Tribunale di Castrovillari, Sez. Lav., 04 luglio 2025, n. 1148 - Riconoscimento del nesso causale tra infortunio e morte del lavoratore: accolta la domanda della vedova, rigettata quella delle figlie maggiorenni


 

Sentenza n. 1148/2025 pubbl. il 04/07/2025
RG n. 2421/2019
Sentenza n. cronol. 9791/2025 del 04/07/2025
 



REPUBBLICA ITALIANA
NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE di CASTROVILLARI

- sezione civile -
- settore lavoro -
- in composizione monocratica nella persona della dott. Manuela Esposito - ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 

 


nel procedimento deciso ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c previo riscontro telematico di deposito delle note scritte

PROMOSSO DA

F.S.
L.G.
R.G.
- parti ricorrenti -
Avv. Giovanni Carlo Tenuta Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

nei confronti di
INAIL
- parte resistente –

F. Costruzioni S.r.l.
- parte chiamata –

nonché
Avv. Giovanni Arcidiacono Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Avv. Francesco Cornicello
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FattoDiritto



Con l’atto introduttivo del presente giudizio le parti ricorrenti, eredi di G. G., convenivano in giudizio l’INAIL, chiedendo l’accertamento della natura infortunistica dell’evento occorso al proprio familiare in data 8.5.2013, nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa alle dipendenze della F. Costruzioni S.r.l. In particolare, le parti ricorrenti deducevano che il lavoratore, mentre era intento ad operare su un ponteggio privo di adeguate misure di sicurezza, precipitava al suolo da un’altezza di circa tre metri, riportando un politrauma con interessamento cranico, toracico e addominale.
A seguito dell’infortunio, il lavoratore veniva ricoverato presso l’Ospedale Pugliese di Catanzaro, in condizioni critiche, e sottoposto a coma farmacologico indotto nel tentativo di stabilizzare il quadro clinico compromesso. Dopo alcuni giorni in terapia intensiva e successive fasi di monitoraggio, il paziente veniva dimesso, ma permaneva in condizioni generali precarie, andando incontro, a distanza di circa tre mesi, a un progressivo aggravamento che culminava nel decesso, avvenuto in data 19.8.2013. Le parti ricorrenti insistevano, in particolare, sull’elemento della “occasione di lavoro” ai fini della riconducibilità dell’evento alla tutela assicurativa obbligatoria, richiamando il principio di equivalenza delle condizioni di cui all’art. 41 c.p., nonché l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la sussistenza di condizioni patologiche preesistenti nel lavoratore non esclude, ma può anzi rafforzare, il nesso eziologico tra l’attività lavorativa e l’evento lesivo, ove lo sforzo o lo stress da lavoro abbiano innescato o aggravato il processo morboso.
Sulla base di tali circostanze, le ricorrenti adivano il Tribunale chiedendo il riconoscimento del nesso eziologico tra l’infortunio occorso in occasione di lavoro e il successivo decesso del lavoratore, e che, per l’effetto, l’INAIL venisse condannato alla costituzione della rendita in favore dei superstiti, prevista dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, con decorrenza dall’evento lesivo e pagamento delle somme dovute a titolo di restazioni maturate; il tutto con vittoria di spese.
Costituitosi l’INAIL contestava radicalmente la fondatezza della pretesa attorea. In particolare, chiedeva in via preliminare, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; in subordine, il rigetto della domanda per insussistenza del nesso causale; in ulteriore subordine, l’accoglimento della domanda di regresso nei confronti del datore di lavoro e del responsabile della sicurezza, con condanna solidale alla manleva e al rimborso integrale delle somme eventualmente dovute; vinte le spese di giudizio.
Si costituiva in giudizio la società F. Costruzioni S.r.l., datrice di lavoro del sig. G., chiamata in causa dall’INAIL in via di regresso, la quale contestava integralmente la fondatezza della domanda proposta dagli eredi nonché la sussistenza di qualsivoglia responsabilità in ordine al decesso del lavoratore, eccepiva l’infondatezza della pretesa INAIL in via di regresso, sul presupposto che l’ente non aveva liquidato la rendita ai superstiti, rendendo dunque inammissibile ogni azione di rivalsa rima del pagamento della prestazione, il tutto con vittoria di spese.
La controversia, dunque, incardinata dinanzi al Giudice Istruttore titolare del ruolo in precedenza, veniva assegnata, in virtù di decreto presidenziale, alla Scrivente che ne curava l’istruttoria e, all’udienza nella modalità della trattazione scritta, pronunciava la sentenza completa di dispositivo e motivazione.

La domanda è fondata, per le ragioni che seguono.

