SENATO DELLA REPUBBLICA

XVI LEGISLATURA

Giunte e Commissioni


Resoconto stenografico


Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»

Seduta 56, mercoledì 6 luglio 2010



Audizione del professor Luigi Pati, Università Cattolica del Sacro cuore di Brescia



Intervengono il professor Luigi Pati, ordinario di pedagogia sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, coordinatore del Gruppo di studio e ricerca sulla formazione alla sicurezza sul lavoro e direttore del «Centro studi pedagogici sulla vita matrimoniale e familiare» (Ce.S.Pe.F.), e la dottoressa Paola Zini, ricercatrice del «Centro studi pedagogici sulla vita matrimoniale e familiare» (Ce.S.Pe.F.).


PRESIDENTE
L’ordine del giorno reca l’audizione del professor Luigi Pati, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia.
Comunico che, ai sensi dell’articolo 13, comma 2, del Regolamento interno, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo. Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori. Comunico altresì che della seduta sarà redatto e pubblicato il resoconto stenografico.
Sono oggi con noi il professor Luigi Pati, ordinario di pedagogia sociale all’Università cattolica del Sacro Cuore di Brescia, coordinatore del gruppo di studio e ricerca sulla formazione alla sicurezza sul lavoro e direttore del Centro studi pedagogici sulla vita matrimoniale e familiare (Ce.S.Pe.F.), e la dottoressa Paola Zini, ricercatrice del Centro studi pedagogici sulla vita matrimoniale e familiare.
L’audizione di oggi avrà ad oggetto le problematiche relative alla formazione e prevenzione, una tematica di cui si occupa un gruppo di lavoro specifico della nostra Commissione coordinato dalla senatrice Bugnano. Ci pregeremo del contributo autorevole dei nostri invitati che potrà servire al lavoro che la Commissione, ed in modo particolare la senatrice Bugnano, sta portando avanti.

