SENATO DELLA REPUBBLICA

XVI LEGISLATURA

Giunte e Commissioni


Resoconto stenografico

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»

Seduta 7, mercoledì 29 ottobre 2008

Audizione del presidente dell’Istituto per gli affari sociali




Presidenza della vice presidente COLLI

Interviene il professor Antonio Guidi, presidente dell’Istituto per gli affari sociali, accompagnato dalla dottoressa Arianna Scamardella.

PRESIDENTE
L’ordine del giorno reca l’audizione del professor Antonio Guidi, accompagnato dalla dottoressa Arianna Scamardella.
Comunico che, ai sensi dell’articolo 13, comma 2, del Regolamento interno, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo e che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso.
Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.
Saluto e ringrazio a nome della Commissione il professor Antonio Guidi e la dottoressa Arianna Scamardella.
Ricordo in premessa che l’Istituto per gli affari sociali (IAS), nuova denominazione attribuita all’ex Istituto italiano di medicina sociale con decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 23 novembre 2007, è un ente di diritto pubblico del settore ricerca, vigilato dal Ministero della solidarietà sociale. Tale Istituto svolge attività di ricerca, di consulenza strategica, di assistenza tecnica e di formazione in materia di politica sociale, ivi compreso l’ambito delle professioni e del lavoro nel campo sociale.
Cedo ora la parola al professor Guidi.

