Categoria: Giurisprudenza amministrativa (CdS, TAR)
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CONSIGLIO DI STATO

Sezione Consultiva per gli Atti Normativi

Adunanza del 4 aprile 2005

N. della Sezione: 11996/04

OGGETTO:
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI.
Schema di decreto legislativo per ti riassetto delle disposizioni vigenti in materia di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori, a norma dell'art. 3 della legge 29 luglio 2003, n. 229.


La Sezione
Vista la relazione prot. n. 98711/ 26/1/2 in data 1° dicembre 2005, pervenuta il 16 dicembre successivo, con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali chiede il parere in merito allo schema di regolamento in oggetto;
Visio il parere interlocutorio espresso nell'adunanza dei 31 gennaio 2005;
Vista la relazione integrativa trasmessa dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con nota prot. n. 100180/26/1/2 in data 15 marzo 2005, pervenuta il 18 marzo successivo;
Esaminati gli atti e uditi i relatori ed estensori Consiglieri Alessandro Paino, Carmine Volpe. Luigi Carbone, Roberto Chiappa, Roberto Garofoli e Carlo Deodato:

PREMESSO E CONSIDERATO:
1. Lo schema di decreto legislativo in esame sottopone al parere del Consiglio di Stato il testo di decreto legislativo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di sicurezza, e tutela della salute dei lavoratori, in attuazione della delega contenuta nell'art. 3 della legge 29 luglio 2003, n. 229 e in recepimento di alcune direttive comunitarie in materia.
Sullo schema la Sezione ha espresso parere interlocutorio nell'adunanza del 31 gennaio 2005, ponendo in rilievo che il riassetto delle disposizioni vigenti riguarda materie espressamente nominate dall'art 117, comma 3, della Costituzione fra quelle di legislazione concorrente Stato-Regioni ("tutela e sicurezza, del lavoro", compresa nel citato comma 3 al pari della "tutela della salute"), in cui la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservati alla legislazione dello Stato.
Trattandosi del primo "codice" concernente la disciplina di una materia di legislazione concorrente, è stato sottolineato il particolare rilievo del parere della Conferenza unificata di cui all'art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, all'epoca non ancora acquisito.
La Sezione ha sospeso, quindi, l'omissione del parere in attesa della trasmissione di quello della Conferenza e delle eventuali successive modifiche allo schema di regolamento in oggetto, formulando peraltro alcune osservazioni di carattere generale, al fine di facilitare la valutazione degli aspetti in cui assume rilievo il riparto di competenze normative tra Stato e Regioni e di accelerare l’iter di redazione dello schema di decreto legislativo con riferimento ad altre questioni di centrale importanza nel delicato riassetto della disciplina in materia.
In data 15 marzo 2005 il Ministero dei lavoro e delle politiche sociali ha trasmesso, in uno alla relazione integrativa, il parere del 3 marzo 2005 reso dalla Conferenza Stato, Regioni e Province autonome con i relativi allegati.
Nel corso dell'esame dello schema, da parte della Conferenza unificata le Regioni hanno presentato una serie di emendamenti e solo su alcuni il Ministero ha manifestato la disponibilità all'accoglimento, proponendo per altre disposizioni la riformulazione del testo.
Come si desume dalla premesse del parere della Conferenza unificata, il Ministero proponente ha subordinato l’accoglimento degli emendamenti concordati a livello tecnico al parere favorevole delle Regioni, ribadendo di non condividere una serie di altri emendamenti proposti dalle stesse Regioni.
Tuttavia, il menzionato parere è stato espresso in senso favorevole dall'ANCI, dall’UPI e dall'UNCEM e in senso negativo dalle Regioni, ad eccezione della Regione Lazio.
Il parere negativo delle Regioni ha determinato il non avveramento della condizione cui l'Amministrazione aveva subordinato l’accoglimento degli emendamenti concordati e la riformulazione di alcune disposizioni.
Pur avendo il Ministero manifestato, nella relazione integrativa, la disponibilità a modificare alcune disposizioni, tale modifica non è allo stato intervenuta; il testo dello schema su cui la Sezione è chiamata ad esprimere il parere è pertanto quello trasmesso in data 16 dicembre 2004.

