2. L'INCHIESTA DELLA COMMISSIONE: IL SISTEMA DELLA TUTELA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO IN ITALIA

2.1. Premessa: la nuova disciplina del cosiddetto «Testo unico»
Nel definire le priorità dell'inchiesta, la Commissione, pur senza trascurare le altre tematiche, ha individuato fin da subito tra i principali filoni d'indagine l'approfondimento dei problemi derivanti dall'attuazione della nuova disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro recata dalla legge 3 agosto 2007, n. 123, e, soprattutto, dal connesso decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (chiamato spesso, seppure impropriamente, «Testo unico» delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro).
Tale disciplina, adottata sul finire della precedente legislatura, anche con l'importante contributo della omologa Commissione di inchiesta, ha infatti profondamente innovato il quadro normativo previgente, da un lato confermando e meglio precisando i principi e le disposizioni derivanti dalle leggi vigenti (in particolare il decreto legislativo n. 626 del 2004) e dalla giurisprudenza consolidata in materia, dall'altro ridisegnando il sistema delle competenze dei vari soggetti pubblici e privati in materia di prevenzione e di controllo e, da ultimo, riunendo finalmente in un corpus organico e coerente norme e procedure fino ad allora disperse in vari atti di normazione primaria e secondaria.
L'attuazione del decreto legislativo n. 81 ha registrato una serie di ritardi e taluni settori produttivi e forze sociali hanno lamentato alcune criticità e problematiche nell'applicazione. Dal canto suo, il Governo ha deciso di avviare un ampio confronto con le parti sociali e con il Parlamento, al fine di introdurre una serie di integrazioni e correzioni alla disciplina. Ne è scaturito, nel corso di quest'ultimo anno, un articolato dibattito, dai toni anche vivaci, al quale la Commissione ha fornito un importante contributo.
In particolare, come si avrà modo di illustrare nel prosieguo (soprattutto nel paragrafo 5.1.), la Commissione, pur nell'ambito delle attribuzioni ad essa spettanti in base al mandato dell'inchiesta, ha seguito con grande attenzione l'iter dello schema di decreto legislativo recante integrazioni e correzioni al cosiddetto Testo unico, dedicandovi numerose sedute e approfondimenti. Le indicazioni emerse da questo lavoro hanno trovato riscontro sia nell'esame svolto presso le competenti Commissioni di merito, sia nella versione finale dello schema, approvata dal Governo con il recente decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106.
Proprio per la sua importanza, dunque, l'esame della riforma e delle problematiche legate alla sua attuazione (ancora non completata), era e resta uno dei temi centrali dell'inchiesta, che la Commissione ha posto al centro della sua attività, avviando un costante e proficuo confronto con tutti i vari soggetti pubblici e privati chiamati ad applicare e a far rispettare le nuove disposizioni.


2.2. La politica del Governo
Nella prima e nella terza audizione, che hanno avuto luogo rispettivamente nelle sedute del 7 e del 14 ottobre 2008, è stato sentito il ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali Sacconi, il quale ha anzitutto illustrato le principali iniziative adottate dal Governo per il contrasto del fenomeno, tra cui la raccolta unificata dei relativi dati, l'avvio di campagne di formazione ed informazione, in collaborazione con gli enti istituzionali competenti, con le Regioni e con gli stessi soggetti privati, segnalando la volontà di rafforzare il coordinamento centrale delle varie attività, soprattutto in materia di vigilanza.
Soprattutto, però, l'intervento del ministro Sacconi si è concentrato sulle questioni inerenti al decreto legislativo n. 81 del 2008. Oltre a riferire sul processo di attuazione in corso, infatti, il Ministro ha anticipato le linee guida che nei mesi successivi avrebbero ispirato il processo di modifica del testo, teso ad ovviare ad alcune sue criticità ed inconvenienti è sfociato poi nel già citato decreto legislativo n. 106 del 2009: una serie di incontri e consultazioni tra le parti sociali, per addivenire ad un «avviso comune» su una soluzione il più possibile condivisa.
Il rappresentante del Governo ha infatti sottolineato la scelta di privilegiare una «gestione per obiettivi», piuttosto che per regole, per la tutela della sicurezza dei lavoratori ed il contrasto agli infortuni, ritenendo che la strategia migliore non risieda nell'eccesso di regolazione formale e di sanzioni, ma in un approccio sostanziale e nella ricerca delle soluzioni concrete più efficaci, scaturite possibilmente da accordi tra le parti sociali all'insegna della bilateralità e della collaborazione, la cui valorizzazione è stata indicata come uno degli obiettivi della politica del Governo stesso.
Giova evidenziare che tali linee programmatiche sono state ribadite ed ulteriormente specificate dal Ministro del lavoro anche nelle due successive audizioni svoltesi dinanzi alla Commissione nelle sedute plenarie del 21 e del 28 aprile 2009. Tali audizioni, di cui si dirà meglio più avanti, sono state dedicate specificamente all'illustrazione dello schema di decreto legislativo recante modifiche ed integrazioni al cosiddetto Testo unico, ma hanno altresì costituito l'occasione per fare il punto sullo stato di attuazione della nuova disciplina e sulla politica del Governo in questo settore.


2.3. Il quadro statistico
Il quadro statistico sull'andamento degli infortuni sul lavoro è stato illustrato una prima volta alla Commissione dal presidente-commissario straordinario dell'INAIL (Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) Sartori nell'audizione dell'8 ottobre 2008, con riferimento ai dati disponibili in quel momento, che coprivano il periodo 2001-2007. Le indicazioni tendenziali fornite in quella sede sono state in seguito confermate dai dati del Rapporto Annuale 2008 dell'Istituto, che copre anche il 2008 e rappresenta attualmente la fonte statistica più aggiornata sull'andamento infortunistico nel nostro paese.
Secondo il Rapporto, alla data di rilevazione ufficiale del 30 aprile 2009 gli infortuni sul lavoro denunciati all'INAIL per l'anno 2008 sono 874.940. Si registrano quindi circa 37.500 casi in meno rispetto ai 912.410 dell'anno precedente, con una flessione di 4,1 punti percentuali, assai superiore al -1,7 per cento registrato tra il 2007 e il 2006. Anzi, se si tiene conto dell'incremento dello 0,8 per cento del numero degli occupati rilevato dall'ISTAT, il miglioramento reale, in termini relativi2, sale ulteriormente raggiungendo il 4,8 per cento.
Il calo registrato nel 2008 conferma il trend decrescente degli ultimi otto anni: assumendo come anno base il 2001, in questo periodo le denunce di infortunio sono scese infatti del 14,5 per cento, corrispondente a quasi 150.000 infortuni in meno rispetto ai 1.023.379 del 2001. Il dato assume ancora più rilievo se si considera che, nello stesso arco di tempo, l'aumento occupazionale ha registrato un +8,3 per cento. In termini netti, la flessione del 14,5 per cento raggiunge quindi il 21,1 per cento: si è passati cioè da circa 47 denunce di infortunio ogni 1.000 occupati nel 2001 a circa 37 denunce nel 2008.
Per quanto riguarda gli incidenti mortali, nel 2008 si sono registrati 1.120 casi. Pur essendo un dato ancora grave ed intollerabile, si deve però rilevare che è la prima volta dal 1951, primo anno per il quale si dispone di statistiche attendibili e strutturate, che nel nostro Paese il numero di infortuni mortali è sceso al di sotto dei 1.200 casi l'anno. Nel 2008, infatti, i morti del lavoro sono diminuiti del 7,2 per cento rispetto ai 1.207 dell'anno precedente.
Come per gli infortuni in generale, anche per gli incidenti mortali il 2008 quindi non fa che confermare una tendenza che, con l'unica eccezione del 2006, è in corso ormai da molti anni: da un punto di vista statistico l'andamento storico del fenomeno delle cosiddette «morti bianche» appare ridotto ad un quarto rispetto ai primi anni Sessanta (nel 1963, apice del boom economico, si ebbe il tragico record storico di 4.664 morti sul lavoro). Tra il 2001 e il 2008 gli infortuni mortali sono diminuiti di circa il 28 per cento in valori assoluti è di oltre il 33 per cento se il dato è rapportato agli occupati, che nello stesso periodo di tempo sono aumentati dell'8,3 per cento. In ogni caso va detto che il calo è stato continuo e sostenuto dal 2001 (1.546 infortuni mortali) al 2005 (1.280 casi) per interrompersi per un improvviso quanto imprevisto rialzo nel 2006, che ha registrato 1.341 decessi. Fortunatamente i dati 2007 (1.207) e 2008 (1.120) hanno segnato di nuovo una decisa riduzione degli eventi mortali.
Quanto ai settori di attività, gli infortuni sul lavoro denunciati all'INAIL nel 2008 sono stati 53.278 in agricoltura, 367.132 nell'industria e 454.530 nei servizi. In particolare rispetto al 2007 la riduzione degli incidenti è stata maggiore nell'industria (-8,2 per cento) e in agricoltura (-6,9 per cento), mentre resta sostanzialmente stabile nei servizi (-0,1 per cento). Un calo significativo si è poi registrato in due settori fondamentali dell'industria: costruzioni (per un totale di 89.254 casi nel 2008 e un decremento del 12,4 per cento rispetto al 2007) e metalmeccanico (79.848 casi nel 2008 pari a una riduzione del 10,6 per cento). Nei servizi occorre sottolineare, invece, l'aumento del 21,7 per cento degli infortuni riguardanti il personale addetto ai servizi domestici (colf e badanti), un settore in forte e continua crescita con una rilevante presenza di lavoratori di origine straniera: quasi tre infortuni su quattro colpiscono, infatti, persone nate all'estero.
In termini tendenziali, nel periodo 2001-2008 si è confermata una elevata, costante diminuzione degli incidenti sul lavoro nell'agricoltura (-33,8 per cento in termini assoluti e -24,8 per cento in termini relativi) e nell'industria (-26,8 per cento in assoluto e addirittura -30,3 per cento come indice di incidenza), mentre perdura un certo aumento nei servizi, che passano da una variazione assoluta del +3 per cento ad una relativa del -7,6 per cento, accrescendo anche il loro peso sul totale degli infortuni (dal 43 per cento al 52 per cento), complice anche il sostenuto aumento occupazionale. Il calo dei morti sul lavoro, registrato tra il 2001 e il 2008, risulta peraltro molto sostenuto in tutti e tre i rami sia in termini assoluti (agricoltura -24 per cento, industria -28 per cento, servizi -28 per cento), sia in termini relativi (agricoltura -14 per cento, industria -31 per cento, servizi -34 per cento). Le difformità tra i rami sono da attribuire alla diversa dinamica occupazionale nel periodo in questione.
Dal punto di vista territoriale la riduzione degli infortuni osservata nel 2008 rispetto al 2007 ha riguardato praticamente tutte le regioni, ad eccezione della Valle d'Aosta (+3,9 per cento) che, tuttavia, presenta un numero di casi molto limitato (2.484). Il 61 per cento degli infortuni è concentrato nelle aree del Nord a maggiore densità occupazionale, in particolare Lombardia (149.506 casi), Emilia Romagna (123.661) e Veneto (104.134), che insieme assommano oltre il 43 per cento degli eventi infortunistici denunciati nell'intero Paese.
