Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Milano, Sez. Lav., 29 luglio 2011 - Presunte vessazioni e mobbing: mancanza di prova


 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO


in composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa Chiara Colosimo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA



nella controversia di primo grado promossa

da

Cr.Pi. con l'Avv. Ba., elettivamente domiciliato presso lo Studio del difensore in Milano

Ricorrente

contro

Pa. s.r.l. con l'Avv. Me., elettivamente domiciliata presso lo Studio del difensore in Milano

Resistente

Oggetto: risarcimento danni, dimissioni per giusta causa.

All'udienza di discussione i procuratori concludevano come in atti.

Fatto

 


Con ricorso depositato il 18 febbraio 2011, Pi.Cr. (dipendente della convenuta dall'1.4.2009 all'8.7.2010, con qualifica di cuoco di III livello) conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Milano - Sezione Lavoro - Pa. s.r.l., esponendo di essere stato assunto come appartenente a categoria protetta a seguito del riconoscimento dell'invalidità civile pari al 50% per cardiopatia ischemica, e deducendo di essere stato vittima - nel corso dell'intero rapporto di lavoro - del comportamento aggressivo e umiliante del datore di lavoro.

Più nello specifico, il ricorrente affermava che il datore di lavoro gli si era più volte rivolto con frasi del tipo: "cosa ti paghiamo a fare se non sai svolgere il lavoro? Ti levo lo stipendio", "vediamo di muoverci e far andare le mani", "da quando ci sei tu non si riesce mai ad avere la linea self - service in ordine e i quantitativi giusti", "qui comandiamo noi, tu devi fare quello che ti diciamo e se non ti va bene te ne vai fuori dai coglioni".

Il ricorrente riferiva, poi, di essere stato destinatario di una serie di ingiuste contestazioni disciplinari, e si doleva di essere stato costretto a svolgere mansioni dequalificanti, adibito alle pulizie della cucina, degli strumenti di lavoro e della sala self - service.

Deduceva, da ultimo, di aver dovuto svolgere ore di straordinario senza essere correttamente retribuito.

Secondo la tesi attorea, la condotta del datore di lavoro era stata la causa di un progressivo malessere del lavoratore (documentato in atti), in conseguenza del quale era stato costretto a usufruire di continui periodi di malattia.

Il rapporto si era deteriorato definitivamente il 27.4.2010, a seguito di un diverbio con la legale rappresentante An.La., all'esito del quale Pi.Cr. aveva accusato un malore ed era stato trasportato al Pronto Soccorso. Deduceva il ricorrente che, in tale occasione, la responsabile del self - service lo aveva affiancato intimandogli di fare più in fretta, accusandolo di essere un incapace e diffidandolo dal replicare. Alla richiesta del cuoco di abbassare i toni, An.La. aveva reagito in modo aggressivo e provocatorio; era successivamente intervenuto Ma.La., padre della titolare, che aveva proseguito nelle minacce verbali.

Tanto premesso, Pi.Cr. chiedeva al Tribunale di:

- accertare e dichiarare la giusta causa del recesso dal contratto di lavoro e, conseguentemente, condannare Pa. s.r.l. al risarcimento del danno patrimoniale subito per la violazione degli obblighi contrattualmente assunti dalla società, nonché per la forte e persistente pressione psicologica, danno quantificato in Euro 4.205,19 quale indennità di preavviso, oltre alle ore di straordinario mai retribuite per un importo pari a Euro 800,00 e così per complessivi Euro 5.005,19;

- accertare e dichiarare l'assegnazione ad attività integranti una grave dequalificazione professionale in violazione dell'art. 2103 c.c. e, per l'effetto, condannare la convenuta al risarcimento del danno in via equitativa;

- accertare e dichiarare la violazione delle disposizioni di cui all'art. 2087 c.c., in conseguenza dell'adibizione a mansioni incompatibili con lo stato di salute e del notevole aggravio del carico di lavoro, e conseguentemente condannare Pa. s.r.l. al risarcimento dei danni non patrimoniali per un complessivo importo di Euro 387.257,50.

Il tutto con rivalutazione e interessi e, in ogni caso, con vittoria di spese, diritti e onorari.