2. Va in primo luogo esaminata la questione (oggetto del parere interlocutorio della Sezione) attinente al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni in una materia – “tutela e sicurezza del lavoro” - rientrante tra quelle di legislazione concorrente, con riferimento alla quale il Ministero non ha accolto l'osservazione con cui si chiedeva di rendere esplicita, nel testo del decreto, l'appartenenza di ciascuna disposizione ad una delle seguenti tipologie di norme: disposizioni contenenti principi fondamentali, disposizioni di dettaglio di recepimento delle direttive comunitarie, disposizioni di dettaglio previgenti.
Nella relazione integrativa il Ministero ha fatto presente che il contenuto dello schema investe diversi campi di intervento, molti dei quali rientranti nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato: ordinamento civile, tutela della concorrenza, determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
L'Amministrazione richiama la recente sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2005 al fine di evidenziare che qualora la finalità della tutela e della sicurezza del lavoro si realizzi con strumenti civilistici diretti a disciplinare i rapporti intersoggettivi tra datore di lavoro e lavoratore si rientra nella materia dell'ordinamento civile, mentre quando si fa ricorso a interventi di carattere amministrativo o si incide su ambiti diversi, quali la formazione, l'informazione e la vigilanza, si ricadrebbe nell'ambito della concorrente competenza regionale.
Secondo il Ministero, dall'intero testo solo i residuali ambiti, di cui ai Capi VII (Informazione e formazione dei lavoratori) e VIII (Disposizioni concernenti la pubblica amministrazione) del Titolo I rientrerebbero nella competenza concorrente Stato-Regioni; viene inoltre preannunciata una modifica in tal senso dell'art. 1 dello schema, allo stato non intervenuta.
È necessario pertanto esaminare il tema, introdotto dall'Amministrazione nella nota di risposta al parere interlocutorio, valutando se la materia disciplinata dallo schema di decreto rientri tra quelle a legislazione statale esclusiva ovvero tra quelle a legislazione concorrente.
La Sezione ritiene che il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2005, contenuto nella relazione integrativa, non consenta di superare le osservazioni già svolte nel parere interlocutorio.
Con la citata sentenza la Corte costituzionale ha esaminato i ricorsi proposti da diverse Regioni avverso la legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro) ed il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30).
Partendo dal presupposto secondo cui la nozione di "principio fondamentale", che costituisce il discrimine nelle materie di competenza legislativa concorrente tra attribuzioni statali e attribuzioni regionali, non ha e non può avere i caratteri di rigidità e di universalità, perché le "materie" hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo, la Corte ha precisato che, in sede di concreta elaborazione delle discipline di settore, le stesse materie di legislazione concorrente possono presentare punti di contatto e di interferenza con le tipiche materie, in specie quelle a connotazione trasversale, ascritte alla potestà legislativa esclusiva dello Staro: così come può riscontrarsi l'interferenza tra norme rientranti in materie di competenza esclusiva, spettanti alcune allo Stato ed altre alle Regioni.
In particolare, nella citata sentenza n. 50 del 2005, la Corte ha osservato che la disciplina dei servizi per l'impiego, pur afferendo la materia della "tutela e sicurezza del lavoro", può in concreto involgere materie di pertinenza legislativa, statale esclusiva; ed invero, essendo i servizi per l'impiego preordinati alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l'esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.
Parimenti, la disciplino dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.); ugualmente - ha osservato la Corte - la disciplina intersoggettiva di qualsiasi rapporto di lavoro rientra nella materia "ordinamento civile", di competenza esclusiva dello Stato.
Dalla citata sentenza si può quindi ricavare l’esistenza, proprio in relazione alla materia di legislazione concorrente della "tutela e sicurezza del lavoro", di connessi ambiti di legislazione esclusiva dello Stato e di conseguenti possibili interferenze tra potestà legislativa statale e regionale.
Tale concorrenza di competenze può determinare interferenze tra le competenze legislative statali e regionali, per la cui composizione la Costituzione non prevede espressamente un criterio.
La Corte, con specifico riferimento alle ipotesi di interferenza tra disposizioni rientranti in materie di competenza esclusiva, spettanti alcune allo Stato ed altre alle Regioni, richiama sul punto il principio di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente di avere riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, nonché quella della prevalenza (già enunciato nella sentenza n. 370 del 2003), qualora appaia evidente l'appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre.
Nella relazione integrativa l'Amministrazione sembra ritenere che l'applicazione del criterio della prevalenza consenta di ricondurre nell'ambito della legislazione esclusiva dello Stato la maggior parte delle disposizioni contenute nello schema, ad eccezione dei Capi VII (Informazione e formazione dei lavoratori) e VIII (Disposizioni concernenti la pubblica amministrazione) del Titolo I, residualmente rientranti nella competenza concorrente Stato-Regioni.
Sempre secondo l'Amministrazione, sulla base dei principi affermati con la sentenza n. 50 del 2005, la maggior parte delle disposizioni dello schema costituirebbero strumenti civilistici di regolazione del rapporto dì lavoro, introdotti per perseguire la finalità della tutela e della sicurezza sul lavoro, con conseguente appartenenza alla materia dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.
Al riguardo, si osserva che, a differenza delle leggi esaminate dalla Corte con la sentenza n. 50 del 2005, nel caso in esame non si è, in linea di massima, in presenza di una normativa riconducibile, in via diretta a indiretta, alla disciplina intersoggettiva del rapporto di lavoro.
Le prescrizioni finalizzate alla tutela e alla sicurezza della salute dei lavoratori non costituiscono, infatti, il frutto dell'autonomia contrattuale delle parti, ma vengono eteroimposte per finalità diverse da quelle, rientranti nell'ordinamento civile, relative alla predetta disciplina; si tratta di prescrizioni che, pur riverberandosi sul rapporto di lavoro, riguardano il profilo specifico della, sicurezza e concorrono a determinare le soglie inderogabili di cui l'ordinamento intende assicurare il rispetto.
Anche, pertanto, a ritenere il criterio della prevalenza, indicato dalla Corte nella sentenza n. 50 del 2005, applicabile pure ai casi di interferenza tra disposizioni rientranti in materie di legislazione esclusiva dello Stato ed altre appartenenti alla legislazione concorrente, non sembra potersi giungere a ritenere che il nucleo essenziale del complesso normativo in esame appartenga alla materia dell'ordinamento civile.
Né può essere invocata la prevalenza di altra "materia" di legislazione esclusiva dello Stato, quale quella inerente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale o quale la tutela della concorrenza, trattandosi di materia "trasversali", che al più possono riguardare aspetti specifici e puntuali dello schema.
Deve, pertanto, ritenersi che dallo stesso oggetto del decreto, oltre che dalla lettura delle singole disposizioni, emerga come il nucleo essenziale del complesso normativo appartenga alla materia "tutela e sicurezza del lavoro" e che solo in alcuni, ambiti, comunque non puntualmente e specificamente individuati nello schema, sia configurabile una connessa, competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Quanto all'ulteriore criterio indicato dalla Corte nella sentenza n. 50 del 2005, si osserva che il fallimento del tentativo di raggiungere una soluzione concordata in sede di Conferenza unificata e il motivato parere negativo espresso dalle Regioni con la sola eccezione della Regione Lazio dimostrano come, in concreto, non abbia potuto operare il principio della leale collaborazione per la composizione delle interferenze.
Pur non potendo considerarsi un eventuale parere favorevole della Conferenza unificata risolutivo per il superamento di tutti i problemi di costituzionalità, il recepimento di alcune osservazioni delle Regioni avrebbe consentito di risolvere parte delle problematiche appena evidenziate.
Le osservazioni che precedono, se da un lato non consentono di accedere in linea generale alla tesi prospettata dall'Amministrazione riferente, dall'altro evidenziano che la presenza, nello schema in esame, di eventuali, limitati, ambiti riconducibili alla esclusiva competenza legislativa statale deve costituire oggetto di puntuale, specifica ed analitica indicazione.
Una volta identificati tali ambiti, l'Amministrazione dovrà procedere nel rispetto delle osservazioni svolte infra, sub n. 3.