GUIDI
Signora Presidente, onorevoli senatori, prima di iniziare un percorso su quella che definisco «la piaga dei nostri giorni», le cosiddette guerre evitabili (gli infortuni sul lavoro, gli infortuni stradali e, in parte, gli infortuni domestici), non posso non rilevare che come presidente dell’Istituto ho vissuto il travaglio di un periodo complesso.
L’Istituto italiano di medicina sociale per molti decenni si è occupato, per mission forte, di prevenzione degli infortuni sul lavoro, realizzando nell’ultimo periodo un lavoro meritorio in vari settori delle attività lavorative (in particolare, per ciò che concerne il decreto legislativo n. 626 del 1994), dell’infortunistica legata alla possibilità di folgorazione e creando una connessione con altri enti dell’infortunistica legata ai cantieri; un punto critico, quest’ultimo, perché spesso collegato al lavoro degli extracomunitari che, quindi, poco conoscono la realtà e i pericoli del lavoro nei cantieri.
Purtroppo, al termine della precedente legislatura, per motivi non politici, voglio sottolinearlo (mi riferisco alle politiche sociali, chiaramente, non alla politica in senso stretto), l’Istituto è stato commissariato per sei mesi. Un commissariamento voluto, soprattutto, dall’ex ministro Ferrero.
Nel periodo di commissariamento si è creato un vuoto forte e le premesse per un cambiamento non solo della denominazione, ma anche della mission dell’Istituto; un cambiamento non voluto da alcuno degli interni (i ricercatori, per intenderci), né dai sindacati, né dalle forze politiche. Tuttavia, con un atto d’imperio dell’ex – per fortuna, dico io – ministro Ferrero e con vari provvedimenti l’Istituto ha cambiato nome e, in parte, mission: da «Istituto di medicina sociale», una denominazione estremamente moderna che coniugava la salute al sociale (cosa di cui abbiamo tutti bisogno) è diventato «Istituto degli affari sociali» (immagino che il termine «affari» sia stato una sorta di lapsus freudiano del ministro Ferrero o di chi gli ha tenuto botta in quel momento).
Il cambiamento di denominazione ha coinciso con un cambiamento di statuto e quando sono tornato come Presidente, avendo vinto il ricorso al Consiglio di Stato, ho cercato di colmare il vuoto che si era prodotto e nell’alea che si era creata, ho cercato d’indurre i ricercatori, nel rispetto della nuova mission, a salvaguardare lo stesso il tema per noi centrale degli infortuni sul lavoro e della loro prevenzione. Ho anche scritto al Presidente della Repubblica che da sempre ci spinge ad una maggiore attenzione in questo comparto.
Dico questo perché da circa un anno viviamo un doppio travaglio: contrastare gli infortuni sul lavoro, ma anche avere strumenti concreti all’interno dell’Istituto. Posso dire, con una certa soddisfazione, che in questi ultimi mesi i ricercatori, insieme agli amministratori, hanno compiuto un notevole sforzo per adeguare la mission sociale all’intervento sugli infortuni sul lavoro. Pur rendendoci conto di avere in parte le armi spuntate, dovendo agire sullo base dello statuto, la rilevanza sociale degli infortuni sul lavoro e le loro conseguenze (non solo la morte che già di per sé è un evento gravissimo) ci rassicurano circa il fatto che i risvolti sociali degli infortuni ci danno la possibilità di contrastarne, anche con la prevenzione, l’incidentalità. Di certo, se fosse rimasta la competenza sanitaria avremmo potuto agire in maniera più capillare.
Per questo mi sento di affermare, senza alcun intendimento critico, che certe scelte – in questo caso politiche, ma molto personali – di persone che per mandato dovrebbero difendere i lavoratori hanno poi privato gli stessi (ripeto per scelte che nulla hanno a che vedere con la politica; i senatori capiranno a cosa mi riferisco; non parlo di clientelismo, la cosa è chiara, quindi non debbo farlo io) di una chance di prevenzione e ciò secondo me rappresenta un atto molto grave. L’ho già denunciato a tutti i livelli, quindi in questa occasione lo rubrico alla vostra coscienza e alla vostra memoria.
In qualità di studioso del settore e Presidente dello IAS – una denominazione, spero, temporanea – e come persona che si è occupata di riabilitazione (poi dirò perché quest’ultima è importante) non nego che, nonostante l’allarme, noi assistiamo ad una moderata diminuzione del numero degli incidenti e delle morti bianche. Quindi, da un certo punto di vista, potremmo dire che questo tragico bicchiere tende ad essere più mezzo pieno che mezzo vuoto giacché esiste un trend in diminuzione.
Allora, cosa ci preoccupa? Intanto, finché si registrerà anche una sola morte sul lavoro noi dovremo impegnarci affinché non si verifichi. È davvero inaccettabile che il primo diritto sancito nella Costituzione italiana, il lavoro, sia causa di morti, infortuni e disabilità per tutta la vita. Ma la preoccupazione è doppia. Innanzitutto il trend di caduta è troppo lento rispetto all’impegno profuso. Certo, se compariamo i dati relativi al boom economico del 1963, in cui si registrò un’impennata dei numeri relativi agli infortuni e alle morti sul lavoro, a quelli attuali potremmo dire che oggi le condizioni sono migliori di allora. Ma il numero delle morti bianche (e la qualità della vita di chi sopravvive) è così ampio da far sì che questo settore debba essere considerato critico: l’impegno di ridurre drasticamente gli infortuni, le morti bianche e l’invalidità successiva (settore di cui si parla troppo poco) non può che essere per ogni Governo, locale, regionale e nazionale, un impegno prioritario. Lo è per l’Istituto che presiedo, lo è per questa Commissione e dovrebbe esserlo in maniera diffusa.