La rendita ai superstiti prevista dal D.P.R. n. 1124/1965 costituisce una prestazione economica di natura previdenziale, volta a tutelare i familiari del lavoratore deceduto a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale. La ratio dell’istituto è quella di assicurare un sostegno continuativo ai soggetti che dal lavoratore traevano mezzi di sussistenza, compensando, in chiave indennitaria, il pregiudizio derivante dalla perdita del relativo apporto economico e affettivo.
È necessario premettere che la fattispecie costitutiva del diritto alla rendita ai superstiti, di cui all'art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965, risulta integrata non solo dalla morte del titolare della rendita, ma anche dal nesso di causalità tra l'infortunio sul lavoro o la tecnopatia e il decesso medesimo (Cass., sez. lav., 23/06/2016, n. 13060).
Invero, il coniuge superstite ha diritto al riconoscimento di una rendita di reversibilità ove tra l'originaria patologia e la morte del titolare del trattamento sussista un nesso di causalità idoneo a contribuire, quale concausa, al decesso medesimo, quantomeno determinandone l'anticipazione (Cass., sez. lav., 26/01/2010, n. 1570).
Cristallizzato il regime giuridico di riferimento, dunque, si precisa che l’infortunio sul lavoro si verifica quando l’evento dannoso avviene per una causa violenta e in occasione di lavoro, determinando la morte del lavoratore o la sua inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, o la sua inabilità temporanea assoluta con conseguente astensione dal lavoro per più di tre giorni.
La causa violenta è un fattore che opera dall'esterno, con azione intensa e concentrata nel tempo, e consiste in un evento che, agisca, in occasione di lavoro (nel senso di una derivazione eziologica, anche se indiretta o riflessa, dell'evento dall'attività lavorativa), dall'esterno verso l'interno dell'organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive ancorché le stesse si determinino in tal caso con il concorso di una situazione morbosa preesistente.
Per occasione di lavoro: devono intendersi tutte le condizioni, comprese quelle ambientali, in cui l'attività produttiva si svolge e nella quale è imminente il rischio di danno al lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo, sia che dipenda da fattori e situazioni proprie del lavoratore, e così qualsiasi situazione ricollegabile allo svolgimento dell'attività lavorativa in modo diretto o indiretto.
L’occasione di lavoro indica quindi il collegamento funzionale dell’atto con il lavoro, e deve sempre ricorrere, perché l’evento possa essere considerato infortunio sul lavoro.
Con particolare riguardo alle concause, dunque, si osserva che trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio della equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. (ex plurimis, Cass. 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27952; Cass. 26 marzo 2015, n. 6105; Cass. 11 novembre 2014, n. 23990; Cass. 17 giugno 2011, n. 13361; Cass. ord. 29 aprile 2022, n. 13512).
In altri termini il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, ancorché indipendenti dalla dinamica, non esclude la sussistenza del nesso causale fra azione ed evento, a meno che esse non risultino di per sé sole sufficienti a determinarlo. Queste ultime sono però fattori causali eccezionali, autonomi ed atipici rispetto alla serie causale già in atto, con l'effetto di degradare le cause preesistenti al rango di mere occasioni e con la correlativa interruzione del legame causale tra esse e l'evento: non assume rilievo la mera divergenza dalla normalità.
L'infortunio, infatti, è considerato tale, quindi indennizzabile, anche quando a determinare l'evento abbiano concorso, insieme alla causa violenta, preesistenti condizioni patologiche del lavoratore; sul punto “Con riguardo agli infortuni sul lavoro disciplinati dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra sforzo ed evento infortunistico, in relazione anche al principio di equivalenza causale di cui all'art. 41 cod. pen., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con la conseguenza che un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia -salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nella esecuzione della prestazione lavorativa-, la quale, anzi, può rilevare in senso contrario, in quanto può rendere più gravose e rischiose attività solitamente non pericolose e giustificare il nesso tra l'attività lavorativa e l'infortunio (Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 24/07/2004, n. 13928).
Alla luce delle coordinate ermeneutiche sopra richiamate, si procederà anzitutto all’esposizione dei fatti pacifici e della dinamica dell’infortunio; seguirà l’analisi delle risultanze istruttorie, con particolare attenzione all’intersezione tra le consulenze tecniche e le testimonianze acquisite, così da fondare in modo argomentato la ricostruzione causale decisa.
Principiando dalla dinamica dell’incidente si osserva, dunque, che la meccanica dell’infortunio occorso al sig. G. appare sufficientemente delineata dagli atti e dalle risultanze probatorie. È pacifico che, nella mattina dell’8 maggio 2013, il lavoratore, dipendente della F. Costruzioni S.r.l., sia precipitato da un’altezza stimata di circa tre metri mentre operava su un ponteggio di cantiere.
Il trauma riportato – con interessamento cranico, toracico e addominale – imponeva il ricovero urgente presso l’Ospedale Pugliese di Catanzaro, con conseguente induzione del coma farmacologico per fronteggiare il quadro critico. Il lungo decorso post-acuto, documentato da cartelle cliniche e allegazioni documentali, testimonia la gravità delle lesioni riportate. Sebbene il paziente venisse successivamente dimesso, non riacquistava mai uno stato di piena stabilità clinica: nei tre mesi seguenti, infatti, si assisteva a un progressivo peggioramento, che conduceva infine al decesso avvenuto in data 19 agosto 2013.
Nel valutare la sequenza degli eventi, non può prescindersi dal criterio di prossimità logico-causale, elaborato dalla giurisprudenza per far fronte ai casi in cui tra l’evento lesivo e l’evento morte intercorra un intervallo temporale significativo. Tale criterio impone di accertare non già una sequenza cronologica immediata, bensì una continuità patogenetica coerente, tale da rendere l’evento successivo una naturale evoluzione clinica del danno originario, anche quando la morte intervenga a distanza di tempo.
Nei casi in cui le condizioni del lavoratore, pur apparentemente migliorate, non abbiano mai effettivamente reciso il legame clinico con l’evento iniziale, la catena causale deve ritenersi giuridicamente integra, in quanto non interrotta da fattori esogeni autonomi o da un effettivo ripristino dello stato di salute.
Pertanto, l’analisi della causalità, nel contesto dell’assicurazione infortunistica, deve tenere conto non solo della vicinanza temporale, ma della plausibilità clinica e dell'assenza di cause alternative sufficienti da soli a causare l’evento di danno, secondo un approccio compatibile con l’art. 41 c.p. e con il principio di tutela effettiva del lavoratore.
In tale quadro, si rileva come la relazione eziologica tra l’infortunio lavorativo e il decesso – pur non caratterizzata da una coincidenza temporale immediata – non possa essere esclusa sulla sola base del decorso temporale o della presenza di fattori concorrenti, dovendosi, al contrario, valorizzare l’unitarietà del processo lesivo innescato dal trauma originario, secondo quanto previsto dall’art. 41 c.p. e dalla consolidata giurisprudenza in materia.