PATI
Permettetemi di dire che sono onorato di essere qui oggi, pertanto vorrei rivolgere un sentito ringraziamento sia alla senatrice Bugnano per l’invito sia al Presidente per l’accoglienza riservataci. Le riflessioni che farò riguardano fondamentalmente due aspetti: da un lato una giustificazione molto breve delle ragioni per le quali la riflessione pedagogica presta attenzione al tema della sicurezza nei luoghi di lavoro e dall’altro quali caratteristiche possono favorire una riflessione sul tema della formazione alla sicurezza dal punto di vista pedagogico.
Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè l’interesse della pedagogia per la sicurezza nei luoghi di lavoro, faccio un brevissimo richiamo al fatto che la riflessione pedagogica da sempre ha prestato attenzione a tale tema: parlare di lavoro significa infatti toccare una delle tematiche classiche della riflessione pedagogica. Nel corso degli ultimi anni, come docente di pedagogia sociale presso l’Università cattolica, proprio approfondendo le problematiche relative al mondo del lavoro e soprattutto attraverso i rapporti stabiliti con settori lavorativi (profit e no profit) della provincia di Brescia, mi sono reso conto che il tema della sicurezza sul lavoro è dirimente, perché non possiamo parlare di lavoro e di educazione al lavoro senza parlare anche di educazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro.
Sotto questo profilo, la dimensione pedagogica ha contribuito certamente a rivisitare in maniera nuova un tema che fino ad ora è stato approfondito essenzialmente da altri settori disciplinari. Da tale aspetto abbiamo tratto altresì alcune conseguenze: formare alla sicurezza nei luoghi di lavoro non è solo necessario, ma è indispensabile se si vuole portare avanti una nuova cultura del lavoro.
Abbiamo avuto l’occasione per mettere a fuoco ed approfondire alcune di queste idee nel 2007, quando insieme all’ISPESL abbiamo organizzato a Brescia un convegno nazionale intitolato: «Sicurezza sul lavoro: quale formazione? Un ambito di ricerca per la pedagogia sociale», i cui atti sono stati recentemente pubblicati a cura dell’ISPESL.
Lungo questa scia abbiamo proseguito ad approfondire il tema e recentemente ci siamo misurati con la formazione alla sicurezza per le organizzazioni di volontariato, considerando anche che la nuova normativa in materia, il decreto legislativo n. 81 del 2008, pone proprio il problema della formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro non solo per i lavoratori, ma anche per i volontari. Pertanto, toccando tale problematica anche per le organizzazioni di volontariato, abbiamo affrontato un tema nuovo nel panorama nazionale, tant’è vero che il report di questa ricerca (di cui ho portato un volume uscito la settimana scorsa) risulta significativo, proprio perché apre un nuovo percorso di riflessione a livello nazionale.
Occorre però fare un’altra riflessione, poiché in questo volume riportiamo anche l’esperienza relativa alla formazione alla sicurezza per giovani volontari.
L’ulteriore elemento che voglio sottolineare è proprio questo: abbiamo voluto sperimentare direttamente dei percorsi formativi per costoro rivolgendo l’attenzione a un gruppo di nostri studenti universitari (circa 40) che dopo il terremoto in Abruzzo avevano manifestato l’intenzione di andare ad aiutare quelle popolazioni; anche per loro abbiamo avviato un percorso di formazione alla sicurezza prima dell’esperienza in quelle zone. Quindi possiamo dire che la ricerca teorica come anche l’esperienza empirica che abbiamo voluto portare avanti ci hanno sollecitato ad approfondire sempre più il tema, anche in aspetti inusuali come quello relativo alle organizzazioni di volontariato.
Per quanto concerne, invece, la formazione all’esterno dell’università, nel corso degli ultimi 5 o 6 anni abbiamo avuto diverse esperienze con organizzazioni profit e no profit: da due o tre anni a questa parte stiamo portando avanti dei percorsi di formazione alla sicurezza sul lavoro con l’acciaieria Lucchini di Brescia. All’inizio abbiamo svolto una ricerca volta a valutare la cultura della sicurezza che si respira in azienda e successivamente ci è stato chiesto un percorso di formazione per i capireparto, che a loro volta dovranno avviare dei percorsi di formazione per gli operai. Questa esperienza è ancora in atto e la stiamo proseguendo con buona soddisfazione reciproca.
Vorrei ora spendere alcune parole per riferire come intendiamo i percorsi di formazione alla sicurezza, sottolineando tre elementi su cui poi farò qualche breve riflessione: il primo riguarda l’attenzione che rivolgiamo alla persona lavoratore; il secondo concerne il tema della cultura aziendale della sicurezza; il terzo il rapporto tra lavoratore e organizzazione aziendale.
Quanto alla persona lavoratore, l’assunto da cui prendiamo le mosse è che non si può educare alla sicurezza, nel senso di formare secondo quanto stabilito dall’attuale normativa, se non si muove dal presupposto che la formazione deve avere un percorso continuativo nel tempo, posto che abbiamo a che fare con un processo di apprendimento continuo: ci si forma alla sicurezza non una volta per tutte, ma in maniera permanente.
Il secondo elemento riguarda la necessità che la formazione alla sicurezza favorisca una chiara percezione del rischio insito nello svolgimento di determinate attività, anche quelle di volontariato. Come dicevo, l’attenzione da noi rivolta alle organizzazioni di volontariato si è poi tradotta in un volume, al quale abbiamo voluto dare il titolo «Il rischio scelto», proprio perché nello svolgimento di alcune attività di volontariato il rischio non è subìto ma scelto e, quindi, si rischia di operare in settori altamente problematici.
Il terzo elemento sul quale puntiamo l’attenzione, e dal quale muoviamo per favorire i percorsi di formazione, concerne soprattutto il tema dell’esperienza. Non si può portare avanti un percorso di formazione prescindendo dal tema dell’esperienza del lavoratore (quali siano, cioè, le realtà, sia relazionali, sia lavorative, sia materiali nelle quali egli si viene a trovare) e, soprattutto, dall’esperienza come elemento sul quale favorire processi di riflessività. Qui entriamo nel campo di una delle acquisizioni proprie della riflessione pedagogica. Risale, infatti, a Dewey l’assunto di partire dall’esperienza per farla diventare oggetto di riflessività favorendo, attraverso questo percorso, un processo di apprendimento e, quindi, di rielaborazione nuova della cultura della sicurezza.
Ovviamente, questi percorsi richiedono da parte dei formatori l’attenzione a un criterio. E il criterio che in questo contesto si giustifica è soprattutto quello evolutivo: non si può formare alla sicurezza se non si considera che il tema della formazione alla sicurezza cambia in riferimento alle varie età della vita della persona, perché cambiano i bisogni, cambiano le attenzioni, cambiano le attese, cambiano le prerogative del soggetto. Da questo punto di vista, il criterio evolutivo diventa un criterio di differenziazione dei percorsi. Questa differenziazione riguarda, naturalmente, anche i vari contesti nei quali il lavoratore opera. Il supporto a tale intuizione è stato fornito proprio dalle ricerche che, come dicevo, abbiamo svolto con gli studenti, con gli adulti, con gli operai, con i volontari.
Pertanto, abbiamo portato avanti questo percorso di differenziazione in senso evolutivo.
Circa il secondo elemento atto a formare la sicurezza, cioè la cultura aziendale della sicurezza, noi partiamo dal presupposto che l’organizzazione di lavoro non è un ambiente neutro dove si consumano una serie di iniziative di carattere informativo e addestrativo. La normativa vigente in materia di sicurezza parla, appunto, di tre momenti: il momento della informazione, il momento dell’addestramento e il momento della formazione.
Si tratta di tre momenti fondamentali, che trovano il loro coronamento nel momento della formazione. Quest’ultimo, infatti, implica l’acquisizione di schemi di condotta, di schemi e di modalità comportamentali che, ovviamente, implicano una percezione dell’ambiente lavorativo non come luogo neutro bensì come comunità di pratiche. Nell’ambiente di lavoro si svolgono delle pratiche lavorative e di formazione alla sicurezza che possono, e devono, diventare a loro volta elementi di apprendimento e di formazione alla sicurezza.
Da questo punto di vista, allora, la prospettiva si sposta dal singolo soggetto al gruppo. E ` il gruppo che apprende; è la comunità di pratiche che diventa comunità di apprendimento e in questa comunità l’esperienza individuale diventa patrimonio comune. L’elemento fondamentale risiede proprio nel fatto che la formazione alla sicurezza non si esaurisce nel singolo soggetto, ma l’esperienza del singolo diventa fattore di apprendimento per gli altri.
Ovviamente, ciò significa che noi guardiamo all’azienda, all’impresa, alla scuola (perché la formazione alla sicurezza si svolge anche, e soprattutto, nella scuola) non come ad un ambiente neutro ma quasi come ad un educatore implicito. Anche l’ambiente educa, attraverso gli attori che in esso agiscono e che in esso si avvalgono delle risorse che progressivamente si presentano. Naturalmente sotto questo profilo abbiamo la necessità di valutare gli orientamenti assiologici, cioè gli orientamenti di valore che contraddistinguono una certa azienda. E ` chiaro, infatti, che se essa ha degli orientamenti di valore secondo cui il singolo soggetto è considerato semplicemente l’anello trascurabile di una catena, anche il concetto di comunità di pratiche perde significato. Se, al contrario, consideriamo l’azienda come ambiente di lavoro nel quale il singolo soggetto è da valorizzare come risorsa dell’intera comunità lavorativa, il discorso sarà diverso.
Il tema dei valori è quindi fondamentale. Non esiste nessun ambiente di convivenza privo di valori, ma sempre abbiamo a che fare con orientamenti di senso che qualificano l’organizzazione stessa.
Da questo punto di vista, noi affrontiamo un tema fondamentale: la formazione cambia, e può cambiare, a seconda dei luoghi nei quali si svolge e a seconda del tipo di orientamenti valoriali che l’organizzazione stessa ha. Questo principio, ovviamente, va contro la standardizzazione della formazione. Molto spesso quest’ultima viene ridotta a informazione ed una serie di indicazioni prassiche (ad esempio, cartelli che tappezzano le aule) sono contrabbandate come formazione. In realtà non si tratta di formazione, ma semplicemente di informazione, di un primo tassello. In tal senso, il supporto a queste intuizioni e a questa procedura da noi definita è fornito anche dalle indagini: non solo quelle alle quali ho fatto riferimento in apertura ma anche all’indagine relativa ai bisogni e alle attese dei giovani che si sono recati a L’Aquila per svolgere attività di volontariato.
Il terzo e ultimo elemento è costituito dal rapporto tra lavoratore e organizzazione aziendale. L’impostazione che noi abbiamo dato e continuiamo a dare al tema della formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, come accennavo in precedenza, implica una diversa percezione del lavoratore. Egli non è colui che svolge una semplice attività, più o meno retribuita e più o meno volontaria, e non esaurisce la propria attività una volta che abbandona il luogo di lavoro. Il lavoratore è invece visto come elemento che concresce con l’ambiente di lavoro e come elemento chiamato a compartecipare alla vita dell’azienda, di cui diventa anche corresponsabile.
Ciò è importante, perché se è vero che la formazione alla sicurezza deve favorire la definizione di una nuova cultura della sicurezza nel lavoro è chiaro che questo non può avvenire senza la corresponsabilità diretta del lavoratore. Direi, quindi, che si tratta di un elemento fondamentale.
Al riguardo, il criterio che proponiamo è trasformativo: come abbiamo toccato con mano con la Lucchini, per l’azienda portare avanti percorsi di formazione alla sicurezza dei propri dipendenti significa al tempo stesso intraprendere un percorso di trasformazione di se stessa. In altre parole, avviare un percorso di formazione alla sicurezza dei propri operai, capireparto e responsabili in maniera nuova, elaborando una nuova cultura della sicurezza, per l’azienda significa altresì sottoporsi a una serie di modificazioni che favoriscano la compartecipazione del lavoratore alla vita dell’azienda stessa. In un certo qual modo noi abbiamo a che fare con una nuova figura di lavoratore, anche ai fini della rilevazione degli elementi di rischio. Lo dico perché molto spesso il lavoratore si autolimita nel segnalare le rischiosità (come vengono definite) proprie di un’attività lavorativa, laddove nella prospettiva della sua corresponsabilità alla vita dell’azienda e quindi della sua compartecipazione, egli è inteso anche come sensore, cioè come colui che con autorevolezza può segnalare l’esistenza di fattori di rischio nel contesto lavorativo. In questo senso, allora, il supporto che abbiamo avuto, ovvero la segnalazione dei fattori di rischio e quindi la necessità di attivare iniziative che possano favorirne il superamento, proviene sia dall’azienda con cui adesso stiamo lavorando, che dalle organizzazioni di volontariato; i volontari cioè diventano elementi di segnalazione di eventuali rischiosità inserite in un determinato contesto ambientale. Concludo qui la mia esposizione con cui ho cercato di fornire un quadro generale.

