Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Mobbing – Prova degli elementi costitutivi della fattispecie – Non raggiunta – Diritto al risarcimento del danno da mobbing – Non sussiste – Violazione dell’art. 2087 c.c. – Sussiste

La giurisprudenza è oramai assestata sul punto: l’elemento essenziale per poter configurare un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale; solo comportamenti siffatti sono in grado di rendere significativi, da un punto di vista giuridico, atti del datore di lavoro o dei suoi collaboratori che, diversamente, non avrebbero alcuna rilevanza rimanendo nell’ambito dei normali rapporti interpersonali sul luogo di lavoro… è onere del lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale tra la condotta datoriale e il danno subito… La ricorrente non ha raggiunto la prova degli elementi costitutivi della fattispecie, in quanto i fatti ostili non sono stati né frequenti né duraturi…Vi sono stati comunque comportamenti violativi dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del prestatore di lavoro, che hanno comportato l’insorgere di un danno biologico

Massima a cura della redazione di Olympus

 

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato il 28.11.2001 e regolarmente notificato alla controparte, F.L. volgeva nei confronti della Soc. A.L. srl con sede (...), domanda rivolta alla dichiarazione di illegittimità della sanzione disciplinare di un giorno del 2.7.2001 e inoltre domanda rivolta all’accertamento della responsabilità della convenuta in violazione dell’art. 2087 c.c. nella causazione della malattia da sindrome depressiva, con conseguente condanna della società convenuta al risarcimento dei danni morali e biologici da determinarsi nella misura di £. 100.000 per ogni giorno di malattia, oltre interessi e rivalutazione.
Chiedeva di accertarsi inoltre la sopravvenuta dequalificazione a far tempo dal 30.5.2001 e la condanna della società convenuta al risarcimento del danno nella misura di una mensilità di retribuzione per ogni mese di dequalificazione, con interessi e rivalutazione.
Narrava di essere stata assunta nel maggio 1997 e di essere stata adibita alla mansione di impiegata amministrativa (II livello ccnl metalmeccanici artigiani); si occupava infatti della tenuta della contabilità, dei rapporti con le banche ed i fornitori, della predisposizione dei dati per la redazione dei bilanci.
Si era assentata nel 2000 per maternità ed al termine del periodo di astensione facoltativa, nel maggio 2001, aveva comunicato all’azienda che sarebbe rientrata. La convenuta nelle persone della titolare P. non aveva fatto mistero di non gradire nel modo più assoluto il suo rientro, e pertanto veniva praticato nei suoi confronti un oltraggioso comportamento aziendale: esautoramento delle precedenti mansioni, imposizioni inutili, imposizione della presenza di M. C., quale sorta di controllore, comminatoria di una sanzione disciplinare, contestazioni risibili.
In conseguenza di ciò era insorta una sindrome ansioso depressiva di natura reattiva, collegata alle condizioni lavorative, per cui richiedeva il risarcimento del danno biologico.
Aveva inutilmente esperito il tentativo di conciliazione e instava pertanto le suesposte domande.