Analizzando gli infortuni in funzione del genere, appare evidente come il calo non sia stato uniforme, ma molto più accentuato per gli uomini (-5,6 per cento) che per le donne (-0,2 per cento). Per quanto riguarda invece gli infortuni mortali la situazione è diversa: una diminuzione del 7 per cento circa, in linea con l'andamento generale, per gli uomini (dai 1.110 morti del 2007 ai 1.035 del 2008), mentre per la componente femminile la flessione è superiore al 12 per cento (85 lavoratrici decedute nel 2008 rispetto alle 97 del 2007).
Considerando che le donne rappresentano circa il 40 per cento degli occupati, la quota scende al 28,6 per cento per gli infortunati e «appena» al 7,6 per cento per i morti sul lavoro: da ciò), il Rapporto INAIL deduce pertanto come il rischio di infortunio sia sensibilmente inferiore per la componente femminile, occupata prevalentemente nei settori a bassa pericolosità del terziario e dei servizi, ovvero con mansioni quasi esclusivamente impiegatizie o dirigenziali se impegnate nei settori più rischiosi (metallurgia, costruzioni, legno, trasporti, ecc.).
Dal punto di vista dell’età, infine, gli infortuni sul lavoro sono scesi dai 350.000 circa del 2007 agli oltre 320.000 del 2008 (-8 per cento) per i giovani fino a 34 anni, mentre per i casi mortali le flessioni più consistenti (-16 per cento) riguardano le classi di età dai 50 anni in su.
Per quanto riguarda la distinzione tra infortuni «in occasione di lavoro» (cioè quelli avvenuti all'interno del luogo di lavoro nell'esercizio effettivo dell'attività) ed infortuni «in itinere» (che si verificano invece al di fuori del luogo di lavoro, nel percorso casa-lavoro e viceversa)3, degli 874.940 infortuni sul lavoro denunciati all'INAIL nel 2008 ben 50.861 sono stati causati da circolazione stradale in occasione di lavoro e 97.201 sono avvenuti in itinere. In altre parole quasi il 6 per cento (5,8 per cento per l'esattezza) degli incidenti ha riguardato autotrasportatori, commessi viaggiatori, addetti alla manutenzione stradale, portalettere, ecc. nel pieno esercizio della loro attività lavorativa e oltre il 10 per cento (precisamente per cento) si è verificato sul percorso casa-lavoro e viceversa, e nella stragrande maggioranza dei casi è stato causato da circolazione stradale. Gli infortuni sulla strada, inoltre, rappresentano oltre la meta degli incidenti mortali avvenuti nel 2008: ben 611 su 1.120. Per la precisione 335 sono stati quelli provocati da circolazione stradale in occasione di lavoro e 276 quelli in itinere, avvenuti prevalentemente su strada.
Dal 2001 al 2008, gli infortuni in occasione di lavoro hanno fatto registrare un consistente calo di quasi il 20 per cento che, tradotto in termini relativi con gli indici di incidenza, scende ulteriormente a -25,7 per cento. Nello stesso periodo, invece, gli infortuni in itinere sono saliti del 66,8 per cento, anche per effetto dell'estensione dell'indennizzabilità determinata dalle modifiche normative e giurisprudenziali occorse nel periodo in questione. L'incidenza degli infortuni in itinere sul totale degli infortuni è quasi raddoppiata, aumentando dal 5,7 per cento del 2001 all'11,1 per
cento del 2008.
Un discorso a parte occorre fare per le malattie professionali o tecnopatie. Nell'anno 2008 all'INAIL sono pervenute quasi 30.000 (per l'esattezza 29.704) denunce per il riconoscimento e l'eventuale indennizzo di una patologia insorta durante l'attività lavorativa. Si tratta di circa 1.000 denunce in più (3,2 per cento) rispetto al 2007 che aveva registrato a sua volta un aumento di ben 2.000 casi (+7,4 per cento) in confronto con il 2006. Nel giro degli ultimi due anni, dunque, le patologie denunciate all'INAIL sono cresciute di ben 3.000 casi, vale a dire di 11 punti percentuali. Secondo l'Istituto, però, si tratta di un incremento verosimilmente dovuto all'emersione del fenomeno e alla maggiore sensibilità verso un problema troppo spesso sottovalutato, piuttosto che a un peggioramento delle condizioni di salubrità negli ambienti di lavoro.
La maggior parte delle malattie professionali denunciate nel 2008 riguardano l'industria e i servizi, gestione che da sola assomma il 93 per cento dei casi di tecnopatia. In particolare sono 27.539 le patologie denunciate nell'industria e servizi, 1.817 in agricoltura e 348 tra i dipendenti del conto Stato. Nel 2008, inoltre, l'incidenza delle malattie non tabellate (ovvero quelle patologie per le quali è richiesto al lavoratore l'onere della prova del nesso causale con l'attività lavorativa svolta) ha raggiunto l'86 per cento di tutte le denunce, contro il 79 per cento del 2004. Questa percentuale, poi, aumenta ancora per l'agricoltura, dove si attesta al 94 per cento del totale delle denunce.
L'ipoacusia e sordità si conferma come prima malattia professionale per numero di denunce, con un'incidenza che però diminuisce di anno in anno, passando dal 30 per cento del totale nel 2004 (circa 7.500 casi) al 20 per cento nel 2008 (circa 5.700 casi). Sono infatti altre le patologie emergenti, in particolare quelle che colpiscono l'apparato muscolo-scheletrico: le denunce per tendiniti (oltre 4.000 nel 2008) e le affezioni dei dischi intervertebrali (circa 3.800) sono più che raddoppiate negli ultimi cinque anni. Numerose sono poi anche le denunce per artrosi (circa 1.900 casi) e per sindrome del tunnel carpale (circa 1.500).
Restano inoltre ancora oggi significative l'asbestosi (circa 600 casi l'anno), patologia che presenta periodi di latenza anche di quaranta anni e che secondo le stime raggiungerà il picco di manifestazione intorno al 2025, e la silicosi (quasi 300 casi nel 2008), caratterizzata da una tendenziale contrazione nel corso del quinquennio 2004-2008. Una particolare importanza stanno infine assumendo i disturbi psichici lavoro-correlati, che nell'ultimo quinquennio hanno avuto una consistenza numerica pari a circa 500 casi l'anno, di cui larga parte individuati come mobbing. Infine, tra i primi posti in graduatoria risultano i tumori con 2.000 denunce pervenute nel 2008: un fenomeno in crescita e non ancora pienamente rappresentato dai numeri.
Un'attenzione particolare si è sviluppata negli ultimi anni per gli infortuni ai lavoratori stranieri, le cui iscrizioni all'INAIL nel 2008 hanno superato quota 3.266.0004: si tratta del 6 per cento in più rispetto all'anno precedente e del 41,9 per cento in più rispetto al 2004, quando i lavoratori immigrati erano poco più di 2,3 milioni. Tuttavia, a fronte dell'aumento occupazionale del 6 per cento, l'incremento degli infortuni tra lavoratori stranieri nel corso del 2008 è stato solo del 2 per cento, passando dai 140.785 incidenti sul lavoro del 2007 ai 143.561 del 2008. Risulta invece sostanzialmente invariato il numero degli infortuni mortali, che nel 2008 rimangono intorno ai 180 casi. Gli immigrati però continuano a presentare un'incidenza infortunistica più elevata rispetto a quella dei loro colleghi italiani: 44 casi denunciati all'INAIL ogni 1.000 occupati contro i 39 dei lavoratori autoctoni.
Sempre nell'anno 2008 gli eventi infortunistici occorsi a lavoratori stranieri hanno rappresentato il 16,4 per cento del totale. Poco meno del 96 per cento degli infortuni (per l'esattezza 137.223) si è verificato nel settore dell'industria e servizi, contro il 90 per cento per il totale dei lavoratori. In particolare prevale il peso delle attività di tipo industriale, in primo luogo le costruzioni che con 19.719 denunce rappresentano il 13,7 per cento di tutti gli infortuni riguardanti i lavoratori stranieri. Questo settore, inoltre, detiene anche il primato degli infortuni mortali tra gli immigrati: ben 43 nel 2008, che equivale a 1 decesso su 4 tra tutti quelli segnalati all'Istituto. Venendo al personale domestico appare invece significativo che 72 infortuni su 100 abbiano colpito lavoratori di origine straniera, quasi sempre colf o badanti di sesso femminile.
Anche le malattie professionali dei lavoratori stranieri hanno registrato nell'ultimo quinquennio un incremento costante e continuo, passando dai 1.220 del 2004 a 1.814 del 2008. Nel quinquennio le denunce sono aumentate del 48,7 per cento e solo nell'ultimo anno del 12,7 per cento. L'aumento riguarda sostanzialmente il settore dell'industria e servizi ai quali afferiscono la quasi totalità delle denunce (97 per cento). È lecito pensare che ad aver inciso nella crescita delle denunce sia la maggior consapevolezza dei propri diritti da parte del lavoratore straniero ed una maggiore informazione anche per quanto riguarda l'aspetto della tutela nel caso di malattia professionale.
Sebbene dunque i dati statistici più aggiornati segnalino un trend decrescente, non si può però negare la persistente gravita del fenomeno infortunistico nel nostro Paese, sia come numero di incidenti che di decessi. Gli stessi dati INAIL, pur molto più accurati che in passato, rischiano però in taluni casi di sottostimare il fenomeno, a causa del perdurare di alcune carenze negli attuali metodi di rilevamento, peraltro già segnalate negli anni passati da precedenti Commissioni di inchiesta. I metodi in questione, infatti, sono riferiti in misura prevalente al solo ambito dell'attività assicurativa dell'INAIL e dell'IPSEMA (Istituto di previdenza per il settore marittimo) ed escludono, dunque, sia i lavoratori non assicurati sia quelli irregolari.
Per le stesse ragioni, esiste un analogo rischio di sottovalutazione per quanto riguarda le malattie professionali, anche perché la relativa denuncia continua ad essere presentata, in molti casi, presso soggetti diversi dall'INAIL e dall'IPSEMA (quali le aziende sanitarie locali, le direzioni provinciali del lavoro e le autorità giudiziarie). Occorre tuttavia evidenziare, in merito, i significativi progressi che il coordinamento nella raccolta e nell'elaborazione dei dati ha registrato a partire dal 2007, con l'avvio dell'attività del «Registro nazionale delle malattie causate dal lavoro ovvero ad esso correlate» istituito presso l'INAIL e atteso in verità da molti anni, essendo già previsto dall'articolo 10, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (si veda in proposito il paragrafo 4.4.3.2.).
Per quanto riguarda il sistema dei dati INAIL, negli ultimi anni sono stati certamente apportati notevoli miglioramenti, che hanno consentito di disporre di statistiche sempre più precise e articolate, accessibili anche via Internet. Ciononostante, restano comunque una serie di esigenze informative non ancora del tutto soddisfatte. In particolare, è auspicabile, tramite le opportune soluzioni organizzative, un ampliamento della capacita di rilevazione da parte dell'Istituto, al fine di accrescere la completezza dei dati (anche in relazione al problema, già ricordato, che questi sono riferiti prevalentemente ai lavoratori iscritti all'INAIL o all'IPSEMA). Inoltre, occorrerebbe corredare i dati medesimi di riferimenti tecnici tali da facilitarne la trasparenza e la comprensione, nonché perfezionare ulteriormente le procedure di verifica e di certificazione delle informazioni raccolte.
