Categoria: Cassazione penale
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Responsabilità del titolare dell'impresa individuale C.a. impianti, per imprudenza, negligenza, imperizia nonché per inosservanza di leggi e regolamenti, in particolare del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 375, comma 1: ometteva infatti di adottare misure ed attrezzature e di disporre opere provvisionali tali da consentire la riparazione dell'impianto climatizzatore istallato presso la sede di una società in condizioni il più possibile di sicurezza, ponendo in essere le condizioni fattuali perchè il dipendente F.G., chiamato a sostituire un condizionatore, salito sul tetto senza che fosse stata predisposta alcuna precauzione atta ad evitare il pericolo di caduta, pericolo determinato dalla realizzazione del tetto in eternit non calpestabile e dalla mancanza di parapetti, rovinasse al suolo.

 

Nell'occorso F.G. subiva lesioni personali consistite in "frattura e lussazione avambraccio sx e polso dx" guarite in circa nove mesi.

 

Ricorso in Cassazione - Inammissibile.

 

La Corte afferma che "deve ritenersi inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. Infatti la mancanza di specificità del motivo dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, "ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità"."

 

"Infatti, la Corte territoriale ha evidenziato, con motivazione oltremodo articolata e del tutto esaustiva, sulla scorta sia della deposizione del teste oculare L. sia della stessa documentazione prodotta (dalla fattura emergeva che la richiesta con gru cestello fu fatta il giorno dopo il fatto), che non era previsto l'uso del camion con il cestello, bensì, come sempre, era stata adoperata la scala appositamente portata per salire sul tetto. Non risultava, inoltre, provata la tesi difensiva secondo cui l'infortunato F.G. avrebbe disatteso precise disposizioni del fratello imprenditore e di certo non si verteva in ipotesi di decisione estemporanea dell'infortunato non trattandosi di comportamento avulso dal processo produttivo e dalle mansioni attribuite nonchè imprevedibile."


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ili .mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco - Presidente

Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere

Dott. MASSAFRA Umberto - rel. Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

Dott. MONTAGNI Andrea - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
 

sentenza


sul ricorso proposto da: 1) F.O., N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2867/2008 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 06/11/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del   14/10/2010  la   relazione fatta   dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Cedrangolo Oscar, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

 

 

 

Fatto

 

Ricorre per Cassazione il difensore di fiducia di F.O. avverso la sentenza emessa in data 6.11.2009 dalla Corte di Appello di Firenze che parzialmente riformava, con la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria e applicazione dell'indulto, quella in data 20.11.2007 del Tribunale di Prato che aveva condannato il F., con circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena di mesi due di reclusione (con entrambi i benefici di legge) avendolo riconosciuto colpevole del delitto di cui all'art. 590 c.p., comma 3 e art. 583 c.p., comma 1, n. 1, perchè, secondo l'imputazione, in qualità di titolare dell'impresa individuale C.a.impianti, per imprudenza, negligenza, imperizia nonché per inosservanza di leggi e regolamenti, in particolare del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 375, comma 1, omettendo di adottare misure ed attrezzature e di disporre opere provvisionali tali da consentire la riparazione dell'impianto climatizzatore istallato presso la sede della società ABC a r.l., sita in (OMISSIS), in condizioni il più possibile di sicurezza, poneva in essere le condizioni fattuali perchè il dipendente F.G., chiamato a sostituire un condizionatore, salito sul tetto senza che fosse stata predisposta alcuna precauzione atta ad evitare il pericolo di caduta, pericolo determinato dalla realizzazione del tetto in eternit non calpestabile e dalla mancanza di parapetti, rovinasse al suolo. Nell'occorso F.G. subiva lesioni personali consistite in "frattura e lussazione avambraccio sx e polso dx" guarite in circa nove mesi.

Con l'aggravante di aver cagionato una malattia di durata superiore ai quaranta giorni (commesso il (OMISSIS)).

Il ricorrente deduce i seguenti motivi.

 

1. La violazione di legge ed erronea applicazione dell'art. 590 c.p., comma 3, art. 41 c.p., comma 1, art. 41 c.p., comma 2, avendo la Corte ingiustificatamente rigettato la tesi difensiva relativa alla sussistenza di un comportamento abnorme del dipendente costituente causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento e dunque idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta addebitata all'imputato e l'evento lesivo: F.G., infatti, aveva disatteso le direttive (anche in materia di sicurezza) del datore di lavoro sia circa il tipo di attività da svolgere, sia circa le modalità di esecuzione (e cioè solo attività preparatoria al lavoro che avrebbe dovuto essere svolto pochi giorni più tardi con l'ausilio della gru); inoltre, la condotta dell'infortunato era stata abnorme non avendo seguito l'ordinaria procedura esecutiva del lavoro in questione.

