LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SENESE Salvatore - Presidente -
Dott. CUOCO Pietro - Consigliere -
Dott. PICONE Pasquale - Consigliere -
Dott. STILE Paolo - Consigliere -
Dott. AMOROSO Giovanni - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
G.M.P., elettivamente domiciliata in roma VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell'avvocato DETTORI MASALA GIOVANNA ANGELA, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MINA ANDREA, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
AZIENDA OSPEDALIERA (OMISSIS), in persona del Direttore Generale pro tempore,elettivamente domiciliato in ROMA VIA CASSIODORO 9, presso lo studio dell'avvocato BLASI SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato NUZZO MARIO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 198/03 della Corte d'Appello di BRESCIA, depositata il 23/09/03 r.g.n. 349/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/07 dal Consigliere Dott. Giovanni AMOROSO;
udito l'Avvocato DETTORI MASALA;
udito l'Avvocato BLASI SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

               
Fatto


1. Con ricorso depositato il 12.7.1999 G.M.P. proponeva appello contro la sentenza del giudice del lavoro di Brescia che aveva rigettato la sua domanda diretta ad ottenere dall'azienda Ospedaliera (OMISSIS) il risarcimento del danno conseguente alle lesioni con postumi permanenti subite in occasione di un'aggressione patita ad opera di un ricoverato presso il Centro Residenziale Handicap.

Il primo Giudice aveva escluso profili di responsabilità a carico dell'Azienda, attesa l'imprevedibilità della condotta del ricoverato e sul punto si incentrava il gravame dell'appellante che riteneva non solo non correttamente valutate le prove assunte, ma errato il presupposto del giudice che aveva ritenuto che incombesse alla lavoratrice la dimostrazione che l'infortunio fosse prevedibile e prevenibile, essendo al contrario onere del datore di lavoro provare di non aver potuto impedire il fatto.

Si costituiva l'Azienda appellata chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.


2. Con sentenza del 12 giugno - 20 settembre 2003 la Corte d'appello di Brescia ha rigettato l'appello compensando tra le parti le spese di giudizio.

3. Avverso questa pronuncia la G. propone ricorso per cassazione con due motivi di impugnazione.
L'intimata azienda ospedaliera resiste con controricorso.

 


Diritto

 

1. Il ricorso è articolato in due motivi.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2047 c.c., della L. n. 180 del 1978, art. 6 ss., e degli artt. 2049, 2087, e 2043 c.c., nonchè vizio di motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia.
Sostiene che, contrariamente all'assunto dell'impugnata sentenza, nessuna prova liberatoria era stata fornita dalla datrice di lavoro.

Afferma che, ove fosse stato correttamente considerato il contenuto del diario clinico del paziente V., oligofrenico con disturbi di comportamento, autore dell'aggressione subita dalla ricorrente, la soluzione della controversia sarebbe stata diversa; da tale diario infatti emergeva che il V. aveva ripetutamente aggredito e procurato traumi e lesioni agli operatori.

La Corte d'appello ha omesso di considerare che il caso di specie doveva essere inquadrato nel disposto della L. n. 180 del 1978 cit., art. 6, che prevede il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza.
Deduce ancora che l'arbitrario comportamento del capo sala R. aveva dato causa all'evento occorso alla ricorrente con conseguente responsabilità dell'Azienda ex art. 2049 c.c..
Quanto poi alla responsabilità dell'Azienda ex art. 2087 c.c., la Corte d'appello aveva negletto gli elementi di responsabilità a carico dell'Azienda stessa, che non aveva provato di aver adottato tutti gli strumenti e le misure idonee a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori.
Lamentava infine la mancata applicazione dell'art. 2050 c.c., atteso che l'assistenza a pazienti oligofrenici poteva considerarsi attività pericolosa.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 420 c.p.c., nonchè il vizio di motivazione dell'impugnata sentenza in ragione dell'ingiustificata mancata ammissione di ulteriori testi indicati.

2. Il ricorso - i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente - è fondato.

3. La pronuncia della Corte dell'appello, confermativa della sentenza di primo grado, si fonda sul convincimento che l'Azienda, datrice di lavoro, avrebbe dato la prova liberatoria della sua allegata responsabilità avendo praticato, a mezzo di suoi sanitari, una terapia di sedazione del paziente V., oligofrenico con disturbi di comportamento, autore dell'aggressione subita dalla ricorrente.

