[Argomenti in fase di attribuzione] 

Infortunio ad allieva di sculola materna - Responsabilità di insegnante e bidella - Sussiste

Alla bidella è stata addebitata negligenza, imprudenza ed imperizia, per avere circolato nella scuola con la caffettiera colma di caffè bollente su un vassoio non stabile, pur in presenza del prevedibile pericolo di urtarsi con bambini in tenera età e piccola statura, e quindi che potevano essere investiti dal liquido bollente.
All' insegnante sono state invece contestate negligenza, imprudenza ed imperizia per avere lasciato i bambini soli nella sala giochi, rimanendo lei invece nell'aula, e omettendo così quel dovere di sorveglianza sui bambini a lei affidati, che, se correttamente osservato, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento.


 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Pizzuti Giuseppe - Presidente -
Dott. Morgigni Antonio - Consigliere -
Dott. Visconti Sergio - Consigliere -
Dott. Franco Amedeo - Consigliere -
Dott. Macchia Alberto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

S E N T E N Z A

sul ricorso proposto da:
1) P.G., N. IL (omissis);
2) P.P., N. IL (omissis);
avverso sentenza del 11/11/2005 Corte Appello Sez. Dist. di Sassari;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott.Visconti Sergio;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Ferri Enrico che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza;
Udito il difensore Avv. Oliviero Denti, che, per entrambe le ricorrenti si riportano ai motivi di ricorso.

F a t t o

P.G. e P.P., rispettivamente ausiliaria con funzioni di bidella presso la Scuola Materna di Nuoro " (omissis)" ed insegnante presso il medesimo istituto, sono state dichiarate colpevoli, sia in primo che in secondo grado, del reato di lesioni colpose gravi (art. 590 c.p.) in danno della piccola A. G., di anni 5, e, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, condannate ciascuna di esse alla pena di Euro 309,00 di multa, oltre statuizioni accessorie, tra cui il risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili.

Il fatto, secondo le sentenze del Tribunale di Nuoro del 20.7.2004 e della Corte di Appello di Cagliari - sezione distaccata di Sassari - dell'11.11.2005, è stato il seguente.

Verso le ore 14,30-14,45 del 9.6.1998, la bidella P., secondo un'abitudine consolidata, stava portando su un vassoio una caffettiera colma di caffè bollente alle insegnanti PI. e M., allorchè giunta all'altezza della sala giochi, si scontrò con la piccola A., che, giocando ad "acchiapparello", stava uscendo di corsa dalla detta sala giochi.
Il caffè si rovesciò sulla bambina, che riportò gravi ustioni all'arto superiore sinistro, alla regione cervicale orno laterale, e alla spalla, al petto e al dorso, con malattia durata più di 40 giorni, e un indebolimento permanente dell'efficienza estetica integrante un postumo di rilevanza penale inteso quale comparto funzionale.
Alla P. è stata addebitata negligenza, imprudenza ed imperizia, per avere circolato nella scuola con la caffettiera colma di caffè bollente su un vassoio non stabile, pur in presenza del prevedibile pericolo di urtarsi con bambini in tenera età e piccola statura, e quindi che potevano essere investiti dal liquido bollente.
Alla PI. sono state invece contestate negligenza, imprudenza ed imperizia per avere lasciato i bambini soli nella sala giochi, rimanendo lei invece nell'aula, e omettendo così quel dovere di sorveglianza sui bambini a lei affidati, che, se correttamente osservato, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento.

Avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari - sezione distaccata di Sassari - dell'11.11.2005 hanno proposto ricorso per Cassazione entrambe le imputate, la PI. personalmente, e la P. a mezzo del proprio difensore, chiedendone l'annullamento per diversi motivi.

Con il primo motivo di impugnazione, la PI. ha eccepito la violazione costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost., comma 2, e art. 111 Cost.), e di alcune norme del codice di rito tra cui gli artt. 521 e 522 c.p.p., in quanto la Corte territoriale aveva accolto l'istanza del P.G. di merito di integrare l'imputazione, con le dodici parole "di caffè bollente, senza usare l'attenzione necessaria, sebbene la caffettiera colma", in quanto, pur omesse nella sentenza di primo grado e nel decreto di citazione a giudizio di appello, erano presenti nel decreto di citazione emesso dal pubblico ministero per il giudizio di primo grado.
La ricorrente ha, invece, osservato che tale enunciazione era assente nel decreto di citazione a giudizio del P.M. del 22.2.2001, e la nullità non poteva ritenersi sanata dall'ordinanza dell'8.11.2002, con la quale era stata rilevata l'incompletezza dell'enunciazione del fatto contestato, in quanto in parte incomprensibile e in parte illeggibile.

Con il secondo motivo di gravame, è stata eccepita la violazione delle medesime norme in relazione alla contestazione del postumo inteso quale "comparto funzionale", ed interpretato dalla corte di merito come legato "all'efficienza estetica della parte offesa", e quindi come danno alla vita di relazione. Tale interpretazione è stata ritenuta arbitraria dalla ricorrente, che ha insistito sulla nullità della sentenza per incomprensibilità della contestazione e manifesta illogicità della motivazione.

Con il terzo motivo di impugnazione, la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per avere emesso il provvedimento malgrado la genericità dell'espressione contenuta nella sentenza di primo grado "malattia durata per un tempo a 40 giorni".
Avendo la Corte di Sassari ritenuto ininfluente l'omissione, sia perchè era chiaro trattarsi di una malattia di durata per un tempo "superiore" a 40 giorni, sia perchè la durata della malattia risultava dalla allegata certificazione medica, la ricorrente ha contestato tale chiarezza, non avendo peraltro il giudice di merito accolto l'istanza difensiva di disporre perizia, e non lasciando trasparire i primi certificati la durata di una malattia superiore a 30 giorni, nè che il caffè fosse stata l'unica causa delle lesioni.