3. Alla luce di quanto precede, la Sezione ritiene di dover confermare quanto già rilevato nella pronuncia interlocutoria.
Si osserva, innanzitutto, che i criteri di delega fissati dall'art. 3 della legge n. 229 del 2003 devono necessariamente essere letti alla luce del nuovo quadro costituzionale: tale lettura "costituzionalmente orientata" è imposta non solo dall'espresso richiamo al "rispetto delle competenze previste dall'articolo 117 della Costituzione", contenuto nel criterio di delega di cui alla lettera i) del comma 1 del citato art. 3. ma soprattutto in considerazione del principio di gerarchia delle fonti, che impone una interpretazione delle norme di rango primario compatibile con quelle costituzionali sovraordinate.
Confermato che la valutazione del Consiglio di Stato, nella sede consultiva sugli atti normativi, non può ovviamente estendersi alle scelte operate dal Parlamento in sede di delega, va rilevato che i criteri di delega contenuti nel citato art. 3 della legge n. 229 del 2003 non si pongono in contrasto con l'art. 117 della Costituzione, che affida al legislatore statale il compito di determinare i principi fondamentali nella materia in esame.
Sì è infatti in presenza di criteri che per lo più attengono ai principi fondamentali della materia, ad ambiti di legislazione esclusiva dello Stato (ad esempio, per le sanzioni penali) o alla ricognizione con mero riordino delle disposizioni di dettaglio vigenti, oltre che al necessario adeguamento alla normativa comunitaria.
Anche il criterio di cui alla lett. b) del citato art. 3, relativo alla determinazione delle misure tecniche ed amministrative, può essere ritenuto compreso tra gli ambiti riservati al legislatore statale, se inteso quale attribuzione allo Stato del potere di determinare standards di tutela da garantire sull'intero territorio nazionale e non derogabili in peius dalle Regioni e di stabilire, in via generale, le modalità di tale determinazione.

3.1. Devono a questo punto essere ribaditi i limiti cui il legislatore (delegato) statale deve attenersi, nell'attività di codificazione di una disciplina inerente ad una materia di legislazione concorrente.
È noto che il nuovo art. 117 della Costituzione ha configurato un modello di distribuzione delle competenze legislative fra Stato e Regioni diametralmente apposto rispetto a quello previsto anteriormente alla revisione del titolo V della Costituzione: il legislatore statale non vanta più una competenza generale, compressa solo nelle materie attribuite alla potestà piena o concorrente delle Regioni, ma è titolare del potere legislativo esclusivo nelle sole materie enumerate nel secondo comma dell'art. 117, mentre, nelle ulteriori materie indicate nel terzo comma, è riservata ad esso solo la determinazione dei principi fondamentali, restando affidata alle Regioni la disciplina di dettaglio.
Con le sentenze n. 282 del 2002 e n. 1 del 2004 la Corte costituzionale ha affermato che la nuova formulazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione induce a muovere «non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell'intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale», in quanto «la potestà legislativa dello Stato sussiste solo ove dalla Costituzione sia ricavabile un preciso titolo di legittimazione».
Nelle materie dì legislazione concorrente l'art. 117 della Costituzione consente al legislatore statale e a quelli regionali di intervenire in una stessa materia, ponendo un vincolo negativo di contenuto alla legge statale, che deve prevedere solo norme di principio, e un vincolo positivo di conformità alla legge regionale, che non può disattendere le norme statali di principio.
Nel previgente quadro costituzionale, la giurisprudenza costituzionale aveva ritenuto possibile che il legislatore statale dettasse disposizioni di dettaglio anche in materie di legislazione ripartita, sia pur riconoscendone, sulla base del principio di continuità, il carattere suppletivo e "cedevole" al sopraggiungere della legislazione regionale competente (Corte cost. n. 373 del 1995, n. 214 del 1985, n. 13 del 1974).
La stessa giurisprudenza affermava che le leggi regionali potevano essere abrogate, oltre che da leggi regionali sopravvenute, anche per effetto del sopravvenire di nuove leggi statali recanti norme di principio, con le quali, la legge regionale (di dettaglio) preesistente fosse incompatibile secondo il meccanismo previsto dall'art. 10 della legge n. 62 del 1953; veniva anche ammesso che la legge statale, allorquando interveniva a modificare i principi di disciplina di una materia di competenza regionale (con effetto eventualmente abrogativo delle leggi regionali preesistenti divenute incompatibili, ai sensi del citato art. 10 della legge n. 62 del 1953), potesse altresì, al fine di garantire l'attuazione immediata dei nuovi principi, recare una normativa di dettaglio, immediatamente operativa, idonea a disciplinare la materia fino a quando non venisse sostituita da una legislazione regionale conforme ai nuovi principi (v. Corte cost. a partire dalla sentenza n. 214 del 1985: sentenze n. 226 del 1986, n. 165 del 1989, n. 378 del 1995, n. 425 del 1999, n. 507 del 2000, ordinanza n. 106 del 2001; entrambi i principi ribaditi, con riferimento al sistema precedente, da Corte cost. n. 376 del 2002).
Si e così verificato che in molte materie, pur attribuite alla competenza regionale, la mancanza di una compiuta disciplina dettata da leggi regionali ha fatto sì che continuassero a spiegare efficacia leggi statali previgenti, non solo come fonti da cui si desumevano i principi fondamentali vincolanti per le Regioni, (secondo la previsione dell'art. 9, primo comma, della legge n. 62 del 1953, come modificato dall'art. 17 della legge n. 281 del 1970), ma anche come disciplina di dettaglio efficace in assenza dell'intervento del legislatore regionale.
Veniva infine ammesso che, anche in assenza di una specifica legge statale "cornice", i principi potessero essere desunti dalla legislazione vigente e ciò al fine di non precludere, per effetto dell'inerzia statale, l'esercizio delle competenze legislative delle Regioni; tale principio è stato ribadito dalla Corte anche con riferimento al quadro vigente, in cui "specie nella fase della transizione dal vecchio ai nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore” (Corte cost. n. 282 del 2002).
La Corte ha anche precisato che a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Titolo V, parte II, della Costituzione, in base al principio di continuità, restano in vigore le norme preesistenti, stabilite in conformità al passato quadro costituzionale, fino a quando esse non vengano sostituite da nuove norme dettate dall'autorità dotata di competenza nel nuovo sistema (Corte cost. n. 376 del 2002).