Si costituiva ritualmente in giudizio Pa. s.r.l., eccependo l'infondatezza in fatto e in diritto delle domande di cui al ricorso e chiedendo il rigetto delle avversarie pretese.

Con vittoria di spese, diritti e onorari.

Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, assunte le prove e ritenuta la causa matura per la decisione, all'udienza del 28 luglio 2011, il Giudice invitava le parti alla discussione all'esito della quale decideva come da dispositivo pubblicamente letto, riservando il deposito della motivazione a 5 giorni, ai sensi dell'art. 429 c.p.c. così come modificato dalla legge 133/2008.

Diritto

 


Il ricorso non può essere accolto.

Parte ricorrente agisce al fine di ottenere l'accertamento della giusta causa delle dimissioni rassegnate 1 - 8.7.2010, del demansionamento patito nel corso del rapporto di lavoro e della violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., per l'assegnazione di mansioni incompatibili con lo stato di salute e per la tenuta di un comportamento gravemente vessatorio.

Pi.Cr. ha chiesto, quindi, la condanna di Pa. s.r.l. al pagamento di Euro 5.005,19 a titolo di straordinari e di indennità sostitutiva del preavviso, di Euro 387.257,50 a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, oltre al risarcimento in via equitativa del danno subito per la violazione degli obblighi di cui all'art. 2103 c.c..

Sui fatti di causa sono stati sentiti il teste comune Mo., il teste di parte ricorrente Bu., e i testi di parte resistente Pi. e Go..

All'esito dell'istruttoria le doglianze del ricorrente risultano integralmente infondate.

Per quel che attiene all'assegnazione di mansioni gravose e dei qualificanti, si osserva come il teste comune Mo. - cuoco e referente della cucina - abbia riferito: "oltre a cucinare ci siamo sempre occupati della pulizia delle affettatrici, delle lame e dei coltelli, per il resto le pulizie sono sempre state fatte dai lavapiatti (Ma., Sa., Im. o Co., principalmente erano loro, Pa. si occupa di dare una mano in linea e con le teglie) ... Noi ci occupavamo anche della sistemazione dei frigo, fare gli ordini, sistemare le etichette, tutto ciò che concerne il lavoro del cuoco. A Cr. non è mai stato chiesto di pulire la cucina, gli strumenti e la sala del self service".

Anche la teste di parte resistente Pi. ha escluso che il ricorrente fosse mai stato adibito ad attività di mera pulizia presso la sala self-service, e ha anche precisato che "le pulizie in cucina le facevano Ma.Ma. e Sa.. I due cuochi non pulivano mai la cucina".

La teste di parte ricorrente Bu. ha affermato che a Pi.Cr. veniva richiesto di pulire i pavimenti della cucina: detta dichiarazione, tuttavia, non risulta attendibile in quanto la teste ha fatto riferimento anche al teste Mo. che ha espressamente escluso la circostanza.

Per il resto, nemmeno la teste Bu. ha confermato che al ricorrente fosse mai stato chiesto di pulire la sala del self - service ovvero i bagni, precisando che i suddetti locali venivano puliti da lei stessa o dalla collega Im. (n.d.e. la teste Co.Pi.).

Con specifico riferimento alla questione delle pulizie, peraltro, giova precisare che non vi è modo di ritenere dequalificante quell'attività volta al mero riordino e alla pulizia degli strumenti e dei piani di lavoro del cuoco:

trattasi, invero, di una tipica attività complementare della mansione svolta.

Confutato

risulta altresì l'assunto attoreo relativo allo svolgimento di lavoro straordinario.

Mo. ha riferito che "l'orario di lavoro del ricorrente era di otto ore come me, non gli è mai stato chiesto di svolgere straordinario, entravamo e uscivamo insieme dalla cucina". Circostanza, questa, confermata da Co.Pi. che ha dichiarato che "l'orario di lavoro di Luigi penso fosse 8.30 - 9.00 sino alle 16.00. Non gli veniva chiesto di svolgere lavoro straordinario", precisando "non mi risulta che in Pa. venissero pagati degli straordinari fuori busta".