Con comparsa di risposta in data 18.5.2002 si costituiva la società resistente A. L. srl contrastando le avverse pretese, ed in particolare sostenendo che:
-la ricorrente era stata assunta nel maggio del 1997 con inquadramento nel II livello impiegata amministrativa ed era stata assente dal lavoro dal mese di gennaio 2000; dal 1.2.2000 al 29.5 2001 era stata continuativamente assente, dapprima per maternità anticipata e poi per quella facoltativa;
-al rientro dal lavoro dal 30.5.2001 la ricorrente aveva assunto un atteggiamento non collaborativo: non si muoveva dalla scrivania, non rispondeva al telefono, non apriva il cancello, parcheggiava la
macchina in modo da bloccare gli altri etc.;
-dopo 13 giorni di lavoro effettivo e 3 di assenza per malattia, la F. si assentava nuovamente per malattia (e cioè dal 21 giugno 2001 sino al 7 dicembre); di seguito, senza rientrare al lavoro, aveva usufruito di ferie, fino al 4 febbraio 2002; nel mese di febbraio 2002 aveva lavorato in tutto 8 giorni, nel mese di marzo 7 giorni, nel mese di aprile 14 giorni;
- il 21 giugno del 2001 riceveva una lettera in cui la Cisl contestava la dequalificazione ed il mobbing; allora, al solo fine di sbloccare la situazione, l’azienda aveva inviato la contestazione disciplinare impugnata; la sanzione veniva successivamente irrogata, in seguito ad altri comportamenti incomprensibili, tenuti con estranei (S. e R.) che la ricorrente aveva cercato di coinvolgere nella sua guerra all’azienda;
- vi era stata nel settembre 2001 l’indagine conoscitiva del consigliere per la parità C. P., che si chiudeva con la declaratoria di inesistenza delle situazioni di discriminazione, dequalificazione o mobbing;
- il 4 febbraio 2002, alla prima ripresa del lavoro da parte della ricorrente, le aveva consegnato a mano una lettera in cui spiegava le sue mansioni ed orario, ciò al fine da tutelarsi da iniziative della ricorrente, la quale, per tutta risposta stabiliva a sua discrezione di rispettare un “proprio” orario continuato, al posto dell’orario spezzato; osservava ancora all’attuale quest’orario continuato che creava non pochi problemi, anche di coordinamento con le esigenze degli altri impiegati;
- alla luce di ciò la contestazione disciplinare era certamente fondata e la sanzione proporzionata; il demansionamento non era configurabile in quanto la ricorrente aveva prestato attività lavorativa per pochissime giornate; l’oggettività dei fatti (che non erano mai stati aggressivi e persecutori) escludeva la possibilità che si fosse verificato un qualsiasi danno alla psiche. Non esisteva in azienda alcun clima intimidatorio, violento o minaccioso nei suoi confronti e di conseguenza non vi era un danno biologico, morale ed esistenziale addebitabile al datore di lavoro.
Chiedeva pertanto il rigetto delle avverse domande.
La causa veniva istruita con il libero interrogatorio delle parti, produzione documentale ed audizione di testimoni. Si procedeva anche ad espletamento di CTU medico legale.
All’udienza del 29.6.2006 la causa veniva posta in discussione e decisa con pubblica lettura del dispositivo in udienza.

Motivi della decisione

La ricorrente F.L. ha impugnato la sanzione disciplinare di un giorno di sospensione comunicatale il 2.7.2001, ha richiesto risarcimento dei danni da dequalificazione e infine ha domandato il risarcimento del danno da mobbing.
Le domande sono risultate in parte fondate e vanno accolte per quanto di ragione, nei limiti della presente motivazione.
Dalla istruttoria espletata si è risaliti agevolmente alla ricostruzione di un quadro conflittuale all’interno dell’azienda; proprio in relazione alla posizione della F.
La ricorrente era rientrata al lavoro in data 31.5.2001, al termine dell’astensione facoltativa per maternità, e aveva poi intrapreso un lungo periodo per malattia per sindrome depressiva (dal 21.6.2001 al 7.12.2001, poi aveva usufruito di ferie sino a febbraio del 2002). Nei primi giorni di tale assenza aveva ricevuto una lettera di contestazione datata 21.6.2001 in cui le si addebitava: «Lei non rivolge il saluto alla Sig.ra P. (titolare dell’azienda, n.d.r.) nè alla collega B.C. Dal giorno 30.5.2001 al 4.6.2001 Lei ha continuato a fischiettare, tamburellare con le dita, arrecando disturbo e fastidio al personale che lavora nell’ufficio, nonchè al programmatore informatico sig. R.D. che stava operando un intervento presso l’ufficio medesimo; richiamata verbalmente dalla sig.ra P. Lei rispondeva con arroganza: “Va bene”.
Dal giorno 30.5.2001 Lei sta mantenendo un atteggiamento sgarbato ed alquanto discutibile con clienti e fornitori (...): in particolare il giorno 4.6.2001 Lei non ha salutato il sig. L. della ditta Acerbis Italia spa; inoltre il giorno 6.6.2001 non ha salutato il sig. R. della ditta Acerbis Italia. spa, il giorno 18.6.2001 Lei non ha salutato il sig. S. titolare della ditta Acerbis Italia spa e continua a non salutare chiunque transiti in ufficio.