È necessario valorizzare, accanto al principio dell’equivalenza delle condizioni di cui all’art. 41 c.p., infatti, il criterio della prossimità logico-causale, che consente di individuare, nel concorso di più fattori, quello che per intensità, temporalità e funzione risulta maggiormente coerente con l’esito finale. In altri termini, nella ricostruzione del nesso eziologico non rileva soltanto il dato scientifico in senso stretto – talvolta reso ambiguo o contraddittorio dall’esistenza di patologie preesistenti o da variabili individuali – ma anche la coerenza logica della sequenza degli accadimenti, il decorso clinico immediatamente susseguente all’evento, e l’esperienza testimoniale diretta di chi ha assistito alla dinamica e agli sviluppi postumi.
Orbene, spostando il fuoco dell’analisi sulle consulenze tecniche d’ufficio acquisite nel corso del giudizio, lette alla luce delle dichiarazioni rese dai soggetti presenti al momento dell’infortunio e da coloro che ebbero contatti diretti con il lavoratore durante il primo soccorso e nei giorni successivi, emergono alcune rilevanti criticità.
Nel caso in esame, le deposizioni testimoniali hanno offerto un quadro convergente e particolarmente rilevante sotto il profilo del criterio di prossimità: è emersa con chiarezza l'immediatezza temporale tra la caduta accidentale e il ricovero in condizioni gravissime del lavoratore, con politrauma a carico di cranio, torace e addome, con successivo coma farmacologico indotto.
Le testimonianze hanno altresì ricostruito, con efficacia e credibilità, le difficoltà respiratorie, le continue complicanze cliniche e il lento ma inarrestabile aggravamento delle condizioni del G. nei tre mesi successivi all’infortunio.
Nella consulenza tecnica d’ufficio redatta dal dott. P., il consulente giunge a individuare come causa del decesso del lavoratore una sindrome da distress respiratorio acuto insorta in soggetto affetto da broncopatia cronica ostruttiva (BPCO), configurandola come causa esclusiva dell’exitus. Tuttavia, tale impostazione solleva rilevanti criticità sotto il profilo della coerenza logica e giuridica, che impongono una valutazione più approfondita.
In primo luogo, la scheda ISTAT non riporta né la BPCO né una sindrome da distress respiratorio acuto come causa iniziale, autonoma o terminale, né in alcun modo le considera nell’asse eziologico certificato (allegato n. 4 della produzione di parte ricorrente). Questo dato documentale, redatto dal presidio sanitario pubblico, assume rilievo oggettivo nella ricostruzione eziologica del caso.
In secondo luogo, il CTU non dimostra che l’insufficienza respiratoria sia insorta in maniera autonoma e indipendente dall’infortunio occorso sul luogo di lavoro, né fornisce elementi idonei a sciogliere il nodo del giunto causale, ovvero a dimostrare che, anche eliminando l’incidente dalla catena causale, l’evento morte si sarebbe comunque verificato entro il medesimo arco temporale.
Ancora, non viene in alcun modo chiarito se la BPCO da cui era affetto il lavoratore costituisse, al momento dell’infortunio, una condizione clinica destabilizzata, invalidante o terminale, tale da giustificare autonomamente l’exitus.
Alla luce di tali lacune, si osserva che la consulenza del dott. P. opera una sostituzione della causa, attribuendo l’evento morte alla sola BPCO in forma complicata, anziché escludere — con argomentazione conforme al quesito posto — l’efficacia eziologica concorrente dell’infortunio.
In tal modo, il CTU ha disatteso il quesito, non si è confrontato adeguatamente con il principio di equivalenza delle condizioni, né con la necessaria verifica di un’eventuale causa autonoma, eccezionale e autosufficiente, che sola potrebbe interrompere la catena causale originata dal trauma lavorativo.
Si osserva, per completezza, che la dicitura relativa al blocco atrio-ventricolare, contenuta nella scheda di dimissione come causa secondaria, non risulta perfettamente omogenea quanto a grafia e modalità di redazione rispetto al resto del documento, né risulta riportata come causa iniziale o diretta nella scheda ISTAT (allegato n. 10 produzione parte ricorrente). Tale elemento, in ogni caso, non appare dirimente ai fini della ricostruzione eziologica, che deve fondarsi su un complesso integrato di dati clinici, testimonianze e principi normativi in materia di causalità.
Conclusa la disamina della consulenza resa dal dott. P., si procede alla analisi della consulenza resa dal dott. S..
Anzitutto, emerge che lo stesso si discosta dall’impostazione causale seguita dal dott. P., evitando di individuare una causa alternativa ed esclusiva del decesso, ma giungendo nondimeno a escludere ogni nesso eziologico tra l’evento traumatico subito sul lavoro e la morte del lavoratore. L’argomentazione del consulente si fonda su un’impostazione secondo cui la sindrome cardiorespiratoria terminale sarebbe da ricondurre a un decorso naturale e autonomo, in cui il trauma lavorativo non avrebbe avuto ruolo né concausale né accelerante.
Tuttavia, tale impostazione è incompleta e inconferente rispetto ai quesiti posti. In primo luogo, il CTU non valorizza in modo adeguato le risultanze documentali, che attestano un rapido e progressivo deterioramento delle condizioni generali del lavoratore successivamente all’infortunio, né tiene conto delle dichiarazioni testimoniali rese in giudizio, le quali confermano in modo coerente e convergente l’evoluzione clinica sfavorevole innescata dall’evento traumatico.
Il quadro che ne emerge - fatto di crisi ipossiche, dispnea ingravescente, perdita di autonomia funzionale e peggioramento della performance clinica - è pienamente compatibile, secondo la letteratura scientifica e i principi giuridici, con un ruolo accelerante dell’evento traumatico in un soggetto con un profilo sanitario delicato, ma non prossimo in modo certo e autonomo al decesso. In secondo luogo, il dott. S. non si confronta compiutamente con il principio di equivalenza delle condizioni sancito dall’art. 41 c.p., limitandosi ad escludere un nesso patogenetico diretto, senza tuttavia dimostrare che l’infortunio abbia agito come mera occasione e non come causa almeno concorrente. In definitiva, non viene chiarito se l’exitus si sarebbe verificato con le medesime modalità e tempistiche anche in assenza dell’infortunio: quesito centrale per la verifica del nesso causale, che resta quindi irrisolto.
In tal senso, l’elaborato del dott. S. si rivela inidoneo a fondare una decisione che implichi l’esclusione del nesso eziologico tra l’infortunio e l’evento morte, non avendo dimostrato l’intervento di alcuna causa interruttiva, autonoma e autosufficiente. Né è stata esclusa la funzione accelerante o concausale dell’infortunio stesso, che risulta invece compatibile con la traiettoria clinica del lavoratore nel periodo successivo alla caduta.
In questo senso, l’insieme degli elementi raccolti – dichiarazioni testimoniali, referti clinici, andamento temporale dei sintomi, osservazioni medico-legali – converge verso una ricostruzione eziologica in cui l’infortunio funge da evento innescante e determinante, quantomeno in termini di accelerazione, del successivo decesso del lavoratore.
Tali elementi, dotati di un’elevata forza argomentativa sul piano logico-causale, appaiono incompatibili con l’assunto secondo cui il decesso sarebbe da ascrivere a una generica insufficienza respiratoria causalmente avulsa dal trauma, come proposto in modo assertivo ma scarsamente motivato dal consulente. La stessa relazione, pur richiamando un “politrauma compatibile con la caduta”, omette di sviluppare in modo analitico e trasparente il percorso logico che la conduce a negare ogni contributo causale tra quell’evento e il decesso. Una tale impostazione non soddisfa l’esigenza di rigorosità dell’elaborato tecnico e impone al Giudice una rivalutazione complessiva delle prove alla luce del canone dell’intima coerenza logica.