BUGNANO (IdV)
Professor Pati, la ringrazio degli elementi molto interessanti che ci ha fornito, i quali, peraltro, trovano conferma in altre audizioni che abbiamo svolto in precedenza. Per riassumere il suo contributo, parlerei dell’importanza della continuità della formazione, della consapevolezza da parte del lavoratore del rischio a cui va incontro e, non ultimo, come lei ha evidenziato, mi richiamerei ad una corresponsabilizzazione del lavoratore rispetto al momento formativo nell’ambito dell’azienda, perché ciò fa sì che in qualche modo egli possa svolgere anche un ruolo di sentinella rispetto a eventuali pericoli e rischi che ci possono essere all’interno dell’impresa.
Rispetto alle indicazioni che abbiamo avuto in altre audizioni, mi sembra un’impostazione assolutamente corretta e questo mi fa piacere.
In una rivista pubblicata dall’ISPESL, che mi è sembrata molto interessante, venivano riportate alcune esperienze didattiche condotte nella vostra università. In effetti, mi pare di capire dal suo intervento che potete esprimere un giudizio positivo sul lavoro che si sta portando avanti, anche alla luce del riscontro ottenuto nelle aziende, le quali manifestano un interesse sempre crescente verso il momento formativo, che per essere tale e non mera informazione, non deve essere standardizzato, bensì creato ad hoc o in qualche modo specializzato rispetto all’azienda su cui si va ad intervenire.