Nonostante la sig.ra P. le abbia vietato di posizionare la sua autovettura nel parcheggio dietro a quella degli altri dipendenti, Lei ha continuato a farlo, ignorando tali disposizioni. A causa dell’inosservanza di tale divieto Lei si è assentata in tal periodo dal suo posto di lavoro intorno alle ore 15:00 per recarsi a spostare la sua autovettura in modo da permettere al dipendente di utilizzare l’auto per tornare a casa.
Tale suo comportamento inoltre causa disagi e ritardi ai dipendenti che devono tornare a casa al termine dell’orario di lavoro.
Il giorno 30.5.2001 sempre intorno alle ore 15:00 (...) Lei si è dovuta recare a spostare l’autovettura posizionata sempre dietro quella della sig.ra A..V. perchè non le permetteva l’utilizzo del veicolo per il rientro a casa. Subito dopo lei si è recata al reparto produzione urlando di avere riscontrato dei danni al proprio autoveicolo dicendo: “sono appena rientrata e mi hanno già rovinato la macchina, cosa mi succederà domani? Si è quindi recata presso il suo ufficio accusando la sig.ra P. di essere responsabile di tale danno e Le ha detto: “Cosa mi devo aspettare per la prossima volta, il taglio delle gomme?”.
Da giorno 30.5.2001 Lei interpella insistentemente i dipendenti rivolgendo loro – con fare malizioso – domande riguardanti la corretta applicazione della normativa concernente la sicurezza (...).
Nonostante il divieto di utilizzo del telefono cellulare in azienda, Lei utilizza continuamente il suo telefono per ricevere ed effettuare telefonate personali, nonostante la sig.ra P. offra a tale scopo ai propri dipendenti l’utilizzo del telefono dell’azienda (...).
Ancora dobbiamo rilevare il Suo ritardo nello svolgimento dei compiti che le vengono assegnati: il giorno 30.5.2001 la sig.ra P. le ha affidato l’incarico di convertire in euro il listino prezzi ed in data 18.6.2001 Lei non aveva ancora terminato il lavoro.
Pur rientrando nelle mansioni a Lei affidate il compito di rispondere al telefono dell’azienda, all’apparecchio che si trova in ufficio nonché quello di aprire il cancello a chi suona il citofono, Lei non ottempera a tale compito».
In data 2.7.2001 seguiva la comminatoria della sanzione disciplinare di un giorno di sospensione. Dunque, pochi giorni di attività lavorativa avevano comportato una siffatta densa contestazione di infrazioni e la conseguente comminatoria di una sanzione.
Invero la parte resistente ha sostenuto, nelle note finali, di voler recedere dalla applicazione della sanzione, anche perchè il rapporto era ormai cessato, per intervenuto licenziamento in data 24.7.2002. Ma, in verità, nonostante questa dichiarazione del datore di lavoro, esaminare in questa sede nel merito i fatti posti a base della sanzione è doveroso, sia perchè il lavoratore ha un valido interesse, professionale e morale, alla radiazione della sanzione dal suo curriculum, dagli archivi dell’azienda e dall’ordinamento in ogni caso, sia perchè l’addebito di comportamenti del tipo siffatto rileva ai fini di esaminare il conflitto relazionale denunciato, caratterizzato da “una carica conflittuale piuttosto elevata”(così la CTU).
Ed infatti, già dai primi giorni di assenza della ricorrente, una visita psichiatrica della dr.sa F. (certificato 9.7.01, in atti) riscontrava una reazione depressiva instauratasi in concomitanza con le mutate condizioni di lavoro, al rientro dalla maternità.
Dalla ricostruzione storica delle vicende successive al 30.5.2001 (esame della compiuta istruttoria) e dalla apposita Ctu medico legale, compiuta dal dott. Ege, psicologo specializzato in Psicologia del lavoro e dell’Organizzazione, con l’ausilio di medico neuropsichiatra, si ricava uno scontro innanzitutto caratteriale e relazionale tra due figure antagoniste, F. e P., cui si aggiunsero interventi di terzi che hanno intensificato il contrasto, portandolo alla esacerbazione (ci si riferisce in particolare ai comportamenti del sig. M., fidanzato della P.).
