Corte di Appello di Roma, Sez. 3, 11 ottobre 2011 - Scala a chiocciola senza ringhiera e infortunio: ruolo di un committente


 

 

 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI ROMA
TERZA SEZIONE CIVILE


composta dai signori magistrati
Dr. Antonio Azara - Presidente -
Dr. Angelo Martinelli - Consigliere -
Dr. Giuseppe Lo Sinno - Consigliere rel. est. -

ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nella causa civile - su rinvio dalla Cassazione - iscritta al n. 1812/2010 del Reg. Sen. Affari Contenziosi posta in decisione all'udienza del 16.9.2011 e vertente

tra
G.N. nata a Roma il (...),
P.D., nata a Brancaleone (RC) il (...),
G.A., nato a Roma il (...), nella loro qualità di eredi di G.U., tutti rapp.ti e difesi dall'avv. V.S. del foro di Roma ed elettivamente dom.ti presso lo studio del medesimo avv.to in Roma, giusta delega in atti;
Appellanti - (attori in riassunzione)

c/
P.S., rapp.to e difeso dall'avv. A.A. del foro di Roma e presso di lui domiciliato in Roma, giusta delega in atti;
I.V. S.r.l., in persona del Presidente e legale rapp.te p.t. dr. E.D., rapp.ta e difesa dagli avv.ti G.V. e L.V. del foro di Roma ed elettivamente dom.ta presso i medesimi in Roma, giusta delega in atti;
S.p.A. A. (già S.p.A. R.A.) - corrente in Trieste, in persona del legale rapp.te p.t., rapp.ta e difesa dall'avv. G.S. del foro di Roma e presso di lui domiciliata in Roma, giusta delega in atti;
Appellati (convenuti in riassunzione)

Oggetto. Appello a sentenza del Tribunale di Roma - n. 17692/99 - su rinvio dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 6432/09).

 

Fatto



Con atto di citazione notificata il 18.2.1994 U.G., quale parte lesa, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma S.P. per sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti in seguito alle lesioni subite in Roma, nei locali di via (...), allorché era caduto dalla scala a chiocciola che collegava l'attico al superattico di cui il convenuto era conduttore. Si era costituto in giudizio il P. che chiamava in causa la R.A., quale assicuratrice del locali, ed in giudizio veniva chiamata - per ordine del giudice - anche la società I.V. (proprietaria dell'edificio); tutte le predette parti si costituivano chiedendo il rigetto delle domande.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 17692/99 depositata il 27.9.1999, rigettava la domanda per mancanza di prova, compensando le spese di lite. La Corte di Appello di Roma, adita con gravami degli eredi del G., con sentenza n. 3139/04 depositata il 6.7.2004 dichiarava inammissibile l'appello essendosi verificata decadenza ex art. 327 c.p.c.; compensando le spese del grado.

La Corte di Cassazione, adita con ricorso degli eredi di G.U. (P.D. + 2), con sentenza n. 6432/096 depositata in data 17.3.2009, in accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale (assorbito quello incidentale), ha cassato la sentenza impugnata relativamente alla dichiarata inammissibilità dell'appello, con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla medesima Corte di Appello in diversa composizione, onde far riaprire la fase di appello a contraddittorio integro con tutte le parti processuali.

Quindi con atto di citazione notificato in data 17.03.2010 gli eredi G. hanno riassunto il processo dinanzi alla Corte di Appello di Roma per sentire, in riforma della precedente sentenza del Tribunale, accogliere la propria domanda di risarcimento danni con condanna di P.S. e della I.V. al pagamento delle somme liquidate a tale titolo; il tutto previa nuovo espletamento dei mezzi di prova dedotti in primo grado. Si sono costituiti in giudizio P.S., la I.V. s.r.l. e la A. S.p.A. per sentir rigettare l'appello perché inammissibile e/o infondato. Quindi, sulle conclusioni precisate avanti al Consigliere Istruttore (secondo le norme di rito vigenti prima del 1 maggio 1995), la causa è stata rimessa al Collegio per la decisione. All'udienza del 16.9.2001 la Corte ha trattenuto la causa per la decisione.

 

Diritto



Deve preliminarmente respingersi l'eccepita estinzione del giudizio per asserita tardività della riassunzione del processo ex art. 392 c.p.c. posto che la citazione de quo risulta passata all'ufficio postale - per la successiva notifica - il 17.3.2010 cioè l'ultimo giorno del termine annuale previsto, senza abbia alcun valore l'orario in cui detto atto venne consegnato all'ufficio poiché ciò che rileva, per la parte notificante, è che il termine non sia scaduto mentre la successiva attività dell'organo notificante non ha più rilievo al fine del rispetto del termine di legge (cfr. Cass. civ., sez. III, 11.1.2007, n. 390: "in tema di notificazioni di atti giudiziari ed alla stregua della sentenza della corte costituzionale 26 novembre 2002 n. 447 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli art. 149 c.p.c. e 4, III comma, l. 20 novembre 1982 n. 890 nella parte in cui prevede che la notificazione a mezzo posta si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario - opera nell'ordinamento un principio di ordine generale secondo il quale, qualunque sia la modalità di trasmissione od esecuzione, la notificazione di un atto processuale, almeno quando debba effettuarsi entro un termine prestabilito, si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell'affidamento dell'atto all'ufficiale giudiziario che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento vincolato").
Peraltro non va trascurato, a confutazione definitiva dell'eccezione sollevata, che anche il termine di cui all'art,392 c.p.c. è soggetto alla proroga di gg. 46 per il computo della sospensione dei termini processuali, prevista per il periodo feriale dall'art. 1 l. n. 742/1969, che si applica, alla luce dei principi fissati dalla corte costituzionale, anche al termine di un anno di cui all'art. 392 c.p.c..
Nel merito, va innanzitutto evidenziato come le ragioni della cassazione della precedente sentenza di questa corte risultino fondate, esclusivamente, sulla erroneità della dichiarazione di inammissibilità dell'appello a suo tempo proposto dagli eredi G., senza alcuna incidenza sul merito concreto della vicenda processuale che la sentenza di primo grado aveva definito con decisione di rigetto della domanda di risarcimento danni ex art. 2051/2043 c.c..
Più in particolare, la sentenza della Corte Suprema ha imposto l'esame del merito della vicenda nel pieno contraddittorio di tutte le parti evocate nel giudizio di I grado. Il che ha reso necessario il rinvio della causa a questo giudice di merito.

