esecuzione dei lavori, alla cui attuazione la Edil Pittura S. di A.A. partecipava in appalto dalla F..

Si sostiene che il progetto d'intervento e le modalità esecutive dello stesso non potevano che essere predisposte proprio dalla stazione appaltante e, cioè, dal soggetto che aveva predisposto il Piano di intervento e, con esso, le modalità attraverso cui procedere alla rimozione sul capannone n. 19 delle lastre di cemento amianto che non potevano più costituire parte strutturale dell'immobile che andava bonificato dalla presenza di tale materiale.

Si evidenzia che il Progetto d'intervento, e con esso il Piano di Sicurezza, venne redatto su incarico della F. e la sua verifica di idoneità venne affidata a Consulenti tecnici che rispondevano del loro operato proprio a detta azienda.

Le modalità di svolgimento del lavoro venivano non solo predisposte dai tecnici della stazione appaltante, ma da tecnici a quest'ultima riferibili erano state altresì attribuite anche le funzioni di controllo in ordine alla esecuzione dei lavori ed al rispetto delle previste condizioni di sicurezza.

Il dato, cioè, che emerge dal processo è che la predisposizione e la individuazione dell'intervento, così come quello riguardante la tutela dei lavoratori, non rientrasse in un diretto cono di attenzione della ditta S., ma le previsioni da quest'ultima indicate anche in tema di sicurezza dovevano essere recepite e seguite dai tecnici che, proprio per conto della F., dovevano verificare la corretta esecuzione ed il preciso adempimento delle condizioni e delle modalità operative sul lavoro.

Che questa fosse la linea di ripartizione delle competenze e delle attribuzioni reciproche di responsabilità lo si desume per il ricorrente proprio dal fatto che la S. (ditta del ricorrente) ebbe a predispone un proprio POS limitato alla individuazione dei meccanismi di protezione individuale, riferito ai propri dipendenti e calibrato alla formazione degli stessi (e il ricorrente ribadisce che B.B. non era dipendente della S., risultando presente in cantiere sulla scorta della artificiosa sostituzione, peraltro descritta al capo G delle imputazioni).

Di contro, nella globale valutazione dell'intervento come predisposto dai tecnici della stazione appaltante, erano previste delle reti di protezione, la cui efficacia e la cui valenza antinfortunistica andava letta come elemento rafforzativo della tutela già predisposta con i DPI descritti in sentenza (e sinteticamente riportati nella premessa del presente atto di ricorso).

Per il ricorrente, come risulta in maniera più analitica dalla ricostruzione della sentenza di primo grado, la decisione di non mantenere la rete di protezione collettiva non fu in alcun modo riconducibile a scelte o indicazioni della Edil Pittura S., ma a valutazioni di carattere tecnico portate avanti dal E.E., unitamente al C.C.

Si ricorda che: a. E.E. risulta essere il delegato del datore di lavoro, nonché il responsabile dei lavori di rimozione della copertura in cemento amianto giusta procura speciale del 17/03/2008; b. C.C. era il coordinatore in fase di progettazione ed esecuzione dei lavori, sempre per conto della stazione appaltante F.. Dunque, le indicazioni e le modalità di intervento non potevano che essere quelle indicate in maniera specifica proprio da tali figure professionali, le cui direttive - impartite alle ditte esecutrici - rappresentavano le modalità attraverso cui procedere al lavoro, ed in condizioni di sicurezza.

Osserva il ricorrente che, nel momento in cui venne deciso di non procedere alla predisposizione delle misure di prevenzione collettiva, evidentemente, gli organi tecnici della Committente avevano proceduto ad una concreta valutazione del rischio, cui si sarebbe dovuta attenere il subappaltatore e, cioè, la ditta S..

Quest'ultima, peraltro, nella sua valutazione del rischio - e nella convinzione della sufficienza del dispositivo di protezione individuale (la c.d. linea vita) - aveva già escluso la necessità di ulteriori strumenti di protezione, rimettendo, però, le modalità di intervento alla superiore valutazione della committenza, che si era affidata a dei tecnici qualificati in ordine alla correttezza o meno, ed ancor più in ordine alla completezza o meno, delle misure di prevenzione da individuare per il caso di specie.

Il ricorrente richiama pagg. 37 e 39 della sentenza di primo grado ove è stata esaminata la posizione del E.E., dopo che la stessa sentenza si era occupata della posizione del C.C. Ed evidenzia che, come si desume dalla sintesi riportata nella sentenza di primo grado, la decisione di non procedere alla predisposizione della pur inizialmente prevista rete di sicurezza fu determinata dalla convinzione che la predisposizione di una linea vita, cui agganciare correttamente i lavoratori, fosse elemento non solo idoneo, ma anche sufficiente ad evitare il rischio di caduta. Peraltro, fu lo stesso E.E. a spiegare che per posizionare tale rete si sarebbe dovuto procedere alla "rimozione di uno stato di traslucido in plastica, assicurando gli operai ad una linea vita che per lui rappresentava quindi l'effettivo dispositivo di sicurezza " (il richiamo è a pag. 38 della sentenza di primo grado). Continua, poi, la sentenza sottolineando come la presenza di pretensionatori (strumenti che determinavano il blocco della caduta) avrebbe comunque determinato che, già dopo pochi centimetri dopo la eventuale caduta, l'effetto della stessa sarebbe stato neutralizzato (evitandosi in tal modo l'effetto pendolo, che poteva determinare pericoli anche di interferenze con pareti rigide).

Dunque, la verifica di idoneità dell'intervento fu operata in maniera ampia ed in contraddittorio, anche perché la predisposizione della linea vita, con la individuazione nella fase della informazione ai lavoratori della necessità di agganciarsi alla stessa, non appena raggiunta la quota di lavoro, ponevano il lavoratore stesso in una condizione di sicurezza assoluta, rientrando negli obblighi del lavoratore quello di utilizzare gli strumenti di prevenzione e di attenersi alle indicazioni ricevute.