La dichiarazione di nullità della sentenza per difetto di contestazione riguarda anche il quarto motivo di ricorso per essere stata erroneamente indicata la data dell'evento come il 6.6.1998, mentre il fatto era accaduto il 9.6.2006. La ricorrente ha sottolineato che tale errata contestazione è rimasta immutata in tutto il giudizio di merito, e soprattutto nei due decreti di citazione a giudizio di primo grado del 22.2.2001 e del 20.11.2002.

Il quinto motivo di ricorso inerisce alla contraddizione tra la contestazione della cooperazione colposa,
indicandosi l'art. 113 c.p., e quella letterale di si "atti fra loro indipendenti", dovendosi senz'altro ritenere errata la possibilità che le due imputate fossero reciprocamente a conoscenza della condotta colposa di ognuna di esse.

Con il sesto motivo di ricorso, la PI. ha eccepito che la sentenza di appello era basata su prove invalide e/o inutilizzabili, ed in particolare su due dichiarazioni scritte delle imputate del 10.6.1998, acquisite a norma dell'art. 237 c.p.p., trattandosi di documenti provenienti dalle imputate. La ricorrente ha rilevato, in primo luogo, l'estrema genericità di tale motivazione, il disconoscimento dei documenti allegati in fotocopia, la tardiva acquisizione delle due dichiarazioni, la contraddittorietà del contenuto di quanto esposto, e, limitatamente alla dichiarazione della P., la ricorrente ha rilevato non esserci traccia della acquisizione delle sue dichiarazioni, che sarebbero state allegate all'udienza del 13.7.2004, mentre dalla sentenza risultano allegate il 22.6.2004.

Con il settimo ed ottavo motivo di impugnazione la ricorrente ha eccepito la irrituale acquisizione in udienza prima delle fotografie della bimba, e poi delle fotografie e dei rilievi tecnici dei luoghi, effettuati dalla polizia giudiziaria.

La Corte di merito ha ritenuto che le fotografie erano state regolarmente acquisite dopo il termine di sei mesi per le indagini preliminari, in quanto non costituenti prove dirette, ma idonee a supportare illustrativamente quanto sostenuto dai testimoni, e quindi legittimamente prodotte dal P.M. a norma dell'art. 407 c.p.p., u.c.. La ricorrente ha invece eccepito che i documenti costituiscono prova diretta, e la loro acquisizione dopo il 17.12.1998, e cioè il termine di scadenza delle indagini preliminari ne inficiava la validità. Inoltre, viene contestata la rilevanza dei documenti, in quanto le fotografie della bimba erano state fatte dalla madre della parte offesa, teste non attendibile, non documentavano la durata della malattia, vi era una generica e non comprensibile acquisizione da parte del P.M., ed infine non era stata effettuata alcuna perizia medica sulla piccola A.G..

Con il nono motivo di gravame, la ricorrente ha censurato sia la sentenza di primo grado che quella di appello, in quanto in entrambi i gradi del giudizio era stato ritenuto superfluo Tesarne dell'insegnante G.T., sicuramente presente ai fatti, in quanto sia la parte civile C. che il teste I. avevano riferito di una ulteriore maestra presente alla scuola il giorno dell'incidente, oltre alle insegnanti PI. e M..

Con il decimo motivo di impugnazione, la ricorrente ha dedotto la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione in ordine all'esame delle cinque circostanze che la Corte territoriale aveva ritenuto indubbiamente provate, e che dimostravano sia il verificarsi dei fatti così come contestati, sia la responsabilità delle imputate.
Tali circostanze sono:
a) che la PI., così come l'altra insegnante M., attendesse il caffè nella propria aula (testi M. e I., altro ausiliario dell'istituto);
b) che tutti i pomeriggi, intorno a quell'ora, la bidella portava il caffè alle insegnanti (testi C., madre della parte offesa, e MURGIA);
c) che la porta tra l'andito e la sala giochi fosse aperta e che la piccola Giada stesse fuoriuscendo verso il corridoio (testi C., M. e I.; posizione delle macchie di caffè e della bambina nell'immediatezza del fatto; dichiarazioni spontanee della bidella P. al collega I.);
d) che, in quel momento la maestra PI. si trovava nella propria classe, con altri alunni (testi A.G. e M.), e) che i bambini dovevano stare costantemente sotto il controllo delle maestre o delle collaboratrici, in aula o nell'adiacente sala giochi; che i bambini in sala giochi si dilettavano con passatempi movimentati; che non era consentito andare da soli nell'andito, avendo peraltro i bagni accesso diretto dalle aule (testi M., B.S., madre di una bambina che aveva frequentato la suola dal 1996 al 1999, e P.F., bidella della scuola dal 1993 al 1999, queste ultime due testi a difesa).

Con l'undicesimo motivo di gravame viene eccepita l'erronea applicazione dell'art. 113 c.p. ed il difetto di motivazione, in quanto, in sentenza, pur sostenendosi, alla pag. 25, la cooperazione colposa, e richiamandosi la disciplina della citata norma, per la consapevolezza del prossimo arrivo della collaboratrice con il vassoio del caffè, alla successiva pag. 26 la circostanza viene ritenuta solo "altamente probabile".