Al fine di adeguare l’ordinamento al mutato quadro costituzionale, l'art. 1 della legge n. 131 del 2003 ha conferito una delega al Governo per la ricognizione dei principi fondamentali della legislazione statale nelle diverse materie di competenza concorrente.
La legittimità di tale delega è stato vagliata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 280 del 2004, con cui è stata data una lettura "minimale" - ritenuta l'unica conforme a Costituzione - dell'oggetto della delega, in termini di "mera ricognizione" e non di innovazione-determinazione dei principi fondamentali vigenti. L'art. 1, comma 4, della legge n. 131 del 2003 è stato così ritenuto una norma dichiaratamente di "prima applicazione", finalizzata a predisporre un meccanismo di ricognizione dei principi fondamentali, allo scopo esclusivo di "orientare" l'iniziativa legislativa statale e regionale, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative ragionali, determinato dai mutamento del Titolo V della Costituzione, andrà a regime, e cioè fino al momento della "entrata in vigore delle apposite leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali".
Date le reciproche implicazioni tra attività ricognitiva e attività di coordinamento normativo, la Corte ha assimilalo tale delega a quella di compilazione dei resti unici - piuttosto frequenti a partire dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 - per il coordinamento e la semplificazione dì una pluralità di disposizioni vigenti in una determinata materia.
Con la stessa sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 5 e 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, perché con tali disposizioni il Governo era stato autorizzato, nella sostanza, ad operare una ricognizione dei principi di disciplina delle funzioni legislative statali di tipo “trasversale” attraverso un'attività ricognitiva che - secondo la Corte - rischiava di mascherare, in realtà, un'attività largamente discrezionale di ridisegno delle diverse materie regionali e delle varie funzioni ad esse attinenti, peraltro in assenza di appositi principi direttivi.
Per completezza si ricorda che l'art. 3 della stessa legge n. 131 del 2003 ha invece previsto la delega ad adottare testi unici meramente compilativi delle disposizioni legislative vigenti non aventi carattere di principio fondamentale (di carattere, quindi, cedevole) nelle materie di legislazione concorrente.

3.2. Il descritto quadro costituzionale pone un rilevante problema di carattere interpretativo: l’ammissibilità di una normativa statale di dettaglio in materie di legislazione concorrente, nei limiti e secondo i principi, descritti in precedenza ed affermati dalla Corte costituzionale con riferimento al sistema previgente.
La dottrina maggioritaria ritiene che l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, nel disporre che nelle materie di legislazione concorrente «spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato», pone una riserva di competenza che non può essere derogata senza incidere sul regime di validità della legge statale.
Rispetto al regime precedente andrebbe, infatti, considerato che lo Stato non dispone più, come già detto, della competenza legislativa generale e, di conseguenza, è privo di "titolo di legittimazione'' (termine utilizzato da Corte cost. n. 1 del 2004) ad adottare una normativa di dettaglio in materia concorrente, anche qualificando la stessa come cedevole rispetto alla sopravveniente disciplina regionale.
Con la citata sentenza n. 282 del 2002 la Corte sembra condividere tale principio, nel punto in cui viene affermato che la «nuova formulazione dell'art. 137, terzo comma, rispetto a quella previgente dell'art. 117, primo comma, esprime l'intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina».
È vero che con successive pronunce la Corte ha ritenuto costituzionalmente legittimo il recupero della competenza statale in ordine ad una legislazione di dettaglio, ma ciò è avvenuto sulla base del diverso principio di sussidiarietà, invocabile come titolo di competenza legislativa solo in ipotesi eccezionali e subordinatamente al rispetto di gravosi oneri procedimentali (Corte cost. n. 303 del 2003).
Né sembra invocabile a fondamento dell'opposta tesi, tendente a ritenere ancora ammissibile l'intervento statale con disposizioni cedevoli di dettaglio in materia di legislazione concorrente, la sentenza n. 196 del 2004 sul condono edilizio, in cui l'affermata applicabilità della normativa statale in assenza dell'esercizio della potestà legislativa regionale nel termine fissato appare essere stata dettata unicamente dall'esigenza di pronunciare una sentenza “auto-portante”, che non lasciasse lacune nella delicata disciplina del nuovo condono edilizio, inerente a materie non solo di legislazione concorrente ma anche di legislazione esclusiva dello Stato.