Il conflitto ha avuto inizio nel periodo compreso tra il rientro della ricorrente al lavoro (30.5.2001) e l’inizio della prima malattia (21.6.2001): dopo 13 giorni lavorativi è iniziata la indisposizione di quasi sei mesi, seguita da un periodo di ferie, per cui la ricorrente, è rientrata al lavoro il 4.2.2002, ossia dopo oltre sette mesi di assenza.
Per inciso va detto che, durante il lungo periodo della malattia, il conflitto non solo è continuato, ma è anche andato allargandosi, si è propagato fuori dell’ambiente lavorativo e si è trasformato in una lite senza quartiere, che ha visto le parti far pressione sui testimoni, indirettamente minacciarsi e insultarsi, e infine ha contribuito a trasformare il posto di lavoro in un luogo oramai arroventato, come avvertito da tutti dal momento del rientro il 4.2.2002 e sino al licenziamento del luglio 2002. Come precisamente individuato anche dal CTU, bisogna concentrare l’analisi sul periodo 30.5.2001-21.6.2001, perchè è allora nato il conflitto, ed un danno, infatti, è stato immediatamente riscontrato in sede medica e lamentato.
La ricorrente, al rientro dalla maternità trovava due elementi di cambiamento: l’orario spezzato che non le era affatto funzionale, e la presenza di un’altra impiegata amministrativa, che, assunta originariamente per sostituirla, veniva confermata anche dopo il suo rientro. Lo psicologo ha osservato in relazione a ciò: «la sig. F. non è dotata di un carattere flessibile ed adattativo, ne ha particolari tratti remissivi, per cui doversi adattare a tale molteplice cambiamento che le provoca disagio e insoddisfazione».
Anche la titolare P. non era contenta di questo rientro e iniziavano screzi ed incomprensioni. A questa ostilità immediata è da riportare emblematicamente la contestazione disciplinare del 21.6.2001 (oggetto di odierna specifica impugnativa), caratterizzata da un’accozzaglia di eventi insignificanti, di episodi disciplinarmente irrilevanti e di fatti risultati infondati sulla base della compiuta istruttoria.
Scrive lo psicologo: «Si tratta di una lettera emotiva, scritta in un momento di rabbia, che vuole far male, in un clima di tensione evidentemente generato dal fatto che la F., solo dopo 13 giorni di lavoro, comincia un periodo di malattia» che il datore di lavoro sente come ritorsione al cambio dell’orario e alle direttive impartite.
L’istruttoria svolta (depurata dalle testimonianze di persone interessate alla vicenda e all’esito della stessa) ha smentito una serie di accuse rivolte dall’una all’altra parte negli scritti difensivi e nelle missive ante causam, e ha confermato piuttosto che: 1) era una prassi per tutti i dipendenti parcheggiare dietro i mezzi degli altri, che il parcheggio era pubblico e che la collega A. che aveva trovato la sua macchina impedita da quella della ricorrente non si era affatto lamentata di ciò; che quindi il comportamento severo tenuto dalla P. per l’intralcio creato una volta e per aver abbandonato il posto di lavoro per poco tempo era esagerato e inopportuno; che 2) il sig. M. abbia svolto, sia pure per un tempo limitato (pochi giorni dice nel libero interrogatorio la ricorrente), funzioni di odiosa “sorveglianza” nell’ufficio della ricorrente, senza averne il potere, perchè nient’affatto dipendente dell’azienda, ne in alcun modo la legittimazione, ma senza per questo usare toni in alcun modo violenti o aggressivi; 3) che non vi era stato alcun atteggiamento negativo della F. degno di rilievo verso i clienti Acerbis Italia; 4) che la P. impose qualche volta alla ricorrente di “non parlare con nessuno” e non muoversi dalla sua scrivania (secondo la sola testimone B.); 6) che le fosse stato cambiato l’orario in modo non confacente alla recente maternità e senza fornirne valide giustificazioni.
Tutto ciò porta alla dichiarazione di illegittimità della sanzione irrogata in data 2.7.2001, perchè basata o su fatti inveritieri, o su fatti disciplinarmente irrilevanti; tuttavia, contemporaneamente la sanzione “emotiva” e rabbiosa costituisce porzione significativa del comportamento illegittimo del datore, perchè in violazione del dovere di ricevere la prestazione secondo buona fede e correttezza.