ZINI
Signor Presidente, insieme al professor Pati mi occupo soprattutto di formazione dei lavoratori alla sicurezza sul campo, pertanto vorrei sottolineare brevemente alcuni aspetti importanti in questo ambito. Un primo elemento, cui ha già fatto cenno il professore e che teniamo sempre in considerazione, concerne la valorizzazione dell’esperienza, il fatto cioè di avere la consapevolezza che il lavoratore è portatore di conoscenze e competenze. Non pensiamo quindi ad una formazione alla sicurezza calata dall’alto, dove vogliamo esclusivamente insegnare qualcosa, ma ad un momento in cui si possa valorizzare l’esperienza delle persone in modo tale che possano vivere diversamente la loro attività.
In secondo luogo, la formazione deve essere vicina ai contesti e ai problemi. Possiamo cioè immaginare una formazione alla sicurezza astratta e lontana dal proprio lavoro o, al contrario, vicina ai problemi del lavoratore (al mulettista non posso parlare di management, ma del carrello elevatore). Questo aspetto è molto importante, proprio perché configura una formazione vicina alle persone e alle pratiche; diversamente il rischio che si corre è di pensare a qualcosa di inutile, che i lavoratori percepiscono lontano e quindi non spendibile.
In terzo luogo, il contesto lavorativo può sicuramente essere luogo di formazione sul campo. Infatti, se riteniamo che la sicurezza sia una competenza sociale e un sapere in azione, certamente la si sperimenta e la si vive nel contesto lavorativo. Infatti in ogni ambiente di lavoro si respira una determinata concezione di sicurezza e quindi il lavoratore inserito in un certo contesto lavorativo si forma (ma può anche non farlo). Quindi in ogni ambiente si può vivere e respirare una certa idea di sicurezza.
Dunque, se proponiamo una formazione che può uscire dall’aula e scendere sul campo, questa verrà sicuramente percepita come più vicina ed efficace, perché il lavoratore può vivere e sperimentare una certa idea di sicurezza.
Questi tre elementi sono quindi fondamentali nell’approcciare il tema formativo con i lavoratori.