 

2. La violazione di legge ed erronea applicazione dell'art. 42 c.p. assumendo l'assenza di colpa del datore di lavoro e la carenza di motivazione sul punto attesa l'iniziativa autonoma ed imprevedibile, e quindi non prevenibile (poichè il datore e fratello dell'infortunato non avrebbe potuto evitarlo ex art. 2087 c.c.), del lavoratore di procedere all'attività di manutenzione e sostituzione senza aspettare l'ausilio della gru imposto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 375, comma 1.3.

La violazione di legge ed erronea applicazione dell'art. 590 c.p., comma 3, assumendo la mancanza della necessaria condizione di procedibilità per il delitto di cui all'art. 590 c.p., u.c., in quanto, potendosi ricondurre la responsabilità del datore di lavoro ad una generica culpa in vigilando (poichè il giorno del fatto la gru non era presente in quanto il lavoro non avrebbe espletato in quella occasione), il delitto diveniva procedibile a querela di parte, che difettava.

4. La violazione di legge ed erronea applicazione dell'art. 133 c.p., dolendosi dell'eccessiva onerosità della pena inflitta.

 

Diritto

 

 

Il ricorso è inammissibile.

 

Le prime due censure sono palesemente aspecifiche essendosi limitate a riproporre pedissequamente in questa sede le medesime doglianze rappresentate dinanzi al giudice di appello e da quello disattese con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile.

 

E deve ritenersi inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. Infatti la mancanza di specificità del motivo dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, "ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità" (Cass. pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191 Rv. 216473 e successive conformi, quale: Sez. 2, 15.5.2008 n. 19951, Rv. 240109).

Infatti, la Corte territoriale ha evidenziato, con motivazione oltremodo articolata e del tutto esaustiva, sulla scorta sia della deposizione del teste oculare L. sia della stessa documentazione prodotta (dalla fattura emergeva che la richiesta con gru cestello fu fatta il giorno dopo il fatto), che non era previsto l'uso del camion con il cestello, bensì, come sempre, era stata adoperata la scala appositamente portata per salire sul tetto. Non risultava, inoltre, provata la tesi difensiva secondo cui l'infortunato F.G. avrebbe disatteso precise disposizioni del fratello imprenditore e di certo non si verteva in ipotesi di decisione estemporanea dell'infortunato non trattandosi di comportamento avulso dal processo produttivo e dalle mansioni attribuite nonchè imprevedibile.

 

Per altro verso, va rammentato che per costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di sindacato del vizio della motivazione (che poi rappresenta la principale doglianza), il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Cass. pen. Sez. Un. 13.12.1995, n. 930, Rv. 203428; Sez. 1, 4.11.1999, n. 12496, Rv. 214567).

In tale prospettiva, con tranquillante uniformità, si afferma che la Corte di Cassazione non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, nè può stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento" (cfr. Cass. pen. Sez. 4, 2.12.2003, n. 4842, Rv. 229369).
Né questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, con la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche "da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame".

Questo riferimento va evidentemente interpretato in un senso che non privi di qualsiasi significato il limite della contestualità imposto dalla stessa disposizione; e quindi va interpretato come relativo solo agli atti dai quali derivi un obbligo di pronuncia che si assuma violato dal giudice del merito (Cass. pen. Sez. 5, 12.4.2006, n. 16956, Rv. 233822). Quindi nessuna delle argomentazioni addotte dal ricorrente con i primi due motivi, che mirano esplicitamente a sollecitare una radicale rivisitazione del materiale probatorio raccolto con una rappresentazione ricostruttiva dei fatti già disattesa dal giudice di appello con congrua motivazione, può essere oggetto di valutazione da parte di questa Corte di legittimità.

 

Ne consegue la manifesta infondatezza della terza censura, dal momento che correttamente è stata contestata e ritenuta la ricorrenza degli estremi dell'aggravante della violazione delle norme a tutela della prevenzione degli infortuni sul lavoro.

 

Manifestamente infondata è, altresì, anche l'ultima censura.

Invero, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittali rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, qualora il giudice abbia adempiuto all'obbligo di motivazione: obbligo che nella specie risulta essere stato ampiamente assolto dal giudice di primo grado; peraltro la Corte territoriale ha accolto la richiesta alternativa e subordinata contenuta nell'atto di appello, di sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, con ciò sostanzialmente ritenendo la congruità della pena determinata dal primo giudice.

 

All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00.

 

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.