3.3. Traendo le conclusioni dal descritto quadro costituzionale e fatte salve le eventuali nuove indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale, si deve quindi ritenere che nelle materie di legislazione concorrente:
- il legislatore statale può adottare solo norme costituenti principi fondamentali e non anche disposizioni di dettaglio, benché cedevoli;
- le disposizioni di dettaglio preesistenti restano in vigore con il carattere della cedevolezza, fino a quando esse, non vengono sostituite da nuove norme dettate dall'autorità dotata di competenza nel nuovo sistema;
- in relazione a tali disposizioni di dettaglio preesistenti, lo Stato non dispone della legittimazione ad innovarle, ma può solo svolgere un'attività meramente ricognitiva, fermo restando il carattere di cedevolezza delle disposizioni stesse.
A tali principi va aggiunto che:
- nelle materie di legislazione concorrente, avendo lo Stato perduto la potestà regolamentare, le leggi previgenti, attributive della potestà regolamentare allo Stato, debbono ritenersi venute meno a seguito della emanazione del nuovo titolo V della Costituzione che esclude che lo Stato possa disciplinare le materie predette nella loro intera estensione e, per giunta, a livello regolamentare (Cons. Stato. Ad, gen., 11 aprile 2002. n. 1/2002; 17 ottobre 2002, n. 5/2002);
- in sede di attuazione delle direttive comunitarie nelle materie attribuite alle Regioni o alle Province autonome in via esclusiva o concorrente, il potere sostitutivo attribuito allo Stato in caso di inadempimento da parte delle Regioni presuppone la possibilità che lo Stato possa intervenire in via preventiva adottando una normativa di carattere cedevole e ad efficacia differita alla scadenza dell'obbligo comunitario di attuazione della direttiva nei confronti delle sole Regioni inadempienti (Cons. Stato, Ad. gen., 25 febbraio 2002, n. 2/2002).

3.4. Tornando allo schema in esame e al fine di trarre indicazioni dalle considerazioni svolte, si osserva che in esso sono comprese disposizioni, che costituiscono principi fondamentali, norme di dettaglio e disposizioni adottate in attuazione delle direttive comunitarie.
Come rilevato in precedenza, i limiti del legislatore statale (in questo caso del legislatore delegato) sono diversi a seconda della tipologia delle norme.
Nello schema è presente una norma (art. 1, comma 5) che, da un lato, afferma un generico carattere di cedevolezza per le disposizioni, non individuate, afferenti a materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome e, dall'altro lato, prevede una specifica clausola di cedevolezza e di efficacia differita per le disposizioni di recepimento delle direttive comunitarie.
Sulla base delle considerazioni svolte, è invece necessario indicare quali sono i principi fondamentali della materia o le disposizioni ricadenti in connessi ambiti di legislazione esclusiva dello Stato (sui quali la delega consente un intervento innovativo) e quali sono le disposizioni di dettaglio, oggetto di mera attività ricognitiva.
Inoltre, l'attribuzione del carattere di cedevolezza e di efficacia, differita a tutte le disposizioni di recepimento delle direttive comunitarie non appare conforme ai suddetti principi, in quanto alcune di tali disposizioni costituiscono principi fondamentali, che non devono essere né cedevoli né ad efficacia differita, ma devono invece essere rispettati dalle Regioni nell'esercizio della propria potestà normativa.
Appare quindi necessario rendere esplicita, nel testo del decreto, l'appartenenza di ciascuna disposizione ad una delle seguenti tipologie di norme:
1) disposizioni contenenti principi fondamentali, che possono essere anche di recepimento delle direttive comunitarie, o disposizioni afferenti a connessi ambiti di legislazione esclusiva dello Stato (secondo quanto detto in procedenza con riferimento alla sentenza n. 50 del 2005 della Corte costituzionale), per le quali è possibile un intervento innovativo alla luce dei criteri di delega fissati dall'art. 3 della legge n. 229 del 2003 e dall'art. 20 della legge n. 59 del 1997, come successivamente modificato e che costituisce anche criterio di delega, ai fini della semplificazione normativa, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge n. 229 del 2003;
2) disposizioni di dettaglio di recepimento delle direttive comunitarie, per le quali è consentito allo Stato un intervento innovativo, che abbia i caratteri della cedevolezza e dell'efficacia differita alla scadenza del termine di recepimento e per le sole Regioni inadempienti, descritti in precedenza, e già affermati, dal Consiglio dì Stato (Ad. gen., 25 febbraio 2002, n. 2/2002);
3) disposizioni di dettaglio previgenti, per le quali è consentita una mera attività ricognitiva e a cui deve essere attribuito il carattere di cedevolezza.
Tecnicamente tale obiettivo può essere conseguito modificando l'art. 1, comma 5, dello schema attraverso l'indicazione delle singole disposizioni di dettaglio rientranti nella legislazione concorrente Stato-Regioni ed aventi carattere cedevole e delle disposizioni di recepimento delle direttive comunitarie sempre di. dettaglio e sempre rientranti in ambiti non riservati allo Stato aventi il sopra descritto carattere della cedevolezza e dell'efficacia differita; le altre disposizioni non indicate espressamente saranno quelle costituenti principi fondamentali o attinenti ad ambiti di competenza riservati allo Stato.
Come già osservato sub n. 2 del presente parere, la possibilità di interferenze (nei sensi indicati da Corte cost. n. 50 del 3005) con materie di legislazione esclusiva dello Stato, se può giustificare la mancata attribuzione del carattere di cedevolezza alle disposizioni attinenti agli ambiti riservati allo Stato, non esonera il legislatore, soprattutto in sede di codificazione, di individuare tali ambiti assegnando una diversa efficacia, cedevole o meno, a seconda della natura delle singole disposizioni.
Del resto, il riassetto della disciplina, previsto nella delega, risponde all'esigenza di una semplificazione normativa e tale semplificazione deve contribuire a garantire il principio della certezza del diritto, soprattutto nell'attuale fase di attuazione di una riforma costituzionale, già ricca di incertezze, in parte risolte solo ex post grazie all'intervento della Corte costituzionale.
Non sembra, rispondere al suddetto principio di certezza del diritto lasciare all'interprete l'individuazione dei principi fondamentali e delle norme di dettaglio: tale modo di procedere non consente, già in questa fase consultiva, un adeguato controllo sulle innovazioni introdotte rispetto alla disciplina previgente e sull'attività di ricognizione effettuata per le disposizioni di dettaglio, con il rischio di mascherare in realtà un'attività di ridisegno di disposizioni, oggi sottratte alla competenza statale (rischio evidenziato, sotto altri profili, da Corte cost. n. 280 del 2004, cit.).