PRESIDENTE
Professor Pati, desidero in primis ringraziarla. Noi abbiamo ascoltato sia il suo intervento sia la parte integrativa, relativa alla cosiddetta formazione operativa sul campo, che la dottoressa Zini ha voluto illustrarci.
In questo quadro, avete anche valutato i costi? Lei infatti ha fatto riferimento ad una grande realtà industriale ma, come lei ben sa, in Italia sono presenti, purtroppo o fortunatamente, delle micro realtà. A mio avviso, andrebbe compiuto uno sforzo anche in questo senso (qualora lo stesso non sia già stato compiuto) per capire come muoversi in realtà più piccole e comprendere quali siano i costi. Ciò consentirebbe a noi di poter fare anche delle quantificazioni. Uno degli elementi di riserva, allorquando venne votato il decreto legislativo n. 81 del 2008, fu appunto quello relativo alle disponibilità finanziarie. Quindi, se noi potessimo avere, sia pure in riferimento all’esperienza che lei ed altri state facendo su questo campo, anche dei dati relativi ai costi ciò rappresenterebbe un’indicazione molto importante.
Lei sarà venuto a conoscenza di molti drammi sul lavoro avvenuti in piccolissime aziende, dove gli stessi imprenditori sono morti con i propri dipendenti. Si tratta di un problema presente, al di là del punto di vista scientifico e dell’approccio didattico o, come da lei meglio definito, pedagogico, e la sua mi è sembrata un’analisi molto attenta, della quale la ringraziamo.
Ora, però, le chiediamo se può aiutarci, attraverso le sue riflessioni, le sue conoscenze e attraverso quella che, nel momento in cui ci rivolgiamo alle università, noi definiamo «scienza», a capire in che modo, nel tessuto imprenditoriale italiano, noi possiamo cercare di svolgere questi processi di formazione, intesa come autocoinvolgimento (anche da parte del lavoratore) e come attenzione, presenza e cultura del rischio, che comunque esiste sempre, dappertutto, e quindi anche nei luoghi di lavoro.
Il lavoratore e il datore di lavoro debbono percepire tali problematiche, alle quali anche il decreto legislativo n. 81 del 2008 fa riferimento, proprio nella parte relativa alla formazione.