Questi problemi, a ben vedere, si intrecciano con quello più generale della mancanza, in materia di infortuni e malattie professionali, di un'unica banca dati di riferimento ovvero, per usare le parole del dottor Francesco Lotito, Presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'INAIL (audito dalla Commissione il 24 febbraio 2009), di «una piattaforma cognitiva e valutativa autorevole e condivisa» che possa servire da base per gli interventi di prevenzione e contrasto posti in atto da tutti gli attori istituzionali, sociali ed economici.
Non a caso, uno dei cardini della riforma introdotta dal decreto legislativo n. 81 del 2008 riguarda proprio la realizzazione di un Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP) il cui scopo, ai sensi dell'articolo 8, comma 2, è appunto quello «di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza».
Si tratta chiaramente di un passaggio fondamentale ed ineludibile per qualsiasi strategia di prevenzione. Il Ministro del lavoro, sia in sede di audizione dinanzi alla Commissione che in altre occasioni, ha comunque ribadito il forte impegno del Governo a completare in tempi rapidi il Sistema informativo, una volta espletati tutti i necessari passaggi tecnici e definiti i protocolli d'intesa tra tutte le amministrazioni coinvolte.

2.4. L'attività degli enti istituzionali
a) L'INAIL
Le linee guida dell'attività dell'INAIL (Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) in materia di prevenzione e contrasto agli incidenti sul lavoro sono state illustrate alla Commissione in parte nell'audizione dell'8 ottobre 2008 del presidente-commissario straordinario Sartori e, soprattutto, in quella del 24 febbraio 2009 del presidente del Consiglio d'indirizzo e vigilanza dell'Istituto Lotito.
L'INAIL vuole confermare il suo ruolo di struttura portante del sistema di welfare del nostro Paese, all'interno però di un indispensabile processo di riordino e razionalizzazione di tutti gli enti previdenziali. Si tratta di una questione da tempo dibattuta, ma che appare ormai sempre più ineludibile, sia per i problemi di coordinamento e di sovrapposizione tra i vari enti, sia per gli elevati costi di gestione che ne derivano. Secondo le stime del Governo, infatti, da tale riforma è atteso un risparmio di 3,5 miliardi di euro nel decennio 2008-2017, senza il quale i lavoratori rischierebbero di subire un aumento del prelievo contributivo a loro carico.
In attesa della riforma, si impone però una riorganizzazione del sistema, con una forte sinergia tra gli enti esistenti, soprattutto sul territorio, ad esempio portando avanti quel progetto a suo tempo definito come «casa unica del welfare», ossia l'opportunità che sul territorio le funzioni previdenziali presenti siano accolte all'interno di un'unica struttura e di un'unica logistica. Lo stesso Testo unico sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro (decreto legislativo n. 81 del 2008) sospinge fortemente in questa direzione, sollecitando la costruzione di una vera e propria rete che connetta le azioni dei soggetti che vi partecipano sia a livello nazionale che territoriale.
Anche nelle indicazioni del Consiglio d'indirizzo e vigilanza dell'Istituto, ai fini di un'efficace azione di contrasto del rischio infortunistico emerge come centrale il tema della prevenzione, puntando su tre fattori: organizzazione del lavoro, tecnologie, formazione ed informazione. In ordine ai primi due fattori, l'INAIL intende proporsi come soggetto di «prossimità consulenziale» nei confronti dell'impresa, svolgendo cioè un ruolo di supporto e di assistenza, teso a migliorare le condizioni lavorative all'interno delle aziende. In questo senso, l'Istituto si propone di mettere a disposizione il suo patrimonio di esperienza e di coordinare le competenze scientifiche e professionali possedute da altri enti che interagiscono con esso, a cominciare dall'ISPESL, dall'INPS e dalle Regioni. Per quanto riguarda la formazione ed informazione, una sua efficace somministrazione presuppone un indispensabile ed ampio coinvolgimento dei destinatari, ovvero datori di lavoro e lavoratori, attraverso un potenziamento della bilateralità.
Le azioni in materia di contrasto e prevenzione dovranno però essere anche mirate, esercitando una particolare vigilanza ed impegno su taluni settori e aspetti dove si riscontra una maggiore rischiosità. Tra i settori produttivi, spiccano la metallurgia (dove l'indice di frequenza5 calcolato per 1.000 addetti è pari a 55,92), i materiali per l'edilizia (53,27), l'industria del legno (51,78), le costruzioni (49,09) e i trasporti (39,35). Un altro aspetto che interagisce con le problematiche relative ai fattori ad alta rischiosità è la condizione di esposizione al rischio dei lavoratori immigrati, che richiedono adeguate politiche di integrazione anche in merito alla salute e sicurezza del lavoro. Analogamente, particolare attenzione dovrà essere prestata alle malattie professionali, il cui andamento, contrariamente agli infortuni, negli ultimi anni ha registrato un preoccupante aumento (+3,2 per cento nel 2007 e +7,4 per cento nel 2008) e per le quali occorre accrescere le sinergie con i medici competenti.
Altri problemi ricorrenti nelle strategie di contrasto e prevenzione degli incidenti sul lavoro sono poi quelli della vigilanza e del controllo. Ferma restando l'esigenza di un potenziamento degli organici degli ispettori dell'INAIL, il punto cruciale resta però quello di perseguire una vera e propria politica di coordinamento sul territorio che coinvolga efficacemente i corpi ispettivi delle ASL, degli uffici del lavoro e dell'INPS. In un indispensabile raccordo con le Regioni (alle quali il decreto legislativo n. 81 del 2008 assegna espressamente il coordinamento dell'attività ispettiva), occorre dunque individuare le priorità dei controlli e migliorarne l'efficacia, evitando però al tempo stesso sovrapposizioni che, oltre ad abbassare la soglia dell'efficienza, in molti casi offrono l'immagine negativa di un intervento burocratico sovraordinato ed inutilmente ripetitivo.
Centrale è poi il ruolo dell'INAIL nella realizzazione del già richiamato Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), del quale infatti, a norma dell'articolo 8, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008, l'Istituto garantisce la gestione tecnica ed informatica ed è altresì titolare del trattamento dei dati.
Infine, i rappresentanti del Comitato d'indirizzo e vigilanza dell'INAIL hanno evidenziato con forza la necessita, affinché l'Istituto possa assolvere efficacemente alla sua missione (in primis la prevenzione e la repressione degli infortuni e delle malattie professionali), che l'autonomia gestionale ad esso riconosciuta dalla legge n. 88 del 1989 sia ribadita e rafforzata, con particolare riguardo agli aspetti patrimoniali e finanziari. Si dovrebbe cioè consentire all'Istituto una maggiore liberta nella gestione e nell'investimento del capitale accumulato tramite i contributi degli assicurati, allo scopo di meglio garantirne il valore e la redditività e di poter quindi destinare risorse adeguate e crescenti alle politiche di prevenzione.
Le dotazioni di liquidità dell'Istituto sono in effetti molto basse rispetto alle potenzialità e ai compiti che esso potrebbe assumere: attualmente, le disponibilità discrezionali ammontano a 260 milioni di euro l'anno, mentre le restanti risorse sono a disposizione della Tesoreria dello Stato. L'INAIL prevede di produrre un surplus finanziario per il 2009 pari ad 1,5 miliardi di euro, che andrà ad incrementare lo stock presso la Tesoreria dello Stato. Quest'ultimo, però, essendo infruttifero, non produce alcun effetto di valorizzazione del capitale, ciò che evidentemente danneggia il patrimonio dell'Istituto e riduce la sua possibilità di adempiere ai propri compiti istituzionali.
Il discorso è assai complesso. Da più parti si segnala giustamente l'esigenza di incrementare le risorse pubbliche complessivamente a disposizione delle politiche di prevenzione e contrasto del fenomeno infortunistico, come condizione indispensabile per una loro reale efficacia. In particolare, si chiede di attingere di più alle cospicue disponibilità dell'INAIL, che oltre ad essere l'ente istituzionalmente competente, è anche una delle poche amministrazioni pubbliche in avanzo di gestione. Tuttavia, i vincoli di bilancio e le imprescindibili esigenze di controllo della spesa pubblica impongono estrema cautela e limitano inevitabilmente lo «spazio di manovra» in questo settore.
Appare dunque sempre più urgente una riflessione complessiva sulla questione, che metta a punto nuove strategie, capaci di contemperare da un lato l'esigenza del rigore e dell'equilibrio finanziario e dall'altro quella di assicurare investimenti adeguati e costanti in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

b) L'IPSEMA
L'IPSEMA (Istituto di previdenza per il settore marittimo) si occupa specificamente dell'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali a favore dei lavoratori del settore marittimo. In realtà, come evidenziato dal presidente dell'Istituto Parlato nel corso dell'audizione dinanzi alla Commissione in data 19 novembre 2008, la situazione in questo settore è assai complessa, posto che la maggior parte dei lavoratori sono iscritti all'IPSEMA, altri (i pescatori autonomi) all'INAIL, ma altri ancora sono addirittura privi di copertura assicurativa, almeno di tipo pubblicistico.
Tale situazione crea evidentemente sovrapposizioni ed inefficienze, rendendo più difficile la gestione di un settore dove il numero degli infortuni e dei decessi rilevato ogni anno, pur limitato come valore assoluto, è però assai elevato in rapporto al numero degli addetti. Secondo gli ultimi dati disponibili, infatti, nel 2007 si sono registrati 1.470 infortuni, di cui 11 mortali, su un totale di circa 42.000 posti di lavoro, in cui si alternano 120.000-130.000 persone, proprio per le caratteristiche peculiari dell'attività marittima. È dunque un numero di incidenti percentualmente maggiore rispetto a quelli riscontrati tra le altre tipologie di lavoratori.
Per quanto riguarda gli infortuni, la maggior parte di essi si verifica nella categoria navi passeggeri, non solo perché sulle navi da crociera vi è un maggior numero di addetti - si arriva anche alle 1.500 unita - ma anche perché; vi è una serie di servizi aggiuntivi (ad esempio la cucina), in relazione ai quali possono verificarsi vari incidenti, anche se non gravi.
Relativamente agli incidenti mortali, l'80 per cento riguardano specificamente il settore della pesca, che presenta un livello di rischiosità più elevato, a causa delle peculiari condizioni di lavoro, diverse da altri settori. In primo luogo si deve considerare che i pescatori sono costretti a lavorare con qualsiasi condizione atmosferica, con turni spesso assai pesanti. Inoltre, la loro retribuzione si compone di una quota fissa e di una partecipazione agli utili del viaggio. Tutto questo purtroppo fa sì che, al fine di massimizzare il profitto della spedizione (non sempre fortunata per i pescatori), vengano spesso ridotti od omessi gli investimenti relativi agli apparati di sicurezza, sia individuali che collettivi. L'Osservatorio sui sinistri marittimi dell'IPSEMA rileva un aumento del rischio di incidenti in mare (da cui possono evidentemente derivare anche infortuni ai lavoratori), tendenza confermata anche dall'Agenzia europea per la sicurezza marittima (European Maritime Safety Agency, EMSA).