4. Nel citato parere interlocutorio la Sezione aveva rilevato anche la presenza nel testo di alcuni rinvii a decreti ministeriali, cui viene demandato il compito di definire specifici rispetti della materia (v. fra gli altri, l'art 20, commi 3, 4, 5 e 8; l'art. 40, commi 4 e 5), chiedendo all'Amministrazione di esprimere il proprio avviso in ordine alla natura, regolamentare o meno, di tali provvedimenti, tenendo presente che in materia di legislazione concorrente lo Stato ha ormai perduto la potestà regolamentare (v. Cons. Stato, Ad. gen. 11 aprile 2002, n. 1/2002: 17 ottobre 2002, n. 5/2002, cit.).
Nella relazione integrativa il Ministero, pur non prendendo posizione sulla natura regolamentare dei decreti ministeriali, ha invocato la sussistenza di una legislazione esclusiva dello Stato nelle materie della prevenzione incendi (art. 20 dello schema) e della statistica degli infortuni e delle malattie professionali a livello nazionale (art. 40), che attengono a competenze istituzionali di enti pubblici nazionali.
La Sezione non può non ribadire, sul punto, la necessità che l'Amministrazione proceda all'individuazione, tra i decreti in questione, di quelli aventi natura regolamentare.
Si consideri, al riguardo, che, come ripetutamente sostenuto dal Consiglio di Stato, all'identificazione del carattere normativo degli atti autoritativi di provenienza amministrativa deve procedersi avendo riguardo allo scopo, alla funzione, all'aspetto "formale" degli atti stessi. Vanno quindi considerate la capacità innovativa dell'ordinamento e la generalità e l'astrattezza delle disposizioni come caratteristiche sintomatiche, anche se non sempre formalmente necessarie, della funzione normativa (cfr. i pareri 23 gennaio 1992, n. 10; 21 novembre 1991, n. 141; l° febbraio 1990, n. 15, resi dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato sui primi regolamenti attuativi degli articoli 2 e 4 della legge n. 241 del 7 agosto 1990, nonché i pareri 30 ottobre 1990, n. 109 e 7 dicembre 1989, nn. 126, 127 e 131, sui regolamenti di organizzazione dei Dipartimenti della Presidenza del Consiglio affidati a Ministri senza portafoglio, nonché, da ultimo, il parere 14 febbraio 2005, n. 11603, reso sullo schema di decreto legislativo recante riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni - codice delle assicurazioni).
Si consideri, inoltre, la necessità che per i decreti a natura regolamentare l'Amministrazione richiami l'art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988 al fine di chiarire il carattere regolamentare del decreto e l’iter da seguire per la sua adozione.
Occorre al riguardo ribadire che non è consentito escludere con norma primaria la natura, regolamentare di atti che presentino quell'attitudine innovativa dell'ordinamento e i requisiti di generalità ed astrattezza sopra descritti; è infatti evidente la necessità di rispettare il disposto di cui all'art 117, comma 6, Cost., altrimenti eluso.
Esigenza quest'ultima che non sfugge all'Amministrazione, come dimostra il condivisibile richiamo alla materia "coordinamento informatico statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale", di cui all’art. 117, comma 2, lett. r), della Costituzione operato con riferimento all’art. 40 dello schema.

5. In ordine alla già segnalata, mancanza dei riferimenti alla consultazione e partecipazione dei lavoratori nell'ambito dell'attività del datore di lavoro di prevenzione per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, si evidenzia la necessità quanto meno di inserire nell'art. 6, comma 1, lett. k), dello schema anche la "consultazione e partecipazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro", come in precedenza previsto dall'art. 3, comma 1, lett. s), del d.lgs. n. 626 del 1994.
Inoltre, nel Capo VI dello schema (artt. 25 - 27) sono contenute disposizioni in materia di consultazione e partecipazione dei lavoratori, ma nel titolo è indicato per errore "dei datori di lavoro".