PATI
Presidente, volentieri svolgo qualche riflessione su quanto da lei detto e, anzi, la ringrazio per questi spunti. Occorre fare una distinzione tra grandi e piccole aziende. Attualmente, siamo dinanzi a una normativa che stabilisce l’obbligatorietà dell’azione per le aziende per quanto riguarda il tema della formazione alla sicurezza dei propri dipendenti. Da questo punto di vista, si tratta di un dato di fatto preciso. È chiaro che per le grandi aziende come la Lucchini la questione assume una dimensione particolare. Tra l’altro, paradossalmente, sono proprie le grandi aziende che contrattano sul costo della formazione, nel senso che prestano certamente molta attenzione ai costi. E l’elemento che le sollecita ad aderire alle iniziative di formazione è il ritorno di immagine, soprattutto perché nel momento in cui una grande azienda dimostra che al suo interno ha attivato dei percorsi di formazione alla sicurezza dei propri dipendenti, ciò le conferisce una diversa fisionomia nel panorama nazionale.
Per quanto riguarda, invece, il settore delle piccole aziende, lei saprà che proprio Brescia e la sua provincia si contraddistinguono per una molteplicità di piccole aziende. Il mio discorso è qui assimilabile a quello relativo alle organizzazioni di volontariato. Anche per queste ultime esiste la questione dei costi; portare avanti il tema della formazione diventa oggi un onere non indifferente, posto che esse, pur basandosi su attività di volontariato, devono sottostare ad attività di formazione e di sicurezza. La soluzione ideale sarebbe proprio quella di favorire forme di associazione tra le piccole aziende, o tra le varie organizzazioni, in modo tale che i percorsi di formazione possano essere portati avanti avvalendosi anche dell’esperienza altrui.
Sulla scorta di quanto abbiamo detto, nel momento in cui diversi settori profit e diverse organizzazioni no profit si associano per intraprendere percorsi di formazione per i loro dipendenti, l’esperienza acquisita dai costoro può favorire forme di apprendimento reciproco alla sicurezza. Chiaramente, tale aspetto complica il discorso formativo. Un conto, infatti, è rivolgere la propria attenzione a un settore particolare, altro conto è rivolgere la propria attenzione a più settori. Certamente il discorso economico è fondamentale e anche qui discriminante, ma occorre pensare a forme associative.
Questa è la mia idea.