A fronte dell'alta incidentalità del settore marittimo, l'IPSEMA denuncia la frammentazione delle competenze in campo antinfortunistico: come già accennato, infatti, la maggior parte dei lavoratori sono assicurati presso l'IPSEMA, ad eccezione dei pescatori autonomi, che hanno barche al di sotto delle dieci tonnellate e che sono iscritti presso l'INAIL. Si tratta di una situazione ormai annosa, fonte di gravi duplicazioni, inefficienze e ritardi, non solo nelle operazioni di indennizzo e risarcimento, ma anche nelle attività di prevenzione. Secondo le proposte dell'IPSEMA, per risolvere il problema occorrerebbe procedere ad una razionalizzazione, accorpando presso l'Istituto l'intero settore delle attività acquatiche, incluse quindi non solo quelle in mare, ma anche quelle che si svolgono su fiumi, laghi e lagune ed i cui lavoratori fanno attualmente capo all'INAIL, proprio in ragione del carattere peculiare ed essenzialmente unitario di tali professioni.
Infine, un discorso particolare deve essere fatto per quanto riguarda la navigazione aerea. Attualmente, il personale aeronavigante non risulta tutelato per quanto concerne infortuni e malattia da alcun ente assicurativo pubblico, fatta eccezione per la maternità delle assistenti di volo, che è di competenza dell'IPSEMA. La maggior parte dei lavoratori del settore sono infatti iscritti presso assicurazioni private che però , oltre a fornire prestazioni normalmente inferiori rispetto agli enti assicurativi pubblici, proprio per la loro natura privatistica non svolgono alcuna attività di prevenzione.
Il Presidente dell'IPSEMA, durante la sua audizione, ha evidenziato l'assoluta incongruenza di tale situazione, atteso che le problematiche degli infortuni e delle patologie professionali che colpiscono il personale della navigazione aerea sono spesso affini a quelle del personale della navigazione marittima, sebbene proprio l'assenza di un ente pubblico competente per questo settore renda difficile disporre di dati statistici affidabili in merito. È dunque auspicabile che questa lacuna venga colmata in tempi rapidi, per assicurare anche ai lavoratori di questo settore la giusta tutela dei loro diritti.

c) L'ISPESL
L'attività dell'ISPESL (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) è stata illustrata alla Commissione dal presidente dell'Istituto Moccaldi per la prima volta nella seduta del 21 ottobre 2008. Un primo aspetto riguarda la ricerca e l’analisi scientifica del fenomeno infortunistico, in merito al quale interessanti indicazioni possono trarsi da uno studio, finanziato dal Ministero della salute, cui hanno partecipato anche l’INAIL e le Regioni. Sono stati presi in considerazione gli anni dal 2002 al 2004 per 2.500 infortuni, 1.500 mortali e 1.000 gravi, la cui analisi ha evidenziato come l’incidente mortale derivi, di solito, da una deviazione rispetto all’azione corretta che si sarebbe dovuta compiere per un determinato tipo di lavoro: in particolare, il 26,4 per cento degli infortuni è dovuto a caduta dall'alto, il 15,1 per cento alla caduta di oggetti sul soggetto, il 12,7 per cento alla perdita di controllo del mezzo di trasporto, il 5,5 per cento alla caduta o crollo di oggetti posti sotto gli infortunati, il 4 per cento alla perdita di controllo dei macchinari. Le stesse percentuali si ripetono, più o meno, anche per gli infortuni gravi.
Analizzando la frequenza dei diversi tipi di incidenti, si vede poi che il 38,4 per cento è dovuto all'attività dell'infortunato. In particolare, nel 60 per cento circa dei casi si tratta di un errore di procedura; nel 23,3 per cento è legato all'impiego di utensili, macchine o impianti; nel 17,2 per cento è legato genericamente all'ambiente di lavoro e nel 12 per cento è dovuto all'attività di terzi, cioè non è determinato dall'infortunato ma da altre persone che lavoravano vicino a lui. Precisamente, in questo ultimo caso, è sempre l'errore di procedura o l'uso errato o improprio di attrezzature che determina l’evento accidentale per il soggetto terzo.
Per quanto concerne, invece, gli incidenti legati più tipicamente alla sicurezza, il 50 per cento circa di essi è dovuto alla mancanza di protezioni; l’inadeguatezza strutturale concorre per circa il 20,9 per cento, la presenza di elementi pericolosi per circa il 17 per cento e c’è anche un 9,1 per cento dovuto alla rimozione o manomissione di protezioni.
In conclusione, l'analisi di questi primi 2.500 casi, ai quali se ne aggiungeranno altri 700 in via di conclusione per gli anni 2005-2007, indica che il lavoratore dipendente è coinvolto in circa il 58 per cento degli eventi mortali; nel 15 per cento dei casi si tratta di un lavoratore autonomo mentre nel 16 per cento si tratta di datori di lavoro, cioè di autonomi che hanno dipendenti o coadiuvanti familiari o che sono soci di cooperative. Quindi anche i datori di lavoro delle piccole e medie imprese sono molto coinvolti nel fenomeno dell'infortunio mortale, mentre le figure «atipiche» (cioè gli interinali, gli irregolari, i pensionati o i parasubordinati) sono coinvolte per l'11 per cento.
Questi dati evidenziano come quello degli infortuni sul lavoro (mortali e non) sia un fenomeno estremamente complesso, nel quale concorrono sia il comportamento dell'uomo, sia il mancato rispetto della norma, sia la mancata adozione di dispositivi di sicurezza. Quale che sia la causa, però , si tratta nella maggior parte dei casi di incidenti di tipo ricorrente o ripetitivo, che potrebbero quindi spesso essere prevenuti. Fondamentale si rivela dunque, ancora una volta, la formazione/informazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, alla quale anche l'ISPESL contribuisce in qualità di organo tecnico-scientifico di riferimento del settore.
Le azioni in questo campo sono indicate in un piano triennale (attualmente quello 2008-2010), nel cui ambito sono stati segnalati, in particolare, i programmi che riguardano i costi della mancata prevenzione, l'esposizione ai nanomateriali, le metodologie innovative per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, la sicurezza delle strutture sanitarie, l'elaborazione, la raccolta e la diffusione di buone prassi e linee guida. Quest'ultima attività riveste particolare importanza, essendo uno degli elementi fondamentali anche a livello legislativo - dal decreto legislativo n. 626 del 1994 al decreto legislativo n. 81 del 2008 - per tutte le figure interessate alla prevenzione (datore di lavoro, medici competenti, responsabili della sicurezza e rappresentanti dei lavoratori) al fine di avere univocità di indirizzi, di standardizzazione e di riferimenti per l'approccio ai singoli settori lavorativi. Si tratta quindi di un'operazione di «trasferimento delle conoscenze» che viene condotta in maniera mirata, individuando i gruppi di lavoratori a rischio, i rischi specifici ed i settori lavorativi interessati, ed utilizzando una pluralità di strumenti: pubblicazioni tecnico-scientifiche, siti web, corsi di formazione, modelli di valutazione e controllo dei rischi, buone pratiche e linee guida, una serie di osservatori e sistemi di sorveglianza specializzati su alcune tipologie di incidenti e malattie professionali, nonché sistemi di monitoraggio delle attività di prevenzione svolte dai servizi competenti delle ASL.
Il Presidente dell'ISPESL nella sua audizione ha altresì sottolineato come questa serie di azioni richiederebbe risorse più cospicue di quelle attualmente disponibili (per offrire un termine di paragone, nel 2008 l'Istituto ha stanziato circa 3.700.000 euro per il trasferimento di conoscenze e circa 1.600.000 euro per la formazione vera e propria). Si tratta di un problema di carattere generale, che coinvolge non solo l'ISPESL, ma il sistema complessivo degli enti preposti alla vigilanza sulla salute e la sicurezza del lavoro e che, come già osservato, deve però fare i conti con le attuali, pressanti esigenze di contenimento della spesa pubblica. D'altra parte, accanto al fabbisogno di maggiori risorse finanziarie, nell'audizione dell'ISPESL è stata ribadita con forza anche l'esigenza, altrettanto importante, di una più puntuale azione di raccordo e di coordinamento tra i vari enti, per evitare duplicazioni e sovrapposizioni di interventi e nello stesso tempo per rafforzare la presenza dei servizi sul territorio.
Tale coordinamento dovrebbe essere realizzato in primo luogo attraverso le due «cabine di regia» che il decreto legislativo n. 81 prevede appositamente a questo scopo, ossia il Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale della attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro (articolo 5) e la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (articolo 6).
Si tratta in ogni caso di un'esigenza fondamentale in un sistema complesso quale quello italiano, nel quale operano Stato, Regioni ed altri enti pubblici e molti soggetti sono chiamati a fare la prevenzione nei luoghi di lavoro, ivi compresi gli enti bilaterali e le organizzazioni sindacali e datoriali. Un coordinamento efficace, inoltre, risulta essenziale soprattutto nel trasferimento delle conoscenze, ossia nelle attività di formazione ed informazione, per far sì che esse raggiungano realmente coloro ai quali sono destinate, con un'attenzione prioritaria alle imprese di minori dimensioni le quali spesso, rispetto alle imprese più grandi, sia per la cultura del datore di lavoro, sia per la mancanza di mezzi economici o perché pressate da altre più contingenti difficoltà, hanno difficoltà a considerare la sicurezza come un investimento e non solo come un «peso», un onere aggiuntivo per i loro bilanci.
Infine, va segnalato che rappresentanti dell'ISPESL sono stati auditi dalla Commissione anche in altre sedute, in relazione a tematiche particolari, ovvero gli infortuni domestici e gli incidenti legati all'utilizzo di macchine agricole, per i quali si rinvia alle apposite sezioni dei paragrafi 4.2. e 5.2.

d) L'INPDAP
Nella seduta del 5 novembre 2008 la Commissione ha audito il Presidente dell'INPDAP (Istituto nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti dell'amministrazione pubblica), dottor Crescimbeni, il quale si è soffermato sul ruolo svolto dall'Istituto nel sistema antinfortunistico italiano, che si sostanzia nell'erogazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di una serie di prestazioni (indennizzi e pensioni) collegate ad una condizione di invalidità o inabilità risultante in rapporto diretto con una causa di servizio.
Il primo aspetto emerso rispetto a questa tematica è quello delle disparità, delle differenze normative di riconoscimento delle invalidità e delle inabilità che si riscontrano nel pubblico impiego e che richiederebbero un riordino legislativo, soprattutto per estendere la disciplina spesso più favorevole dei lavoratori statali a tutti i dipendenti e garantire così uniformità di trattamento. Ci si riferisce quindi ad istituti quali l'equo indennizzo, la pensione privilegiata ordinaria, l'indennità una tantum per le patologie di minore entità, l'aspettativa retribuita, i rimborsi di spese di cura ed i trattamenti accessori alla pensione diretta privilegiata.
Peraltro, occorre ricordare che l'attuale normativa separa le responsabilità relative ad infortuni e malattie derivanti da causa di servizio, perché la procedura di accertamento e certificazione non è gestita dall'INPDAP, ma inizia e si esaurisce all'interno degli enti datori di lavoro, spesso con un sistema di valutazione proprio. Sulla base delle visite mediche effettuate presso le diverse commissioni medico-ospedaliere, si valuta se la malattia o l'infortunio sia o meno derivante da causa di servizio; in caso affermativo si avrà quello che per l'INAIL può essere un risarcimento del danno e che nel settore pubblico prende il nome di «equo indennizzo».
