Note e commenti:

Parisella P. G.,  Le persone tutelate dall’assicurazione obbligatoria, 2006

 

 


 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Mileo Vincenzo - Presidente -
Dott. Miani Canevari Fabrizio - Consigliere -
Dott. De Renzis Alessandro - Consigliere -
Dott. D'Agostino Giancarlo - rel. Consigliere -
Dott. De Mattaeis Aldo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
A.V., elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avvocato (omissis), che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato (omissis), giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
I.N.A.I.L. - Istituto Nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in persona del Dirigente Generale Dott. D. L.E., Direttore della Direzione centrale rischi, elettivamente  domiciliato in (omissis), rappresentato e difeso - tanto congiuntamente che disgiuntamente - dagli avvocati (omissis), giusta procura speciale atto notar (omissis) di Roma del 18/02/04, rep. 64544;
- resistente con procura -
avverso la sentenza n. 107/02 del Tribunale di Perugia, depositata il 11/03/03 R.G.N. 297/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/02/06 dal Consigliere Dott. Aldo De Matteis;
udito l'Avvocato (omissis);
udito l'Avvocato (omissis);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Nardi Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

L'Inail, sede di Perugia, ha emesso ordinanza ingiunzione per L. 19.478.690 nei confronti della sig.ra A.V., titolare di esercizio di tabaccheria, profumeria e articoli da regalo, per omessa denuncia quale persona assicurata del marito L.A., coadiutore familiare. L'opposizione della A. è stata respinta dal primo giudice e, in appello, dal Tribunale di Perugia con sentenza 11 marzo 2003 n. 107.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la A., con sei motivi.
L'intimato Istituto si è costituito con controricorso, resistendo.