PRESIDENTE
Del resto, professor Pati, di più non si poteva pretendere, perché non saremmo più stati nel campo della scienza ma avremmo sconfinato nell’alchimia. Noi ci poniamo fortemente questo problema, dal momento che proprio in questa miriade di partite IVA le situazioni si complicano. Per noi questo è un problema molto serio e complesso e sicuramente il suo contributo potrà aiutarci.
Lei non ritiene che possa esserci comunque un elemento di base non sia solo di comunicazione (la ringrazio, a tal proposito, per la specifica netta da lei fatta nel passaggio tra comunicazione e informazione)? Non pensa, inoltre, che possa esservi un discorso di base che, in qualche modo, non sia solo di informazione ma anche di formazione e che possa coinvolgere anche realtà più piccole dove si riscontrino dei denominatori comuni? Al di là della specificità dell’elevatore, della macchina «taglia e cuci» e di altri macchinari che possono caratterizzare la specificità della produzione, io mi interrogo sulla possibilità di lavorare ad un aspetto comune che non sia solo culturale e teorico (aspetto pure fondamentale e importante, in quanto propedeutico per il resto), ma che in qualche modo trasmetta delle buone prassi, sia una base sulla quale poi permettere quei segmenti di sviluppo sul campo, come affermava la dottoressa Zini, e che in qualche modo riesca a superare questo gap delle innumerevoli monadi rappresentate dalle aziende presenti in Italia. Forse proprio l’università potrebbe aiutarci ad affrontare tale questione.

PATI
Presidente, attualmente abbiamo a che fare con la necessità di valorizzare le risorse interne delle associazioni e delle aziende anche per quanto riguarda il tema della formazione. Il discorso che noi stiamo portando avanti in piccolo con questa acciaieria, e che vogliamo fare anche con le organizzazioni di volontariato, mira a trasformare alcuni soggetti operanti in azienda in diffusori della cultura della sicurezza.
Il vero nodo, anche dal punto di vista economico, può essere questo.
Se si presuppone che la formazione alla sicurezza può essere erogata soltanto da un ente esterno all’azienda, secondo me si incorre in un errore gravissimo. Al contrario, l’azienda deve essere messa in condizione di elaborare una propria cultura della sicurezza avvalendosi delle sue risorse interne.
In questo senso, risultano estremamente significativi i dati che abbiamo ottenuto attraverso un’indagine di tipo quantitativo presso l’azienda Lucchini, dove abbiamo distribuito circa 900 questionari e ne abbiamo ricevuti in risposta 750, quindi un’altissima percentuale. Per quanto concerne la cultura della sicurezza e la percezione del rischio, è emerso che prestano minore attenzione ai rischi e quindi manifestano una scarsa attenzione nei confronti della sicurezza i lavoratori neoassunti e – paradossalmente – quelli che hanno più anni di esperienza, cioè i due estremi. Invece, i gruppi che prestano maggior attenzione al tema della sicurezza sono costituiti dalla popolazione adulta, con un’età non troppo elevata, tra i 45 e i 50 anni, che ha alle spalle un certo numero di anni di attività lavorativa e un contesto familiare da tutelare e da accudire. Al riguardo, sono rimasto colpito in maniera particolarmente favorevole dal fatto che anche l’ISTAT ha cambiato la propria percezione dei lavoratori: mentre in precedenza le sue indagini venivano svolte all’insegna del singolo individuo, adesso il lavoratore viene percepito come inserito nel contesto familiare.
Ciò significa che l’universo relazionale della persona ha un’incidenza enorme sulla sua attività lavorativa e in questo caso ne abbiamo un’ulteriore dimostrazione, poiché la popolazione di lavoratori che ha una famiglia, dei figli da mantenere e mandare a scuola è più attenta nei confronti del rischio.
È dunque opportuno intervenire su questo segmento di lavoratori per fare in modo che costoro possano diventare diffusori di una nuova cultura della sicurezza in azienda, per attuare quello che in linguaggio forbito si chiama empowerment, cioè un potenziamento delle risorse possedute dall’azienda, il che può favorire una vera autonomia anche nel campo della formazione alla sicurezza.