D'altronde, su tale aspetto evidenzia il ricorrente che è la stessa Corte di Appello ad esprimersi in maniera assolutamente non condivisibile, quando sembrerebbe impone al datore di lavoro l'obbligo di prevenire prassi (peraltro, indimostrate) non solo anomale ma addirittura illegittime.

Il ricorrente ribadisce che:

a) la competenza alla redazione del Piano Generale di Sicurezza incombeva sulla committenza;

b) in conseguenza di ciò, proprio la committente (F.), per la esecuzione degli indicati lavori in quota, ebbe a nominare un proprio Procuratore speciale nella persona del E.E., e di un coordinatore per la sicurezza, in persona dell'Arch. C.C.;

c) la Edil Pittura S., riconducibile all'attuale ricorrente, quale ditta subappaltatrice, predispose un proprio Piano di Sicurezza al quale si attenne: piano di sicurezza che prevedeva unitamente alla formazione dei dipendenti, anche quella linea vita che, ove correttamente utilizzata, sarebbe stata idonea e sufficiente ad evitare l'evento;

d) non vi è alcun elemento da cui si possa desumere che la Edil Pittura S. non si sia scrupolosamente attenuta, quanto al rispetto delle previsioni del Piano di sicurezza, a quanto indicatogli dalla committente;

e) l'originaria previsione di reti di sicurezza venne ritenuta superabile sulla scorta della rilevata sufficienza ed idoneità della c.d. linea vita, che prevedeva un meccanismo di blocco del lavoratore assolutamente non superabile.

Di fronte a tale contesto, non potrebbe ritenersi per il ricorrente che la scelta di utilizzare la linea vita come strumento di protezione del lavoratore sia stata incauta ovvero anche solo inidonea.

Il giudizio di inidoneità, ovvero insufficienza operato dalla Corte risentirebbe di una valutazione ex post, che è stata, evidentemente, influenzata dalla verificazione del tragico evento. Ma, come insegnato dalla giurisprudenza di legittimità, la verifica di ogni condotta colposa deve essere effettuata tenendo conto delle ordinarie condizioni in cui si sarebbero dovuti svolgere i fatti. La valutazione in termini di potenzialità delle condotte tipico del fatto colposo - non potrà mai estendersi al punto tale da porre a fondamento della regola in giudizio una valutazione fondata sulla effettiva e postuma verificazione del fatto.

Il ricorrente si sofferma poi sul rapporto tra dispositivi di protezione individuale e dispositivi di protezione collettiva e sulla inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 148 del D.Lgs.. 81/08, come modificato dal D.Lgs.. 106/2009.

Ricorda che altro tema che la Corte di Appello affronta è quello relativo al rapporto tra dispositivi di protezione individuale e dispositivi di protezione collettiva, sottolineando come la linea vita, che si ridurrebbe ad uno strumento individuale, non poteva conchiudere il novero degli strumenti di protezione del lavoratore, dovendosi, necessariamente, integrare con la previsione del DPC, costituito appunto dalle reti di protezione collettiva, che avrebbero, comunque, trattenuto il lavoratore ovvero ne avrebbero impedito la caduta al suolo (pagg. 13 e ss. della sentenza impugnata).

La difesa ricorda che aveva sostenuto che la modifica dell'art. 148, comma 1, D.Lgs.. 81/2008 non era applicabile nel caso di specie, dal momento che era entrata in vigore successivamente alla verificazione dell'evento: ed infatti, la stessa è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 05/08/2009, per cui è entrata in vigore in data 20/08/2009, laddove l'infortunio risale al 09/08/2009.

Recita l'art. 148, comma 1, nel testo modificato, "prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernai, tetti, coperture e simili, fermo restando l'obbligo di predisporre misure di protezione collettive, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali d'impiego".

Prima della riforma, non vi era alcun riferimento nella norma all'obbligo di predispone misure di protezione collettiva: ed infatti, il precedente testo così recitava: "prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernai, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego ".

Dunque, la differenza testuale tra le due disposizioni è proprio nella mancata previsione delle misure di protezione collettiva.

Il difensore ricorrente dichiara che non gli sfugge che la dizione normativa potrebbe non essere esaustiva, al fine di escludere la necessità di confrontarsi con essa, ma, in assenza di una specifica indicazione proveniente dal legislatore, si rende comunque necessario ricostruire l'insieme delle norme antinfortunistiche riferite a casi quali quelle in esame, riguardanti cioè la esecuzione di lavori in quota.

Si ricorda in ricorse che la norma di riferimento è - come rilevato dalla stessa Corte di Appello - l'art. 111 del Testo sulla sicurezza che disciplina, appunto, gli obblighi del datore di lavoro per tali tipologie di attività (D.Lgs. 81/08). Tale disposizione contiene un riferimento esplicito ai dispositivi di protezione collettiva, ma gli stessi sono qualificati come subalterni, ovvero succedanei, rispetto a strumenti di protezione individuale che siano in grado di assicurare la protezione del lavoratore. Ed infatti, il primo comma dell'art. 111, così testualmente si esprime: "1. Il datore di lavoro, nei casi in cui i lavori temporanei in quota non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo, sceglie le attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, in conformità ai seguenti criteri: 1.a) priorità alle misure di i:,rotezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale; 2.b) dimensioni delle attrezzature di lavoro confacenti alla natura dei lavori da eseguire, alle sollecitazioni prevedibili e ad una circolazione priva di rischi".

Dunque, ove non ci sia la possibilità di un intervento in alta quota (quella cioè superiore ai 2 metri ex art. 107 D.Lgs.. 81108) in condizioni di sicurezza ovvero in condizioni idonee, a partire dal luogo adeguato allo scopo, si dovranno tener presenti i principi contenuti sub punti 1 e 2. Cioè, la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto a quelle individuali si rende necessaria solo ove non vi sia a monte la possibilità di eseguire i lavori in condizioni di sicurezza, ancorché garantite da DPI (come si desume dal riferimento alle condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto, espressione che non avrebbe senso ove dovesse trovare sempre applicazione il dispositivo di protezione collettiva).