Con il dodicesimo motivo viene assunta l'inosservanza dell'art. 40 c.p., comma 2, per avere il giudice di merito configurato la violazione di un obbligo giuridico di vigilanza, "collegato alla posizione di garanzia indubbiamente gravante sull'insegnante durante il suo orario scolastico", là dove il CCNL di categoria recepito dal D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, artt. 542 e 561, attribuisce al personale ausiliario non una funzione sussidiaria di vigilanza, ma quella ordinaria, in particolare durante il pasto nelle mense scolastiche.
La ricorrente, pertanto, pur dando atto che nello stesso CCNL sia previsto che "nella scuola materna, in cui anche i pasti vengono consumati insieme alle maestre, e la vigilanza direttamente demandata ai collaboratori concerne soltanto l'entrata e l'uscita dalle aule, all'inizio ed al termine dell'orario scolastico", ha assunto che nessuna imprudenza o negligenza le si poteva attribuire, e che, se si accogliesse la tesi dei giudici di merito, si arriverebbe all'assurdo che, pur essendo l'orario di lavoro di molte ore, le maestre avrebbero dovuto digiunare, essendo la sorveglianza dei bambini inconciliabile con il consumo dei pasti. Infine, nessuna violazione di norma ex art. 40 c.p., comma 2, vi era stata, essendo lecito il consumo di caffè.

Con il tredicesimo motivo di impugnazione è stata censurata la ritenuta prevedibilità ed evitabilità della condotta della piccola Giada, essendo al contrario imprevedibile che la bambina, stanca dopo tante ore di scuola, si lanciasse in una corsa sfrenata. Inoltre, non sussisteva nesso di causalità tra l'eventuale omissione dell'insegnante e l'evento.

Con il quattordicesimo motivo di ricorso è stata censurata la ritenuta regolarità della costituzione di parte civile dei genitori in nome e per conto della figlia minore, non essendo stata autorizzata dal giudice tutelare in violazione degli artt. 320 e 322 c.c.. La Corte di merito ha ritenuto non necessaria tale autorizzazione, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione sotto il profilo patrimoniale. La ricorrente ha invece assunto non sussistere l'evidente utilità di cui al citato art. 320 c.c. per promuovere giudizi, potendo la parte civile, in caso di soccombenza, essere anche condannata al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni, ai sensi degli artt. 541, 542 e 427 c.p.p..

Con il quindicesimo motivo di gravame la ricorrente ha contestato l'affermazione della Corte territoriale, secondo la quale la costituzione di parte civile nei confronti di una dipendente statale delle scuole materne non è in contrasto con la L. 11 luglio 1980, n. 312, art. 61, che disciplina la responsabilità patrimoniale del personale docente e non docente della scuola materna, e secondo il quale "l'Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi", essendo prevalente la disciplina dell'art. 185 c.p., secondo cui ogni reato che abbia cagionato un danno obbliga sempre al risarcimento sia il colpevole sia l'eventuale responsabile civile.
Secondo la ricorrente il risarcimento del danno in base al citato art. 61 poteva essere chiesto solo alla pubblica amministrazione, con facoltà di quest'ultima di rivalersi sulla dipendente.

Con il sedicesimo motivo è stata eccepita la prescrizione, essendo il fatto del 6.6.1998, per cui, e calcolandosi anche anni sette e mesi sei, a norma dell'art. 157 c.p., n. 4 e art. 160 c.p., a causa degli atti interruttivi, il termine era scaduto prima della notifica all'imputata dell'avviso di deposito con l'estratto della sentenza.
Secondo la ricorrente nessuna rilevanza, quali termini di sospensione della prescrizione, potevano avere i differimenti delle udienze del 4.7.2003 al 7.10.2003, e dal 9.12.2003 al 18.2.2004, e poi al 22.6.2004.
Il primo differimento era stato chiesto dal difensore dell'altra imputata, ed il secondo, pur determinato dalle astensione degli avvocati, era stato di durata ampiamente superiore a quella dell'astensione, per cui la eccessiva dilazione non poteva essere posta a carico dell'imputata.
In caso di interpretazione contraria, la ricorrente ha formulato due eccezioni di incostituzionalità. La prima attiene all'art. 160 c.p., u.c., vecchio testo ed all'art. 477 c.p.p. in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui non si fa obbligo al giudice di motivare la eccessiva durata del rinvio e quindi la sospensione della prescrizione, ricordandosi che il nuovo testo dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, dispone, per la rifissazione dell'udienza, un termine massimo di giorni sessanta dalla prevedibile cessazione dell'impedimento.
La seconda eccezione riguarda la L. n. 251 del 2005, art. 10, nella parte in cui non ha disposto la retroattività del nuovo testo dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, anche ai fatti processuali anteriori alla loro emanazione. Secondo la ricorrente ciò violerebbe il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost..

Con il diciassettesimo ed ultimo motivo di impugnazione la ricorrente ha censurato il trattamento sanzionatorio, là dove la Corte di merito ha motivato che l'inflizione del massimo della pena pecuniaria è comunque ben più favorevole dell'alternativa pena detentiva.
Inoltre, è stata chiesta la concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, a norma dell'art. 175 c.p..
P.G. ha chiesto l'annullamento della sentenza di appello per violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.. Il motivo riguarda l'omissione del giudice di primo grado di avere fatto qualsiasi riferimento al punto di contestazione cardine del decreto di citazione a giudizio, secondo il quale la ricorrente, portando il vassoio con il caffè, "circolava senza usare l'attenzione necessaria".
La Corte di Appello aveva ritenuto trattarsi di un mero errore materiale, ed essere comunque evidente dalla motivazione la ritenuta imprudenza della bidella, per cui era da escludersi la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p..
La ricorrente ha, invece, eccepito la genericità della espressione secondo la quale la sua condotta sarebbe stata "quantomeno imprudente", non potendosi comprendere da tali due parole quale sia stata l'imprudenza attribuitale.