Il predetto dovere compete al datore di lavoro in base ai principi costituzionali e all’art. 2087 c.c.. La violazione dello stesso, sia pure in un quadro di conflittualità lavorativa non particolarmente elevata, come nel caso di specie, conduce al risarcimento del danno procurato al lavoratore.
A comporre il mosaico del trattamento illegittimo, alla sanzione pretestuosa per cui si è detto, va sommata la condotta di illegittima sorveglianza posta in essere dal M., l’ingiustificata modifica dell’orario di lavoro, il comportamento spesso ingiustificatamente severo della P.
Tuttavia, va rigettata la domanda relativa alla dichiarazione dell’esistenza di un atteggiamento di mobbing e volta alla condanna del datore di lavoro alle conseguenze risarcitorie connesse.
Il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica persistente ed in costante progresso in cui una persona viene fatta oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, o in parità, o anche in posizione inferiore, allo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici relazionali e dell’umore che, in prosieguo di tempo, possono portare anche ad una invalidità psicofisica permanente. Esso, da un lato è definibile situazione conflittuale, dall’altro è un comportamento illecito.
Nel diritto internazionale (direttive CEE n. 2000/43; n. 2000/78 e n. 2000/73) la nozione di mobbing viene ricavata da quella di molestia morale e sessuale; trattasi cioè di una situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante. Alcuni disegni di legge, inoltre, individuano quali elementi costitutivi del mobbing, il carattere sistematico e duraturo della condotta e l’esplicita finalità di danneggiare il lavoratore (art.1, c. 2, d.d.l. n. 6410/1999 e art. 2, c. 1, d.d.l. n. 4265/1999).
La giurisprudenza è oramai assestata sul punto: l’elemento essenziale per poter configurare un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale; solo comportamenti siffatti sono in grado di rendere significativi, da un punto di vista giuridico, atti del datore di lavoro o dei suoi collaboratori che, diversamente, non avrebbero alcuna rilevanza rimanendo nell’ambito dei normali rapporti interpersonali sul luogo di lavoro.
Inoltre i principi che presidiano l’art. 2087 c.c., ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, è onere del lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale tra la condotta datoriale e il danno subito.
La prova deve riguardare i fatti ostili posti in essere nei confronti del lavoratore e che i fatti lamentati siano sistematici, non meramente sporadici e riferibili ai normali rapporti che si instaurano all’interno di un luogo di lavoro, che è anche luogo di aggregazione e contatto (e talora di scontro).
Deve inoltre escludersi la rilevanza di comportamenti che non siano dolosi, cioè comportamenti posti in essere senza l’intenzione di danneggiare il soggetto (volontà persecutoria). Infine, per poter configurare il mobbing è necessario che il comportamento datoriale si protragga per un lungo periodo e abbia la finalità specifica dell’espulsione del lavoratore.
La ricorrente non ha raggiunto la prova degli elementi costitutivi della fattispecie, in quanto i fatti ostili non sono stati né frequenti né duraturi, nei tredici giorni di lavoro rilevanti. Essi, consistenti in qualche rimprovero, qualche atto di inquisizione e controllo ingiustificati, e nella predetta sanzione non presentano il vero carattere della sistematicità, e soprattutto non sono stati duraturi, in quanto dopo il 21.6.2001 il conflitto si era allargato alla sfera esclusivamente privata.
Inoltre, non è presente il requisito del dislivello tra gli antagonisti, della inferiorità: secondo lo psicologo il conflitto tra F. e P. si è sempre mantenuto ad un livello di assoluta parità e reciprocità, in quanto la ricorrente non aveva un carattere remissivo, condiscendente o rinunciatario.
Anche P. C., consigliere per le pari opportunità per la Provincia di Bergamo, intervenuta su richiesta del Ministero del Lavoro, descrive in testimonianza non una situazione di pressione psicologica e fisica unilaterale ma una situazione conflittuale soffocante reciproca, aizzata dalle contrapposte fazioni (cerchia composta dal coniuge, fidanzato e amici).