L’altro argomento critico – che comporta, quindi, una diminuzione del dato lenta, troppo lenta – è relativo agli immigrati. Di per sé, è già causa di infortunio la diffusa scarsa conoscenza, o non conoscenza, della filiera lavorativa (dalla lavorazione dei manufatti alla performance che deve avere il lavoratore), che tuttavia non voglio definire incoscienza perché non voglio dare la colpa degli infortuni che si verificano a chi lavora.
Chi viene da lontano e conosce poco o affatto la nostra lingua spesso non può usufruire di quella preziosissima cultura della trasmissione verbale tra lavoratori che porta a comunicarsi l’un l’altro a cosa prestare attenzione per evitare l’infortunio. Questo vale tanto per la lingua, quanto per i segnali visivi e scritti: spesso i simboli di pericolo, che per noi in Europa sono assolutamente comuni e condivisi (rappresentano una sorta di esperanto), tanto da far scattare la molla dell’attenzione, per molte persone venute da lontano non rappresentano un segnale di allarme. Quindi, per problemi linguistici e culturali (come la non riconoscibilità dei segnali di attenzione), nonché – perché no – per la piaga della clandestinità (che impone ritmi di lavoro massacranti, cosicché con il crescere della fatica cala l’attenzione), notiamo un aumento dell’incidentalità, assoluta e relativa, nel settore dei lavoratori che vengono da lontano, quindi degli immigrati, sia riconosciuti sia clandestini.
Un ultimo punto mi preme sottolineare, ma senza darvi quelle fredde cifre a disposizione di tutti in quanto fornite dall’ISTAT e dall’INAIL, che risultano addirittura agghiaccianti per un Paese che vede un’enorme risorsa nel lavoro e, in modo particolare, in quello della piccola impresa.
Dobbiamo darci da fare per risolvere tale questione. Vi ringrazio, pertanto, dell’occasione di parlarne che mi viene offerta dalla presente audizione presso la vostra Commissione, invitandovi, anzi, a comunicare con noi più di frequente: siamo a disposizione anche per tavoli di lavoro monotematici, poiché l’argomento ci affascina, dal momento che vorremmo veramente abbattere queste cifre agghiaccianti.
Devo sottolineare, però, alcuni aspetti. Anche i media - e, quindi, la politica di oggi, spesso così mediatica – danno giustamente enorme risalto alle morti bianche (e ci mancherebbe, pur se il risalto dovrebbe essere ancor maggiore perché anche un solo morto all’anno è da rifiutare). Parliamo poco, però, di quei 900.000 ed oltre cittadini italiani che non muoiono, ma restano in vita, con invalidità sempre più gravi. Questo è un punto critico che non viene analizzato da nessuno: le moderne tecniche di rianimazione – per fortuna – permettono in molti casi di restare in vita lasciando, però, disabilità gravissime. Non voglio certo sostenere che sia meglio la morte (proprio per il mio mestiere non accetterò mai la morte come un male minore, ci mancherebbe!), dobbiamo considerare, tuttavia, un ampio numero di persone con disabilità serissime che hanno bisogno di riabilitazione ad alta intensità e assistenza a vita (domiciliare, familiare e spesso, purtroppo, ospedaliera in residenze sanitario-assistenziali).
Questo stock dolente e preoccupante di persone deve affrontare un enorme numero di problemi personali e familiari, i quali comportano anche un costo elevato per la società (pur non essendo mai stato un ragioniere della salute, mi rendo conto che quest’ultimo aspetto non viene preso in considerazione, se non a piè di lista). Vorrei, dunque, che sui media e nell’agenda politica, a tutti i livelli, si parlasse sempre più delle morti sul lavoro ma vorrei anche che non si dicesse più, ad esempio, «per fortuna, ne sono morti solo tre e gli altri sono rimasti feriti»; «per fortuna» non si deve dire, perché spesso i feriti – che non vengono nominati – saranno gli invalidi gravi di domani. Questi invalidi e disabili vanno invece nominati, posto che non si devono contare solo le morti, ma anche la vita di chi vive segnato e cambiato per sempre, in maniera estremamente negativa. Vi chiedo, pertanto, di prestare maggiore attenzione a questa problematica, sia nel nominare tali invalidi sia, soprattutto, nell’intervenire nel settore.
Va inoltre sottolineato che, accanto ad altri tipi di disabilità, spesso, gli infortunati sul lavoro con postumi invalidanti – che quindi rimangono disabili gravi – non trovano sempre il giusto posto all’interno della dinamica programmatoria delle ASL. Forse ci vorrebbe un finanziamento ad hoc. Capisco che parlare di ulteriori finanziamenti in un momento così complesso non è facile; però, chi ha vissuto la guerra non voluta del lavoro e rimane invalido per tutta la vita deve ricevere un’attenzione particolare: non si tratta di una disabilità che vale di più rispetto alle altre, ma spesso è meno conosciuta e riconosciuta.