D i r i t t o

Il primo, terzo e quarto motivo di ricorso della PI. ed il primo della P. vanno trattati congiuntamente, riguardando tutti la medesima questione di diritto.
Le ricorrenti hanno chiesto di dichiarare la nullità della sentenza di appello per violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., non contenendo l'intestazione della sentenza di primo grado, e il decreto di citazione a giudizio di appello, alcune espressioni, in modo da rendere incomprensibile la contestazione.
Tali circostanze sono state poi ritenute accertate e determinanti per la declaratoria di responsabilità della due ricorrenti.
In particolare sia la PI. che la P. hanno lamentato la mancanza dell'espressione "di caffè bollente, senza usare l'attenzione necessaria, sebbene la caffettiera colma", integrata poi su richiesta del P.G. di merito.
La PI. ha altresì rilevato la indeterminatezza dell'espressione "malattia durata per un tempo a 40 giorni", non deducendosi che logicamente debba trattarsi di malattia "superiore" a 40 giorni, e l'erronea indicazione della data del commesso reato (e cioè (omissis)).
I motivi di ricorso non sono fondati. Come esattamente richiamato nella sentenza impugnata, e risultante dall'esame degli atti, il decreto di citazione a giudizio di primo grado, emesso il 20.11.2002, e notificato ad entrambe le ricorrenti, prima della celebrazione di ogni attività dibattimentale, conteneva tutte le espressioni poi omesse in successivi atti del giudizio.
A tale momento deve farsi riferimento per individuare la "contestazione" e quindi verificare la correlazione tra contestazione e sentenza ai sensi degli artt. 521 e 522 c.p.p.. In tale decreto la contestazione è completa, ed anche la data (ancorchè l'errore sarebbe stato irrilevante) è stata corretta da (omissis).
La violazione della correlazione tra imputazione e sentenza riguarda non una questione formale, ma una effettiva lesione del diritto di difesa, in quanto l'imputato, in caso di sua sussistenza, sarebbe condannato per un fatto diverso da quello ascrittogli. Ciò non si è verificato nella specie, in quanto tutte le circostanze a cui i giudici di merito, sia di primo grado che di appello, hanno fatto riferimento erano esattamente e completamente descritte nel decreto di citazione a giudizio del 20.11.2002, atto che ha preceduto l'assunzione delle numerose prove in dibattimento e le impugnazioni nei successivi gradi del procedimento penale. Naturalmente nessun rilievo può avere un eventuale precedente decreto di citazione incompleto, in quanto sanato dalla successiva integrazione prima del giudizio.
Ne consegue che nessuna nullità è ravvisabile per omissione di alcune espressioni nell'intestazione della sentenza di primo grado e nel decreto di citazione a giudizio di appello, in quanto precisamente contenute nella iniziale imputazione, regolarmente notificata alle imputate, che quindi ne erano perfettamente a conoscenza, e che diversa è la ratio legis degli artt. 521 e 522 c.p.p., che tutelano l'imputato solo in ipotesi di violazione della correlazione tra imputazione e sentenza quale elemento fattuale di diversità contenutistica.
Va poi precisato che dalla lettura della sentenza di appello risulta evidente come l'ampia istruttoria dibattimentale abbia messo le imputate e i loro difensori nelle condizioni di difendersi in modo chiaro dai fatti addebitati.
Sul punto, va ricordato che "con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale tra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione" (Cass. sezioni unite 19.6.1996 n. 16; conformi Cass. 7.6.2000 n. 7929; Cass. 5.7.2000 n. 10525).
Nella specie, le tre circostanze contestate (l'avere la P. portato il caffè bollente su un vassoio instabile, e quindi in modo imprudente; essersi trattato di una malattia superiore ai 40 giorni;
la data del commesso reato) risultano in modo più che evidente da tutto l'impianto accusatorio, poi confortato dalle risultanze istruttorie, quali le prove testimoniali assunte e la documentazione medica acquisita, il tutto esplicitamente richiamato nella sentenza impugnata.
Leggermente differente è il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce l'assenza di chiarezza della contestazione nella parte in cui si cita "un postumo di rilevanza penale inteso quale comparto funzionale".
Anche in questo caso è evidente l'assenza di una qualsiasi violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., essendo logico - come ritenuto dal giudice di appello - che si trattasse di un danno alla vita di relazione determinato dalla lesione estetica causata alla piccola A.G..
Va solo aggiunto che l'intero periodo contenuto nell'imputazione cosè è scritto: "derivava una malattia ed incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni durata per un periodo superiore a 40 giorni, con indebolimento permanente dell'efficienza estetica della persona offesa di notevole entità integrante un postumo di rilevanza penale inteso quale comparto funzionale".
Ne consegue che l'interpretazione dell'espressione eseguita dal giudice di appello corrisponde non solo alla logica, ma anche al significato letterale della contestazione.