Inoltre occorre prestare attenzione ad un dato di fatto rilevante: il serio aggravamento psicofisico che si è subito registrato è una condizione tipica di stadi avanzati di mobbing, successivi ad un lungo ed estenuante conflitto. La ricorrente si è ammalata molto presto, rispetto ai dati di esperienza presenti nella letteratura scientifica, e ciò fa pensare ad un sostrato di depressione preesistente e comunque non riportabile ai fatti di causa.
Non essendo accertato il mobbing causativo di un danno, deve essere rigettata la richiesta di risarcimento del relativo danno biologico collegato a comportamenti mobizzanti.
Vi sono stati comunque comportamenti violativi dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del prestatore di lavoro, che hanno comportato l’insorgere di un danno biologico. Secondo il CTU, dott. Ege, la vicenda è definibile “conflitto relazionale” tra la F. e la P., conflitto che è nato in ambito lavorativo, si è esplicato secondo tempi e modi limitati ed è uscito dalla sfera professionale, proseguendo in ambito extralavorativo e personale, ed ivi escalando. La reazione depressiva sviluppata dalla ricorrente, che ha avuto per conseguenza ben sei mesi di malattia, appare di gravità sproporzionata rispetto al tempo di esposizione al conflitto ed al contenuto del conflitto.
Come risultato anche dall’allegata perizia neuropsichiatrica , il CTU diagnosticava alla sig. F. una patologia psichiatrica di tipo “disturbo dell’adattamento con ansia, di tipo cronico”. Il danno biologico veniva quantizzato nella misura del 7-8%, l’invalidità temporanea veniva calcolata in mesi sei, dei quali un mese al 75%, un mese al 50% ed i successivi al 25%.
La responsabilità di un simile complessivo danno veniva riportata al 50% alla condotta datoriale, ed al 50% a fattori personali preesistenti.
Siffatta valutazione dei dati acquisiti appare pienamente condivisibile perchè razionale e coerente, priva di contraddizioni, frutto di approfonditi studi scientifiche di lunga analisi empirica. Ad essa si presta adesione, anche perchè coerente con la ricostruzione della vicenda effettuata tramite le numerose testimonianze, i liberi interrogatori, la produzione documentale.
Il danno all’integrità psicofisica accertato, causalmente riportabile ai fatti di causa, è il danno biologico, individuato nella sentenza 184/86 della Corte costituzionale quale danno alla salute, risarcibile ex art. 2043 c.c., considerato, sulla scorta della sentenza della Cassazione n. 3563/96, danno all’integrità psicofisica alla persona in sé e per sé considerata, alle sue funzioni biologiche e relazionali ed immanente al fatto illecito lesivo.
Per questi suoi caratteri deve essere quantificato sulla base di criteri equitativi non reddituali e si ritiene equo applicare il criterio tabellare individuato dal Tribunale di Milano. L’applicazione del suddetto criterio al caso in esame comporta la liquidazione del danno biologico in Euro 10.622,00.
La cifra va ridotta di un mezzo per le concorrenti causali di cui si è detto: il danno biologico addebitabile al solo datore di lavoro è di Euro 5311,00.
Il danno da invalidità temporanea va del pari risarcito, essendo collegato ad una lesione del diritto alla salute con conseguente sospensione in tutto o in parte delle facoltà e della capacità del soggetto (v. Cass. 9725/95). Appare opportuno inoltre quantificare l’invalidità temporanea al 75% in Euro 38,73 (gg. 30) al giorno, quella al 50% in Euro 25,82 (gg. 30), quella al 25% in Euro 12,91 (gg. 120), per una liquidazione del danno da questa voce in Euro 3485,7 in totale, di cui un mezzo (½) pari a Euro 1742,85 è riportabile alla responsabilità del datore di lavoro.
Il danno morale è risarcibile, e non è nemmeno necessario scovare la possibilità di identificare nelle lesioni colpose l’astratta ricorrenza di un reato ai sensi dell’art. 2059 c.c. e 185 c.p.p. . Essendo la liquidazione del danno morale da fatto illecito rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, e dovendo la determinazione della frazione percentuale tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso e della gravità dei comportamenti offensivi (questi elementi erano nel caso sufficientemente gravi), appare congrua la somma di Euro 2351,00 quale percentuale di 1/3 sul danno biologico (1/3 di Euro 7053,00). Il danno alla persona nel suo valore complessivo ammonta pertanto a Euro 9.404,00.