Un sottocapitolo di questo problema è rappresentato dall’infortunistica – mai raccontata – delle persone con disabilità. Queste ultime (con disabilità di tutti i tipi, dalla sindrome di Down alla spasticità, a problemi psichici e quant’altro), negli anni più recenti – in fondo positivi da questo punto di vista – hanno spesso trovato un lavoro (in cooperative, a domicilio e, oggi, persino con il telelavoro, soprattutto negli enti, pubblici e privati).
A margine, voglio dire che è sorprendente vedere con quanta voglia di lavorare, applicazione e coraggio queste persone con disabilità (anche se oggi si parla di «diversa abilità», termine che comprendo poco), nonostante le loro difficoltà riescono ad applicarsi sul lavoro, essendo di esempio agli altri. È evidente che la fatica per «acchiappare» (come dicono a Roma) questo lavoro è tanta perché, al di là delle quote e dei percorsi preferenziali, vi è ancora una grossa riottosità ad assumere e far lavorare persone con disabilità, che invece, sempre di più – e mi ci metto anch’io – diventano lavoratori, quindi cittadini a pieno titolo. E tanta è questa fatica che spesso, per la paura di perdere il lavoro, queste persone tendono a nascondere i piccoli infortuni (di gravi non ne conosco molti, fortunatamente, ma di piccoli sì). Allora, magari assieme alle associazioni, sarebbe il caso di analizzare meglio il fenomeno, senza con questo voler dire che essendo molti gli incidenti causati dalla disabilità debba diminuire la quota di lavoro riservato ai disabili: analizziamo il fenomeno, però, perché spesso la voglia di lavorare è tale che la prevenzione non viene descritta, né magari consegnata a chi tutoreggia il percorso iniziale (ai genitori o alle persone che sono in grado di comprenderne appieno i termini).
Ecco, uno sforzo ulteriore va fatto. Io mi occupo di questo settore da anni, anche come medico, e so che spesso tanti piccoli incidenti legati alla disabilità sono vissuti e non raccontati. Bisognerà affrontare anche questo aspetto senza far perdere nemmeno un posto di lavoro.
Mi sono dilungato sin troppo. Ribadisco che sono a pronto ad inviarvi in ogni momento la documentazione che riterrete necessaria. Vorrei aggiungere una considerazione, però, di cui sono profondamente convinto.
Non posso fare a meno di far partire la mia proposta dalla scuola, come sempre, anche se questa sta diventando il contenitore di tutto: quando c’è un problema come la disabilità – e questo è giusto – la tossicodipendenza, la sessualità e l’educazione civica si propone sempre di spiegarlo a scuola, spesso in termini assolutamente impropri. Addossiamo tutto alla scuola e sovente gli argomenti principali che andrebbero trattati in quella sede vengono invece messi un po’ da parte. Questo è un discorso che mi affascina.
L’argomento lavoro, però, andrebbe inserito in maniera strutturale nei programmi scolastici, anche perché la Costituzione, di cui tanto per fortuna si parla, lo mette al primo posto. Bisogna chiarire con gli studenti cosa significa lavoro, cos’è il lavoro sia come valore sia come rischio in generale, perché lo studente italiano, rispetto agli altri studenti dell’Unione europea, da analisi multifattoriali che sono state svolte anche da noi, è uno di quelli che meno conoscono il mondo del lavoro. L’unica cosa che gli si chiede è «che lavoro farai da grande», e lo studente sogna assieme agli adulti. è necessario, invece, chiarire cosa vuol dire azienda, cosa vuol dire fabbrica, cosa vuol dire lavoro in agricoltura, magari in via generale, ma va descritto così come vanno descritti i valori fondanti e i rischi che si corrono perché uno studente consapevole del valore del lavoro, ma anche dei rischi, è un futuro lavoratore più forte rispetto ai rischi stessi.
In secondo luogo, si deve garantire all’interno di ogni attività lavorativa una quota economica che vada alla prevenzione. Si sente dire, l’ho sentito dai Governi dei quali ho fatto parte e come attento lettore della politica, e ci credo fortemente da sempre, che l’investimento in innovazione e in ricerca è prioritario per qualsiasi azienda e per qualsiasi lavoro.
Effettivamente è così però inserirei nell’investimento anche una quota oltre la legge per alfabetizzare i lavoratori, a tutti i livelli, sugli infortuni sul lavoro.
Tra l’altro oggi coesistono i vecchi rischi con i nuovi rischi. Per esempio, quello dei videoterminali, già studiati ma solo a livello fisico e non psicologico. Vorrei che la psicologia entrasse come componente essenziale della prevenzione e dell’analisi dei rischi, che spesso non sono solo fisici. Non ci si «ammala» cioè nel fisico, ma nell’anima; non voglio fare della filosofia, parlo di malattie ad alto impatto sociale e su questo chiedo alla Commissione di riflettere.
Concludo dicendo che lavorare (per chi lo desidera sempre più a lungo e questo non certo per colpa dei Governi locali ma per trend internazionali) è un bene così prezioso – come lo è la famiglia – che non può essere non difeso e deve diventare sempre meno rischioso. Questo è un auspicio del Presidente pro tempore di un Istituto che non voleva cambiare il suo nome, ma è soprattutto l’auspicio che faccio da cittadino perché lavorare con l’incubo degli incidenti è qualcosa che vorremmo vedere alle nostre spalle e non nel nostro futuro. Vi ringrazio e resto a vostra disposizione.