Con il quinto e l'undicesimo motivo di ricorso la PI. ha desunto sostanzialmente la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, in quanto, pur riferendosi all'ipotesi di cooperazione colposa di cui all'art. 113 c.p., si è accennato poi ad "atti fra loro indipendenti".
Come è noto, la cooperazione nel delitto colposo si caratterizza per un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti, nel senso che ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui, senza però che tale consapevolezza investa l'evento richiesto per l'esistenza del reato:
ed è questo legame che consente di distinguere la cooperazione dal concorso di cause colpose indipendenti, ipotesi nella quale più soggetti contribuiscono colposamente a cagionare l'evento, senza tuttavia la consapevolezza di contribuire alla condotta altrui (Cass. Sez. 4^, 30.3.2004 n. 45069).
Nella specie, indubbiamente il giudice di appello propende per la tesi dei comportamenti colposi indipendenti, e ciò lo si desume sia dalla lettura del provvedimento impugnato, sia da fattori logici, in quanto, se la PI. poteva sapere dell'abitudine della P. di portare il caffè bollente nel modo imprudente citato, non è in alcun modo dimostrabile che la bidella potesse sapere che, il (omissis), l'insegnante aveva lasciato i bambini senza vigilanza.
Inoltre, l'argomentazione logica del provvedimento in esame prevale sulla indicazione della specifica norma.
Ma, la circostanza non è rilevante in relazione agli artt. 521 e 522 c.p.p., perchè il giudice può modificare il nomen iuris (art. 521, comma 1), e perchè la stessa ricorrente precisa di avere capito l'interpretazione del giudice di merito. Inoltre, pur non essendo la questione rilevante, non vi è nessuna differenza del trattamento sanzionatorio tra l'ipotesi di cui all'art. 113 c.p. e quella di cui all'art. 41 c.p., comma 1.
La motivazione non è poi illogica, perchè gli atti fra di loro indipendenti sono coerentemente individuati per la citata assenza di conoscenza da parte della P. della omissione da parte della PI..

Con il sesto motivo di gravame, la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per avere ritenuto acquisibili le due dichiarazioni scritte delle imputate datate 10.6.1998, a norma dell'art. 237 c.p.p., in quanto atti provenienti dalle imputate.
L'eccezione avrebbe fondamento se i documenti fossero stati rilevanti ai fini della decisione. Infatti, trattandosi di fotocopie di dichiarazioni, immediatamente disconosciute in sede dibattimentale, sarebbe stata necessaria la acquisizione degli originali di tali dichiarazioni.
Si osserva, però, che nè la sentenza di primo grado, nè quella di appello danno alcun rilievo alle succitate dichiarazioni scritte. In particolare, nella sentenza impugnata, dalla pag. 3 alla pag. 7 sono indicate tutte la prove rilevanti ai fini della decisione, e tra queste non sono incluse le due dichiarazioni scritte delle imputate.
Dalla pag. 19 alla pag. 25 sono ricostruiti analiticamente i fatti, attraverso le dichiarazioni e gli atti rilevanti, ed in essi non sono comprese le due citate dichiarazioni scritte.
Pertanto, se ne deve desumere che si tratta di documenti del tutto irrilevanti ai fini delle decisioni dei giudici di merito.