Poiché le somme liquidate a titolo di danno alla persona, nella sue distinte componenti del danno biologico e del danno morale costituiscono debito di valore, occorre considerare il valore del bene al tempo della diminuzione del valore stesso, che convenzionalmente si fissa alla data del presente dispositivo. Il predetto danno di Euro 9.404,00 viene cioè considerato il valore attuale della perdita.
Su quest’importo compete dalla predetta data della sentenza la rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Poi, al fine di liquidare effettivamente, quale danno emergente, il valore del bene perduto, occorre effettuare la predetta rivalutazione ma la giurisprudenza ha riconosciuto dovuto al danneggiato il danno derivante dal tempestivo mancato godimento dell’equivalente in danaro del danno risarcito, da quantificare con lo strumento del tasso legale scelto in questi ultimi anni dal legislatore per la liquidazione degli interessi moratori ex art. 1224 c.c. (v. Cass. Sez. Unite Civili, Sent. n. 1772/95).
Si ritiene unanimemente che occorra effettuare un calcolo periodico sulla somma capitale progressivamente ed annualmente rivalutata, apparendo la periodicità coerente con la variabilità degli indici Istat.
Pertanto va condannata la srl A.L. a risarcire il danno procurato alla ricorrente e di conseguenza al pagamento a favore di F.L. di Euro 9.404,00, a titolo di danno alla persona, su cui applicare gli interessi al tasso legale, siccome progressivamente anno per anno rivalutata, dalla presente sentenza al saldo.
In ordine all’asserito demansionamento e dequalificazione, va rigettata ogni richiesta di risarcimento dei danni richiesti sulla base di una ovvia, pregiudiziale considerazione di diritto.
Perchè la dequalificazione possa comportare danno risarcibile in termini di perdita della professionalità occorre che sia protratta per un certo tempo, durante il quale il lavoratore, non esplicando le proprie mansioni, abbia perduto capacità professionale, aggiornamento, considerazione all’interno dell’azienda (v. per tutti Tribunale di Milano 18 febbraio 2003).
In questo caso, si sono verificati 13 gorni di asserita dequalificazione.
Pur sommando ai 13 giorni di giugno di effettiva attività lavorativa, il lavoro prestato successivamente al febbraio 2002 e sino al licenziamento (anche questo periodo comunque profondamente discontinuo), e, quindi aggiungendo un periodo successivo alla proposizione del ricorso, l’arco di tempo si rivela troppo breve per dar luogo a plausibili conseguenze risarcitorie.
Inoltre, non vi è prova certa dell’adibizione costante ed esclusiva a mansioni inferiori, di cui sia stato descritto il contenuto preciso. Solo la testimone B. era sicura di un esautoramento totale, ma la circostanza non ha trovato riscontro nella deposizione di alcun altro teste.
Dunque le prospettazioni della ricorrente vanno solo parzialmente accolte, ma le spese di lite seguono la prevalente soccombenza della A.L srl. Esse si liquidano come in dispositivo alla luce degli artt. 5 e 6 T.P, .
Le spese di CTU devono del pari porsi a carico della società convenuta per il principio della soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa n. 1785/2001, ogni diversa e contraria istanza disattesa:
1) accoglie in parte le domande della ricorrente e per l’effetto annulla la sanzione disciplinare di un giorno di sospensione irrogata in data 2.7.2001;
2) dichiara tenuta e condanna la srl A.L. a risarcire il danno procurato alla ricorrente e di conseguenza al pagamento a favore di F.L. di Euro 9.404,00, a titolo di danno alla persona su cui applicare gli interessi al tasso legale, siccome progressivamente anno per anno rivalutata, dalla presente sentenza al saldo;
3) condanna la A.L. srl al pagamento delle spese di lite a favore della ricorrente che liquida in Euro 2.300,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari e Euro 1.100,00 per diritti, Euro 200,00 per spese oltre 12,5% T.P., I.V.A. e C.P.A. come per legge;
4) pone le spese di CTU definitivamente a carico della società resistente, come già liquidate.

Bergamo, 29 giugno 2006 (depositato l’8 agosto 2006)