6. Con il richiamato parere interlocutorio la Sezione ha manifestato perplessità in merito alla figura delle c.d. "norme di buona tecnica", delineata, dall’art. 5, comma 1, lett. l), dello schema di decreto.
Nel dettaglio, la disposizione da ultimo citata, nel fornire la nozione di "norme di buona tecnica", ha riguardo tanto a quelle emanate dagli organismi europei competenti (art. 5, comma 1. lett. l) parte prima) quanto a quelle rivenienti dalla prevista trasformazione delle "disposizioni legislative relative ad elementi di natura tecnica o costruttiva" contenute nei decreti presidenziali ivi espressamente richiamati (art. 5. comma 1, lett. l), parte seconda).
Nel parere interlocutorio si è inteso in particolare richiamare l'attenzione dell’Amministrazione sul meccanismo di trasformazione previsto dall'art. 5, comma 1, lett. l), parte seconda, non ritenuto in linea con i nuovi criteri costituzionali di riparto delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni.
Si consideri, infatti, che tra le previsioni legislative contenute negli anzidetti decreti presidenziali, e destinate quindi a subire la trasformazione in "norme di buona tecnica", sono senza dubbio comprese norme recanti una regolamentazione di mero dettaglio, anziché l'enunciazione di principi di disciplina.
La compatibilità costituzionale del meccanismo di trasformazione automatica in "norme di buona tecnica" delineato nello schema va. quindi valutata tenendo conto di quanto già osservato sub n. 3 del presente parere; preme ribadire che in relazione alle disposizioni di dettaglio preesistenti lo Stato non dispone della legittimazione ad innovarle, ma può solo svolgere un'attività meramente ricognitiva, fermo restando peraltro il carattere di cedevolezza delle suddette disposizioni.
Deve quindi essere sempre fatta salva, la successiva attività legislativa regionale; le disposizioni di dettaglio preesistenti restano infatti in vigore con il carattere della cedevolezza, fino a quando esse non vengono sostituite da nuove norme nettate dall'autorità dotata di competenza nel nuovo sistema.
Né pare alla Sezione che a differenti conclusioni possa pervenirsi limitandosi ad osservare che essendo le disposizioni in questione assistite da sanzione penale, le stesse vanno ascritte alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Nessun dubbio può sorgere in merito al mancato riconoscimento costituzionale in capo al legislatore regionale di una potestà punitiva penale e alla sussistenza quindi di un monopolio statale in tale ambito (in tal senso, già prima della riforma del Titolo V, Corte cost. 25 ottobre 1989, n. 487; per la conferma del principio, successivamente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Corte cost. 28 giugno 2004, n. 196).
Non è tuttavia consentito al legislatore statale invocare l'esigenza di assicurare il presidio penale al fine di ribaltare i canoni costituzionali di riparto delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni.
Invero, se certo è esclusa la legittimità di una nonna statale che appresti una sanzione penale a fronte di precetti posti con legge regionale, il problema va esaminato in una diversa prospettiva con riferimento alle normative settoriali connotate dalla compresenza di funzioni legislative tanto statali quanta regionali.
Di tale profilo la Corte costituzionale ha già avuto modo di occuparsi, riconoscendo la legittimità di leggi regionali che, nel disciplinare materie appartenenti alla competenza legislativa regionale, sono parse concorrere a determinare i presupposti di applicazione della norma penale statale.
Significativo sul punto quanto affermato da Corte costituzionale 13 dicembre 1972, n. 210, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione a disposizione della legge regionale Valle d'Aosta destinata ad integrare il precetto di cui all'art. 734 del codice penale.
Al riguardo la Corte ha escluso che sussistano principi, costituzionali ostanti a che una legge regionale richiami una norma penale statale in bianco, applicabile quindi in quanto integrata nella sua parte precettiva dalla previsione regionale.
Allo stesso orientamento ha del resto aderito la Corte costituzionale con la successiva sentenza 23 giugno 1988, n. 717, dichiarando manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, punto 3, lett. c), l. reg. Veneto 16 aprile 1985, n. 33, nella parte in cui esclude la necessiti del titolo autorizzativo per l'espletamento di un'attività potenzialmente inquinante.
Anche nella dottrina penalistica, del resto, si è sostenuto che non è precluso alle leggi regionali concorrere a precisare i presupposti di applicazione delle leggi penali statali, alla stregua peraltro dei principi che regolano il possibile intervento, di fonti secondarie.
Più nel dettaglio, i principi apparentemente configgenti del monopolio statale in materia penale e della garanzia costituzionale di sfere di attribuzione legislativa concorrente di pertinenza regionale possono essere composti applicando quanto dalla stessa Corte costituzionale sostenuto in merito alle condizioni di legittimità delle c.d. norme penali in bianco.
È ipotizzabile, infatti, che la disposizione statale preveda il nucleo del precetto (eventualmente in sede di ricognizione di preesistenti previsioni legislative), al contempo enunciando il criterio tecnico alla stregua del quale il legislatore regionale può attendere alla specificazione, sempre in chiave tecnica, dello stesso precetto statale.
In conclusione, sembra che l'art. 5, comma 1, lett. l), seconda parte, dello schema delinei un meccanismo di trasformazione in norme di buona tecnica non coerente con i nuovi criteri costituzionali di riparto delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni nella parte in cui tra le previsioni destinate ad essere coinvolte dalla prevista "trasformazione" siano presenti anche norme di dettaglio.

6.1. Ai sensi dell'art. 1, comma 4, dello schema, l'osservanza delle prescrizioni del decreto legislativo, nonché delle norme di buona tecnica oltre che delle buone prassi di cui rispettivamente alle lett. f) e m) dell'art. 5, comma 1, "costituisce attuazione dell'articolo 2087 del codice civile".
Orbene, la richiamata formulazione potrebbe indurre a ritenere che il contenuto precettivo dell'art. 2087 dei codice civile si riduca all'osservanza delle tassative prescrizioni contenute nelle disposizioni del decreto, oltre che nelle norme di buona tecnica e nelle buone prassi; se così fosse, ne risulterebbe un evidente abbassamento del livello di tutela.
Si consideri, infatti, che, per costante indirizzo giurisprudenziale, l'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone al datare di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimo richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza, del lavoratore, ma anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41, secondo comma) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua (Cass. civ., sez. lav., 30 agosto 2004, n. 17314).
Si suggerisce, pertanto, la riformulazione della disposizione in esame, in modo da assicurare che, in sede interpretativa, ed applicativa, l'osservanza delle prescrizioni dello stesso decreto, nonché delle norme di buona tecnica o delle buone prassi, di cui rispettivamente alle lett. l) e m) dell'art. 5, comma 1, sia intesa come una dello forme di attuazione dell'articolo 2087 del codice civile, senza esaurirne la portata precettiva.