Del tutto infondati sono poi il settimo ed ottavo motivo di ricorso, secondo i quali le fotografie della piccola A.G., e gli atti e i rilievi fotografici acquisiti dalla polizia giudiziaria non sono utilizzabili in dibattimento, perchè non prodotti dal P.M. entro il termine di sei mesi per la conclusione delle indagini preliminari (art. 407 c.p.p., comma 3). In realtà tali documenti risultano prodotti in dibattimento.
E', invece, ormai pacifico che la disciplina applicabile alle fotografie (dato che della produzione di queste sostanzialmente si lamenta la ricorrente) è quella di cui all'art. 234 c.p.p., il quale, disciplinando la prova documentale, dispone che "è consentita l'acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo". Sulla base di tale nozione la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che le fotografie, o i soli rilievi fotografici, costituiscono prove documentali, che possono essere sempre acquisite, e sulle quali il giudice può fondare il proprio convincimento (Cass. 15.6.1999 n. 11116).
Pertanto, la circostanza che le fotografie della parte offesa ustionata sono state eseguite dalla madre della vittima, secondo l'assunto della ricorrente, non osta alla loro acquisizione.
Ad analoghe conclusioni si deve pervenire per le fotografie attinenti allo stato dei luoghi, eseguite dalla polizia giudiziaria (peraltro non rilevanti in quanto la dinamica dei fatti è stata evinta da numerose prove testimoniali). Si tratta di atti irripetibili (Cass. Sezioni unite 28.10.1998 n. 4; Cass. 12.1.2005 n. 2353; Cass. 12.10.2005 n. 39995), ed anche la giurisprudenza contraria minoritaria si riferisce solo alle relazioni di servizio, come "ricordo dei luoghi" (Cass. 8.6.2004 n. 39230; Cass. 11.5.2004 n. 32505), ma non alla documentazione fotografica, per la negazione della qualità di atti irripetibili.
Nella specie, poi, non vi è nessuna preclusione alla diretta produzione in dibattimento, sconoscendosi peraltro la data esatta in cui tali documentazioni sono pervenute al P.M., per cui, se le fotografie non sono state allegate al fascicolo di ufficio ex art. 431 c.p.p., ben possono certamente essere prodotte direttamente in dibattimento. Diversamente vi sarebbe un vulnus al principio del diritto alla prova ex art. 190 c.p.p..
Infine, va rilevato, come, in ogni caso, la prova della responsabilità delle imputate sia desunta esclusivamente da prove testimoniali, assolutamente autosufficienti, per cui la ricorrente si limita a riproporre questioni interlocutorie, oggetto della dialettica in tema di assunzione di prove, senza spiegare la loro rilevanza (inesistente) ai fini della declaratoria della sua colpevolezza in ordine al reato di lesioni colpose.
Sul punto anche la Corte territoriale ha motivato in modo logico e congruo come, ad esempio, le gravi lesioni alla parte offesa risultano dalla ampia documentazione medica allegata (tanto che non è stata neppure eseguita perizia di ufficio), e le fotografie nulla aggiungono al valore probatorio della citata documentazione.
Anche il nono motivo di ricorso non è fondato. La ricorrente ha censurato la decisione dei giudici di merito di non procedere all'esame della insegnante G.T.. Il Tribunale ha motivato tale decisione ritenendo superfluo tale esame testimoniale dopo le prove già assunte. La Corte di Appello ha rigettato l'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p., ritenendola nè necessaria, nè opportuna, essendo peraltro anche dubbia la sua presenza all'interno della scuola il giorno dell'incidente.
Osserva il Collegio che la decisione sulla assunzione delle prove è compito discrezionale del giudice di merito, il cui provvedimento negativo non è sindacabile in sede di legittimità, in presenza di motivazione logica e congrua. Con particolare riguardo alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello le sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 2780 del 24.1.1996, hanno ribadito che si tratta di istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti (conformi Cass. 1.12.2005 n. 3458; Cass. 26.4.2000 n. 8106; Cass. 22.3.1999 n. 9531).
Nella specie, è evidente che la testimonianza di altra insegnante, di altro ausiliario, della parte offesa e della madre, di altri testimoni che, pur indicati dalla difesa, hanno confermato l'impianto accusatorio, così come precisato nella sentenza impugnata, ha reso superfluo l'esame dell'insegnante G., la quale, pur se presente il giorno dell'incidente, nulla di nuovo avrebbe potuto riferire, oltre quanto già esaurientemente accertato.
Il decimo motivo di ricorso non è altro che un'interpretazione alternativa delle risultanze istruttorie da parte della ricorrente.
Come è noto la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto, pressocchè costantemente, che "l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali" (Cass. 24.9.2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997).
Più specificamente "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass. sezioni unite 30.4.1997 n. 6402).
Il riferimento dell'art. 606 c.p.p., lett. e) alla "mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato" significa in modo assolutamente inequivocabile che in Cassazione non si svolge un terzo grado di merito, e che il sindacato di legittimità è limitato alla valutazione del testo impugnato.
Nella specie, la Corte di merito ha dedotto, in modo logico e corretto, la responsabilità della ricorrente in base a numerose prove (pressocchè esclusivamente testimonianze), specificamente citate, e che hanno consentito di accertare i cinque punti già citati a pag. 5 di questa sentenza. Da tale ricostruzione dei fatti risultano certe la negligenza e l'imprudenza dell'insegnante PI. per avere lasciato i bambini soli senza sorveglianza, malgrado la tenera età e la consequenziale maggiore esposizione a pericoli, circostanze che avrebbero legittimato una costante vigilanza, da attuare eventualmente anche con l'alternanza della sorveglianza eseguita da altro personale dell'istituto, ma non con la totale assenza di controllo.

Il dodicesimo motivo di ricorso non è fondato, come si evince dagli stessi richiami della ricorrente al CCNL di categoria, recepito nel D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 297. La ricorrente ha assunto, infatti, che dal tenore delle norme del contratto collettivo si desume l'assenza di una posizione di garanzia da parte dell'insegnante, essendo previsto che il compito di sorveglianza fosse affidato alternativamente anche ai collaboratori.
Come chiarito in più sentenze di questa Corte, la determinazione della posizione di garanzia si attua con la individuazione della norma che impone al soggetto, cui si imputa la colpa, di tenere quel comportamento positivo la cui omissione ha causato il verificarsi dell'evento (Cass. Sez. 4^, 27.2.2004 n. 24030).
Nella specie, la stessa ricorrente ammette che il CCNL prevede che "nella scuola materna, in cui anche i pasti vengono consumati insieme alle maestre, la vigilanza direttamente demandata ai collaboratori concerne solo l'entrata e l'uscita dalle aule, all'inizio e al termine dell'orario scolastico". E' vero che il personale ausiliario è anche delegato a compiere attività di sorveglianza durante i pasti e nei locali scolastici, ma determinante è l'espressione contenuta nel CCNL che prevede tale attività chiaramente come sussidiaria precisando che essa si svolge in "collaborazione con i docenti".
Ne consegue, con lapalissiana evidenza, che il CCNL richiamato dispone che l'attività di sorveglianza sui bambini è affidata al personale docente, che, in talune specifiche situazioni (consumazione dei pasti e "sorveglianza generica sui locali scolastici") può essere delegata al personale ausiliario, tenuto invece al controllo diretto dell'entrata e uscita dei bambini dalle scuole materne.
Tale disciplina normativa consente senz' altro di individuare la "posizione di garanzia" del personale docente, addetto non solo all'insegnamento, ma anche alla vigilanza dei bambini, ed in via sussidiaria, come ad esempio per ovvie necessità destinate a temporanei allontanamenti, l'affidamento dei minori al personale ausiliario.
Tale soluzione, chiaramente espressa nel CCNL, è anche coerente con la funzione didattica e di formazione dei bambini, che non può non essere esercitata se non dal personale docente, il quale è quello che si intrattiene nelle aule o negli altri locali con i piccoli allievi, mentre il personale ausiliario svolge atri compiti di supporto e di collaborazione, che ben possono estrinsecarsi anche nel temporaneo affidamento dei bambini, così spiegandosi la previsione di una limitata attività di sorveglianza anche da parte del personale ausiliario.
Nella specie, poi, è evidente la violazione da parte della ricorrente PI., la quale non solo ha omesso, con negligenza ed imprudenza, di sorvegliare i bambini, attività rientrante nella sua posizione di garanzia, ma li ha poi lasciati soli in altra aula, non risultando dalle sentenze di merito (e neppure dal ricorso) che vi sia stata la sostituzione dell'insegnante con altra maestra o con personale ausiliario, nè che ciò sia stato quanto meno richiesto, essendo peraltro la bidella P. impegnata nella diversa attività di preparazione del caffè.

