Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 6, 22 aprile 2011, n. 16164 - Mobbing e rapporto di affidamento


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente

Dott. GARRIBBA Tito - Consigliere

Dott. CORTESE Arturo - Consigliere

Dott. PETRUZZELLIS Anna - rel. Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:
1. L.M., nato a (OMISSIS), parte civile;
avverso la sentenza del 17/06/2010 della Corte di appello di Catanzaro, emessa nei confronti di:
1. D.L.L., nato a (OMISSIS);
2. M.C., nato a (OMISSIS);

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. PETRUZZELLIS Anna;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. D'ANGELO Giovanni, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avv. Gigliotti Francesco per la parte civile ricorrente che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata, e gli avv.ti Cantafora Nicola per D.L. e Perrone Felice Eugenio per M., che hanno concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

 

 

1. La difesa di L.M., parte civile nel procedimento a carico di D.L.L. e M.C., propone ricorso avverso la sentenza del 17/06/2010 con la quale della Corte d'appello di Catanzaro ha confermato l'assoluzione degli imputati dal delitto di maltrattamenti perchè il fatto non sussiste.
L'odierno ricorrente, dirigente di primo livello dell'ospedale di (OMISSIS), reparto di Odontostomatologia lamentava un comportamento vessatorio in suo danno da parte del D.L., e dell'infermiera M. dalla data di assunzione della qualifica di dirigente di secondo livello responsabile del reparto da parte del primo.
I giudici di merito sono giunti all'assoluzione valorizzando sia l'assenza del rapporto di affidamento del L. ai due imputati, sussistendo solo un rapporto di subordinazione organizzativo, sia la mancanza di prove nel merito dei singoli episodi qualificati come maltrattamenti da parte del L..
Nel ricorso la difesa lamenta violazione della norma penale e difetto di motivazione della sentenza, contestando l'assunto in diritto, ed argomentando sulla rilevanza della relazione intersoggettiva che si instaura con il datore di lavoro al fine di consentire la configurabilità del reato contestato, richiamando il rapporto d'autorità cui l'imputato era sottoposto.
Sulla base delle risultanze istruttorie che hanno accertato la realizzazione di condotte vessatorie consistite in infondati illeciti disciplinari, nell'organizzata selezione dei casi meno richiesti, nella programmata inattività cui era costretto senza ragione, si assume mancante la motivazione, che non ha compiutamente analizzato tutte le condotte poste in essere dagli imputati, emerse nel corso dell'istruttoria, eccependo inoltre contraddittorietà della motivazione ove, pur ritenendo che i fatti integrassero la figura del mobbing, ne aveva limitato la rilevanza ai soli fini civilistici.
Si chiede pertanto l'annullamento della pronuncia, con le conseguenze di legge.

 

 

Diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile, non sussistendo i vizi eccepiti in ricorso.


2. Sull'interpretazione in diritto si rileva che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il reato di cui all'art. 572 c.p. può integrarsi solo quando sussista un affidamento della parte lesa al potere disciplinare dell'autore dei fatti (Sez. 6, Sentenza n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Rv. 244457), circostanza che può verificarsi anche in ambienti di lavoro, che siano però caratterizzati da una consuetudine di vita costante di natura parafamiliare, che crei nella parte offesa un rapporto di dipendenza ed affidamento simile a quello che si realizza nell'ambito indicato, con riconoscimento da parte di questa della soggezione al potere del dirigente, e realizzazione, per l'effetto, di una situazione di debolezza che impone una più pregante tutela.
Tale delimitazione è legittimata sia dalla collocazione della disposizione normativa, che dalle espressioni testuali delimitatrici della fattispecie, che fanno riferimento a sottoposizioni all'autorità. Le più risalenti pronunce sul punto, che sono giunte all'affermazione di responsabilità per il delitto richiamato consumato in ambienti di lavoro, pongono l'accento sulla presenza nel concreto di situazioni di fatto, quale la condivisione del medesimo spazio lavorativo, l'esercizio costante della materiale attività sotto il controllo del dirigente che si svolga con realizzazione di sostanziale comunanza di vita (Sez. 6, n. 10090 del 22/01/2001, dep. 12/03/2001, imp. Erba, Rv. 218201), l'esercizio di questi di un potere correttivo riguardo l'esplicazione dell'attività di lavoro (Sez. 6, n. 2609 del 25/09/1995,dep. 18/03/1997, imp. Aprile Rv. 207527) che si connoti di finalità pedagogiche.