Pertanto, per il ricorrente non appare in alcun mode peregrino sostenere che, alla data in cui si verificò l'infortunio, non applicandosi il testo in vigore dal 20/08/2009, non era necessario parametrare la valutazione sui rischi di lavoro con la previsione di DPC.

In tale contesto, la valutazione di idoneità della c.d. linea vita e della sua contestuale sufficienza non fu in alcun modo adottata in contrasto con le disposizioni normative vigenti al momento del fatto, risultando ad esse del tutto conforme.

Secondo il ricorrente il meccanismo che venne previsto nel caso di specie (e purtroppo annullato nella sua valenza preventiva dall'incauta condotta dello stesso lavoratore) non rappresentava un mero meccanismo di protezione individuale. Ed infatti, la linea vita, cui venivano ancorati gli agganci dei singoli lavoratori, era essa stessa uno strumento collettivo di prevenzione, che aveva altresì dei meccanismi individuali, attraverso i quali si realizzava l'aggancio della protezione individuale del lavoratore per evitarne i rischi di caduta. Dunque, nella valutazione complessiva dello strumento di prevenzione, si tenne nel debito conto sia la necessità di considerare ed approntare un dispositivo di comune utilizzazione ed utilità, sia delle attrezzature individuali che garantissero la figura del singolo lavoratore.

Concludendo, pertanto, anche su tale aspetto per il ricorrente non può non ribadirsi che:

a. la disposizione disciplinante il rapporto tra DPI e DPC era all'epoca dei fatti quella di cui all'art. 111 D.Lgs.. 81/2008;

b. tale disposizione prevedeva la priorità e la sufficienza dello strumento di protezione individuale rispetto a quello collettivo;

c. solo in presenza della impossibilità di approntare misure individuali, a partire da un determinato luogo adatto allo scopo, bisognava procedere con le modalità indicate ai punti 1. 2 e, cioè, a predisporre misure collettive e poi individuali (fermo restando che nel caso di specie ebbero a considerarsi anche misure riferite globalmente a tutti i lavoratori ed in maniera sia singola che collettiva);

d. nel caso di specie, qualora ci si fosse attenuti alle prescrizioni date e si fosse utilizzato lo strumento di protezione individuale, l'evento non si sarebbe in alcun modo verificato.

Il ricorso si sofferma poi sul tema dell'interruzione del rapporto di causalità, in conseguenza della imprevedibilità della condotta posta in essere dal lavoratore B.B.

Evidenzia il ricorrente come risulta processualmente acclarato - e di ciò danno atto sia la sentenza di primo grado che quella di appello - che, per la esecuzione dei lavori in esame, furono previste e adottate specifiche misure di protezione. In particolare, fu realizzata una linea vita (cioè una linea con corda in acciaio cui venivano ancorati i lavoratori, a loro volta muniti di dispositivi individuali, ed assicurati con idonea fascia lombare che li avrebbe bloccati, evitando rischi di caduta), nonché vennero forniti ai lavoratori strumenti che li assicuravano alla stessa con ganci idonei a reggere i relativi pesi ed in grado di bloccare lo scivolamento verso il basso in pochi centimetri.

Ed allora, non vi sarebbe dubbio alcuno che - qualora il lavoratore si fosse attenuto alle disposizioni impartitegli e, cioè, avesse mantenuto sempre fermo l'aggancio tra il proprio dispositivo corporeo e la linea vita - alcuna caduta dall'alto si sarebbe potuta realizzare. Si ricorda che non è stato mosso alcun rilievo in ordine alla idoneità o capacità di tenuta degli strumenti utilizzati nel caso di specie per prevenire il rischio di caduta. Peraltro, nella materiale causalità dell'evento, lo stesso venne ad ancorarsi alla condotta di distacco dal gancio da parte del lavoratore.

Dunque, per il ricorrente bisogna valutare se detta condotta possa ritenersi da sola causativa dell'evento, ovvero se si sia trattata di condotta imprevedibile ed imprevedibile.

La decisione della Corte territoriale su tale aspetto apparirebbe del tutto inesistente e fondata su dati incerti e puramente congetturali, ai quali non può certo attribuirsi un peso tale da affermare la penale responsabilità del ricorrente.

A pagina 10 della sentenza impugnata vengono riportate le dichiarazioni del teste H.H. sulle quali, invero, lo stesso Tribunale aveva fondato la propria ricostruzione dei fatti. Si legge in sentenza, per l'aspetto che qui interessa, che il H.H. ebbe a riferire che "la condotta di sganciarsi dalle cinture di sicurezza era in sostanza una prassi seguita da molti dipendenti", aggiungendo che nessuno controllava gli operai durante la lavorazione.

Ebbene, per il ricorrente la motivazione che ricolleghi l'esistenza di una prassi operativa alla generica dichiarazione di un solo teste non appare in alcun modo esaustiva da un punto di vista probatorio. Peraltro, non risultando acquisite in atti emergenze probatorie di natura ulteriore che possano anche aver fondato il sospetto di una siffatta prassi che, peraltro, il datore di lavoro avrebbe tollerato (questo sembra essere il presupposto al quale si ricollega la ipotesi di responsabilità).

Da tale angolazione, invero, emergeva dall'istruttoria dibattimentale che i soggetti che operavano sul cantiere avevano allacciate le cinture di scurezza. In particolare, i dipendenti della ditta SDMP hanno specificato che tutti gli operai presenti sul tetto indossavano le cinture di sicurezza, che imbracavano busti e cosce, e che tutti le avevano allacciate al cavo di trattenuta (testi F.F. ed G.G., cfr. pag. 9 della sentenza di primo grado).

La sentenza di primo grado dà, altresì, atto della escussione, oltre che del H.H., anche del dipendente I.I., il quale specifica di aver seguito un corso di formazione per i DPI, anche se non si riferisce di aver seguito corsi di formazione per lavorazioni in quota. Lo stesso, inoltre, chiarisce che gli erano strati forniti i dispositivi, e che era dunque regolarmente collegato al cavo vita con un cordino.