Il CTU afferma che la causa della morte sarebbe una sindrome cardiorespiratoria terminale, senza tuttavia spiegare in che modo tale condizione si sia originata in modo autonomo rispetto al grave politrauma subito. Nessun passaggio motivazionale chiarisce se e perché sia possibile scindere il nesso logico tra la caduta dall’impalcato
– da circa tre metri – e il decorso clinico segnato da crisi ipossiche, dispnea ingravescente, perdita di autonomia funzionale e peggioramento progressivo della performance clinica. Una traiettoria che, per tempistiche e dinamiche, risulta pienamente compatibile con un ruolo almeno accelerante dell’infortunio, in un soggetto con profilo sanitario delicato, ma non già compromesso in modo irreversibile o in fase terminale.
L’elaborato risulta, inoltre, metodologicamente lacunoso: il CTU non si confronta adeguatamente con le valutazioni critiche offerte dalle consulenze di parte, né opera una verifica controfattuale giuridicamente rilevante. In particolare, non affronta la domanda centrale: se eliminando dalla catena causale l’evento traumatico del giorno 8.5.2013, il decesso si sarebbe comunque verificato entro il medesimo arco temporale e con le stesse modalità. Tale omissione vanifica la risposta al quesito peritale, che richiedeva espressamente di valutare la rilevanza eziologica dell’infortunio anche in termini di concausa o di accelerazione del decorso patologico. In questo quadro, si ribadisce, l’impostazione del dott. S. elude altresì l’applicazione del principio di equivalenza delle condizioni ex art. 41 c.p., limitandosi ad escludere un nesso patogenetico diretto, ma senza accertare l’eventuale efficacia concorrente dell’infortunio. Ne deriva un’impostazione che confonde il piano astrattamente clinico con quello causale in specie eziopatogenetico, mancando di articolare un percorso logico completo, che tenga conto anche dell’elemento controfattuale richiesto dal Giudice nei quesiti peritali.
Del tutto assente, infine, è ogni valutazione del criterio della prossimità logico- causale, la consulenza non sviluppa alcuna riflessione sulla sequenza fenomenica tra l’evento lesivo e il decesso, né offre un inquadramento coerente dell’intera vicenda alla luce dell’insieme degli elementi istruttori, di natura documentale.
In conclusione, orbene, la consulenza, pur fornendo una ricostruzione sotto il profilo clinico-patogenico della sindrome che ha condotto al decesso del lavoratore, non affronta il secondo segmento del quesito formulato dal Giudice, che imponeva una valutazione della rilevanza eziologica dell’infortunio anche in termini di concausa o di fattore accelerante del decorso morboso. Si trattava di una richiesta specifica, volta ad accertare non solo l’esistenza di un nesso diretto e univoco, ma anche l’eventualità che l’evento traumatico avesse contribuito, pur in presenza di patologie preesistenti, a determinare un peggioramento clinico anticipando l’exitus.
La mancata risposta a tale quesito non può essere giustificata invocando l’ambito strettamente clinico di competenza del CTU, dal momento che il quesito non imponeva alcuna valutazione giuridica autonoma, ma semplicemente una più ampia considerazione del quadro causale alla luce delle risultanze mediche, secondo un approccio integrato medico-legale.
L’analisi del nesso causale nei giudizi in materia infortunistica, infatti, non si esaurisce nella verifica di una connessione patogenetica diretta, ma esige – come previsto dalla costante giurisprudenza in tema di causalità – anche l’indagine sul ruolo concausale o accelerante di un determinato evento, con l’adozione di un criterio probabilistico-logico fondato sull’esperienza clinica, sulla plausibilità scientifica e sulla sequenza temporale degli accadimenti.
In questo senso, la consulenza si rivela incompleta sul piano metodologico, non avendo preso posizione sull’eventualità che l’infortunio lavorativo, pur non essendo l’unica causa, abbia contribuito in modo significativo al decesso, secondo quanto richiesto dal quesito stesso e previsto dall’art. 41 c.p. in tema di equivalenza delle condizioni.
Ma la disamina fin qui svolta della consulenza del dott. S., trova il suo apice nevralgico nell’aspetto maggiormente aporetico.
Infatti, pur giungendo a conclusioni formalmente escludenti in ordine alla sussistenza del nesso eziologico tra l’evento traumatico occorso al lavoratore e il successivo decesso, la consulenza tecnica d’ufficio finisce per contraddirsi sul piano della coerenza logico-clinica, laddove attribuisce alla condizione post-traumatica “importante, con emorragia cerebrale e verosimile rischio di complicanze” la scelta – poi rivelatasi dirimente – di non procedere alla somministrazione di farmaci antiaggreganti eparinici, abitualmente utilizzati nei sospetti di sindrome coronarica acuta.
Tale passaggio (pag. 2 della relazione), lungi dall’essere una nota marginale, assume valore centrale ai fini dell’analisi causale, poiché consente di cogliere, all’interno dello stesso elaborato peritale, un collegamento diretto tra l’evento lesivo iniziale e l’evoluzione clinica sfavorevole. In altri termini, è lo stesso consulente a riconoscere che l’impossibilità di attuare un protocollo terapeutico standard – che avrebbe potuto incidere sull’esito finale – discende causalmente dalla situazione patologica prodotta dall’infortunio.
Ciò che emerge è una confutazione interna, in cui la sequenza clinico-terapeutica data da “emorragia cerebrale da trauma - rischio emorragico - omessa somministrazione - evoluzione fatale”, viene rappresentata come concatenazione logica, pur in assenza di una dichiarazione esplicita del nesso. Tale dinamica argomentativa contraddice, nella sostanza, la successiva affermazione del CTU circa l’assenza di un ruolo concausale dell’infortunio, poiché attesta che fu proprio l’esito traumatico a impedire l’intervento terapeutico potenzialmente salvifico.
In questa prospettiva, la consulenza mostra una disarticolazione interna tra il livello descrittivo-clinico e il livello valutativo-conclusivo, il che ne compromette l’affidabilità logica oltre che tecnico-scientifica. Non è dato comprendere come possa affermarsi la totale irrilevanza eziologica dell’evento infortunistico quando, nella stessa sede, se ne riconosce l’efficacia impeditiva rispetto all’attivazione di una terapia d’urgenza.
In altri termini, se è vero che la scelta di non somministrare antiaggreganti è stata dettata dalla presenza di un’emorragia cerebrale da trauma, è altrettanto vero che il trauma diviene fattore causale mediatamente efficiente nella catena degli eventi che hanno condotto al decesso, alla luce del principio secondo cui non può ritenersi irrilevante una condizione che impedisce l’attuazione della cura.
Il Giudice, nella sua funzione di valutazione critica degli esiti peritali, non può ignorare tale nesso implicito, che rende la CTU non solo parziale per omissione di risposta al secondo segmento del quesito (relativo alla concausalità o concorso di condizioni), ma anche contraddittoria al suo interno, per incompatibilità tra premessa clinica e conclusione giuridica.
In definitiva, l’elaborato non fornisce risposte convincenti né complete ai quesiti formulati, né riesce a scardinare il quadro logico-causale univoco delineato dalle risultanze testimoniali, documentali e tecniche. Ne consegue che la consulenza tecnica d’ufficio resa dal dott. S. non può ritenersi idonea a fondare, da sola, un convincente giudizio di esclusione del nesso causale tra l’infortunio e la morte del lavoratore.
Essa, infatti, si caratterizza per una rilevante contraddizione interna: pur negando espressamente il nesso eziologico diretto, finisce per riconoscere la rilevanza clinica dell’evento traumatico, laddove attribuisce alla condizione post-traumatica la scelta - rivelatasi decisiva - di non somministrare terapie antiaggreganti.