Palesemente infondato è poi il tredicesimo motivo di ricorso, con il quale si è dedotto che la condotta della piccola A.G. era del tutto imprevedibile. La giurisprudenza di legittimità si è particolarmente soffermata su tale questione in materia di infortuni sul lavoro, ritenendo che è imprevedibile il comportamento anomalo del lavoratore quando presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute (Cass. 31.10.1995 n. 10733).
Applicando tale principio anche alla fattispecie, occorrerebbe valutare se la condotta della piccola Giada sia stata di per sè idonea ad interrompere il nesso di causalità a norma dell'art. 41 c.p., comma 2.
Per le ragioni già citate, non vi è dubbio sulla sussistenza di un comportamento altamente imprudente da parte della P., per avere portato il caffè bollente su un vassoio non stabile, e della negligenza ed imprudenza da parte della PI. per avere omesso di sorvegliare i bambini a lei affidati, lasciandoli soli nella stanza per i giochi.
Tali presupposti dell'evento, e soprattutto cause dell'evento, non sono minimamente sminuiti dal comportamento della parte offesa, che è uscita di corsa dalla stanza giochi, condotta del tutto prevedibile da parte di una bambina di cinque anni che gioca con i suoi coetanei, ed, appena superata la soglia di tale stanza è andata ad urtare contro la P.. Non solo la condotta attiva della minore non è imprevedibile, nè abnorme, nè eccezionale, ma è addirittura normale in una scuola di piccoli allievi, per cui il motivo di ricorso non ha alcun fondamento giuridico.
In ordine al quattordicesimo motivo di ricorso, non vi è dubbio che l'esercizio dell'azione civile nell'ambito del procedimento penale da parte dei genitori di A.G., quale attività gestoria nell'interesse dalla minore, non avesse bisogno di alcuna autorizzazione da parte del giudice tutelare. Sul punto la sentenza impugnata è ineccepibile, in quanto l'art. 320 c.c. attribuisce anche ai genitori disgiuntamente di compiere gli atti di ordinaria amministrazione, i quali si distinguono da quelli di straordinaria amministrazione in base ad un criterio economico, e non giuridico (Cass. civ. sez. 4^, 22.5.1968 n. 1051).
Nella specie, l'azione esercitata era quella tipica delle azioni di risarcimento del danno, e cioè quella di reintegrazione del patrimonio del soggetto rappresentato. E' altrettanto evidente che si tratta di azione "di evidente utilità" per la minore, pur riferendosi la deroga dell'art. 320 c.c., comma 3 ai soli giudizi arbitrali, e che quindi il controllo da parte del giudice tutelare era del tutto superfluo, e soprattutto non imposto da norma alcuna.
Con il quindicesimo motivo di gravame, la ricorrente ha assunto che l'azione civile poteva essere esercitata esclusivamente nei confronti della P.A., ai sensi della L. 11 luglio 1980, n. 312, art. 61, il quale, disciplinando la responsabilità patrimoniale del personale docente e non docente della scuola materna, dispone che "l'Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili da azioni giudiziarie promosse da terzi". La Corte territoriale ha invece ritenuto che debba prevalere la disposizione di cui all'art. 185 c.p., secondo la quale ogni reato che cagiona un danno obbliga sempre al risarcimento sia il colpevole che l'eventuale responsabile civile.
La tesi sostenuta dal giudice di merito è confortata dall'orientamento giurisprudenziale, secondo il quale sussiste la responsabilità civile solidale tra l'autore del reato, dipendente della P.A., e quest'ultima, per i fatti commessi in danno di terzi con dolo o colpa da parte del dipendente (Cass. 11.6.2003 n. 33562;Cass. 20.6.2000 n. 13048). Al più, come nella sentenza n. 33562 del 2003, anch'essa riferita ad un insegnante di una scuola materna, era stato posto in dubbio dalla Corte di Appello se anche in caso di un rapporto di "occasionalità necessaria" potesse essere ritenuta la concorrente responsabilità della P.A., ma non certamente quella dell'imputato riconosciuto colpevole. Questa Corte ha chiarito che solo nell'ipotesi rarissima di "occasionalità accidentale" la responsabilità della P.A. va esclusa (Cass. 2.2.1999 ti. 1386).
Nessun dubbio risulta mai espresso per il pubblico dipendente autore del reato, ben esplicitando l'art. 185 c.p. il diritto della parte che ha subito un danno di essere risarcita dal "colpevole", oltre che dalle persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.
Con il sedicesimo motivo di impugnazione, la ricorrente ha eccepito la prescrizione del reato, che si sarebbe verificata il 9.12.2005, ai sensi dell'art. 157 c.p., n. 4 e art. 160 c.p., non dovendosi computare le sospensioni della prescrizione per alcuni rinvii del dibattimento.
Il motivo di ricorso è infondato. Il primo rinvio da esaminare è quello dal 4.7.2003 al 7.10.2003, che, secondo la ricorrente, non è computabile in quanto richiesto dal difensore della coimputata P., e non da quello della ricorrente. Sul punto va ricordato che l'art. 161 c.p., comma 1, rimasto immutato anche dopo le innovazioni portate all'istituto della prescrizione con la L. 5 dicembre 2005, n. 251, dispone che "la sospensione e la interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato", specificando poi la giurisprudenza di legittimità che non è necessario il concorso o la cooperazione colposa nel reato, ma che è sufficiente l'imputazione per lo stesso reato (Cass. 7.6.2001 n. 31695; Cass. 22.2.1982 n. 5551).
Gli altri due rinvii sono quelli dal 9.12.2003 al 18.2.2004, e da tale udienza al 22.6.2004 per astensione degli avvocati dalle udienze.
Le sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 1021 del 28.11.2001 hanno condivisibilmente ritenuto che "in tema di prescrizione del reato, la sospensione del procedimento e il rinvio o la sospensione del dibattimento comportano la sospensione dei relativi termini ogni qualvolta siano disposti per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e sempre che l'una o l'altro non siano determinati da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa.
(In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che plurimi rinvii del dibattimento disposti in un procedimento per lesioni colpose, a seguito dell'adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze proclamata dall'associazione di categoria, comportino la sospensione del corso della prescrizione per tutto il periodo complessivo della durata dei rinvii predetti)" (conformi Cass. sezioni unite 24.9.2003 n. 4289; Cass. 22.5,2002 n. 36501;Cass. 5.3.2004 n. 16022).
I rinvii, peraltro il primo di poco superiore ai due mesi, ed il secondo di quattro mesi, non sono nella specie subordinati al alcun vincolo di durata, non applicandosi - come peraltro ammette la stessa ricorrente - il novellato art. 159 c.p., comma 1, n. 3, in base alla disposizione di cui alla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3.
Quanto alle eccezioni di incostituzionalità, riportate alle pagg. 7 e 8 di questa sentenza le stesse sono estremamente generiche, non spiegandosi i motivi di contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.. La manifesta infondatezza delle censure si desume anche dalla circostanza che certamente il legislatore può graduare nel tempo l'entrata in vigore di nuove norme sulla prescrizione senza che ciò intacchi i diritti di eguaglianza, di esercizio del diritto di difesa e di speditezza del procedimento, trattandosi di scelta mirata ad una migliore funzionalità dell'istituto, che non ha ragione di modifiche per procedimenti penali già in fase avanzata in primo grado o addirittura in sede di impugnazioni (Cass. 12.12.2005 n. 460; Cass. 25.1.2006 n. 8382; Cass. 13.4.2006 n. 17915).
Ne consegue che il termine di prescrizione, che sarebbe scaduto, a norma dell'art. 157 c.p., n. 4 e art. 160 c.p. vecchio testo, il 9.12.2005, è prorogato di mesi nove e giorni dodici per le citate sospensioni, e cioè fino al 21.9.2006, data successiva all'emissione della presente definitiva sentenza.