Sottolinea, tuttavia, il ricorrente che la formazione avrebbe dovuto riguardare, come avvenuto, proprio la utilizzazione degli strumenti di protezione, non risultando necessario uno specifico corso per lavori in quota, soprattutto ove si consideri che quel lavoro avveniva su una superficie abbastanza ampia, come riferito proprio dal teste H.H. (sostanzialmente, l'attività non era un'attività sospesa, bensì ancorata ad un piano stabile, a sua volta collegato alla linea vita - come si evince da pag. 12 della sentenza di primo grado),

Orbene, secondo la tesi proposta in ricorso, volendo anche per assurdo ritenere che vi sia stata una prassi in tale direzione, ci si doveva porre un ulteriore quesito e, cioè, se il datore di lavoro ne fosse a conoscenza e se l'avesse in qualche maniera avallata o anche solo tollerata. L'argomento non è secondario, dal momento che non si riesce a comprendere per quale ragione un datore di lavoro avrebbe dovuto realizzare un'opera di natura prevenzionale ad alta quotai sostenendone i relativi costi, per consentirne poi il mancato uso ed accettarne senza ragione alcuna la mancata attivazione.

Va, altresì, tenuto presente che i lavoratori - come riferito dal coimputato E.E. - erano stati formati per la esecuzione dei lavori che dovevano eseguirsi, come risulta dal verbale di interrogatorio del E.E.

Indipendentemente da indimostrate prassi, i dipendenti erano stati adeguatamente informati sugli obblighi loro incombenti e sulla esistenza di dispositivi di protezione individuali che andavano utilizzati nella, e per, la esecuzione dei lavori in esame.

Dunque, la condotta del lavoratore - che sganciandosi dalla linea vita e contravvenendo alle indicazioni fornite dal datore di lavoro rendeva inefficace qualsiasi misura di natura prevenzionale - avrebbe posto nel nulla qualsivoglia attività tesa ad impedire la realizzazione dell'evento. Da tale angolazione, appare alla difesa che si sarebbe dovuta escludere la sussistenza del nesso di causalità, quantomeno, perché lo stesso veniva interrotto proprio dalla autonoma condotta del lavoratore.

Il difensore ricorrente si sofferma poi sulla incidenza della sostituzione di persona e sulla sua consapevolezza in capo al proprio assistito.

Ulteriore particolarità della presente vicenda processuale - si legge ancora in ricorso - è rappresentata dall'accesso al cantiere del B.B., ivi tragicamente deceduto. Risulta chiaramente che il B.B. non era in forza a quel cantiere e vi si recò utilizzando il tesserino del dipendente J.J., al quale si sostituì, onde evitare che potesse risultare la sua assenza dal lavoro proprio quella mattina, non essendo lo A.A. autorizzato ad allontanarsi dal luogo degli arresti domiciliari in giorni diversi da quelli ricompresi tra il lunedì ed il venerdì.

Questa anomala presenza sul cantiere del B.B. fu la conseguenza di una condotta autonomamente posta in essere da quest'ultimo unitamente allo J.J. E per tale vicenda specifica J.J. è stato giudicato - ed il reato è stato dichiarato prescritto - per il delitto di cui all'art. 494cod. pen.

Secondo la tesi proposta in ricorso il primo elemento da cui si evincerebbe che il padre del J.J. - cioè, l'attuale ricorrente - non fosse a conoscenza della intervenuta sostituzione si desume proprio dal fatto che lo stesso non è neanche stato coimputato per la detta sostituzione di persona.

Dunque, non può in alcun modo ritenersi che l'odierno ricorrente abbia consentito l'accesso in cantiere ad una persona non formata - e in sostituzione di altro dipendente - con ciò esponendola ai rischi propri dell'attività lavorativa.

In tale contesto, si pone per il ricorrente un ulteriore e rilevante profilo di ricostruzione del nesso di causalità. Ci si domanda: è ipotizzabile, cioè, una condotta colposa nei confronti di un lavoratore la cui presenza sul cantiere risulta essere avvenuta senza che il datore di lavoro l'abbia mai consentita e senza che lo stesso ne fosse realmente consapevole.

Ad avviso del difensore ricorrente, in casi quali quelli in esame non può in alcun modo configurare, in capo al datore di lavoro alcun profilo di responsabilità per fatti colposi, non risultando né prevedibile né prevenibile una qualsiasi condotta, ovvero una qualsiasi azione, di un soggetto la cui presenza in cantiere risulta addirittura ignota al ricorrente stesso. Quali siano stati le ragioni per le quali si sia giunti alla indicata sostituzione non è dato sapere, ma ciò che interessa in questa sede è che - in relazione alla posizione del ricorrente - le stesse non possono avere alcuna valenza ricostruttiva di una ipotesi di responsabilità. Peraltro, il controllo per l'accesso sul cantiere veniva operato da soggetti riconducibili alla stazione appaltante.

Con un secondo motivo si lamentano violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all'art. 62 bis cod. pen e mancata valutazione della intervenuta revoca delle costituzioni di parte civile.

La Corte partenopea - ci si duole - ha confermato la decisione di primo grado e rigettato anche la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche formulata nei motivi di appello, dando atto a pag. 18 di condividere le valutazioni del giudice di primo grado, e giustificando il diniego, per un verso, nell'accertata condizione di lavoratore in nero dei B.B. e, per altro, nella mancata formazione dello stesso.

La motivazione su tale aspetto per il ricorrente non appare condivisibile ove si consideri che dal processo non emerge che A.A. fosse effettivamente a conoscenza della sostituzione operata per consentire allo stesso di accedere in cantiere (al posto del figlio).