In tal modo, la consulenza non esclude il nesso, ma lo presuppone implicitamente, disvelandone la plausibilità sul piano logico-clinico.
Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la consulenza, pur utile ai fini istruttori, non possa essere recepita nelle sue conclusioni, dovendosi invece valorizzare l’intero compendio probatorio acquisito, ivi comprese le osservazioni critiche del consulente di parte, per pervenire a un accertamento del nesso eziologico in termini di elevata probabilità logico-scientifica, in conformità al consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
Un approccio adeguatamente complesso è cristallizzato, invece, nella posizione assunta dal consulente tecnico di parte, dott. C., il quale ha offerto una ricostruzione medico-legale coerente, articolata e aderente agli sviluppi clinici documentati nel corso del giudizio.
Il consulente ha individuato nel grave politrauma cranio-toraco-addominale subito dal lavoratore l’evento eziologico iniziale, capace di determinare un danno sistemico progressivo. In particolare, è stato valorizzato il trauma cranico come fonte di danno assonale diffuso (DAI), ovvero una lesione microscopica delle fibre nervose cerebrali, non sempre rilevabile tramite TAC o RM convenzionali, ma riconosciuta in letteratura come complicanza frequente nei traumi ad alta energia. Tale danno comporta la disorganizzazione delle funzioni neurovegetative centrali, con conseguente deterioramento graduale ma irreversibile dello stato di coscienza e delle funzioni vitali.
Il lungo coma farmacologico indotto sin dalle prime ore successive al ricovero, e protratto per settimane, viene inquadrato come misura necessaria per il controllo dell’ipertensione endocranica e delle crisi convulsive, ma al tempo stesso rappresenta un fattore di peggioramento del quadro clinico, specie in soggetto con riserva funzionale limitata. L’insieme di questi elementi è stato trascurato dai consulenti d’ufficio ed è stato interpretato dal CTP come il fattore determinante dell’evoluzione clinica post-traumatica, che ha portato a una compromissione progressiva e sistemica, culminata in un quadro di insufficienza cardiorespiratoria terminale.
In tale prospettiva, la morte non appare frutto di una patologia pregressa, né di una condizione autonomamente letale, bensì come esito coerente del processo patogenetico innescato dalla caduta dall’impalcato, con successivo impatto cranico, toracico e addominale, complicanze secondarie respiratorie e deterioramento neurologico.
Risulta, dunque, particolarmente pregnante l’impostazione metodologica adottata dal dott. C., il quale integra le fonti cliniche, le testimonianze, le cartelle sanitarie e i dati obiettivi. Egli fonda la propria analisi sul criterio della prossimità logico-causale, nonché sul principio di equivalenza delle condizioni ex art. 41 c.p., operando anche una verifica controfattuale implicita: ovvero, che in assenza del trauma iniziale, la sequenza patogenetica che ha condotto al decesso non si sarebbe innescata.
In conclusione, la consulenza del dott. C. si distingue per rigore, coerenza clinico-giuridica e aderenza all’evoluzione documentata del caso, costituendo un tassello essenziale nella ricostruzione del nesso causale tra l’infortunio sul lavoro e la morte del sig. G..
Ma l’autentico architrave dell’ordito probatorio, nella trama istruttoria fin qui intessuta, è costituito dalla relazione del dott. G. Maurelli. Non solo perché ancorata alle più autorevoli linee guida internazionali, ma soprattutto perché capace di restituire coerenza clinica e logica all’intera sequenza causale. La sua lettura non si limita a confutare le incongruenze dell’elaborato peritale d’ufficio: ne mostra, piuttosto, l’insufficienza sistemica, offrendo al Giudicante un parametro interpretativo solido, convergente e compatibile con il restante compendio probatorio.
In tal modo, la ricostruzione prospettata si impone – con forza argomentativa e rigore scientifico – quale chiave di volta dell’intera vicenda eziologica.
Infatti, a prescindere dalla mancata rinnovazione dell’elaborato peritale, l’istruttoria deve ritenersi completa, potendo il Giudice valorizzare le osservazioni critiche formulate dal consulente di parte, dott. G. Maurelli. La relazione del CTP si fonda su parametri clinici ben documentati, nonché su linee guida ufficiali – nazionali e internazionali – che ne rafforzano l’autorevolezza.
In particolare, è stato evidenziato come l’andamento dei valori della troponina I – uno degli indicatori principali in caso di infarto – non segua il profilo tipico di un evento ischemico acuto. Mentre normalmente ci si aspetta una crescita progressiva nelle prime ore, seguita da un lento calo nei giorni successivi, nel caso in esame i valori risultavano già in fase discendente poche ore dopo il ricovero, rendendo implausibile l’ipotesi di un infarto acuto come causa primaria del decesso.
A ciò si aggiunge il fatto che il dato apparentemente rassicurante della saturazione dell’ossigeno non può essere considerato attendibile, in quanto alterato dalla somministrazione di ossigeno in corso. Al contrario, l’insieme dei parametri clinici – infiammazione diffusa, squilibrio acido-base e compromissione respiratoria – indica una condizione generale già gravemente deteriorata, più coerente con gli effetti di un trauma importante che non con un episodio ischemico isolato.
Ne deriva che le conclusioni cui è pervenuto il CTU S., già intrinsecamente aporetiche nella parte in cui riconoscono l’impatto clinico dell’infortunio ma ne escludono ogni rilievo causale sul piano eziologico, risultano ulteriormente compromesse alla luce delle puntuali osservazioni clinico-scientifiche offerte dal consulente tecnico di parte. L’analisi sviluppata dal dott. Maurelli, non si limita infatti a contrapporre una diversa valutazione, ma decostruisce alla radice l’impianto logico della consulenza d’ufficio, evidenziandone l’incoerenza rispetto ai dati oggettivi e alle linee guida medico-legali più autorevoli.
Orbene, esaurita l’analisi delle consulenze tecniche, si rende ora necessario procedere alla disamina puntuale delle emergenze testimoniali. Le dichiarazioni rese dai testimoni escussi in giudizio offrono, infatti, una conferma rilevante dell’impatto dell’infortunio subito dal lavoratore, restituendo – attraverso narrazioni puntuali e coerenti – la portata concreta delle conseguenze umane e fisiologiche dell’evento (verbali di udienza del 2.3.2022 e dell’11.5.2022).
Francesco G., fratello della vittima, ha riportato di essere accorso sul luogo dell’incidente poco dopo la caduta, di aver trovato il congiunto steso a terra in una pozza di sangue, incosciente e tremante, con il corpo scosso da spasmi. Trasportato in elisoccorso a Catanzaro, il lavoratore fu posto in coma farmacologico. Al risveglio, non riconosceva più nessuno – chiamava il fratello “Pasquale” – e da quel momento iniziò una discesa irreversibile. Il teste ha descritto il rapido decadimento fisico: difficoltà respiratorie, perdita della capacità di deambulare, deperimento alimentare, gonfiori, febbre, affaticamento costante, fino al decesso, avvenuto tre giorni dopo l’ultima visita al Pronto Soccorso. “Mio fratello era un colosso – ha affermato – ma dopo la caduta non si è più ripreso” è la frase che condensa l’intensità fattuale del narrato.
I.V., medico di base del lavoratore fin dal 2000, ha fornito una testimonianza particolarmente qualificata, fondata su una conoscenza clinica diretta e prolungata del sig. G.. Ha precisato che, prima dell’infortunio, il lavoratore era affetto da una forma lieve e transitoria di ipertensione arteriosa, gestita con farmaci di primo livello e non vincolanti, in un quadro clinico stabile e privo di episodi critici o ricoveri. Il testimone ha inoltre escluso l’esistenza di condizioni invalidanti o terminali precedenti all’evento traumatico.