"Non si comprende - afferma la Corte territoriale - quale adozione di particolari misure atte a preservare l'integrità fisica dei propri dipendenti si possano ipotizzare e quindi non può evidentemente parlarsi di responsabilità ex art. 2087 c.c.".
La Corte d'appello ha così "corretto" la motivazione della sentenza di primo grado che, pur pervenendo al medesimo convincimento di infondatezza della domanda della ricorrente, aveva diversamente ragionato perchè aveva ritenuto che fosse mancata la prova che l'infortunio occorso alla ricorrente fosse stato "prevedibile e prevenibile", mostrando così di ritenere (erroneamente) che vi fosse un onere probatorio a carico della lavoratrice in ordine alla sussistenza di una colpa o negligenza della datrice di lavoro; laddove invece era quest'ultima - come correttamente ha ritenuto la Corte d'appello - che doveva dare la prova liberatoria ex art. 2087 c.c..

E la Corte d'appello - pur limitandosi ad un mero nuovo apprezzamento delle medesime risultanze probatorie del processo - ha ritenuto che in positivo questa prova fosse stata data.


Ma la Corte d'appello non solo ha riletto le risultanze istruttorie correggendo la valutazione del giudice di primo grado - ossia ha ritenuto che sussistesse in positivo la prova liberatoria dell'Azienda e non già che mancasse la prova della sua colpa - ma in realtà - non diversamente dal giudice di primo grado - ha seguito un percorso non del tutto coerente con la difesa dell'Azienda.

La quale, come risulta dal presente controricorso, ha inizialmente resistito alla domanda della ricorrente allegando che quest'ultima "con evidente superficialità e contravvenendo alle norme comportamentali che la funzione ricoperta le imponeva, nonchè non rispettando il protocollo dettato dal Medico responsabile per il trattamento del paziente, ometteva, nell'operazione di apertura dello stanzino e di trasferimento del paziente V., di ricorrere al collega e, da sola, effettuava l'operazione".

Ossia la stessa Azienda ha sostenuto che esisteva un protocollo di comportamento, atteggiantesi a misura di sicurezza per il personale sanitario ed infermieristico, che prevedeva che il paziente, dopo la sedazione nella stanza di contenimento, dovesse essere preso in carico da due operatori.

La ricorrente G. aveva violato colposamente questo protocollo e quindi - sosteneva in sostanza l'Azienda - l'infortunio occorsole era da addebitare a sua esclusiva colpa.
Pertanto può già dirsi che non giova alla coerenza dell'impugnata sentenza aver ritenuto raggiunta per l'Azienda la prova liberatoria della responsabilità, quando l'Azienda stessa in realtà mostrava di ritenere che una misura di sicurezza più puntuale (il protocollo di comportamento) era stata adottata, ma che nella specie questa non era stata rispettata per mera ed esclusiva colpa della stessa G..


Dalla stessa sentenza impugnata emergono poi elementi di fatto, giustamente valorizzati dalla difesa della ricorrente, che si pongono in contraddizione con il raggiunto convincimento della sussistenza della prova liberatoria per l'Azienda.

Risulta infatti:

a) che il paziente V., quello stesso pomeriggio dell'infortunio, aveva aggredito un'altra infermiera ( Va.) sicchè versava già in una situazione critica, valutabile al fine della qualificazione come "imprevedibile" dell'evento dannoso poco dopo patito dalla ricorrente;

b) che l'organico delle infermiere era incompleto al momento dell'infortunio perchè la stessa Va., vittima della prima aggressione, era stata autorizzata ad andare a casa, circostanza questa rilevante al fine della valutazione del fatto che fu la sola infermiera G., senza la collaborazione di altro operatore, a prendere in carico il V. dopo la sedazione;

c) che il V. era stato fatto uscire dalla stanza di contenimento perchè non vi poteva rimanere la notte in quanto la stessa avrebbe dovuto essere occupata da altro paziente autolesionista, circostanza questa che denunciava in sostanza un'insufficiente disponibilità di locali di tal genere.