Questa distinzione di competenze, in se legittima, ha finito però per creare una situazione «a compartimenti stagni», con una rilevante perdita di informazioni nel processo che conduce all'erogazione dei risarcimenti. In primo luogo l'INPDAP viene a conoscenza del fatto che un soggetto ha ricevuto un determinato beneficio (equo indennizzo) solo nel momento del collocamento a riposo e solo se quello stesso soggetto ha ritenuto di chiedere la pensione privilegiata, che viene erogata a chi è costretto a smettere di lavorare per inabilita dipendente da causa di servizio e che, trattandosi di un'erogazione continuativa nel tempo, comporta il recupero del 50 per cento dell'equo indennizzo. In secondo luogo, attualmente le pensioni privilegiate non si distinguono, quanto alla loro emissione, tra pensione erogata per un infortunio sul lavoro ovvero per una malattia da causa o concausa di servizio, cosicché a livello statistico non è dato di sapere quante sono concesse per l'una o l'altra motivazione.
Vi è quindi il rischio concreto di un indebolimento della funzione di controllo e gestione dell'ente, i cui vertici hanno posto con chiarezza l'esigenza di una riforma dell'attuale normativa, presentando loro stessi una serie di proposte.

e) L’INPS
Come l'INPDAP, anche l'INPS (Istituto nazionale per la previdenza sociale) non interviene nel fenomeno degli infortuni sul lavoro operando direttamente per il contrasto dello stesso come fanno altre amministrazioni (quali ad esempio l'INAIL), ma svolgendo la funzione di ente erogatore di prestazioni in determinate circostanze, collegate ad una situazione di invalidità o inabilita direttamente riconducibile ad una causa di servizio. Al contempo l'INPS svolge, tramite la vigilanza e la repressione del lavoro sommerso, un'attività che indirettamente influisce sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e che si esplica attraverso il controllo sulle aziende, posto che il lavoro nero comporta molto spesso anche scarsa sicurezza sul lavoro.
Come indicato dal presidente dell'INPS Mastrapasqua, audito dalla Commissione in data 5 novembre 2008, per quanto riguarda le prestazioni, i dati inerenti agli assegni privilegiati di invalidità, alle pensioni privilegiate di inabilita o ai superstiti erogate per cause di servizio evidenziano un trend crescente dei riconoscimenti tra il 2005 ed il 2008. Tralasciando il semplice aumento degli importi delle prestazioni, per effetto della perequazione annuale, si evince un aumento delle prestazioni dirette a favore degli iscritti al Fondo speciale ferrovieri pari al 75 per cento, nonché un ulteriore aumento degli assegni a beneficio dei superstiti, pari al 313 per cento. Per converso, l'andamento delle prestazioni dirette a favore degli iscritti nell'assicurazione generale obbligatoria (AGO) evidenzia una diminuzione tra il 2005 ed il 2008 (-7,7 per cento), mentre gli assegni a beneficio dei superstiti registrano un aumento (11 per cento circa). La diminuzione del numero delle dirette dipende probabilmente dagli interventi normativi, dalla politica di sensibilizzazione della tutela dei lavoratori e dai maggiori controlli sui luoghi di lavoro.
Per quanto concerne l'attività ispettiva, essa (ad esempio in agricoltura) si è concentrata sull'individuazione del lavoro sommerso o irregolare e sul recupero dell'evasione contributiva. Nel corso del 2008, sono state inoltre effettuate delle campagne in collaborazione con le forze ispettive del Ministero del lavoro e dell'INAIL operando al fine di individuare la sussistenza di rapporti di lavoro in nero con il coinvolgimento anche dei lavoratori comunitari ed extracomunitari. I risultati complessivi evidenziano una netta crescita del numero dei lavoratori in nero rispetto all'analogo periodo del 2007. Dal 1o gennaio al 30 settembre del 2008, sono state ispezionate 41.530 aziende non agricole con lavoratori dipendenti, individuando 2.927 aziende in nero e 47.098 lavoratori in posizione irregolare, di cui 36.000 totalmente sconosciuti all'Istituto (che rappresentano il 77 per cento).
Nel 2008, su 73.000 aziende visitate, l'82 per cento - 60.000 aziende - si è rivelata irregolare. I lavoratori in posizione irregolare in aziende non agricole rappresentano il 94 per cento; fra i cosiddetti «co.co.co.» (collaborazioni coordinate e continuative) il 2 per cento e nelle aziende agricole il 4 per cento. Venendo alle aziende in nero, i lavoratori autonomi non iscritti sono il 70 per cento; i committenti e collaboratori autonomi non iscritti l'1 per cento; le aziende non agricole il 21 per cento; le aziende agricole il 7 per cento. Per quanto riguarda gli iscritti alla gestione separata di cui alla legge n. 335 del 1995, su 8.470 soggetti controllati, fra il 1o gennaio ed il 30 settembre 2008, il 94 per cento è risultato irregolare, così come quasi il 100 per cento degli autonomi. Infine, nello stesso periodo l'INPS ha effettuato accertamenti per evasione contributiva pari a 1.087 milioni di euro
Questi dati confermano purtroppo il permanere di una pesante situazione di lavoro irregolare e di lavoro nero nel nostro paese, che è tra le principali cause di infortuni e morti non accidentali sul lavoro, proprio in ragione della mancanza di tutele e di forme di prevenzione. Si impone quindi un'azione di vigilanza attenta e costante, per la quale occorrono evidentemente adeguate risorse soprattutto in termini di organico. Peraltro, la tendenza degli ultimi anni è stata quella di una riduzione degli organici, per effetto soprattutto del blocco dell'avvicendamento nella pubblica amministrazione. Il presidente Mastrapasqua ha infatti ricordato come dal 2006 al 2008 l'INPS abbia registrato un calo di circa 200 unità nei ruoli ispettivi: se questo ha condotto ad una inevitabile flessione nel numero complessivo di ispezioni, d'altra parte, però, lo stesso Presidente dell'INPS non ha mancato di evidenziare come nello stesso periodo vi sia stato anche un aumento di quasi 200 milioni di euro di valore accertato, segnalando quindi la possibilità di conseguire comunque un aumento dell'efficienza dell'azione ispettiva.
Si tratta di un discorso molto rilevante. Se da un lato, infatti, è doveroso auspicare quanto prima un superamento dei già citati vincoli di finanza pubblica e del conseguente blocco del turnover, per consentire un aumento delle risorse umane a disposizione dell'attività ispettiva (non solo nell'INPS, ma anche nell'INAIL e nelle ASL), dall'altro è però altrettanto importante cercare di utilizzare in modo più efficiente le risorse disponibili mediante nuove soluzioni organizzative e strumenti d'indagine alternativi, anche di carattere amministrativo.
In particolare, il presidente Mastrapasqua ha richiamato il valore delle sinergie tra i vari soggetti pubblici competenti, a livello centrale e periferico, attraverso non solo il coordinamento delle ispezioni, ma anche la messa in comune degli archivi (ancora oggi spesso non comunicanti tra loro) e la verifica incrociata dei dati (ad esempio tra INPS ed Agenzia delle entrate in materia fiscale). In questo contesto, è essenziale l'esigenza di portare a compimento il processo di trasmissione telematica delle certificazioni di malattia, anche per la costruzione del già citato Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP) e per una corretta azione di prevenzione sanitaria nonché, ultimo ma non da ultimo, il progetto della «casa unica del welfare» che, ove realizzato, potrebbe consentire un effettivo miglioramento nella qualità dei servizi.


f) L’IAS
L'IAS (Istituto per gli affari sociali), già conosciuto in passato come IIMS (Istituto italiano di medicina sociale), è stato audito dalla Commissione, nella persona del suo Presidente, durante la seduta del 29 ottobre 2008. Nel suo intervento, il presidente Guidi si è soffermato in particolare sul tema della disabilita, intesa in primo luogo come conseguenza di infortuni o malattie professionali che causino invalidità o inabilita temporanee o permanenti. Se infatti giustamente, in tema di incidenti sul lavoro, l'attenzione anche mediatica si focalizza sulle cosiddette «morti bianche», troppo spesso non si parla abbastanza di tutte le altre vittime, molte delle quali, pur conservando fortunatamente la vita, restano però affette da invalidità e menomazioni sempre più gravi.
Si tratta evidentemente di un tema assai delicato, che rientra in quello più ampio dei cosiddetti «costi sociali» del fenomeno infortunistico: tra le vittime degli incidenti sul lavoro vi è infatti un gran numero di persone con disabilita serissime che hanno bisogno di forme di riabilitazione ad alta intensità e di assistenza a vita (domiciliare, familiare e spesso, purtroppo, ospedaliera in residenze sanitario-assistenziali), che oltre a creare evidenti problemi di tipo personale e familiare ha anche un notevole costo economico per i diretti interessati.
A tutt'oggi, manca purtroppo un'attenzione specifica verso queste persone, che non trovano sempre il giusto posto all'interno della dinamica programmatoria delle ASL. Oltre ad assicurare le risorse finanziarie per le varie provvidenze previste a favore dei lavoratori e dei loro familiari in caso di infortunio (indennizzi, pensioni privilegiate, ecc.), occorrerebbe pertanto ripensare la gestione complessiva di queste problematiche, con una politica socio-sanitaria ad hoc che garantistica spazi e cure adeguate agli infortunati del lavoro con postumi invalidanti.
Un altro aspetto della disabilità sul quale il Presidente dell'IAS ha voluto richiamare l'attenzione è poi quello degli infortuni sul lavoro che coinvolgono le persone disabili, specialmente (ma non solo) quelle che hanno problemi di deambulazione o di coordinamento motorio, di cui si parla assai poco. Quando infatti queste persone subiscono incidenti, anche di piccola entità, spesso omettono di denunciarli, per timore di perdere il lavoro, conquistato magari con grande sacrificio, attesa la difficoltà ancora oggi esistente di inserirsi nel mondo professionale da parte delle persone gravate da handicap fisici o psichici.
Infine, anche dall'IAS è stata posta ancora una volta con forza l'esigenza di avviare iniziative di formazione ed informazione sugli infortuni del lavoro non solo tra i lavoratori, ma anche e soprattutto nelle scuole, mediante l'inserimento di corsi ad hoc nei programmi formativi. Quello della formazione nelle scuole è un tema ricorrente, segnalato da più parti come decisivo ai fini di una efficace politica di prevenzione degli incidenti e delle malattie professionali e sul quale la Commissione si è attivamente impegnata, come si avrà modo di spiegare in una successiva sezione (si veda in proposito il paragrafo 5.5.).


2.5. Le indicazioni delle organizzazioni sindacali
La Commissione d'inchiesta, come già nelle precedenti legislature, ha instaurato e mantenuto un dialogo costante con le organizzazioni rappresentative del mondo produttivo, sia con quelle dei lavoratori che con quelle dei datori di lavoro. Per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori, i vertici nazionali sono stati auditi nella seduta del 2 dicembre 2008: a questa circostanza vanno poi aggiunti gli incontri che la Commissione ha avuto con i sindacati di singoli settori produttivi, per approfondire tematiche specifiche, oppure a livello locale, durante i sopralluoghi effettuati in varie parti d'Italia, e di cui si dirà meglio più avanti.
Nel corso dei vari incontri, i sindacati hanno innanzitutto espresso una valutazione generalmente positiva della nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 81 del 2008, sottolineando in particolare il carattere esaustivo della riforma, che mirava ad affrontare il tema della salute e della sicurezza sul lavoro in maniera finalmente organica, cercando di considerarne tutti gli aspetti. Al tempo stesso però, tutte le organizzazioni hanno segnalato ritardi ed incertezze nell'effettiva applicazione, ponendo con forza l'esigenza di una rapida e compiuta attuazione della disciplina stessa, proprio per far sì che le positive novità in essa contenute vadano quanto prima a regime.