Per il ricorrente le ragioni per le quali è stata disattesa la richiesta di concessione delle circostanze innominate finiscono per ricollegarsi a rimproveri che, in concreto, non possono essere addebitati ad atteggiamenti voluti e riconducibili al ricorrente in maniera consapevole. Inoltre, il diverso trattamento sanzionatorio, anche in terna di concessione delle circostanze attenuanti generiche in relazione alla posizione degli altri imputati, costituirebbe ulteriore profilo di contraddittorietà della motivazione che va in questa sede sottolineata.

A ciò andava aggiunta la intervenuta revoca della costituzione di parte civile a seguito del risarcimento del danno operato a favore degli eredi del B.B.

Con il terzo motivo si lamentano violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all'art. 133cod. pen. e mancata valutazione ai fini della dosimetria della pena della intervenuta revoca delle costituzione di parte civile.

Ci si duole che sia la sentenza di primo grado che quella di appello finiscano con l'irrogare la pena d. anni 3 e mesi 6 di reclusione, senza in alcun modo specificare il percorso motivazionale che li ha indotti ad individuare la pena in detti limiti.

Ricorda il ricorrente che la pena base per il reato di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen. è di anni 2 di reclusione e si sottolinea perciò che i giudici del merito hanno ritenuto di doversi discostare dai minimi edittali, pervenendo ad una pena di anni 3 e mesi 6, in relazione alla quale non hanno fornito motivazione alcuna.

Ciò che ancora rende incomprensibile la rigidità della valutazione della Corte è la mancata valorizzazione dell'intervenuta revoca delle costituzioni delle parti civili.

Ed invero, non vi sarebbe dubbio alcuno che l'attenuante del risarcimento del danno non potesse in alcun modo essere considerata, non essendo intervenuta prima del giudizio di primo grado, ma sarebbe allo stesso tempo innegabile che l'aver tacitato le parti civili - che hanno revocato la costituzione di parte civile già - operata in primo grado - era elemento che non poteva non esser preso in considerazione tra quelli successivi al delitto che sicuramente ne avrebbero dovuto con - sentire una diversa valutazione, sia in relazione alla concessione delle circostanze attenuanti generiche che, più in generale, in relazione alla determinazione della pena che, anche per tale ragione, non poteva non essere contenuta nei minimi edittali (a pag. 6 della sentenza impugnata, si dà atto della intervenuta revoca delle statuizioni civili).

Con il quarto motivo si denunciano violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli art. 163e175cod. pen.

Secondo il ricorrente, in conseguenza del comportamento complessivamente tenuto in appello, dell'intervenuta revoca delle costituzioni di parte civile, della risalenza nel tempo dei fatti, il trattamento sanzionatorio, nella sua globalità, ben poteva essere contenuto in limiti tali da consentire l'applicazione della sospensione condizionale della pena. D'altronde, nei 15 anni dalla realizzazione del fatto, l'imputato non ha posto in essere ulteriori condotte illecite, per cui si ha la prova della eccezionalità della condotta e della impossibilità di individuare a carico dello A.A. la ricaduta in condotte analoghe, invero anche in considerazione della età dello stesso, che si avvia al compimento degli 80 anni.

Conclusivamente, gli elementi strutturali del fatto e la globalità dei comportamenti tenuti anche nei confronti delle parti civili, avrebbero ben consentito il riconoscimento dei benefici richiesti: e ciò anche in relazione alla non menzione della condanna.

3. Il PG presso questa Corte ha anticipato con memoria scritta del 18/03/2025 le proprie conclusioni.

 

Diritto


1. Il proposto ricorso va rigettato.

Le censure del ricorrente, come si dirà, in parte sono inammissibili perché afferiscono a temi mai devoluti al giudice del gravame del merito e per il resto si sostanziano, per lo più, o nella sollecitazione ad una rivalutazione del fatto, non consentita in questa sede di legittimità o nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, quanto a queste ultime senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito. Per contro, !"impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.

2. Come ricorda la sentenza impugnata il giudice di primo grado ha ricostruito l'accaduto sulla base delle testimonianze:

a. dell'ispettore del lavoro Menditto, che era intervenuto nell'immediatezza del fatto, rilevando che il corpo senza vita dell'operaio era a terra in corrispondenza di uno dei lucernari, che risultava squarciato, essendo caduta la vittima da un'altezza di 12 metri; lo stesso aveva osservato la presenza di dispositivi di sicurezza individuali ma non di quelli collettivi quali piattaforme o reti di copertura sottostanti, che egli riteneva imprescindibili riguardo a lavori in quota; e aveva precisato che la cintura di sicurezza, che l'operaio verosimilmente indossava, non appariva a norma in quanto sprovvista del sostegno lombare;

b. dei compagni di lavoro del deceduto, tra i quali ha ritenuto di interesse quella di H.H., anche egli dipendente della S.; questi affermava di essere stato dotato dei dispositivi di protezione individuale, ma che la cintura di sicurezza che indossava non era agganciata alla fune di acciaio, per una prassi che, secondo le sue dichiarazioni, appariva seguita da molti, costituendo il legame un notevole impaccio all'esecuzione delle mansioni da portare a termine; puntualizzava che nessuno controllava gli operai sul cantiere e, su contestazione del PM in aiuto alla memoria, che K.K. non aveva conseguito il patentino per effettuare lavorazioni con l'amianto, essendo quella la prima volta in cui l'aveva visto occuparsi della rimozione di amianto; precisava che lui stesso, dopo aver conseguito il patentino, non aveva seguito corsi di formazione ed escludeva di aver partecipato a corsi per lavorazioni in quota;

c. della compagna all'epoca del fatto di K.K., L.L., la quale aveva dichiarato che la vittima da mesi lavorava per S., ma non aveva conseguito il patentino per la rimozione dell'amianto, avendogli promesso il datore di lavoro di assumerlo a tempo indeterminato non appena lo avesse ottenuto; secondo la teste l'uomo la lavorava a nero ed entrava adoperando il tesserino di riconoscimento di J.J.;