PRESIDENTE
Siamo noi che la ringraziamo, professor Guidi. Il suo intervento è stato molto interessante ed esaustivo.

DE ANGELIS (PdL)
Professor Guidi, prima di tutto vorrei ringraziarla per la sua presenza e per la sua relazione, completa ed esaustiva, che ha abbracciato tutte le tematiche della tragedia che noi stiamo analizzando da qualche mese. È chiaro che la sua relazione colpisce per il modo in cui l’ha espressa e per le tematiche che ha proposto – che chiaramente rispecchiano quelle seguite dall’Istituto di cui lei fa parte – e colpisce anche rispetto alla audizione dell’INAIL, la quale ci ha sottoposto, secondo quello che è il suo mestiere, una serie di fredde cifre, rese ancor più drammatiche dalle modalità di relazione. Lei ci ha parlato del numero d’infortunati.
Per la precisione, si tratta di oltre 900.000 infortunati all’anno?

GUIDI
Si, tutti gli anni.

DE ANGELIS (PdL)
Sarebbe possibile sapere se si tratta di infortuni gravi o lievi? Lei giustamente dice che, al di là dei drammi personali e psicologici, esiste anche una questione di costi sociali e di situazioni di recupero che rendono il problema abbastanza complesso. Vorrei sapere, dunque come sono articolati gli infortuni; sarebbe interessante conoscere tale dato, se si tratta di un trend positivo o in diminuzione.
Per quanto riguarda le sue ulteriori considerazioni, ne abbiamo già parlato nelle altre audizioni e probabilmente lo faremo anche nelle prossime. Quello che mi stupisce, e vorrei sapere se è d’accordo con me, è che parlando con gli attori di questa tragedia ho l’impressione che abbiano tutti una profonda conoscenza del problema ma che non si riesca a passare alla fase applicativa. Sembra che l’INAIL abbia a disposizione 5 miliardi, ma quando entrerà in fase applicativa il famoso coordinamento di cui si parla?
Lei ci ha parlato anche dei giovani e delle scuole. Ebbene, l’83 per cento di queste è fuori norma. Già di per sé si tratta di un input educativo negativo che si diamo ai giovani, che forse non conoscono la parola lavoro ma vivono in un ambiente in cui tutte le condizioni di sicurezza sono disapplicate.
Per quanto riguarda il problema della formazione dei lavoratori, ci sono settori dove ormai la maggior parte dei lavoratori è formata da extracomunitari: parlo dell’agricoltura, della pesca e adesso anche dell’edilizia.
La formazione di questi lavoratori e i controlli nei cantieri sono necessari, ma in determinate Regioni (questo non deve essere nascosto ma detto apertamente), dove già esistono rilevanti problemi di ordine pubblico, tali controlli andrebbero intensificati.
Sono convinto che alla fine dei lavori di questa Commissione potremmo disporre di un documento completo e dunque dare il nostro contributo.
Tuttavia, ho l’impressione che tutti abbiamo consapevolezza del fenomeno, ci battiamo per ottenere maggiori finanziamenti, ma non si riesca ad agire in modo da apportare davvero un contributo positivo nella vita di tutti i giorni.