Come si è già accennato all'inizio di questa relazione, nel corso di quest'ultimo anno i ritardi e le incertezze nell'attuazione del cosiddetto Testo unico hanno risentito inevitabilmente anche del parallelo processo di rivisitazione e riscrittura delle norme, sfociato infine nelle modifiche apportate con il decreto legislativo n. 106 del 2009. I sindacati, negli incontri con la Commissione, non hanno mancato di sottolineare la loro disponibilità al confronto, promosso dal Governo, con le organizzazioni datoriali, per addivenire ad un avviso comune circa semplificazioni e miglioramenti da apportare al Testo unico, a condizione che non ne fossero però stravolti l'impianto generale e la «filosofia» di fondo.
Il confronto ed il dibattito che ha condotto all'approvazione del decreto legislativo n. 106 del 2009 è stato intenso e a tratti persino aspro, sia in sede sindacale che politica: senza entrare nel merito delle diverse valutazioni, è comunque utile evidenziare gli aspetti della disciplina intorno ai quali si è maggiormente appuntata l'attenzione dei sindacati e che costituiscono ancora oggi i punti cruciali sui quali si misurerà l'efficacia del nuovo testo.
In primo luogo, i sindacati hanno ribadito l'importanza della stesura tempestiva e rigorosa del documento di valutazione dei rischi, considerato come il primo elemento di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Tale discorso è stato legato strettamente all'esigenza di garantire la nomina dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) aziendali e territoriali e la loro effettiva partecipazione a tutte le decisioni ed iniziative riguardanti la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, compresa appunto l'elaborazione del documento di valutazione dei rischi. In molte aziende, infatti, la figura del rappresentante per la sicurezza stenta ancora a decollare ed è spesso oggetto di resistenza se non di vera e propria ostilità. Ciò vale in particolare per le piccole e medie imprese, che hanno oggettive difficolta economiche e che ritengono spesso che il ridotto numero dei loro addetti sia tale da non giustificare sia la nomina dei rappresentanti che il rispetto di altri adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro.
Si tratta di un tema antico: mentre le grandi imprese hanno in genere un elevato livello di sindacalizzazione ed una certa cultura della sicurezza diffusa sia tra i datori di lavoro che tra i lavoratori, disponendo altresì delle risorse economiche necessarie per effettuare gli investimenti necessari nella salute e sicurezza del luogo di lavoro, nelle piccole e medie imprese tali condizioni sono spesso assenti e le prescrizioni di legge per elevare il livello di salute e sicurezza sono vissute talvolta solo come un'imposizione ed un costo aggiuntivo, magari da aggirare in maniera surrettizia.
Ciò spiega l'attenzione particolare richiesta dai sindacati per i rappresentanti territoriali che, a norma dell'articolo 47, comma 3, del Testo unico, nelle aziende o unità produttive che occupano fino a 15 lavoratori, possono svolgere le funzioni di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in maniera collettiva per più aziende di uno stesso ambito territoriale o comparto produttivo. Si tratta infatti di una norma assai rilevante, introdotta proprio per venire incontro alle esigenze prima citate delle piccole e medie imprese che, peraltro, costituiscono la maggioranza delle aziende operanti nel nostro Paese. In questo senso, si rende necessario assicurare la pronta ed effettiva disponibilità delle risorse finanziarie dell'apposito fondo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo n. 81 del 2008, definito appunto di «sostegno alla piccola e media impresa, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali e alla pariteticità».
Un altro argomento affrontato in più occasioni dai sindacati è quello degli organismi paritetici (chiamati a volte anche bilaterali) previsti dall'articolo 51 del Testo unico. Il ruolo affidato a questi organismi, formati dai rappresentanti delle parti sociali, in materia di salute e sicurezza del lavoro dalla normativa vigente è quello di consulenza e sostegno alle imprese nello sviluppo di azioni di formazione, prevenzione e adozione di buone prassi e modelli organizzativi e gestionali, finalizzate appunto ad elevare i livelli di sicurezza nelle aziende. Viceversa, i sindacati hanno ribadito la loro ferma contrarietà ad ogni ipotesi di coinvolgimento, diretto
0 indiretto, di tali strutture nelle attività di vigilanza, che debbono restare nella competenza esclusiva degli enti istituzionalmente preposti.
Tale questione è di grande importanza ed è stato uno dei temi intorno ai quali si è articolato il dibattito sulla riforma del Testo unico. In effetti, la possibilità di riconoscere agli enti paritetici una qualche funzione nelle attività di controllo ha sempre destato molte perplessità, in quanto i controlli sul rispetto di leggi e procedure in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro dovrebbero essere affidati a soggetti dotati dei necessari requisiti di indipendenza e di competenza tecnico-professionale. Viceversa, gli organismi paritetici, essendo formati dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, sono direttamente coinvolti nelle decisioni dei vertici aziendali e nelle trattative di carattere sindacale che fissano regole e procedure all'interno delle imprese e sono quindi privi di quel carattere di «terzietà» che si richiede a qualsiasi controllore rispetto ai soggetti da controllare. Inoltre, l'esperienza acquisita anche nei sopralluoghi della Commissione dimostra come non sia sempre possibile rintracciare all'interno di questi organismi le capacità tecnico-professionali necessarie per lo svolgimento dei controlli in materia di salute e sicurezza.
Sempre sul tema della vigilanza, i sindacati hanno invece chiesto un rafforzamento del coordinamento e della sinergia tra i diversi soggetti istituzionali competenti, sia a livello centrale che periferico. In particolare, posto che la prevenzione ed il contrasto agli infortuni vedono la duplice competenza normativa dello Stato e delle Regioni in via concorrente per i profili della salute e per quelli della sicurezza sul lavoro, si è ribadita l'esigenza di una collaborazione sempre più stretta a livello territoriale che, indipendentemente dalla forma specificamente assunta, mantenga però il collegamento tra l'aspetto della prevenzione sanitaria e quello della tutela della sicurezza in senso stretto. Peraltro, sul tema del rapporto tra Stato e Regioni e sull'opportunità di mantenere o meno una competenza normativa concorrente in tema di salute e sicurezza del lavoro, anche all'interno della Commissione si è sviluppato un ampio dibattito, tuttora aperto.
Il tema della vigilanza ha sollecitato altresì la richiesta di adeguate risorse umane e professionali da parte dei corpi ispettivi, sollecitazione che la Commissione ha raccolto in maniera forte nel corso dei vari sopralluoghi soprattutto a livello locale, dove più sentita è l'esigenza di una presenza costante delle istituzioni.
Collegato a questo tema è quello della formazione, che dovrebbe riguardare non solo i lavoratori, ma anche i datori di lavoro e, soprattutto, le figure dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e dei responsabili del servizio di protezione e prevenzione (RSPP), i quali dovrebbero essere dotati di specifici requisiti anche di tipo culturale e professionale.
Un'ulteriore questione affrontata è stata quella degli infortuni all'interno della pubblica amministrazione, spesso sottovalutata e per la quale si è chiesta un'attenzione specifica per consentire, da un lato, la corretta applicazione dei principi di salute psicofisica e sicurezza nei vari luoghi di lavoro (uffici amministrativi, scuole, università, ospedali), dall'altro per chiarire il ruolo e le responsabilità dei funzionari e dei dirigenti, che non possono essere considerati datori di lavoro negli stessi termini del settore privato.
Infine, una segnalazione importante ha riguardato il tema delle malattie professionali, in preoccupante aumento negli ultimi anni, come risulta dalle più recenti statistiche. Anche qui si è chiesto un ruolo più incisivo degli organismi competenti, in primis dell'INAIL, sia attraverso una revisione delle procedure che semplifichi il riconoscimento anche delle cosiddette malattie «non tabellate», sia attraverso una rivalutazione delle rendite, oggi ritenute troppo basse.


2.6. Le indicazioni delle organizzazioni imprenditoriali
Come già indicato, fin dall'inizio del suo mandato la Commissione ha portato avanti un ampio e proficuo scambio con le organizzazioni rappresentative delle parti sociali. In particolare, le organizzazioni imprenditoriali sono state audite nelle sedute del 9 dicembre 2008 e del 27 gennaio 2009, nonché in occasione di approfondimenti dedicati a specifici settori produttivi o di sopralluoghi in varie parti d'Italia.
Il quadro che emerge da questi incontri evidenzia ancora una volta una forte differenza tra i problemi delle grandi e delle piccole e medie imprese in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro. Non è ovviamente un tema nuovo, ma è tuttora attuale ed è stato riproposto con forza nelle varie sedi da tutte le organizzazioni datoriali, specialmente in riferimento alle disposizioni del Testo unico, ritenute in alcuni casi eccessive e penalizzanti proprio nei confronti delle imprese di minori dimensioni.
Il giudizio che il mondo imprenditoriale ha dato del Testo unico, pur complessivamente positivo, è stato infatti spesso critico riguardo taluni adempimenti considerati eccessivamente burocratici e formali e la previsione di sanzioni talora sproporzionate a carico delle imprese. Le imprese hanno chiesto quindi un ripensamento di questi punti, addivenendo alla formulazione di proposte comuni tra i vari settori, confluite poi nel dibattito sulla riscrittura del Testo unico che ha condotto al decreto legislativo n. 106 del 2009.
Al di la delle indicazioni specifiche provenienti dai singoli comparti produttivi, vi è stata quindi una generale richiesta di semplificazione delle norme e delle procedure, perché molte di esse non sarebbero gestibili soprattutto dalle piccole e dalle microimprese, e la riconsiderazione delle sanzioni previste, ritenute non proporzionate alla realtà delle imprese di piccole dimensioni. Si è insistito, quindi, sull'eliminazione di tutti gli adempimenti inutilmente formali e burocratici e, soprattutto, su un alleggerimento dell'apparato sanzionatorio. In termini pili generali, le imprese hanno chiesto e chiedono tuttora una maggiore attenzione alle esigenze specifiche dei vari comparti ed un'applicazione delle norme che tenga conto anche delle dimensioni aziendali.
Tale indicazione riguarda trasversalmente tutti i settori, anche se una segnalazione più forte è venuta dalle imprese industriali e, soprattutto, da quelle artigiane e cooperative, formate spesso da pochissime persone, dove il datore di lavoro partecipa in genere all'attività produttiva a fianco dei suoi dipendenti e quindi si espone in prima persona al rischio di incidenti, che spesso lo vedono come vittima. Lo stesso vale per la stragrande maggioranza delle imprese del commercio e dell'agricoltura, mentre il settore industriale presenta problematiche diverse, legate anche al fatto che le dimensioni aziendali sono, mediamente, superiori. Inoltre, mentre le aziende più grandi hanno di solito al loro interno una cultura della sicurezza più sviluppata e diffusa e risorse economiche adeguate, nelle piccole e medie imprese queste condizioni non sono sempre presenti, il che accresce oggettivamente le difficolta di recepire in toto le prescrizioni normative previste dalla legge. L'attuale crisi economica, inoltre, pone pressioni notevoli sulle aziende e vi è il fondato timore che quelle più piccole e deboli possano essere indotte a ridurre proprio gli investimenti in sicurezza, accrescendo così il livello di rischio dei lavoratori.