d. del teste a difesa, ing. DM., che sottolineava come C.C. avesse redatto il piano di sicurezza ed il piano di lavoro per la bonifica dall'amianto; riteneva che i sistemi di sicurezza per i lavori in quota fossero idonei a prevenire il rischio di caduta, in quanto le parti del tetto non calpestabili erano solo i lucernari, di dimensioni ridotte rispetto al tetto, ed aver previsto che gli operai fossero imbragati e che le cinture ai sicurezza fossero collegate ad una lune di acciaio, a sua volta assicurata alla struttura in cemento, fosse un presidio da solo idoneo ad eliminare il rischio di ceduta; precisava che i lavoratori S. erano stati formati per eseguire lavori in quota; nella relazione a sua firma acquisita agli atti evidenziava come non fosse pacifica l'obbligatorietà della presenza di dispositivi di protezione collettiva per lavori in quota quando vi fossero idonei dispositivi individuali, correttamente utilizzati;

e. del teste a difesa M.M., dipendente F. addetto al servizio prevenzione, che chiariva come la direzione avesse autorizzato di eseguire lavori anche sabato e domenica allo scopo di completarli prima che i dipendenti F. tornassero dalle vacanze; riteneva, per esperienze verificate in casi di lavorazioni analoghe, che la scelta di dotare gli operai di una cintura di sicurezza da collegare alla fune di acciaio fosse idonea a prevenire infortuni.

Sono state valutate, altresì, le dichiarazioni degli imputati.

a. E.E., che aveva affermato di aver nominato il coordinatore per la sicurezza, individuandolo in C.C. e di aver promosso più riunioni con S. in tema di sicurezza; riteneva che le condizioni nelle quali gli operai lavoravano non fossero specialmente pericolose, poiché il tetto era poco inclinato ed era quasi del tutto calpestabile, ad eccezione della parte ove erano inseriti i lucernari, che interessavano l'intera struttura ma per una larghezza variabile tra 1,20 e 1,50 metri; pertanto, in base alla sua esperienza, valutava che la predisposizione di una linea vita fissata sulla struttura in cemento e alla quale gli operai dovevano agganciare, tramite i roller block, le cinture di sicurezza indossate fosse idoneo dispositivo di sicurezza.

b. C.C., che aveva dichiarato che nel piano di sicurezza generale aveva previsto la presenza di reti anticaduta a copertura dei lucernari, tuttavia a seguito di confronto con S., in cui aveva illustrato e valutato tutte le possibili fonti di pericolo, aveva reputato necessario e sufficiente adoperare come unico dispositivo di sicurezza la linea vita, dalla quale per nessuna ragione gli operai avrebbero dovuto staccarsi.

Ebbene, al di là della circostanza riferita dal H.H. circa la prassi di sganciarsi la cintura, per il resto tali testi riferiscono fatti non contestati dal ricorrente.

3. Come illustrato in premessa, con il primo motivo di ricorso si lamentano, oltre che l'incidenza delia sostituzione di persona e della sua consapevolezza in capo al ricorrente: a. la violazione degli artt. 40,41,113 e 589 cod. pen. e difetto di motivazione in relazione all'errata valutazione dei profili soggettivi di competenza e ripartizione della responsabilità nel contratto di subappalto, oggetto dell'odierna contestazione, anche in ordine alla predisposizione delle modalità del piano di sicurezza;

b. l'inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 148 del decreto legislativo 81 del 2008 sul rapporto tra dispositivi di protezione individuale e dispositivi di protezione collettiva; c. l'interruzione del rapporto di casualità in conseguenza della imprevedibilità della condotta posta in essere dal lavoratore B.B.

Orbene, come si evince dalla sentenza impugnata e come emerge ex actis dall'atto di appello del 4.4.2018 a firma dell'Avv. FEDERICA NARDONI il difensore dell'epoca di A.A. aveva sottoposto ai giudici di appello i seguenti motivi: 1. Mancanza dell'elemento soggettivo del reato contestato. 2. Assenza degli elementi costitutivi del reato, 3. Omessa valutazione degli elementi favorevoli all'imputato emergenti dalle deposizioni dei testi H.H. e Signore Domenico. 4. Insufficienza del materiale probatorio ai fini della dichiarazione di responsabilità dell'imputato. 5. Difetto di correlazione tra imputazione e sentenza. 6. Omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. 7. Eccessività della pena irrogata.

In realtà, come si dirà anche sub par. 5. e come evidenzia la Corte territoriale a pag. 3 della sentenza impugnata, i motivi effettivamente sviluppati nell'atto di impugnazione nel merito sono quelli afferenti alla responsabilità e alla violazione dell'art. 521cod. proc. pen., motivo quest'ultimo su cui il ricorrente non torna in questa sede.

In punto di responsabilità l'impugnazione nel merito, dunque, era stata imperniata: a. sulla circostanza che il B.B. si era introdotto fraudolentemente nel cantiere adoperando li tesserino identificativo di J.J., figlio dell'imputato, sul quale aveva apposto la propria foto, senza che A.A. cario ne sapesse nulla; b. che la vittima, inoltre, si era sganciata dalla linea vita, allontanandosi inspiegabilmente dal luogo ove stava lavorando e dirigendosi senza alcun apparente motivo verso il lucernario, zona non interessata dalla rimozione dell'amianto (citando in proposito le dichiarazioni del collega H.H.).

Il gravame nel merito aveva insistito sul fatto che A.A. non era a conoscenza che suo figlio J.J., con cui non convive, si fosse fatto sostituire da B.B. Ciò, peraltro, essendo egli sempre assente dal cantiere. E sull'abnormità del contegno della persona offesa di sganciarsi dalla linea vita, nel senso di comportamento realizzato autonomamente ed in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, ontologicamente e radicalmente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione dei lavori. E secondo la rappresentazione dell'appellante, nonostante la posizione di garanzia ricoperta dall'imputato, l'atteggiamento dell'operaio sarebbe stato da solo causa sufficiente ad escludere il nesso di causalità, poiché il dipendente non stava eseguendo le mansioni assegnategli. Si era posto l'accento sul fatto che la persona offesa aveva a propria disposizione le c.d. linee vita e si era aggiunto poi che il POS di S. era stato approvato dai tecnici incaricati dalla committente, C.C. e E.E., che evidentemente l'avevano ritenuto sufficiente. Si era poi dedotta la violazione dell'art. 521cod. proc. pen. in quanto l'imputato sarebbe stato condannato per un profilo di colpa dive "so da quello contestato come emergerebbe dalla pagina 23 della sentenza di primo grado.