Nel caso concreto nulla di quanto evocato può essere riscontrato, vertendosi in tema di un rapporto gerarchico intercorrente tra dirigenti medici, nell'ambito del quale poteva sussistere esclusivamente la consapevole sottoposizione al potere dispositivo ed organizzativo del superiore, non l'affidamento richiamato, ed in relazione ai cui soprusi ben poteva immaginarsi la legittima reazione, sul piano amministrativo e civile, dell'odierno ricorrente, in assenza di alcuna spinta affettiva o di subordinazione materiale, o psicologica, idonea a rendere difficilmente ipotizzabile qualsiasi reazione, nel che è l'essenza della tutela riconosciuta dalla disposizione penale in esame, che proprio per la sua configurazione di condotta abituale presuppone anche una sorta di consuetudine di sopportazione, ipotizzabile proprio nelle forme di subordinazione para familiare richiamate.
Nel concreto il rapporto tra le parti era regolato solo dal vincolo gerarchico e la prestazione dell'attività di lavoro del ricorrente rispetto ai suoi pazienti si svolgeva in totale autonomia, è bene rimarcare in proposito che L. neppure prospetta indebite ingerenze da parte degli imputati, essendo sottratto l'ambito richiamato a qualsiasi influenza del D.L., poichè le conseguenze lamentate dal ricorrente si riflettevano solo nel modulo organizzativo imposto, non essendo apprezzabile, in tale contesto, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa e intollerabile a causa della sopraffazione sistematica di cui sarebbe rimasto vittima.


Ne consegue che deve escludersi la ricorrenza dell'affidamento richiamato dalla norma, ritenuto essenziale per la configurazione del reato; in tal senso la valutazione in diritto del giudice di merito, risulta correttamente ed esaustivamente motivata e si sottrae alle censure sollevate in questa sede, peraltro mosse sulla base dell'erronea parificazione della subordinazione insita nel potere disciplinare del dirigente all'affidamento ritenuto idoneo a configurare la fattispecie richiamata, presupposto, per quanto detto, non condivisibile.
Del pari priva di contraddizione è la conclusione cui è giunto il giudice di merito sulla qualificabilità delle condotte lamentate come inquadrabili nel cd mobbing, quale violazione di specifici obblighi di natura contrattuale, derivanti da principi costituzionali (art. 2087 c.c., artt. 32 e 41 Cost.), e suscettibile di produrre in favore del lavoratore esclusivamente il diritto al risarcimento, poichè in senso contrario a quello sostenuto dal ricorrente, risulta costantemente affermata in diritto l'autonomia riconosciuta nel nostro ordinamento alle due figure giuridiche evocate, non essendosi ancora giunti a sanzionare penalmente le condotte persecutorie realizzate dal datore di lavoro, prive dei connotati sopra indicati.

La pronuncia impugnata, anche sotto tale profilo, risulta immune da censure.

1.  I motivi esposti assorbono già ulteriori rilievi sulla contraddittorietà della motivazione, fondati sulla erronea valutazione delle prove assunte, poichè sulla base della medesima prospettazione, non risultano allegate situazioni di subordinazioni di fatto astrattamente rilevanti al fine di decidere per la configurazione del reato contestato.

2.  Alla dichiarazione di inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma in favore della cassa delle ammende, determinata come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.