7. Con riferimento agli ulteriori profili, già evidenziati nella pronuncia interlocutoria, si prende atto delle risposte fornite dall’Amministrazione e si formulano le seguenti osservazioni.
La possibilità di chiedere la convocatone di una apposita riunione, attribuita al rappresentante per la sicurezza dall'art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994 e non riproposta nello schema, non sembra costituire un appesantimento delle procedure, ma rappresenta uno degli strumenti che consente la partecipazione dei lavoratori (o meglio del loro rappresentante) alle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro.
Si consiglia quindi di reintrodurre la norma nello schema.

7.1. Inoltre, con l'art. 6, comma 1, lett. b) e c), viene introdotto, ai fini della eliminazione e della riduzione dei rischi, un riferimento alle misure tecniche, organizzative e procedurali "concretamente attuabili nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni in quanto generalmente utilizzate" e alle applicazioni tecnologiche "generalmente praticate".
La modifica della precedente disciplina, che non conteneva, tale riferimento, non appare motivata e determina il rischio di un livellamento verso il basso delle misure di prevenzione in quanto vincolate in tal modo alla prassi di un determinato settore.
Si consiglia pertanto di eliminare la descritta modifica.

7.2. Come segnalato nel parere della Conferenza unificata, l'eliminazione delle forme di coordinamento degli enti titolari di competenze in materia di sicurezza sul lavoro, previste dall'art. 27 del d.lgs. n. 626 del 1994, non appare giustificata e rischia di non semplificare i rapporti tra i diversi enti.

7.3. Al fine di coordinare la relativa clausola generale con le indefettibili esigenze applicative del codice sulla protezione dei dati personali, al comma 4 dell'articolo 38 deve essere esplicitata e precisata la soggezione della tenuta dei registri previsti nel decreto legislativo e della gestione della relativa documentazione statistica alle disposizioni del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 riferite al trattamento dei dati sensibili.
All'articolo 85 si rileva l'omessa riproduzione dell'articolo 72-octies, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994 che, là dove impegna il produttore ed il fornitore a trasmettere al datore di lavoro tutte le informazioni concernenti gli agenti chimici pericolosi, mira a realizzare l'importante esigenza, che resta, altrimenti, insoddisfatta, di favorire un compiuto e consapevole apprezzamento, da parte del datore, della pericolosità dei fattori di rischio in questione. La segnalata lacuna va, quindi, colmata, per mezzo della riproduzione della suddetta disposizione.
L'articolo 88, commi 2, 5 e 6, e l'articolo 89 introducono nuovi obblighi (a carico, rispettivamente, dei datori di lavoro e dell'ISPESL) di registrazioni dei rischi connessi ad agenti cancerogeni nonché dei casi di patologie tumorali. Trattandosi di disposizioni radicalmente innovative e di dettaglio, vanno ribaditi, a loro carico, i dubbi di compatibilità costituzionale, in precedenza espressi, con il criterio di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni nelle materie di legislazione concorrente.
L'articolo 98 (rubricato "Termini per l’adeguamento") si limita a riprodurre i commi 4 a 5 dell'art. 88-decies, d.lgs. n. 626 del 1994, ma omette il resto della disciplina transitoria (o, meglio, del regime della tempistica prevista per la conformazione alle nuove prescrizioni), sicché deve registrarsi, nel testo in esame, un vuoto nella regolamentazione (ancora attuale e necessaria) dei tempi per l'adeguamento delle imprese ai requisiti minimi stabiliti dal d.lgs. n. 233 del 2003.
All'articolo 103 si rileva l'omessa previsione (viceversa imposta dall'art. 3, paragrafo 4, della direttiva di riferimento) della consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti nella valutazione dei rischi connessi all'esposizione all'amianto, anche se la previsione generale di cui all'art. 26, comma 1, lett. b), sulle attribuzioni, del responsabile della sicurezza potrebbe risultare idonea a soddisfare le esigenze postulate dalla direttiva, se intesa come impositiva di un obbligo di consultazione in capo al datore di lavoro in ogni caso di valutazione del rischio.
All'articolo 108 (che stabilisce il valore limite di esposizione all'amianto e che descrive le misure da adottare nell'ipotesi di superamento dì quella soglia) si deve rilevare l'omessa riproduzione di alcune misure (più favorevoli per i lavoratori e probabilmente più efficaci) codificate all'art. 31 decreto legislativo 13 agosto 1993, n. 277 (e, segnatamente, ai commi 8 e 9) delle quali si suggerisce il ripristino nel testo.
L'articolo 113 detta una disciplina, incompleta della sorveglianza sanitaria, omettendo ogni previsione (viceversa presente sia nella direttiva di riferimento che nell'art. 29 del d.lgs. n. 277 del 1991) circa le misure di prevenzione e di protezione imposte dall'esito del controllo medico e gli strumenti di tutela attivabili dal lavoratore contro tali provvedimenti. Si consiglia, quindi, di integrare la disposizione con le previsioni appena segnalate.
All'articolo 122 risulta omessa la previsione (viceversa doverosa ai sensi dell'art. 8, paragrafo 3, della direttiva n. 2000/54/CE) che gli oneri delle misure igieniche e di protezione individuale non possono gravare sui lavoratori.
All'articolo 124 si deve registrare l'omessa previsione del nome e della qualifica della persona responsabile della sicurezza e dell'igiene sul luogo di lavoro tra le informazioni contenute nella notifica (in contrasto con il paragrafo 4 dell'articolo 13 della direttiva n. 2000/54/CE, cit.).
All'articolo 128 si rileva l'omessa previsione (viceversa imposta dall’art. 14, paragrafo 7, della direttiva n. 2000/54/CE) del diritto dei lavoratori all'accesso alle cartelle della sorveglianza sanitaria ad essi relative e della facoltà degli stessi di chiedere un riesame del controllo medico.

8. Le esposte considerazioni sull'impostazione generale dello schema esimono la Sezione da un esame analitico delle ulteriori disposizioni in esso contenute.

P.Q.M.

Nelle esposte considerazioni è il parere del Consiglio di Stato.