Diritto

Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 18, censura la sentenza impugnata sotto due profili: a)per avere escluso l'obbligo di audizione dell'interessata da parte dell'Inail, con la motivazione che questa aveva inviato gli scritti difensivi oltre il termine di trenta giorni previsto dalla norma in esame;
b) per avere ritenuto motivata una ordinanza ingiunzione generica.
Quanto alla prima doglianza, il giudice d'appello ha posto a base della decisione il principio di diritto enunciato da questa Corte (Cass. 29 maggio 1996 n. 4959, Cass. 1 luglio 2000 n. 8840), che ha distinto tra richiesta di adempimento delle obbligazioni contributive e richiesta di sanzioni amministrative, e ha ritenuto che il particolare procedimento previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 per l'irrogazione della sanzione amministrativa ed i requisiti di legittimità ed efficacia del relativo procedimento non si estendono alla richiesta di adempimento delle obbligazioni previdenziali, ancorchè tale richiesta, mediante ordinanza-ingiunzione (o decreto ingiuntivo), sia congiunta a quella della sanzione amministrativa.
Pertanto, in ipotesi di ricorso a ordinanza - ingiunzione, ai sensi dell'art. 35, comma 2, legge citata, per il pagamento sia della sanzione amministrativa che dei contributi assicurativi e relativi accessori, l'inosservanza dell'obbligo della contestazione o della notificazione dell'illecito (che è causa di nullità dell'ordinanza per la parte relativa alla sanzione amministrativa) non spiega alcun effetto in ordine alle pretese concernenti i contributi assicurativi e gli accessori; la cui fondatezza il giudice dell'opposizione - pur se l'opponente abbia dedotto solo vizi propri del procedimento d'irrogazione della sanzione amministrativa - è tenuto (salvo il caso d'incompetenza dell'autorità amministrativa che ha emesso l'ingiunzione) a verificare nel merito, anche in mancanza di domanda riconvenzionale dell'ente previdenziale, il quale, rispetto alle pretese anzidette, ha la veste sostanziale di attore e quella processuale di convenuto.
Il giudice d'appello ha rilevato che l'ordinanza ingiunzione non ha per oggetto sanzioni amministrative, ed ha concluso, correttamente, che il giudice del merito, trattandosi di giurisdizione sul rapporto e non sull'atto, deve valutare la pretesa sostanziale che dall'atto emerge. Quanto al secondo profilo, costituisce valutazione di fatto, correttamente motivata, insindacabile in questa sede di legittimità, che la documentazione prodotta in giudizio dall'Inail, attestante lo stato della posizione assicurativa, con le comunicazioni tra la ditta, l'Inail e l'Ispettorato del lavoro, insieme con l'articolata e puntuale difesa della A., provano come la stessa fosse in grado di conoscere compiutamente le motivazioni della pretesa creditoria azionata dall'Istituto previdenziale.
Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, commi 9 e 10, censura la statuizione della sentenza che ha rigettato l'eccezione di prescrizione, con la motivazione che l'istituto assicuratore ha richiesto i premi nel limite di un decennio antecedente l'accertamento ispettivo, tenuto conto altresì dell'interruzione ex lege del termine stesso per un triennio (D.L. 12 settembre 1983 n. 463, ex art. 19, comma 20, convertito, con modificazioni, in L. 11 novembre 1983, n. 638, e D.L. 30 dicembre 1987, art. 12, convertito nella L. 29 febbraio 1988, n. 48).
La ricorrente rileva che il verbale di accertamento del 17 maggio 1993 rappresenta l'unico atto interruttivo della prescrizione prima della notificazione dell'ordinanza - ingiunzione avvenuta il 30 novembre 1995, ed ha riguardato soltanto i periodi dal 1 gennaio 1988 al 16 maggio 1993. Invece, l'ordinanza-ingiunzione addebita omissioni contributive per periodi che partono dal 01,01.1981, periodo per il quale la pretesa contributiva sarebbe estinta per prescrizione alla luce della disciplina normativa sopra richiamata, che ha ridotto a cinque anni il periodo prescrizionale dei contributi diversi da quelli di pertinenza del Fondo Pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie. Il richiamo alla sospensione prevista dalla L. n. 638 del 1983 sarebbe inconferente ai sensi della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 10.
La Corte rileva: la L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 10, applica il nuovo regime prescrizionale quinquennale anche alle contribuzioni precedenti l'entrata in vigore della legge, ad eccezione dei casi di procedure iniziate nel rispetto della normativa precedente, nei quali si applica non solo il termine decennale ma anche il prolungamento di un triennio (Cass. 7 gennaio 2004 n. 4 6).
Il verbale di accertamento del 17 maggio 1993 costituisce l'inizio di una procedura, nel rispetto della normativa precedente, volta all'accertamento ed alla riscossione di un credito contributivo, e vale come atto interruttivo della prescrizione (Cass. 12 maggio 1995 n. 5230), nei limiti dell'accertamento. Infatti l'atto di messa in mora, interruttivo, ai sensi dell'art. 2943 cod. civ., comma 4, della prescrizione, per essere idoneo allo scopo, deve chiaramente indicare l'ammontare della somma dovuta e il titolo di essa (Cass. 19 aprile 2002 n. 5673).
Poichè nel caso di specie questo riguarda solo i contributi omessi nel periodo 1 gennaio 1988 al 16 maggio 1993, solo per il recupero dei contributi in questi limiti temporali vale la prescrizione decennale, più il triennio di sospensione, di cui alla disciplina precedente. In questi termini il motivo va accolto.