Quanto riferito in ordine allo straordinario da Ca.Bu. non risulta attendibile. Quest'ultima, infatti, è rimasta assente per malattia da settembre 2009 sino al termine del rapporto di lavoro (dicembre 2009), e non è pertanto stata presente per gran parte del rapporto per cui è causa. La teste, peraltro, ha dichiarato che il proprio orario di lavoro terminava alle 16:00.

In ogni caso, si rammenta che "la prova relativa ai fatti costitutivi del diritto a compenso per lavoro straordinario è a carico del lavoratore (ex art. 2697 cod. civ.) e deve rigorosamente riguardare sia l'orario normale di lavoro, ove diverso da quello legale, sia la prestazione di lavoro asseritamente eccedente quella ordinaria nonché la misura relativa, quanto meno in termini sufficientemente concreti e realistici, senza possibilità per il giudice di determinarla equitativamente, ma con sua facoltà di utilizzare, con prudente apprezzamento, presunzioni semplici (Cass. Civ., Sez. Lav., 3 marzo 1987, n. 2241).

Tale onere della prova non è stato in alcun modo soddisfatto.

Per quel che concerne le presunte vessazioni cui Pi.Cr. sarebbe stato sottoposto nel corso del rapporto, deve preliminarmente evidenziarsi che le deduzioni svolte sul punto sono risultate in gran parte valutative e generiche e, in quanto tali, non hanno potuto costituire oggetto di accertamento istruttorio (cfr. capitoli di prova n. 10, 14, 15,16, 17,18, 20 e 21).

D'altronde, nemmeno nell'interrogatorio libero Pi.Cr. è stato in grado di fornire elementi più precisi, avendo egli dichiarato: "...Ho subito tante umiliazioni. Sono stato declassificato, perché non mi hanno più riconosciuto i 200 Euro, nonostante pretendessero che lavassi gli strumenti. Poi mi facevano lavorare male. Ero perseguitato, mi continuavano a dire che facevo le cose male, che facevo troppo, che facevo poco, e così via... Non sono in grado di riferire qualche episodio specifico, in questo momento non mi viene in mente".

Le circostanze sulle quali è stata ammessa la prova, infine, sono state confutate dalle risultanze istruttorie.

In primo luogo, nessuno dei testimoni ha riferito di aver mai sentito An. o Ma.La. rivolgersi al ricorrente con le frasi riportate in ricorso (capitoli di prova 12 e 13, vedi verbale testi Mo., Bu. e Pi.).

Anche il diverbio dell'aprile 2010 risulta aver avuto una dinamica difforme da quanto dedotto da parte attrice e, soprattutto, uno svolgimento scevro di quell'aggressività oggetto di espressa doglianza.

Il teste Mo., infatti, ha rammentato: "ero presente in cucina il giorno del diverbio che si è concluso con il malessere di Cr.. Come al solito eravamo in ritardo con l'uscita della linea, eravamo molto in ritardo. Lui quel giorno ha rallentato molto il lavoro, avevamo avuto sin dalla mattina molte discussioni. Normalmente lui preparava i contorni, quel giorno iniziò a preparare i primi. Mi disse che era lì per fare il cuoco e che quindi voleva fare i primi. Fece solo i primi due sughi. Io fui costretto a fare il risotto, i tre secondi e i contorni. La sig.na La. è entrata in cucina per sapere il motivo del ritardo, Cr. le disse "stai calma non siamo mica a Imola che dobbiamo accelerare, non fare la buffona che adesso ti diamo la roba". La sig.ra La. gli rispose che non le sembrava il caso che lui reagisse in quel modo e che ne avrebbero riparlato dopo perché in quel momento bisognava far uscire la roba da mangiare. Non mi ricordo se quando la sig.na La. si è allontana Cr. abbia detto qualcosa. In secondo tempo è intervenuto il sig. La. e ha detto a Cr. che non c'era bisogno di offendere perché si stava parlando di lavoro. Cr. disse che la roba sarebbe uscita una volta pronta, poi disse che non stava bene, che non gli andava bene lavorare così, chiese di fargli un foglio che se ne voleva andare. A mezzogiorno il cibo deve essere tutto fuori, perché a quell'ora arriva tutta la gente".

