Categoria: Cassazione penale
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Responsabilità del titolare della impresa artigiana " B.L." per il reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro in danno del figlio B.A..

 


In particolare all'imputato era contestato di aver, nella qualità suddetta e dunque anche responsabile nel settore prevenzione infortuni della stessa Ditta, cagionato l'infortunio per colpa consistita in generica imprudenza e più specificatamente nella violazione di norme in materia di prevenzione e per la precisione violando il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 18, comma 3 perchè mancava di fornire al figlio - assunto quale collaboratore familiare presso la ditta in esame - una scala dotata di tutti i dispositivi di sicurezza idonei a impedire lo scivolamento: infatti la scala in uso e di proprietà di B.L. era priva dei piedi antisdrucciolo, cosicchè B.A., che unitamente al padre si era recato presso un caseificio sociale per trasportare e installare un silos per lo stoccaggio di mangimi per animali, saliva a piedi sulla scala per raggiungere la sommità del silos da sostituire al fine di collegare le estremità di gancio della gru, manovrata dal padre,  perdeva l'equilibrio e cadendo sbatteva la testa al suolo riportando ferite tali da determinarne il decesso.

 

 

All'imputato era inoltre contestato di aver violato il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 19, per avere mancato di assicurare o comunque per avere mancato di disporre che la stessa fosse trattenuta al piede da altra persona presente sui luoghi in maniera sicura nonchè di avere violato il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 20, comma 2, lett. d) perchè mancava di disporre che la scala venisse vigilata da terra da personale.

Condannato, ricorre in Cassazione - Inammissibile.

Afferma la Corte che "il primo motivo si traduce in un'affermazione del tutto insostenibile laddove rappresenta il ragionevole affidamento che poteva riporre l'imputato nell'accortezza e prudenza del figlio (benchè giovanissimo e assunto come collaboratore familiare artigiano da neanche un mese), negligendo di rammentare l'indefettibilità degli obblighi che comunque incombono sul datore di lavoro e titolare della posizione di garanzia (adombrando l'ipotetico alleggerimento della stessa per effetto del tenore del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, comma 3 bis come modificato dal D.Lgs. n. 106 del 2009 con "l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli (19, 20, 22, 23, 24 e 25) qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitarle unicamente agli stessi" che, però, presuppone proprio che "non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti", circostanza, questa, da escludere nel caso di specie)."


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere
Dott. MASSAFRA Umberto - rel. Consigliere
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
1) B.L. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1508/2005 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 21/12/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/10/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MASSAFRA Umberto;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GALATI Giovanni che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore Avv. Arco Felice, del Foro di Brescia, che insiste per l'accoglimento del ricorso.


Fatto

 


Con sentenza in data 21.12.2009 la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma di quella pronunziata in data 2.3.2005, all'esito del giudizio abbreviato, dal GUP del Tribunale di Brescia, previa valutazione con criterio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, riduceva la pena inflitta a B.L., riconosciuto colpevole del delitto di omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro in danno del figlio B.A. (commesso il (OMISSIS)) a mesi quattro di reclusione.
In particolare al B. era contestato di aver, nella sua qualità di titolare della impresa artigiana " B.L." e dunque anche responsabile nel settore prevenzione infortuni della stessa Ditta cagionato per colpa consistita in generica imprudenza e più specificatamente nella violazione di norme in materia di prevenzione e per la precisione violando il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 18, comma 3 perchè mancava di fornire a B.A. - assunto quale collaboratore familiare presso la ditta in esame - di una scala dotata di tutti i dispositivi di sicurezza idonei a impedire lo scivolamento infatti la scala in uso e di proprietà di B.L. era priva dei piedi antisdrucciolo, cosicchè B.A., che unitamente al padre si era recato presso il caseificio sociale R. in (OMISSIS) per trasportare e installare un silos per lo stoccaggio di mangimi per animali, saliva a piedi sulla scala per raggiungere la sommità del silos da sostituire al fine di collegare le estremità di gancio della gru, manovrata dal padre, perdeva l'equilibrio e cadendo sbatteva la testa al suolo riportando ferite tali da determinarne il decesso; nonchè violando il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 19, per avere mancato di assicurare o comunque per avere mancato di disporre che la stessa fosse trattenuta al piede da altra persona presente sui luoghi in maniera sicura; nonchè nell'avere violato il D.P.R. n. 547 del 1955, art. 20, comma 2, lett. d) perchè mancava di disporre che la scala venisse vigilata da terra da personale.


I fatti secondo l'impugnata sentenza.

Presso la sede del caseificio sociale R. di (OMISSIS) erano in corso i lavori di sostituzione di un silos verticale per lo stoccaggio di mangimi per animali, affidati alla ditta individuate artigiana B. e materialmente svolti da padre e figlio, i quali avevano già provveduto a trasportare all'esterno il silos vecchio e stavano per scaricare il silos nuovo, che si trovava, sdraiato in senso orizzontale, sul pianale dell'autocarro ditta medesima.
Dopo che erano già state slegate le funi che trattenevano il silos ed erano state abbassate le sponde perimetrali dell'autocarro, B.L. si era posizionato nei pressi della centralina di comando della gru, mentre B.A. aveva prelevato una scala d'alluminio e, dopo averla appoggiata al fianco del silos, in posizione opposta a quella ove si trovava il padre, aveva cominciato a salire sulla sommità del manufatto per collegare il gancio di collegamento della gru all'apposito anello posto sul silos.
A quel punto il giovane era caduto al suolo, riportando gravi lesioni che ne cagionavano la morte.