Così ricostruiti i contenuti dell'impugnazione nel merito, emerge chiaro che vi sono numerosi temi del primo motivo di ricorso che si palesano ictu oculi inammissibili, in quanto si sollecitano valutazioni di aspetti - e se ne deduce la mancata risposta in motivazione - che non hanno costituito oggetto di impugnazione in sede di appello da parte dell'imputato, quali la competenza e la ripartizione della responsabilità nel contratto di subappalto, anche in ordine alla predisposizione delle modalità del piano di sicurezza ed alla inapplicabilità della disposizione novellata di cui all'art. 148 del decreto legislativo 81 del 2008 sul rapporto tra dispositivi di protezione individuale e dispositivi di protezione collettiva.

Tali doglianze, introdotte solo in questa sede di legittimità devono ritenersi inammissibili per interruzione della catena devolutiva.

e:m, alla luce di quanto disposto dall'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza.

E' stato chiarito che "il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609, comma 1, cod. proc. pen., il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleato dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi -contrassegnati dall'inderogabile "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" che sorreggono ogni atto d'impugnazione (art. 581, comma 1, lett. c) eart. 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione. La disposizione in esame deve infatti essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti è facilmente i:!iagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale", (così, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017 Rv. 270316, in motivazione).

4. Gli altri profili in cui al primo motivo in punto di responsabilità sono infondati.

Dietro lo schermo della violazione di legge e del vizio della motivazione, il ricorrente sollecita una diversa ricostruzione fattuale ed una diversa valutazione delle risultanze processuali (è appena il caso di ricordare che si tratta di doppia conforme), con censure non deducibili nella presente sede, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili, rispetto a quelli adottati dal giudice di merito (cfr. Sez. 6, n 47204 del 7/10/2015, Musso).

Il ricorso, dunque, in relazione ai suindicati profili, non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico- fattuale posto a fondamento dei correlativi temi d'accusa.

4.1. Quanto alla sussistenza di un rapporto di lavoro e ai compiti che la vittima stava svolgendo per conto dell'imputato i rilievi e le doglianze espressi dal ricorrente si sviluppano infatti nell'orbita delle censure di merito risultando quindi estranei al presente giudizio perché attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, in assenza della prospettazione di vizi di legittimità deducibili in questa sede.

In sentenza (cfr. pag. 10) si dà atto di condividere la ricostruzione operata dal giudice di primo grado circa il rapporto di lavoro tra la Snc Edil Pittura S., di cui era legale rappresentante l'odierno ricorrente A.A., e la vittima, B.B., emergente dalle dichiarazioni del collega H.H. e della compagna del defunto, L.L. Dal loro esame i giudici del gravame del merito danno atto che si ricava che B.B. era occupato in nero da mesi presso la Edil Pittura S.; che non aveva conseguito il patentino abilitativo per eseguire operazioni di rimozione dell'amianto, essendo quella infausta la prima volta che H.H. lo aveva visto occuparsi di tale attività; che la condotta di sganciarsi dalla cintura di sicurezza era in sostanza una prassi seguita da molti dipendenti; che nessuno controllava gli operai durante le lavorazioni del cantiere, aggiungendo L.L. di sapere che il compagno entrava in cantiere usando il tesserino di riconoscimento di J.J.

In proposito viene sottolineato che nessuno ha censurato in appello l'attendibilità delle dichiarazioni suddette, come ritenuta dal giudice di primo grado, e la conseguente ricostruzione fattuale dell'evento.

La sentenza impugnata di conto, quindi - non contestata specificamente sul punto nemmeno in questa sede - di una relazione lavorativa tra B.B. e la Edil Pittura S. nel senso di un rapporto di lavoro "al nero'', di durata non accertata ma che, in considerazione delle collimanti dichiarazioni di L.L. e di H.H., non

può definirsi in essere da pochi giorni, come genericamente aveva sostenuto l'appello il coimputato C.C., ma da un arco di tempo prolungato e significativo, pur se non accertato con precisione, ma che a tenore dell'imputazione risalirebbe di fatto a dicembre 2008.

4.2. La Corte partenopea, con motivazione logica e congrua (pag. 11), si è confrontata criticamente anche con la tesi difensiva di Carlo A.A. - riproposta anche in questa sede - che vorrebbe interrotto il nesso di causalità per il contegno, definito fraudolento, della vittima, che si era introdotta abusivamente nel cantiere adoperando il tesserino identificativo del figlio di A.A.

Per i giudici del gravame del merito, alla luce del chiaro quadro probatorio va, in primis, osservato che la tesi difensiva, in sé intrinsecamente inverosimile e formulata genericamente circa la completa ignoranza della presenza di B.B. sul cantiere, appare irricevibile più che inaccoglibile, poiché il deceduto era un dipendente di S., di cui Carlo A.A. era rappresentante legale.

La sentenza impugnata, peraltro, pone l'accento sul fatto che all'odierno ricorrente è specificamente contestata, e ritenuta dal primo giudice, oltre che la qualità di datore di lavoro, anche quella di responsabile dei servizi di sicurezza e protezione, obbligato alla formazione dei dipendenti - obbligo disatteso per B.B. - come da specifiche violazioni delle norme contravvenzionali in materia di sicurezza, per le quali il giudice di primo grado non ha ravvisato cause di proscioglimento, dichiarandone la prescrizione.