Con i motivi da 3 a 6 la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 2249, 2697 cod. civ., art. 115 c.p.c., vizio di motivazione, aggredisce la statuizione della sentenza impugnata relativa all'obbligo assicurativo. Sul punto il giudice d'appello ha così motivato: Indipendentemente dall'asserita sussistenza di un'azienda familiare ex art. 177 c.c., lett. a, (sulla cui stipula, peraltro, non è stata fornita dalla ricorrente alcuna prova mentre, trattandosi di regime patrimoniale, sarebbe occorsa la forma dell'atto pubblico ad substantiam) ovvero di impresa familiare ex art. 230 bis c.c., ciò che rileva, ed è stato accertato sia in fase amministrativa che nel giudizio di primo grado, è che viene svolta un'attività pericolosa (uso di macchinari elettrici) in forma associata e, dunque, da parte di soggetti per i quali sussiste l'obbligo assicurativo D.P.R. n. 1124 del 1965, ex. art. 4, n. 7.
Infatti, ai fini previdenziali, la partecipazione di due o più persone mediante il conferimento di beni o servizi per lo svolgimento di un'attività comune, la contitolarità dell'impresa nel senso della partecipazione alla formazione della volontà determinativa dell'attività stessa e la partecipazione alla ripartizione degli utili e delle perdite, sono gli elementi che integrano un rapporto societario e, quindi, nella specie, una società di fatto D.P.R. n. 1124 del 1965, ex. art. 4, n. 7.
La ricorrente oppone:
1. la fattispecie non rientra nella previsione dell'art. 177 cod. civ., lett. a (acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio) ma della lett. d, (aziende gestite da entrambi i coniugi);
2. non sussiste nel caso di specie alcuna società di fatto:
2.1. per il divieto dell'art. 2249 cod. civ., secondo cui le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi 3^ e seguenti di questo titolo";
2.2. per il vincolo derivante dalla L. 22 dicembre 1957, art. 28 n. 1293, la quale prevede che il rivenditore dei generi di Monopolio, pur potendosi avvalere nella gestione della rivendita di un coadiutore nella persona del coniuge, ha l'obbligo della conduzione personale della rivendita stessa; conseguentemente la licenza per la gestione della rivendita di generi di Monopolio rilasciata alla A. dall'Amministrazione dei Monopoli dello Stato espressamente vieta qualsivoglia convenzione tendente a costituire una società per la gestione della rivendita ed (quarto motivo);
3. nell'azienda coniugale di cui all'art. 177 c.c., lett. d) che non è una società, entrambi i coniugi assumono posizione paritaria di commercianti, categoria questa per la quale non vige l'obbligo assicurativo alla luce del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 4, la cui legittimità è stata confermata dalla giurisprudenza costituzionale con sentenza del 13 maggio 1987, n. 158; non sussiste dunque un'ipotesi di dipendenza che legittimerebbe l'obbligo assicurativo ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 4, 2 e 1 (ancora quarto motivo, e quinto);
4. L'INAIL ha preteso il versamento dei contributi per entrambi i coniugi ed il Tribunale ha avallato tale pretesa, omettendo di considerare che non è di certo configurabile una subordinazione reciproca nè tanto meno un reciproco sovraintendimento dell'una all'altro e/o viceversa.
Se è vero, poi, che ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 4, n. 6 e del n. 7, sono compresi nell'assicurazione il coniuge (punto 6) ed i soci di fatto, occorre sempre che gli stessi prestino la loro opera alle condizioni di cui al n. 2 e cioè che "trovandosi nelle condizioni di cui al precedente n. 1 (lavoratori dipendenti) o sovraintendano al lavoro di altri (sesto motivo).
I quattro motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati.
L'art. 177 cod. civ., lett. d), come modificato dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 59, considera oggetto di comunione legale le aziende gestite da entrambi i coniugi, costituite dopo il matrimonio.
Dato questo carattere essenziale di gestione paritaria, l'azienda coniugale di cui all'art. 177 c.c., lett. d), sembra assimilabile ad una impresa collettiva, diversamente dalla impresa familiare, di cui all'art. 230 bis cod. civ., introdotto dall'art. 89 della stessa legge sul nuovo diritto di famiglia, nella quale i diritti dei collaboratori rilevano solo sul piano obbligatorio, non comportano alcuna modifica nella struttura dell'impresa, che fa capo al titolare della stessa, il quale solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro (Cass. 15 aprile 2004 n. 7223, Cass. 20 giugno 2003 n. 9897, Cass. 6 marzo 1999 n. 1917, Cass. 4 ottobre 1995 n. 10412). La dottrina civilistica è divisa sulla natura giuridica dell'azienda coniugale, anche in rapporto a quella della impresa familiare. Tuttavia il rilievo ad essa comune, che interessa in questa sede di tutela infortunistica, è che con le norme citate il legislatore non ha inteso disciplinare nuove forme d'impresa, ma tutelare i familiari partecipi, e si è limitato ad attribuire ad essi una serie di diritti (a carattere patrimoniale, stante la sede civilistica).
Si tratta di considerazioni comuni al carattere residuale della impresa familiare di cui all'art. 230 bis, che tutela i partecipanti, sul piano patrimoniale, in tutti i casi in cui non si configuri già la tutela propria del rapporto di lavoro subordinato o di quello societario (Cass. 26 giugno 1984 n. 3722, Cass. 9 giugno 1983 n. 3948). Quando si passa al versante previdenziale, su queste concorrenti considerazioni preliminari si innesta il principio proprio della tutela infortunistica, secondo cui a parità di esposizione a rischio deve corrispondere parità di tutela assicurativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto in base al quale il lavoro è prestato, ripetutamente enunciato dalla Corte costituzionale, con le sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale dell'art. 4, nella parte in cui non ricomprende i partecipanti all'impresa familiare ex art. 230 bis (sent. 10 dicembre 1987 n. 476), gli associati in partecipazione (sent. 15 luglio 1992 n. 332), i lavoratori in aspettativa sindacale (sent. 10 maggio 2002 n. 171), nonchè con la sent. 4 aprile 1990 n. 160, sugli agenti venatori della regione Sicilia.