Deduce il ricorrente:
1. la violazione di legge con particolare riguardo all'art. 40 c.p., art. 41 c.p., comma 2, art. 42 c.p., comma 3 e D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, comma 3 bis, assumendo, fra l'altro, che "nessun dovere di vigilanza fosse addebitabile all'imputato, il quale poteva ragionevolmente confidare che il figlio (che dalla sua postazione non poteva neppure vedere) si facesse coadiuvare dai due operai e utilizzasse anche mezzo e procedimento corretti ed idonei";

2. la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione anche nella forma del travisamento della prova, contestando la tesi della Corte che aveva sostenuto che il povero A. fosse inesperto, essendo stato assunto da poco tempo.
Rilevava, poi, l'omessa motivazione: su quanto l'imputato potesse fare dalla postazione in cui si trovava per avviare il motore e l'operatività del braccio oleodinamico per il sollevamento del silo; sulla semplicità dell'operazione de qua che non era nuova alla vittima, come riferito dall'imputato al teste S.; sul fatto che poco prima era stato rimosso e distrutto altro silos con procedura analoga e con la collaborazione dei due B. senza problemi di sorta; sul ritrovamento di un gommino sul pianale del camion, talchè potrebbe ricavarsi che il distacco dello stesso si fosse prodotto poco prima dell'utilizzo della scala e se fosse stata comunicata la presenza di altra scala funzionante ed adeguata in azienda, dal figlio all'imputato, questi avrebbe certo imposto di adoperare tale scala; nulla la Corte aveva osservato circa l'adeguata informazione ricevuta dal giovane A. che aveva controfirmato i documenti di certificazione dei rischi e le istruzioni di lavoro, trasporto merci su strada;

3. e 4. la violazione di legge e la mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all'omessa concessione della richiesta conversione (rectius: sostituzione) della pena detentiva con quella pecuniaria L. n. 689 del 1981, ex art. 53, con revoca della sospensione condizionale.


Diritto

 

Il ricorso è inammissibile essendo le censure mosse (prevalentemente) aspecifiche e manifestamente infondate.


Invero, i primi due motivi di ricorso, in buona parte, ripropongono in questa sede le medesime doglianze rappresentate dinanzi al giudice di appello e da quello disattese con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile, nemmeno adeguatamente contestata dal ricorrente che ha qui ribadito le proprie tesi.
E deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. Infatti la mancanza di specificità del motivo dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, "ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità" (Cass. pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191 Rv. 216473 e successive conformi, quale: Sez. 2, 15.5.2008 n. 19951, Rv. 240109).

Per il resto, il primo motivo si traduce in un'affermazione del tutto insostenibile laddove rappresenta il ragionevole affidamento che poteva riporre l'imputato nell'accortezza e prudenza del figlio (benchè giovanissimo e assunto come collaboratore familiare artigiano da neanche un mese), negligendo di rammentare l'indefettibilità degli obblighi che comunque incombono sul datore di lavoro e titolare della posizione di garanzia (adombrando l'ipotetico alleggerimento della stessa per effetto del tenore del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, comma 3 bis come modificato dal D.Lgs. n. 106 del 2009 con "l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli (19, 20, 22, 23, 24 e 25) qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitarle unicamente agli stessi" che, però, presuppone proprio che "non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti", circostanza, questa, da escludere nel caso di specie).


Quanto al secondo motivo, va rammentato che il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto.

In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione (Cass. pen. Sez. 4, 19.6.2006, n. 38424).

Ne consegue che non ogni possibile incongruenza logica nell'apparato motivazione della sentenza di merito, è deducibile come vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), e, conseguentemente, censurabile in sede di legittimità: deve trattarsi di incongruenze logiche macroscopiche, assolutamente evidenti dalla lettura del provvedimento gravato, che rendano la conclusione raggiunta, per come giustificata, intrinsecamente contraddittoria e/o gravemente insufficiente, se non addirittura apodittica e le Sezioni Unite hanno ribadito che l'illogicità assume rilievo soltanto quando sia evidente, solo cioè se si configuri come una frattura nel discorso giustificativo, di entità tale da risultare percepibile ictu oculi (Cass. Sez. Un. 30.4.1997, n. 6402, Rv 207944).
Sicchè, il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non lo può definire il giudice di legittimità sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione: compito di questa, infatti, non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del giudice del merito, ma quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare l'incompiutezza strutturale della motivazione del verdetto impugnato; incompiutezza derivante dal fatto che il giudice del merito non ha tenuto presente fatti decisivi, di rilevo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata (Cass. pen., Sez. 4, 6.12.2007, n. 7712).

Le "omesse motivazioni" denunciate attengono chiaramente al merito, tendendo palesemente a prospettare una diversa lettura dei fatti quale già rappresentata con l'atto d'appello (con riferimento al tentativo di addebitare alla vittima oneri che gravavano sul padre e datore di lavoro) che è inibita in questa sede di legittimità.
Quanto alle ultime due censure, si deve rilevare che la motivazione addotta dalla Corte territoriale, benchè stringata, con riferimento alla sola gravità del fatto per negare la richiesta di sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, s'appalesa del tutto esaustiva ed adempiente all'obbligo motivazionale.


All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si ritiene equo determinare in Euro 300,00.

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 300,00 in favore della Cassa delle ammende.