L’intervento sul luogo dell’infortunio consente al teste di restituire un’immagine vivida e oggettiva della gravità dell’evento: G. fu trovato in stato di crisi epilettica, con perdita ematica dall’orecchio e segni evidenti di trauma cranico; le condizioni apparivano talmente critiche da far temere uno shock imminente. Nonostante l’immediato intervento di soccorso, con tentativi di accesso venoso e attivazione dell’elisoccorso, il quadro clinico risultò da subito compromesso.
Nei mesi successivi, il dott. I.V. ha continuato a seguire il paziente, rilevando un persistente e grave deterioramento neuro-motorio: perdita di lucidità, incapacità comunicativa, crisi epilettiche ricorrenti, progressivo deficit deambulatorio. Il lavoratore, sebbene clinicamente stabile nei parametri vitali di base (pressione e frequenza cardiaca), manifestava un crescente affaticamento respiratorio, fino all’insorgenza di anomalie che hanno indotto il medico a prescrivere una terapia antibiotica d’urgenza (Ciproxin) e a sollecitare il ricovero ospedaliero. L’exitus è sopraggiunto prima che tale ricovero potesse avvenire.
Questa testimonianza — resa da un medico curante che conosceva il paziente da oltre un decennio — conferma la preesistente condizione di relativa stabilità, l’assoluta gravità dell’evento traumatico, e il rapido e irreversibile peggioramento clinico susseguente all’infortunio, secondo una traiettoria eziologica coerente con la funzione scatenante e/o accelerante del trauma.
Particolare rilievo assumono le qualità soggettive dei due testimoni escussi, la cui attendibilità si fonda su una combinazione di prossimità relazionale e competenza professionale. Da un lato, il fratello della vittima, che ha condiviso con il lavoratore l’intero percorso post-traumatico, offrendo una narrazione intensa e dettagliata, resa credibile dal legame familiare e dalla conoscenza diretta dello stato di salute antecedente all’infortunio. Dall’altro, il medico curante, che non solo intervenne in prima persona sul luogo dell’incidente per prestare i primi soccorsi, ma aveva anche in seguito il lavoratore per oltre un decennio in qualità di medico di base. La sua testimonianza coniuga dunque il rigore tecnico della valutazione clinica con una visione longitudinale del decorso sanitario, confermando la gravità immediata dell’infortunio e il progressivo deterioramento successivo, in un quadro che risulta difficilmente conciliabile con una causa di morte del tutto autonoma e avulsa dall’evento traumatico.
Queste testimonianze, tra loro indipendenti e complementari, non solo rafforzano la coerenza logico-causale della ricostruzione, ma forniscono elementi qualitativi che colmano le lacune delle consulenze d’ufficio, restituendo una progressione dei fatti in cui l’infortunio si pone come innesco determinante, tanto sotto il profilo temporale quanto sotto quello clinico-funzionale.
In tale cornice, la ricostruzione ermeneutica qui proposta valorizza il principio dell’equivalenza delle condizioni, integrandolo con il criterio della prossimità logico- causale e con le risultanze concrete del giudizio. L’evento lavorativo non risulta superato da alcuna causa alternativa, autonoma e sufficiente a spiegare il decesso; al contrario, permane come fattore significativo, se non principale, nella genesi dell’evento morte.
Ne deriva che, sulla base di una lettura unitaria delle fonti di prova, deve ritenersi provato, secondo il criterio del più probabile che non, il nesso eziologico tra l’infortunio subito dal sig. G. e il suo successivo decesso, in quanto l’evento lesivo ha prodotto una compromissione clinica grave e irreversibile, culminata nell’exitus del lavoratore. Tale valutazione impone l’accoglimento della domanda proposta, nei limiti di quanto dedotto e documentato in atti.
Alla luce del complesso delle risultanze dibattimentali, risulta evidente come l’infortunio occorso al sig. G. in data 8 maggio 2013 costituisca l’innesco di una catena causale che trova nel successivo decesso la sua conclusione. La ricostruzione eziologica, per assumere dignità giuridica, deve essere integrata attraverso una lettura sistemica delle fonti istruttorie: dalle testimonianze dirette, alle cartelle cliniche, fino alle perizie tecniche.
Le consulenze d’ufficio, pur tecnicamente articolate, non superano le criticità derivanti da un’impostazione che tende a isolare il dato patologico finale dal suo antecedente traumatico, eludendo la valutazione del nesso logico e controfattuale richiesto dall’art. 41 c.p. e dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, l’omessa considerazione del criterio di prossimità logico-causale e l’assenza di un’adeguata verifica del ruolo concausale o accelerante dell’infortunio indeboliscono le conclusioni peritali nella misura in cui non riescono a spiegare, in modo convincente, la sequenza che conduce dal trauma iniziale al decesso.
Si reitera, per inobliterabile rigore sistematico, che un contributo solido sul piano scientifico e metodologico è offerto dalla consulenza tecnica di parte redatta dal dott. C., che ha restituito un’elaborazione medico-legale strutturata, coerente con le evidenze cliniche e ancorata ai dati documentali acquisiti nel corso del giudizio.
Secondo il dott. C., l’infortunio occorso il giorno 8.5.2013 ha determinato un politrauma di notevole entità, interessando in modo congiunto le regioni cranica, toracica e addominale, e innescando un processo patologico di tipo sistemico. Particolare attenzione è stata rivolta al trauma cranico, individuato come concausa di una lesione assonale diffusa (DAI), ovvero un danno microscopico delle connessioni neuronali centrali, spesso invisibile agli esami di neuroimmagine tradizionali, ma ben noto in letteratura per la sua frequente insorgenza in caso di traumi ad alta energia. Tale lesione comporta un’alterazione delle funzioni neurovegetative profonde, con progressiva compromissione dello stato di coscienza e delle funzioni vitali.
La fase iniziale del ricovero, caratterizzata da coma farmacologico protratto, è stata correttamente interpretata non solo come risposta terapeutica all’ipertensione endocranica e alle crisi convulsive, ma anche come indicatore prognostico negativo, in grado di incidere sull’evoluzione clinica in soggetto con risorse funzionali già limitate. L’evoluzione del quadro clinico – con complicanze respiratorie, decadimento neurologico e perdita delle funzioni autonome – è stata ricondotta dal CTP a una sequenza eziologica coerente, il cui elemento primigenio resta l’evento traumatico occorso sul luogo di lavoro.
In tale ottica, il decesso non appare riconducibile a condizioni morbose preesistenti, né a patologie sopravvenute autonome e sufficienti a spiegarne l’esito, ma si configura come sbocco patologico coerente e progressivo di un danno sistemico post- traumatico.
La ricostruzione offerta dal CTP risulta perfettamente compatibile con i criteri giuridici del nesso causale, sia sotto il profilo dell’equivalenza delle condizioni di cui all’art. 41 c.p., sia alla luce del principio della prossimità logico-causale. Nessuna causa interruttiva, sopravvenuta o esclusiva è stata accertata nel decorso clinico successivo al trauma: ne consegue che l’evento infortunistico permane come fattore determinante, o comunque rilevante, nella genesi dell’exitus.