Con il diciassettesimo ed ultimo motivo di ricorso la ricorrente ha censurato il trattamento sanzionatorio, sia per l'elevata pena pecuniaria inflitta pari al massimo edittale, sia per la mancata concessione del beneficio della non menzione nel casellario giudiziale ex art. 175 c.p..
Sul primo punto si osserva che la Corte di merito ha congruamente e logicamente motivato sulla circostanza che il reato di cui all'art. 590 c.p. prevede alternativamente le pena della reclusione e della multa, per cui l'inflizione della sola pena pecuniaria ben può ritenersi trattamento assolutamente non spropositato, ma addirittura favorevole alla imputata dichiarata colpevole. Va peraltro ricordato che la determinazione della pena è compito del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità, se la motivazione è adeguata e logica, e che l'obbligo di motivazione deve essere proporzionato all'entità della pena inflitta (Cass. 20.9,2004 n. 41702; Cass. 2.7.1998 n. 9120).
Quanto alla deduzione relativa alla omessa concessione del beneficio di cui all'art. 175 c.p., la stessa è assolutamente generica, non indicando alcun motivo per il quale si ritiene che la PI. dovesse usufruire di tale beneficio, e, come tale, il ricorso sul punto è formulato in violazione dell'art. 589 c.p.p., lett. c).

Resta da esaminare il motivo di ricorso della P. attinente alla genericità della contestazione della condotta imprudente attribuitale, essendo già stata esaminata, unitamente al primo, terzo e quarto motivo di ricorso della PI., la sua censura sulle omissioni della contestazione sotto il profilo letterale.
Anche questo motivo di ricorso è infondato, contenendo l'originaria contestazione di cui al decreto di citazione del 20.11.2002 tutti gli elementi per individuare la sua condotta imprudente, consistita nel portare il caffè bollente su un vassoio non stabile in una scuola frequentata da bambini, e causando così l'urto con la parte offesa e le lesioni riportate da quest'ultima.
Invero, anche dagli atti successivi tale contestazione è evidente, e dalla stessa la ricorrente si è potuta adeguatamente difendere per cui non sussiste alcuna violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. (Cass. sezioni unite 19.6.1996 n. 16), Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna in solido delle ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento a norma dell'art. 616 c.p.p..

P.  Q.  M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 8 agosto 2006.
Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2006