D'altra parte, se vi è sempre stato, anche da parte dei sindacati e delle forze politiche, un generale consenso sull'opportunità di semplificare il più possibile adempimenti meramente formali o burocratici, assai più articolato e controverso è il giudizio sulla revisione dell'apparato sanzionatorio, nel timore, avanzato da talune parti, che un alleggerimento delle sanzioni possa indebolirne l'effetto deterrente ed incoraggiare la violazione delle norme sulla sicurezza. Peraltro, difficilmente accoglibile sembra l'idea di una sorta di graduazione delle sanzioni in rapporto alle dimensioni aziendali, mentre certamente più concreta appare la possibilità di calibrare le sanzioni stesse rispetto alla gravità delle violazioni.
Queste considerazioni sono di stretta attualità e, come si indicherà meglio più avanti, hanno trovato eco anche nel recente decreto legislativo n. 106 del 2008, che ha modificato il Testo unico adottando una serie di semplificazioni e alleggerendo notevolmente le sanzioni previste, specie per le violazioni di carattere più formale. Naturalmente, è ancora troppo presto per valutare se le soluzioni proposte dal legislatore risulteranno pienamente efficaci, ma è comunque un aspetto da segnalare.
Sempre nell'ottica di una maggiore attenzione ai problemi delle piccole e medie imprese, le organizzazioni imprenditoriali richiamano da tempo la necessità di sostenere il sistema della sicurezza sul lavoro con adeguate risorse finanziarie, facendo ad esempio un uso più ampio del cospicuo avanzo di gestione dell'INAIL, sia per finanziare le attività di prevenzione e di formazione/informazione, sia prevedendo misure premiali (sgravi fiscali, incentivi) a favore delle imprese che investono in sicurezza.
Quello dei costi della sicurezza per le imprese è infatti uno dei temi ricorrenti, che assume particolare rilievo nel settore delle gare d'appalto: le disposizioni vigenti impongono agli appaltatori di indicare chiaramente nei contratti i costi delle misure adottate per garantire la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, precisando che gli stessi non sono soggetti a ribasso. Tale aspetto è stato ribadito chiaramente anche nel nuovo testo dell'articolo 26, comma 5, del decreto legislativo n. 81 del 2008, come modificato dal recente decreto correttivo n. 106.
Ciononostante, da più parti la Commissione ha avuto segnalazioni di un'applicazione non sempre puntuale di tale norma, o di veri e propri aggiramenti della stessa, attraverso il sistema dei subappalti, tanto che, accanto ad un indispensabile rafforzamento dei controlli, s'impone ormai anche una riflessione circa l'opportunità di abbandonare, almeno nelle gare d'appalto pubbliche, il criterio del ribasso d'asta in favore di quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Non si tratta, purtroppo, di aspetti meramente formali: alcuni degli incidenti più gravi avvengono proprio presso le piccole e medie imprese che eseguono appalti o subappalti per enti pubblici o per imprese più grandi, in quanto per abbattere i costi e garantire offerte più convenienti vengono spesso tagliate le spese per la sicurezza, riducendo così il sistema delle tutele e aumentando notevolmente i rischi per i lavoratori.
Per quanto riguarda più specificamente i singoli settori produttivi, un'attenzione particolare è stata chiesta per il comparto dei trasporti, caratterizzato da un elevato indice di rischiosità, per le modalità stesse di svolgimento del lavoro, che si svolge sul mezzo di trasporto; il lavoratore dunque subisce un infortunio non nell'impresa, ma lavorando su strada e pertanto è soggetto a componenti estremamente variabili. I trasportatori e le imprese dell'autotrasporto chiedono più controlli sulle strade e presso le ditte, soprattutto quelle estere (in particolare dei Paesi dell'Est) che lavorano in Italia e sono abituate ad un sistema di sicurezza talvolta inferiore al nostro.
Dal settore del commercio, caratterizzato in genere da indici di incidentalità più bassi ma non per questo meno preoccupanti, si è chiesto di accompagnare i processi di riconversione e di adeguamento delle imprese, anche sotto il profilo della sicurezza dei luoghi di lavoro, mediante adeguati incentivi e premialità, investendo quanto più possibile sulla formazione dei lavoratori e dando spazio e riconoscimento agli organismi paritetici e ai fondi interprofessionali.
Particolari sollecitazioni sono state raccolte dalle imprese agricole, che lamentano l'impossibilita di applicare tout court a quel settore alcune norme del Testo unico, anche di carattere tecnico, che appaiono pensate per le realtà industriali di medio-grandi dimensioni. In agricoltura, infatti, esistono alcuni problemi specifici: la maggior parte delle imprese sono piccole o piccolissime (in media con tre addetti), le operazioni produttive sono diversificate e non ripetitive, gli ambienti di lavoro aperti.
Soprattutto, però, occorre ricordare che la stragrande maggioranza dei lavoratori del settore (circa il 90 per cento su un milione di addetti) sono stagionali a tempo determinato, per i quali non è pensabile di fare formazione con gli stessi criteri dei lavoratori a tempo indeterminato. Una proposta per ovviare a tale problema è quella di istituire una sorta di libretto attestante la formazione ricevuta da ciascun addetto in tutte le aziende presso le quali ha prestato servizio, che la persona possa poi trasferire da un luogo di lavoro all'altro.
L'elemento più rilevante della situazione infortunistica illustrata nel comparto agricolo è però la circostanza che la maggior parte degli incidenti è legata all'uso di macchine ed attrezzature agricole e forestali ancora oggi spesso non a norma o non dotate di adeguati dispositivi di protezione degli operatori. La ragione principale sta nel fatto che in questo settore il parco macchine attualmente circolante è assai vecchio, con un’età media di 25 anni: dati gli alti costi delle macchine, molti preferiscono tenere quelle vecchie piuttosto che sostituirle o adeguarle. Peraltro, non sempre sussistono obblighi di legge in merito agli adeguamenti o all'adozione di dotazioni di sicurezza specifiche (ad esempio cinture di sicurezza e dispositivi antiribaltamento per i trattori). D'altra parte (ed è l'aspetto più grave e preoccupante della situazione), la Commissione ha potuto accertare direttamente che nel settore agricolo talvolta anche macchine ed attrezzature di nuova immissione sul mercato, pur formalmente in regola, non sono però munite di tutti i dispositivi più idonei a garantire la sicurezza degli utilizzatori. Su tale questione, di cui si dirà diffusamente più avanti nei paragrafi 4.2. e 5.2., la Commissione ha svolto un ampio lavoro di approfondimento ed ha altresì promosso iniziative legislative, tuttora in corso, volte ad incentivare la sostituzione e la messa in sicurezza delle macchine ed attrezzature agricole e forestali più obsolete e pericolose.


2.7. Le indicazioni degli esperti della sicurezza
Nella sua attività conoscitiva, la Commissione ha avviato un costante dialogo anche con le varie figure di esperti della salute e sicurezza del lavoro, quali medici del lavoro, ingegneri, specialisti in ergonomia, prevenzione e igiene del lavoro.
I vari specialisti, auditi nelle sedute del 3 marzo, del 10 marzo e del 26 maggio 2009, hanno, ciascuno per la parte di sua competenza, evidenziato le problematiche derivanti dall'applicazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 e fornito interessanti spunti di riflessione sul ruolo che essi sono chiamati ad esercitare sia quando operano all'interno degli enti pubblici di settore, sia quando agiscono nella veste di consulenti verso le aziende.
Una prima riflessione è stata sviluppata dalla Società italiana di medicina del lavoro e igiene industriale (SIMLII), che ha evidenziato i nuovi ed importanti compiti attribuiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro alla figura del medico competente dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Nel manifestare la propria condivisione dell'impostazione generale delle disposizioni del Testo unico su queste tematiche, i rappresentanti della SIMLII hanno però evidenziato la necessità di fissare requisiti molto rigorosi, sia etici che professionali, nella selezione dei medici chiamati a ricoprire tale ruolo, proprio per le importanti responsabilità ad esso attribuite. D'altra parte, essi hanno anche evidenziato una contraddizione all'interno della normativa, laddove si affida al medico competente esclusivamente l'attività di sorveglianza sanitaria, senza coinvolgerlo in maniera piena e fin dall'inizio in quella di valutazione e gestione del rischio all'interno dei luoghi di lavoro, in particolare all'interno delle aziende: il Testo unico, infatti, non prevede la partecipazione diretta del medico competente alla stesura del documento di valutazione dei rischi e ciò, a giudizio della SIMLII, rappresenta una notevole limitazione al contributo che i medici del lavoro possono offrire in questo campo.
Un'altra osservazione riguarda il fatto che il medico competente non debba limitare la propria attività solo in sede delle visite mediche preliminari o periodiche, ma debba avere la possibilità di svolgere il proprio ruolo attraverso un dialogo costante con i lavoratori, atteso che in molte realtà aziendali egli rappresenta l'unica figura di riferimento per quanto concerne la tutela della salute dei dipendenti. Purtroppo, sempre secondo le osservazioni della SIMLII, il medico competente è spesso distolto dalla sua attività di sorveglianza sanitaria da una miriade di adempimenti burocratico-formali, tra i quali l'invio di una serie di relazioni al Servizio sanitario nazionale, per la comunicazione di dati che, però , spesso, le Aziende sanitarie locali già conoscono e che, quindi, si rivelano di per se pletoriche e ridondanti. Viceversa, appare più utile lo svolgimento di programmi di formazione ed informazione dei lavoratori dal punto di vista sanitario, nonché la valutazione e l'analisi periodica dell'andamento degli infortuni e delle malattie professionali in azienda, di concerto con i datori di lavoro, i responsabili del servizio di prevenzione e protezione e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, al fine di segnalare per tempo determinate problematiche agli enti preposti.
Indicazioni altrettanto importanti sono venute dal confronto con la Consulta interassociativa italiana della prevenzione (CIIP) e con le varie associazioni di professionisti ad essa aderenti, che operano nelle varie discipline afferenti al campo della salute e sicurezza sul lavoro, sia nel sistema pubblico che privato (medici del lavoro, responsabili e addetti ai servizi di prevenzione aziendale, consulenti per la sicurezza e tecnici, psicologi, ergonomi, epidemiologi, radioprotezionisti, nonché rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza).
In tal modo, essi hanno potuto fornire una panoramica molto articolata delle tematiche afferenti alle attività di prevenzione e contrasto degli infortuni sul lavoro, che ha confermato ancora una volta l'impossibilità di affrontare e risolvere questo tragico problema senza un approccio di tipo sistemico e multidisciplinare, troppe essendo le competenze e le responsabilità coinvolte.
Il primo aspetto segnalato dalla Consulta riguarda la presenza ancora troppo limitata nel nostro Paese delle figure professionali che operano nel campo della prevenzione degli infortuni (tecnici, medici del lavoro, ingegneri ed altri esperti), nonché, soprattutto, una loro diffusione molto squilibrata dal punto di vista territoriale, assai diversi essendo i valori da Regione a Regione e, spesso, anche da ASL ad ASL. Per fare un esempio, sulla base dei dati disponibili alla fine del 2008, in Lombardia, la regione più grande d'Italia, il rapporto tra tecnici della prevenzione e numero di imprese è pari a 2,758, mentre in Sicilia è pari a 8,6 (quindi tre volte e mezza superiore). D'altra parte, entrando nel dettaglio, la Lombardia risulta avere solo 9 figure laureate (chimici, ingegneri, biologi o fisici) a fronte delle 18 della Sicilia, mentre annovera 135 medici del lavoro rispetto ai 28 della Sicilia. Questo esempio, in se limitato, è comunque emblematico di una situazione estremamente frammentata e variegata, che sconta anche una notevole carenza di risorse da parte degli enti territoriali.