Ribadendo, inoltre, i passaggi della relazione Maurelli rispetto alla consulenza resa dal dott. S. si deve sottolineare, in particolare, l’incongruenza riscontrata tra il comportamento biochimico dei marcatori cardiaci (troponina I) e la diagnosi di infarto miocardico acuto che – formulata dal CTU in via alternativa – non è una semplice divergenza interpretativa, ma costituisce un vulnus metodologico sostanziale, che incide sulla credibilità complessiva dell’elaborato. A ciò si aggiunge il rilievo critico circa la presunta stabilità respiratoria del paziente, fondata su un parametro (SpO₂) alterato da ossigenoterapia attiva e dunque non attendibile, a fronte invece di segni clinici convergenti verso una sofferenza sistemica grave e ingravescente, incompatibile con un quadro ischemico isolato e a decorso regolare.
In questo contesto, la relazione Maurelli si impone come strumento ermeneutico qualificato, capace di ricomporre i diversi elementi probatori entro un tracciato clinico plausibile, coerente e logicamente solido. L’adesione alle più recenti evidenze scientifiche, unite alla lettura attenta dei tempi e dei parametri clinici documentati in atti, conferiscono al parere espresso un valore integrativo e chiarificatore di primaria importanza.
Si perviene dunque – senza necessità di ulteriori approfondimenti tecnici – a una valutazione unitaria del quadro probatorio, che consente di affermare, in termini di elevata probabilità logico-scientifica, che la morte del lavoratore sia da ricondurre non a un improvviso evento ischemico autonomo, ma alla complessa evoluzione clinica scatenata e aggravata dalle lesioni traumatiche riportate nell’infortunio lavorativo.
Tale accertamento, nella sua completezza e coerenza, fonda il riconoscimento del nesso causale richiesto.
Posto che nell’ambito del contenzioso civile, e in particolare nei giudizi aventi ad oggetto l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ai fini dell’accertamento del diritto alle prestazioni ex D.P.R. n. 1124/1965, la prova del nesso eziologico non richiede un grado di certezza assoluta, ma deve basarsi su un elevato livello di probabilità logica e scientifica, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Da ciò discende che, sulla base di una lettura unitaria delle fonti di prova, deve ritenersi provato, secondo il criterio del più probabile che non, il nesso eziologico tra l’infortunio subito dal sig. G. e il suo successivo decesso, in quanto l’evento lesivo ha prodotto una compromissione clinica grave e irreversibile, culminata nell’exitus del lavoratore.
Tale valutazione impone l’accoglimento della domanda proposta, nei limiti di quanto dedotto e documentato in atti.
Accertata dunque la sussistenza del nesso eziologico tra l’evento infortunistico e il decesso del lavoratore, occorre ora esaminare la domanda di rendita ai superstiti, al fine di verificarne i presupposti e la fondatezza alla luce del quadro normativo e probatorio emerso.
Si è precisato che la rendita ai superstiti costituisce una prestazione indennitaria di natura previdenziale, finalizzata a garantire un sostegno economico continuativo ai familiari del lavoratore deceduto in conseguenza di infortunio sul lavoro. Tale istituto, ispirato a una logica solidaristica e di protezione sociale, trova disciplina nel D.P.R. n. 1124/1965, che all’art. 85 individua i soggetti beneficiari e le rispettive quote percentuali, nonché i presupposti per l’erogazione della prestazione.
In particolare, la norma stabilisce che:
«Se l'infortunio ha per conseguenza la morte, spetta a favore dei superstiti sotto indicati una rendita nella misura di cui ai numeri seguenti, ragguagliata al 100 per cento della retribuzione calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120 […]».
A completamento del quadro, l’art. 105 del medesimo decreto chiarisce che le rendite decorrono dal giorno successivo alla morte del lavoratore, subordinatamente alla presentazione della documentazione attestante il diritto da parte dei superstiti legittimati.
Orbene, è opportuno operare un distinguo tra la posizione della vedova F.S. e delle figlie L.G. e R.G..
Quanto alla posizione della coniuge superstite, F.S., il diritto alla rendita sorge in via diretta ex art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965, senza necessità di dimostrare la vivenza a carico, trattandosi di beneficio che spetta iure proprio al coniuge del lavoratore deceduto a causa di infortunio sul lavoro. La sussistenza del vincolo coniugale alla data del decesso non è contestata e risulta documentalmente provata, così come l’effettiva convivenza, rilevabile dallo stato di famiglia allegato (doc. 1).
Diversa è la posizione delle figlie Laura e R.G., le quali, in quanto maggiorenni all’epoca dell’evento (classe 1993 e 1989), non possono beneficiare automaticamente della rendita. Ai sensi dell’art. 85 T.U. n. 1124/1965, per i figli maggiorenni è necessaria la prova dell’inabilità al lavoro o, in alternativa, la vivenza a carico nei limiti e alle condizioni stabilite per i figli minorenni (fino alla maggiore età; fino a 21 anni se studenti di scuola secondaria; fino a 26 anni se studenti universitari). Nella fattispecie, non risultano prodotti elementi idonei a dimostrare né uno stato di inabilità né l’effettiva vivenza a carico, né risulta dedotta la frequenza scolastica o universitaria entro i limiti di legge. La posizione delle figlie, pertanto, non può essere favorevolmente scrutinata in mancanza di tali presupposti.
Deve dunque accogliersi la domanda proposta da F.S., in qualità di coniuge superstite del lavoratore deceduto, con conseguente riconoscimento del diritto alla rendita ex art. 85 del D.P.R. n. 1124/1965, a decorrere dal 20.8.2013 ovvero dal giorno successivo a quello della morte del proprio coniuge essendo pacifico tra le parti oltre che documentato che questi sia deceduto in data 19.8.2013.
Va condannata, di conseguenza, la parte resistente al pagamento in favore della parte ricorrente della rendita di cui all’art. 85 D.P.R. n. 1124/1965 a decorrere dal 20.8.2013 oltre al maggior importo tra interessi legali e rivalutazione.
Di contro, va rigettata la domanda formulata dalle figlie Laura e R.G., non risultando dimostrata, alla data dell’evento, la sussistenza dei requisiti normativamente richiesti per l’accesso al beneficio, quali l’inabilità, lo status di studenti nei limiti di legge, o la vivenza a carico effettiva e documentata.
Esaurita la disamina delle domande volte all’erogazione della rendita ai superstiti, occorre ora affrontare il distinto profilo della domanda di regresso proposta dall’INAIL nei confronti del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 1124/1965.
Deve, infatti, dichiararsi inammissibile, per difetto dei presupposti normativi, la domanda di regresso proposta dall’INAIL nei confronti della F. Costruzioni S.r.l., non risultando, allo stato degli atti, dimostrato l’effettivo pagamento, da parte dell’Istituto, delle prestazioni economiche in favore dei superstiti del lavoratore deceduto. Tale adempimento costituisce requisito imprescindibile per l’ammissibilità dell’azione di regresso prevista dall’art. 10, comma 6, del D.P.R. n. 1124/1965, la quale presuppone non solo l’accertamento della responsabilità civile del datore di lavoro, ma anche l’avvenuta erogazione della prestazione da parte dell’ente assicuratore. In difetto di tale presupposto, la pretesa azionata si configura come prematura e, pertanto, giuridicamente inammissibile.
Quanto al regolamento delle spese processuali, si ritiene di dover disporre la integrale compensazione tra l’INAIL e la F. Costruzioni S.r.l. con riferimento alla domanda di regresso, in ragione della particolare complessità tecnico-giuridica della vicenda, che ha richiesto l’esame incrociato di profili medici, normativi e probatori.
Diversamente, l’INAIL deve essere condannato al pagamento delle spese di lite
in favore della parte ricorrente.
Infine, le spese di consulenza tecnica d’ufficio, già liquidate con separato decreto, devono essere definitivamente poste a carico dell’INAIL.
 