Nemmeno la contestazione relativa alla violazione del divieto di fumo sul luogo di lavoro è risultata pretestuosa (doc. 40, fascicolo ricorrente), avendo i testi riferito che "il ricorrente fuma, qualche volta di nascosto fumava in cucina, altrimenti andava a fumare in bagno. Noi andavamo sempre di nascosto a fumare, poi abbiamo esagerato, facevamo troppe pause nel bagno a fumare e al telefono, siamo stati beccati da tutti e ci fu detto di non fumare più. Sono stati attaccati dei cartelli. Io ho smesso, Cr. invece ha continuato... Io ero stato nominato referente in cucina, infatti la maggior parte delle volte si riferivano a me per chiedere dei ritardi. Rimproveravo Cr. quando filmava, ma lui diceva di non preoccuparmi che se la sarebbe vista lui" (Mo.).

La circostanza è confermata dalla teste Pi., che ha rammentato che "Lu. fumava, fumava nei locali della mensa, fumava anche Mo.. Gli era stato chiesto di smettere, nessuno dei due ha smesso".

Quanto alla contestazione del 7.6.2010, relativa all'assenza ingiustificata, si osserva come il teste Go. - consulente del lavoro per la convenuta - abbia confermato la circostanza dell'errato invio del certificato medico ("c'è stata un'occasione in cui il ricorrente mi ha inviato via fax un certificato medico, io ho conferito telefonicamente con Cr. pregandolo di non inviare a noi il certificato, ma di mandarlo a Pa. perché non ero io il destinatario. Probabilmente il certificato era stato mandato a noi entro le 48 ore, ma io lo vidi dopo. Feci per questo la lettera di contestazione, sulla base di una richiesta del datore di lavoro").

Alla luce di quanto sin qui osservato, non può che concludersi per l'infondatezza di ogni pretesa azionata in giudizio, non essendovi prova alcuna dello svolgimento di lavoro straordinario, né di una condotta illegittima o vessatoria del datore di lavoro, né dell'assegnazione di mansioni dequalificanti o eccessivamente gravose.

Nessuna prova vi è, inoltre, della condotta mobbizzante affermata da parte ricorrente in sede di discussione.

Giova al riguardo rammentare che, pur in assenza di una definizione legislativa, il concetto di mobbing è stato puntualmente circoscritto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, con pronunce cui questo Giudice ritiene senz'altro di aderire.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato l'esigenza di accertare la sussistenza "di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall'art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato" (Cass. Civ., Sez. Lav., 6 marzo 2006, n. 4774).

Recentemente, la Corte ha anche precisato che "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico - fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (Cass. Civ., Sez. Lav., 17 febbraio 2009, n. 3785).

È caratteristica propria del mobbing, dunque, la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato per mezzo di comportamenti vessatori o, comunque, lesivi dell'integrità fisica e della personalità del prestatore di lavoro, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati all'emarginazione del lavoratore.

Nel caso di specie parte ricorrente - unica onerata in tal senso - non ha, per le ragioni già sopra evidenziate, fornito alcuna prova della ricorrenza delle suddette condizioni.

Non soltanto, quindi, non sussistono i presupposti per configurare la giusta causa delle dimissioni, ma nemmeno ricorrono le condizioni per una condanna della convenuta al risarcimento del danno.

In mancanza di prova del fatto illecito dedotto dal ricorrente, infatti, ogni indagine circa la sussistenza di un nesso causale tra la presunta patologia lamentata e le condizioni lavorative appare a priori preclusa.

Per questi motivi il ricorso deve essere integralmente rigettato.

La condanna al pagamento delle spese di lite segue la soccombenza e, pertanto, Pi.Cr. deve essere condannato al pagamento delle stesse liquidate come in dispositivo anche in considerazione del valore della domanda. La sentenza è provvisoriamente esecutiva ex art. 431 c.p.c. Stante la complessità della controversia, visto l'art. 429 c.p.c., si riserva la motivazione a 5 giorni.

P.Q.M.

 


il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando,

rigetta il ricorso.

Condanna Pi.Cr. alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.500,00 oltre I.V.A. e C.P.A. Sentenza provvisoriamente esecutiva.

Riserva a 5 giorni il deposito della motivazione.