PRESIDENTE
Professor Pati, mi permetto di tornare su un punto per sottoporle un’ipotesi di riflessione scientifica. Vorrei chiederle se ritiene possibile arrivare ad un denominatore comune che rappresenti non soltanto un elemento nozionistico sull’informazione relativa alla sicurezza, ma già di per se´ un processo formativo alla sicurezza. Questa potrebbe essere un’ipotesi di lavoro.

PATI
Certamente può esserlo.

PRESIDENTE
Noi abbiamo 1.000 aziende che hanno 1.000 tipicità diverse (o forse meno dal momento che spesso le attività sono ripetitive).
Se riuscissimo a stabilire quali sono gli elementi di formazione per la prevenzione, e quindi per la sicurezza del lavoratore (a prescindere dall’ultima parte del lavoro che è costituita dalle tipicità proprie dell’attività che il lavoratore andrà a svolgere) probabilmente avremmo fatto metà del percorso, in particolare rispetto alla formazione sul campo.

PATI
Secondo me è possibile trovare questo denominatore comune, che identifico fondamentalmente nella procedura. Intendo dire che tutte le aziende, indipendentemente dal settore lavorativo o di volontariato in cui operano, hanno necessità di potenziare la risorsa fondamentale che è il lavoratore, favorendo un processo in base al quale l’attività lavorativa, di qualunque tipo, non si esaurisce nello svolgimento di un’azione, ma diventa elemento di riflessività. Si tratta di una procedura in base alla quale il singolo lavoratore o volontario deve essere sollecitato a sottoporre a revisione critica il proprio agire; è una procedura di autoformazione, cioè di assunzione di consapevolezza attraverso la propria attività lavorativa. Ovviamente, ciò significa che lavorando si deve riuscire a enucleare alcuni elementi attraverso i quali favorire il processo di riflessività. Da questo punto di vista, la ricerca degli elementi di rischiosità può favorire il processo.
Le faccio un esempio molto semplice: ho qui il rendiconto finale svolto con la Lucchini sul l’indagine che abbiamo effettuato. Alla fine dell’esperienza di formazione, abbiamo somministrato dei questionari di valutazione dell’esperienza e di autovalutazione della propria cultura della sicurezza. È estremamente interessante notare come dinanzi ad alcune domande relative agli elementi di rischio, i lavoratori abbiano già identificato ciò che devono evitare e ciò che invece devono prendere in considerazione come elemento di tutela di se stessi. È interessante vedere come rispetto a varie alternative (dinanzi all’esistenza di un rischio il lavoratore deve: svolgere comunque la propria attività, svolgere la propria attività sotto il controllo del caporeparto, non deve svolgere nella maniera assoluta quella attività), alla fine dell’esperienza di formazione, i lavoratori abbiano risposto in percentuale massima che non si deve assolutamente svolgere quel tipo di attività. Quindi il favorire processi di riflessione sull’elemento di rischiosità, che è comune anche a chi fa volontariato, a mio avviso può rappresentare proprio quell’elemento comune al quale lei, signor Presidente, faceva riferimento.

BUGNANO (IdV)
In conclusione, vorrei ringraziare ancora una volta il professor Pati e la dottoressa Zini per le importanti informazioni che ci hanno dato. Li ringraziamo altresì per questo volume che hanno lasciato agli atti e che, effettivamente, amplia la nostra visione del settore del volontariato al quale, come Commissione, non avevamo in effetti rivolto la nostra attenzione, laddove ritengo che si tratti di un settore molto importante, non solo perché previsto nella legge ma perché estremamente diffuso, che va quindi attenzionato anche dal nostro punto di vista.
Quindi, ringraziamo i nostri ospiti con l’auspicio di incontrarli nuovamente.

PRESIDENTE
Ringrazio a mia volta gli auditi e dichiaro conclusa l’audizione.
I lavori terminano alle ore 16.

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Fonte: Senato della Repubblica