P.Q.M.



Il Tribunale di Castrovillari in persona della dott.ssa Manuela Esposito, quale Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza disattesa, così provvede:
- dichiara il diritto di F.S., in qualità di coniuge superstite, alla rendita ai superstiti ai sensi degli artt. 85 e ss. del D.P.R. n. 1124/1965, e per l’effetto condanna l’INAIL all’erogazione della prestazione previdenziale secondo i criteri di legge a decorrere dal 20.8.2013 oltre al maggior importo tra interessi legali e rivalutazione;
- rigetta la domanda di rendita avanzata dalle figlie, OMISSIS;
- dichiara inammissibile la domanda di regresso proposta dall’INAIL nei confronti della F. Costruzioni S.r.l.;
- compensa integralmente tra INAIL e F. Costruzioni S.r.l. le spese di lite relative alla domanda di regresso;
- condanna l’INAIL al pagamento delle spese di lite in favore della parte ricorrente che liquida in complessivi € 5.391,00 a titolo di compenso professionale oltre Iva, Cpa e rimborso spese forfetario pari al 15% del compenso integrale;
- pone definitivamente a carico dell’INAIL le spese di consulenza tecnica d’ufficio,
già liquidate con separato decreto.
Castrovillari, 4.7.2025

Il Giudice del Lavoro dott.ssa Manuela Esposito