Occorre dunque verificare se i coniugi che prestano lavoro nell'azienda coniugale nelle condizioni di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 1, possano essere ricompresi nella previsione di una specifica norma dell'art. 4 cit..
Particolarmente significativa la sent. 476/1987 per i seguenti rilievi:
1. Le plurime ordinanze di rimessione sulle quali ha provveduto la Corte con la citata sentenza riguardavano tutte fattispecie di imprese commerciali (un negozio, una macelleria) come in quella oggetto della presente causa;
2. la Corte è partita dal presupposto interpretativo, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che la nozione di dipendenza nel D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 6, comma 1, nn. 1 e 6 sia sinonimo di subordinazione in senso giuslavoristico;
3. ha quindi istituito la comparazione, ex art. 3 Cost., tra i lavoratori subordinati che lavorano in siffatte imprese, soggetti all'obbligo assicurativo, ed i familiari (tra i quali è ricompreso anche il coniuge), che subordinati non siano, rilevando una identica esigenza di tutela infortunistica, ex art. 38 Cost..
Le considerazioni della ricorrente circa l'obbligo, nei confronti della amministrazione finanziaria, di conduzione personale della rivendita, accentuano l'aspetto collaborativo della partecipazione del coniuge e sembrano ricondurre la fattispecie verso la previsione dell'art. 4, comma 1, n. 6.
Si deve però osservare in contrario che la soluzione del problema dell'azienda coniugale deve prescindere dagli accidenti del caso particolare, esterni alla fattispecie tipica, ed avere riguardo alla configurazione partecipativa paritaria dell'istituto in sè.
Sembra corretta la collocazione, operata dalla sentenza impugnata, sotto la previsione dell'art. 4 cit., comma 1, n. 7, perchè una interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, specie dopo gli interventi specifici del giudice della legge sopra rammentati, l'autonomia delle definizioni del t.u., l'ampiezza della previsione del n. 7 ("ogni altro tipo di società, anche di fatto, comunque denominata") impongono di ricomprendervi tutte le tipologie lavorative associate, indipendentemente dalla loro denominazione civilistica. Tale collocazione rende ragione anche dell'apparente paradosso, denunciato dalla ricorrente: nell'azienda coniugale di cui all'art. 177 c.c., lett. d), entrambi i coniugi assumono posizione paritaria di commercianti, categoria questa per la quale non vige (va, al tempo dei fatti, prima del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5) l'obbligo assicurativo alla luce del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 4, mentre l'Inail pretende i contributi non solo per il coniuge, ma anche per la ricorrente.
In effetti, ove si facesse rientrare l'azienda coniugale nell'art. 4 cit., n. 6, attraverso l'assimilazione del coniuge al partecipante all'impresa familiare, sarebbe contraddittorio far risalire la tutela così accordata anche all'altro coniuge, di per sè solo considerato non tutelabile in quanto commerciante.
Al riguardo è sufficiente notare che l'obbligo assicurativo ex art. 4, comma 1, n. 7, per i lavoratori associati prescinde dall'oggetto dell'attività, e sussiste per il rischio insito nel lavoro associato in sè (un pò come nel rischio ambientale: Cass. sez. Un. 347 6/1994; vedi Cass. 28 settembre 1996 n. 8570, sull'obbligo assicurativo dei soci di una società in nome collettivo esercente un piano bar); la sentenza della Corte cost. 158/1987, invocata dalla ricorrente, non è pertinente, perchè riguarda il singolo commerciante.
Si deve perciò" concludere che la funzione residuale di tutela delle norme sul lavoro familiare, sopra affermata, la quale prescinde dalla configurazione civilistica del rapporto come società, ma nel contempo ne garantisce una tutela non inferiore, ed il principio secondo cui la tutela infortunistica prescinde dal titolo per cui il lavoro è prestato, fanno ritenere corretta la interpretazione della sentenza impugnata che ha ricondotto la fattispecie odierna nell'art. 4, comma 1, n. 7 del t.u. si deve quindi enunciare, a decisione del giudizio, il seguente principio di diritto: "i coniugi che hanno la gestione comune dell'azienda ai sensi dell'art. 177 cod. civ., lett. d) rientrano tra le persone tutelate ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 4, comma 1, n. 7, se svolgono una delle attività rischiose indicate nell'art. 1 del medesimo t.u., anche in campo commerciale, e sempre che l'obbligo assicurativo non sussista per altro titolo del medesimo art. 4".
In conclusione va accolto il secondo motivo di ricorso, mentre per il resto la sentenza impugnata va confermata. La sentenza impugnata va cassata limitatamente al motivo accolto, e gli atti trasmessi alla Corte d'appello di Roma, la quale provvedere altresì alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il secondo motivo di ricorso, respinge i motivi 1, 3, 4, 5 e 6, cassa la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 23 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2006