Al riguardo, sarebbe interessante verificare se, e in che misura, le aziende sanitarie locali riescano ad applicare le disposizioni vigenti, secondo le quali le somme derivanti da sanzioni pecuniarie relative a violazioni in materia di salute e sicurezza del lavoro, dovrebbero essere destinate a campagne di informazione ed alle attività dei dipartimenti di prevenzione delle stesse aziende sanitarie locali. Nel corso dei sopralluoghi svolti in varie parti del Paese, la Commissione ha peraltro raccolto altre segnalazioni circa il mancato o insufficiente utilizzo di tali somme, che rappresenterebbero invece un'occasione importante di finanziamento per le attività di prevenzione antinfortunistica all'interno dei diversi territori. Secondo alcune stime, si tratterebbe, infatti, di circa mezzo milione di euro ad ASL ogni anno, per un totale (in Italia vi sono duecento ASL) di circa 100 milioni di euro, che però a volte finiscono in capitoli di spese di carattere generale, a volte vengono dislocate in ambiti diversi, altre volte, infine, rimangono del tutto inutilizzate.
Vi è poi la segnalazione, purtroppo ricorrente, della necessita di un effettivo e più intenso coordinamento fra tutti quanti gli enti deputati alle attività di prevenzione e contrasto agli infortuni sul lavoro, sia a livello centrale che periferico. Tale questione si intreccia con quella, da tempo dibattuta, circa l'opportunità o meno di ricondurre alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, attualmente oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Senza ovviamente entrare nel merito del dibattito politico, i rappresentanti della Consulta hanno però evidenziato l'opportunità che, fermo restando un forte raccordo a livello centrale, se gli interventi di prevenzione e controllo debbono rimanere affidati a livello territoriale (quindi, essenzialmente, alle Regioni e alle ASL), sia però reso noto ciò che si fa in termini di risorse utilizzate e di risultati. La proposta è quella di poter verificare l'efficienza e l'efficacia dell'attività svolta dai vari enti e, in caso di inadempienza degli stessi, di poter prevedere un sistema di intervento sostitutivo da parte degli enti di livello immediatamente superiore (Regioni o Stato centrale), al fine di garantire comunque il rispetto dei livelli minimi essenziali di assistenza nazionali (LEAP) e regionali (LEAR).
Dopo aver formulato un giudizio complessivamente positivo sul Testo unico, si è però ribadita ancora una volta la necessita che lo stesso sia applicato quanto prima nella sua interezza, soprattutto mediante l'emanazione dei decreti ministeriali attuativi ancora mancanti. Gli esponenti della Consulta si sono quindi soffermati sulla parte della nuova normativa che interviene sulla formazione-informazione in materia di prevenzione. Si tratta di un'attività che - non ci si stancherà mai di ripeterlo - risulta essenziale, per una efficace politica di contrasto agli infortuni sul lavoro e che dovrebbe riguardare non soltanto i lavoratori, ma tutte le figure della prevenzione: i responsabili aziendali dei servizi di prevenzione e protezione, gli addetti, i preposti e i dirigenti. Peraltro, relativamente ai responsabili e agli addetti del servizio di prevenzione e protezione (rispettivamente indicati come RSPP e ASPP), le organizzazioni competenti chiedono da tempo l'emanazione, mediante i necessari accordi in sede di Conferenza Stato-Regioni, delle linee guida per l'aggiornamento dei criteri di formazione fissati a suo tempo dal decreto legislativo 23 giugno 2003, n. 195, indispensabili per garantire la presenza di figure professionalmente qualificate ed aggiornate rispetto anche alle recenti innovazioni legislative.
Si tratta di una questione che la Commissione, nel corso della sua attività di indagine, si è trovata ad affrontare più di una volta: nel campo delle discipline che afferiscono alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, infatti, accanto agli specialisti più seri e qualificati operano purtroppo anche molte figure prive in tutto o in parte dei necessari requisiti di competenza e professionalità, alimentando un vasto sottobosco o «mercato» parallelo delle consulenze alle imprese, le quali non sono spesso in grado di distinguere tra i veri esperti e quelli più improvvisati o incompetenti. A ciò si aggiunge la segnalazione, da parte di molte associazioni di settore, del fatto che talora alcuni dei titoli di studio (diploma o laurea) che l'attuale normativa riconoscerebbe come validi per lo svolgimento delle funzioni di RSPP o ASPP non sono in realtà rispondenti alle competenze richieste per questo tipo di attività, mentre viceversa risulterebbero esclusi altri titoli o percorsi formativi che sarebbero idonei.
Proprio per mettere ordine in questo campo e tutelare la professionalità delle figure tecniche operanti nel settore, garantendo quindi alle imprese e, più in generale, al sistema nazionale della prevenzione la disponibilità di adeguate competenze, si chiede da più parti di definire con rigore i requisiti culturali, tecnici e di esperienza necessari per poter espletare le funzioni di consulenza ed assistenza in questo settore, istituendo un elenco o un albo pubblico degli RSPP e ASPP qualificati, che permetta di conoscere, tenere sotto controllo e indirizzare tali esperti attraverso il riconoscimento istituzionale della loro professionalità.
Sempre in tema di formazione, un richiamo importante è venuto, dagli esperti di varie discipline riuniti nella CIIP, a proposito della necessità di individuare strumenti e modalità di comunicazione dei contenuti formativi che siano di volta in volta mirati sugli specifici destinatari, atteso che non è evidentemente la stessa cosa, per fare un esempio, rivolgersi agli operai di un cantiere edile piuttosto che ai dirigenti di un'azienda di servizi. D'altra parte occorre ribadire ancora una volta che la formazione non si indirizza soltanto ai lavoratori, ma riguarda anche (sia pure con contenuti e, come appena detto, con modalità diverse) anche i datori di lavoro e i committenti.
Posto che molti degli operatori della prevenzione lavorano in ambito pubblico, è stato segnalato ancora una volta il problema della salute e sicurezza del lavoro nella pubblica amministrazione. La Commissione è stata più volte interessata da tali segnalazioni, che hanno messo in luce come molti ambienti di lavoro pubblici (scuole, università, ospedali, uffici) siano spesso ospitati in edifici e strutture obsolete, che avrebbero bisogno di importanti - e purtroppo costosi - interventi di adeguamento. In ogni caso, appare logico pretendere e vigilare affinché il rispetto delle norme antinfortunistiche sia garantito in primo luogo nelle pubbliche amministrazioni individuando una precisa catena di responsabilità e stanziando le risorse umane, finanziarie e strumentali necessarie a tal fine. In questo ambito, una menzione particolare è stata fatta per quanto concerne le aziende sanitarie locali e in particolare gli ospedali, che presentano per loro natura un'altissima concentrazione di potenziali rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori e che richiedono, pertanto, procedure e controlli ancora più rigorosi.
Un contributo ugualmente importante ai lavori della Commissione è infine giunto dall'Associazione italiana degli igienisti industriali (AIDII), che ha confermato ed integrato le indicazioni espresse dalle altre organizzazioni prima citate.
In primo luogo, l'AIDII, pur esprimendo un giudizio generalmente positivo sul decreto legislativo n. 81 del 2008, ha però lamentato il mancato riconoscimento istituzionale del ruolo delle associazioni tecnico-scientifiche che operano da tempo nel settore della prevenzione, nella fase «istruttoria» di individuazione delle proposte legislative e/o delle metodologie applicative (buone pratiche e buone prassi), laddove una più intensa partecipazione potrebbe contribuire, in collaborazione con le istituzioni e le parti sociali, ad una più facile diffusione delle conoscenze e delle metodologie migliori per la prevenzione dei rischi sui luoghi di lavoro.
Un secondo aspetto riguarda la necessita di assicurare in maniera costante il collegamento e l'interazione tra gli aspetti della salute e della sicurezza, attraverso la collaborazione e lo scambio continuo di informazioni tra tutti i soggetti pubblici e privati competenti.
Anche l'AIDII ha poi richiamato la problematica dei requisiti formativi e professionali per l'accesso all'attività di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, sottolineando l'opportunità dell'istituzione di un percorso formativo e di un albo o elenco degli esperti qualificati in analogia con quanto già avviene per altre figure professionali.
Un discorso a parte riguarda la tematica delle aziende ad alto rischio, che interessa ma non si limita a quelle ricomprese nella cosiddetta «legge Seveso» di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334. Il Testo unico distingue infatti tra imprese «a rischio convenzionale», i cui controlli sono sostanzialmente affidati alla competenza delle ASL, e aziende «a rischio rilevante», che sono sottoposte appunto alla «legge Seveso»: in una posizione intermedia, però, c’è una serie di aziende abbastanza grandi per essere già paragonabili a quelle che rientrano nella soglia prevista da tale normativa e per le quali possono verificarsi rischi di incidenti comunque significativi, che richiederebbero un'ulteriore restrizione normativa nelle valutazioni. La competenza dei controlli per questo tipo di aziende si trova a cavallo tra i servizi di prevenzione delle aziende sanitarie locali (ASL) e quelli delle agenzie regionali per la protezione ambientale (ARPA). I servizi delle ARPA, dei Vigili del fuoco e dei Comitati tecnici regionali si occupano delle aziende «a rischio di incidente rilevante», mentre i servizi di prevenzione territoriale delle ASL si occupano dei rischi convenzionali, che spesso si riducono agli incidenti di tipo più banale. Rimane quindi una lacuna normativa costituita dalle aziende a rischio maggiore o significativo, che non viene gestito ne dalle ARPA ne dalle ASL. Occorre dunque, ad avviso dell'AIDII, chiarire meglio tale aspetto, individuando con precisione le attività a rischio di incidente grave o significativo e prevedendo un rafforzamento dei relativi adempimenti e controlli.
Un'altra proposta dell'associazione, sostenuta peraltro anche da altri interlocutori con i quali la Commissione ha avuto modo di confrontarsi nel corso della sua inchiesta, riguarda la necessita di diffondere in modo trasparente ed innovativo conoscenze ed esperienze riguardanti gli infortuni sul lavoro. Imparare dagli incidenti è possibile ed utile, soprattutto quando si consideri che nella maggior parte dei casi si tratta di situazioni di tipo ripetitivo. La diffusione di dati certi riferiti agli incidenti ed alle relative inchieste e prassi diffusa in molti Paesi avanzati e potrebbe essere svolta in maniera rapida ed economica attraverso la costruzione di banche dati via Internet. L'utilità sarebbe significativa ed immediata, consentendo l'adozione di provvedimenti e di verifiche in tempo reale ed aumentando il livello di consapevolezza sia delle autorità di controllo che dei destinatari interessati all'evento (ad esempio le aziende operanti nello stesso settore di quelle ove si è verificato un determinato infortunio).
Purtroppo tale possibilità si scontra con l'esigenza del segreto istruttorio legato alle inchieste portate avanti in sede giudiziaria. Preziose informazioni hanno così diffusione tardiva e limitata, per lo più di natura giornalistica. Tale limite potrebbe essere superato, con un rapporto costi/risultati decisamente favorevole, istituendo siti coordinati di banche dati online, dove nel rispetto della privacy e degli eventuali segreti istruttori vengano resi disponibili i dati tecnici, le inchieste svolte dai servizi di vigilanza, filmati e materiali, ed ogni altra risorsa utile, unificando anche i siti tematici già disponibili.