GUIDI
Senatore De Angelis, condivido il richiamo «svegliatevi ragazzi» cui lei ha accennato. Spesso – ma questa è un po’ una caratteristica italiana, nel bene e nel male – dalla denuncia alla concretezza dell’azione passa molto tempo. Stiamo scontando il doverosissimo decentramento di alcune competenze ma, una volta realizzata la politica di sistema, ciò rappresenterà un valore. Spesso gli enti nazionali si trovano leggermente in difficoltà a trasferire i mezzi, il know how in periferia. Quindi esiste ancora una difficoltà di sistema che deve essere colmata.
Rispondendo in parte a quanto da lei affermato, ritengo sia necessario ridarsi delle priorità. La catena di attenzioni da lei suggerita, che passando per la scuola dovrebbe arrivare ai controlli nei cantieri penso debba essere realizzata in maniera più forte a livello locale, soprattutto scontando il dramma geografico. Come sappiamo, infatti, nel Centro-Sud e in alcune aree del Nord-Est, anche se così diverse nella cultura del lavoro, si registrano risultati molto particolari. Dobbiamo, dunque, agire con maggiore forza.
Il suo richiamo alla scuola mi ha molto colpito. In quanto medico scolastico e neuropsichiatra infantile, mi sono trovato, ad esempio, ad insegnare la prevenzione (ero allora membro scolastico) a studenti della scuola elementare, media, superiori in edifici dove era presente l’amianto, vivendo quindi il dramma di esprimere il mio pensiero in un ambiente che non potevo condividere. Situazioni analoghe esistono ancora. Non bisogna recitare la parte dei «grilli parlanti», in fatto di prevenzione, in ambienti dove ancora non è rispettata la salute del cittadino. Mi sembra esistano dei progetti per dare maggiore risalto alla bonifica e alla messa a norma degli ambienti scolastici. Ben vengano. Sono anni che sollecitiamo questo a livello locale; speriamo che almeno in questo settore si operi un intervento omogeneo.
Rispetto alla gravità delle cifre annuali, esprimo un moderato ottimismo perché sia il numero degli incidenti che la gravità degli stessi sono in diminuzione. I dati che ho riportato sono quelli denunciati dall’INAIL. In alcuni casi segue un periodo d’invalidità temporanea, spesso un’invalidità assoluta.
Sollecitato dalla sua richiesta, senatore De Angelis, invierò le tabelle che forniranno la quantificazione-qualificazione del problema che resta, comunque, molto complesso. Possiamo, infatti, affermare in tutta franchezza che spesso la quantificazione aritmetica dell’invalidità non dà ragione delle difficoltà incontrate dalle persone nella vita quotidiana. Il 10 per cento d’invalidità vuol dire nulla e tutto, come pure il 20 o il 30 per cento. Solo il 100 per cento dà la dimensione di una perdita totale di capacità. Ma esiste un’area grigia, compresa nel termine di moderata invalidità, che spesso in una società competitiva come la nostra priva la persona di chance per ottenere un nuovo lavoro. Il 30 per cento di invalidità o il 40 per cento sembrano poco ma racchiudono dei drammi. Per rispondere alla sua richiesta, senatore De Angelis, invierò comunque una tabella ragionata e ragionevole. Insisto comunque nel dire che, pur in una tale visione, per abbattere questo dramma dobbiamo essere positivi perché senza l’ottimismo, seppure preoccupato, non si fa nulla.
Voglio ora tornare sul tema dell’inabilità residuale all’infortunio, un mondo di persone che vedono cambiare la vita in un secondo. Vedete, nascere con una disabilità o avere disabilità per malattie non evitabili non conforta, ma in qualche modo tranquillizza la persona. Ciò che non è evitabile va ridotto nella dimensione delle difficoltà e accettato, ne parlo a proposito. Ma chi vede la vita cambiata in maniera enormemente negativa per l’atto più consueto della vita di un cittadino, il lavoro, non sa darsi pace. Non solo per la perdita di possibilità di vita precedentemente conquistate, ma perché il teorema «lavoro uguale disabilità» è un teorema che nessuno riesce a comporre nel proprio cuore.
Sono riabilitatore da tanti anni e vedo l’enorme differenza tra chi vive il dramma, ma anche il «fascino», della disabilità non acquisita, e chi vive tale dramma nell’ingiustizia di un infortunio. Sono vite completamente diverse: da una parte c’è la voglia di vivere (come c’è nell’altro caso), la voglia di avere dalla vita un risarcimento, ma nel secondo caso spesso c’è una rabbia, un’acredine che seppur giusta segna però la vita.
Quindi, a maggior ragione, dobbiamo combattere questa piaga.
Questo è ciò che volevo dire, seppur con molta amarezza non per quello che non viene fatto, ma perché spesso ciò che viene realizzato nel settore della prevenzione e del contrasto alle infrazioni nel lavoro viene visto come qualcosa che deve essere fatto, a fatica, e non come uno dei doveri principali di chi offre lavoro, di chi controlla.
Forse conoscendo queste storie, oltre che i numeri impressionanti, saremmo tutti più vigili e attenti a questo settore.

PRESIDENTE
In attesa di ricevere le tabelle, che saranno per noi tutti di grande utilità, la ringraziamo vivamente per il suo prezioso contributo.
Accogliamo, inoltre, con molto entusiasmo la sua proposta di partecipare ai nostri futuri gruppi di lavoro.
Dichiaro conclusa l’odierna audizione.
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Fonte: Senato della Repubblica