4. Ma il punto maggiormente critico della sentenza impugnata risiede in un errore di prospettiva - che costituisce errore di diritto - nell'applicazione degli artt. 2047 e 2087 c.c..
La sentenza è tutta centrata sulla prima norma che riguarda un'ipotesi speciale di responsabilità extracontrattuale per danno cagionato dall'incapace, che non è risarcibile - salva l'indennità di cui al secondo comma - se chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace abbia provato, ex art. 2047 c.c., comma 1, di non aver potuto impedire il fatto e, ai fine del raggiungimento di tale prova liberatoria, può essere decisiva la prova che l'evento dannoso sia stato del tutto imprevedibile.
L'art. 2087 c.c., prevede invece uno specifico obbligo contrattuale per il datore di lavoro, quale disposizione di chiusura del sistema antifortunistico, e quindi individua una fattispecie di responsabilità contrattuale: l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Ciò comporta che mentre può essere il fatto del tutto imprevedibile ad esonerare (da responsabilità extracontrattuale ex art. 2047 c.c.) chi è tenuto alla sorveglianza, dell'incapace, è invece esclusivamente la prova in positivo di aver adottato tutte le possibili misure di protezione del lavoratore ad esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c..

I due piani non sono coincidenti perchè il rischio derivante dall'attività svolta dal datore di lavoro - di norma, rischio d'impresa - elettivamente assorbe eventi dannosi che, riferibili a tale attività, si presentino con carattere di imprevedibilità, e che, in tanto non sono fonte di danno risarcibile per il lavoratore che li abbia subiti, in quanto risulti in positivo la prova dell'adozione di tutte le possibili misure preventive degli infortuni sul lavoro.
Invece la Corte d'appello ha in sostanza assimilato le due fattispecie e, una volta ritenuta raggiunta la prova liberatoria ex art. 2047 c.c., l'ha valorizzata anche come prova dell'adempimento delle obbligazioni di protezione di cui all'art. 2087 c.c., mentre quest'ultima non può inferirsi ex se dalla prova dell'evento imprevedibile rilevante ex art. 2047 c.c., comma 1.
In altre parole - calando questi rilievi nella fattispecie concreta - le possibili reazioni aggressive dei pazienti oligofrenici di un Centro di igiene mentale rientrano di norma nel rischio assunto dal Centro con l'espletamento dell'attività di assistenza agli stessi; se poi tale attività è esercitata in forma imprenditoriale, si tratta null'altro che del rischio d'impresa.

Una reazione aggressiva "imprevedibile" - come quella ritenuta tale dalla Corte d'appello - non esonera ex se il datore di lavoro; occorre anche la prova in positivo dell'adozione di tutte le misure di sicurezza e di prevenzione, quali protocolli di comportamento per il personale sanitario nel caso di stato di agitazione di tali pazienti, astrattamente idonee ad evitare danni ai lavoratori.
Quindi la Corte d'appello non poteva arrestarsi a considerare che il paziente era stato sedato e tanto bastava perchè dopo la sedazione appariva "tranquillo" talchè la successiva reazione aggressiva doveva considerarsi "imprevedibile". Invece - nei limiti delle allegazioni probatorie dell'Azienda resistente - avrebbe dovuto verificare quale era il protocollo di comportamento per il personale infermieristico - specifica misura di prevenzione di tale genere di eventi dannosi - nel caso particolare di pazienti oligofrenici con tendenze aggressive e se l'attività di sedazione, rivelatasi ex post insufficiente, fosse stata correttamente eseguita.

5. Il ricorso quindi, assorbito il secondo motivo, va accolto nei termini sopra esaminati e conseguentemente l'impugnata sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano che farà applicazione del seguente principio di diritto: il datore di lavoro, la cui attività consista tra l'altro nel trattamento e cura di pazienti oligofrenici, soggetti incapaci della sorveglianza dei quali egli è tenuto erga omnes ex art. 2047 c.c., è specificamente responsabile ex art. 2087 c.c., dell'infortunio sul lavoro subito dal personale sanitario per comportamenti aggressivi degli stessi pazienti ove non provi in positivo di aver adottato tutte le più idonee misure di prevenzione che, secondo la particolarità di tale attività, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, non essendo sufficiente, per l'esonero da responsabilità, la mera prova dell'imprevedibilità del comportamento aggressivo del paziente.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2007.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2007