Per altro verso viene sottolineato come già il Tribunale avesse condivisibilmente evidenziato che Carlo A.A., nonostante, tali qualifiche, fosse sempre assente dal cantiere - affermazione che la difesa non confuta ed anzi rimarca a sua volta - e che neppure avesse delegato un preposto alla sicurezza. E come tali omissioni irrobustiscano il quadro dei comportamenti antidoverosi ascrivibili all'appellante, posto che appare provato che sul cantiere fossero realizzate dai dipendenti prassi lavorative irregolari, come quella di sganciare le cinture di sicurezza dalla linea-vita in acciaio, che certamente nell'occasione pose in essere anche il deceduto. La doverosa presenza dell'appellante sul cantiere gli avrebbe consentito di notare le irregolari abitudini lavorative poste in essere da suoi dipendenti e di porvi il dovuto rimedio.

Deve, sul punto, rilevarsi la correttezza delle determinazioni della Corte territoriale in quanto in linea con il principio - che va qui ribadito - per cui in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l'instaurazione di prassi "contra legem " foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, ove si verifichi un incidente in conseguenza di una tale prassi instauratasi con il consenso o la tolleranza del preposto, l'ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa, integrando essa stessa la colpa per l'omessa vigilanza sul comportamento del preposto" (cfr. ex multis, Sez. 4 n. 10460 del 210/1/2025, AndruHi, Rv. 287550-01; Sez. 4, n. 46575 del 27/11/2024, Paci, non mass.; Sez. 4, n. 20092 del 19/01/2021, Zanetti, Rv. 281174-01; conf. Sez. 4, n. 10123 del 15/01/2020, Chironna, Rv. 278608-01 in una fattispecie, relativa al decesso di un lavoratore colpito da una macchina escavatrice perché, in violazione dell'art. 12, comma 3,D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, si trovava nel campo di azione di tale mezzo, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione del datore di lavoro che aveva escluso l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire la presenza dei lavoratori nello scavo, secondo la prassi instauratasi in contrasto con la legge). Già in precedenza, peraltro, era stato condivisibilmente affermato che, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi "contra legem ", foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/03/2018, Fassero, Rv. 272960-01; conf. Sez. 4, n. 18638 del 16/01/2004, Rv. 228344-01).

4.3. Quanto all'asserita anomalia del comportamento della vittima occorre ricordare come la giurisprudenza di codesta Corte sia assolutamente costante nel ritenere che la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Rv. 263386; Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Rv. 250710), o comunque quando, all'interno dell'area di rischio considerata, la condotta del lavoratore sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, Rv. 275017; Sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016.).

Del resto, le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino in ordine ad incidenti derivati da sua negligenza, imprudenza od imperizia, sicché la condotta imprudente dell'infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio inerente all'attività svolta dal lavoratore ed all'omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro.

Orbene, nel caso che occupi le sentenze di merito affrontano compiutamente la questione dell'infondatezza della tesi difensiva avente ad oggetto il comportamento anomalo della vittima, rimarcando che il comportamento della vittima non è da considerarsi abnorme essendo il liberarsi da dispositivi di protezione individuali e/o collettivi uno dei comportamenti frequenti realizzati dai lavoratori quando ritengono di avere acquisito adeguate abilità e competenze nell'esercizio delle mansioni, tanto da non doverne usufruire: si tratta di comportamenti che pertanto rientrano nel fuoco delle imprudenze prevedibili e prevenibili da parte dei soggetti che assumono posizioni di garanzia, non mancando altresì da aggiungere che il deceduto non aveva seguito alcun corso formativo per lavori in quota e per la rimozione dell'amianto.

Pacifico è che non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Rv. 269255-01).

5. Quanto al trattamento sanzionatorio, va rilevato che anche sull'aspetto della considerazione ai fini di un mitigamento della pena e del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche dell'intervenuta revoca della costituzione di parte civile si tratta di temi mai proposti alla Corte del merito ed introdotti per la prima svolta in sede di legittimità.

Del resto, come già si evidenziava in precedenza, nell'incipit del proprio atto di appello del 4/4/2018 a firma del medesimo difensore oggi ricorrente, si indicavano dei motivi ''6) Omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche" e "7) Eccessività della pena irrogata" che non sono poi stati in alcun modo sviluppati nell'atto di impugnazione che si conclude solo con la richiesta "in via subordinata, previa concessione elle circostanze attenuanti generiche... di mitigare la pena irrogata in concreto con concessione dei benefici di legge".

Non c'era stato, dunque, alcun confronto critico con il decisum del giudice di primo grado che aveva negato allo A.A. il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e - ella sospensione condizionale della pena concesso invece ai coimputati C.C. e E.E. sul rilievo che solo questi ultimi fossero immuni da pregiudizi penali (cfr. pag. 49 della sentenza di primo grado).

Nonostante ciò, in ogni caso, la Corte d'Appello evidenzia che il ricorrente non appare meritevole delle circostanze attenuanti generiche in considerazione dell'accertata condizione di lavoratore in nero della vittima, condizione questa cui era tenuto dal suo datore di lavoro, e della mancata formazione della vittima, obbligo che gravava in primis sullo A.A., alle dipendenze del quale era.

Motivazione questa sicuramente congrua ed insindacabile in questa sede, laddove, secondo un principio ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899-01, e Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244-01). E nel caso che occupa la Corte territoriale ha appunto rimarcato la gravità della condotta in ordine alle condizioni e alle carenze formative del lavoratore attribuibili all'imputato.

Anche la motivazione in punto di dosimetria della pena nel provvedimento impugnato è logica, coerente e corretta in punto di diritto (sull'onere motivazionale del giudice in ordine alla determinazione della pena c:fr. Sez. 3, n. 29968 del 22/2/2019, Del Papa, Rv. 276288-01; Sez. 2, n. 36104 del 27/4/2017, Mastro, Rv. 271243).

In proposito va ricordato il consolidato il principio per cui la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, a fronte di una pena irrogata entro il c.d. "medio edittale" (ed è il caso che ci occupa) è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133cod. pen. con espressioni del tipo "pena congrua", "pena equa", essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Rv. 2.45596-01).

6. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 3 aprile 2025.

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2025.