Ciò posto, poiché il giudizio di rinvio operato dalla cassazione tiene al merito della causa, deve procedersi all'esame degli originari motivi di appello proposti dai G. avverso la sentenza del Tribunale di Roma; e a tal riguardo - avuto riguardo a quei motivi - non si ritiene che la situazione venuta a determinarsi renda necessaria un'ulteriore attività probatoria.
Infatti le richieste istruttorie degli appellanti non hanno pregio considerato che: a) nessun fatto sopravvenuto alla sentenza di primo e di secondo grado risulta dedotto dalle parti in sede di riassunzione; b) la sentenza di cassazione non ha affatto prodotto una modificazione della materia del contendere, né comunque inciso sulla originaria prospettazione dei fatti giuridici posti a fondamento delle rispettive domande.
Ciò premesso, occorre dunque verificare se la parte appellante abbia, o non, provato tali fatti, in adempimento dell'onere su di essa gravante, in base a quanto emerso in esito all'istruttoria di primo grado che questa Corte è tenuta a riesaminare in base alle argomentazioni degli appellanti.
Ritiene la Corte che, seppur per diversa ragione, la sentenza di I grado meriti conferma con il conseguente rigetto della domanda azionata dagli eredi G. sia per quella sottesa all'art. 2051 c.c. che quella, generale, legata all'art. 2043 c.c..
Invero, e con riferimento alla prima questione, è noto che la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità (v. per tutte, Cass. civ., sez. III, 1.4.2010, n. 8005; nella specie, la suprema corte - in controversia per il risarcimento dei danni patiti dai congiunti di persona deceduta a seguito delle gravissime lesioni riportate per la caduta, all'interno di un negozio di elettrodomestici, da una scala che dava accesso ad una zona antistante il locale medesimo - ha confermato la sentenza della corte territoriale che, valutati esaurientemente tutti gli elementi del caso concreto, aveva ritenuto insussistente la responsabilità ex art. 2051 c.c. del titolare dell'esercizio commerciale, per non aver gli attori provato che la morte della propria congiunta era stata conseguenza normale della particolare anzidetta condizione del locale ove era accaduto il sinistro).


Nel caso in esame le cose stanno esattamente in tali termini non solo perché l'attore, in I grado, non aveva dato prova del nesso tra danno e cosa in custodia del P. (la scala di collegamento con il sottotetto), ma soprattutto perché, esaminati in modo compiuto gli elementi probatori acquisiti, non era emerso in alcun modo che l'evento infortunistico a carico del G. fosse scaturito dalla condizione intrinseca della scala a chiocciola (in quanto non dotata di ringhiera) quanto, piuttosto, da una disattenzione imputabile unicamente all'artigiano U.G. che, inavvertitamente, nell'arretrare verso la botola di collegamento con la scala era precipitato lungo la scala senza che la mancanza della ringhiera potesse essere considerata, in nessun modo, causa della caduta stessa e dei conseguenti danni.
A prescindere, infatti, dalla circostanza della obbligatorietà o meno della presenza della ringhiera (che dalla espletata Ctu sembrerebbe risultare doveroso per luoghi pubblici e non per abitazioni private alla luce del D.P.R. 236 - 1989 emanato per il superamento delle c.d. barriere architettoniche), la scala, priva di ringhiera, esistente nell'abitazione del P. non costituì la causa della caduta del G. posto che la caduta non avvenne mentre questi scendeva o saliva lungo la stessa "cosa" (e non potè - quindi - sorreggersi ad una ringhiera o corrimano) ma prima di iniziare la discesa ed a causa di una disattenzione dovuta ad una operazione che stava svolgendo per aiutare un altro artigiano (imbianchino) presente nell'appartamento (v. testimonianza D.L.).
Nessuna contraria prova gli odierni appellanti hanno saputo fornire per dimostrare il legame diretto tra la caduta del defunto U.G. e l'utilizzo della scala a chiocciola; unico elemento presuntivo essendo fornito dall'essere stato rinvenuto il G., dolorante, seduto sulla parte finale della scala (v. testi D. e dr. P.F.) senza che questo consenta, ex sé, di valutare come sussistente un nesso tra la caduta e la condizione della scala.
A tale valutazione, di tipo squisitamente probatorio, si lega un'altra considerazione giuridica rapportata alla natura dei rapporti tra il P. e l'artigiano G. (incaricato di eseguire un preventivo per la realizzazione di una libreria).
Infatti, nel contratto d'opera (qual è quello tra le predette parti) può essere ipotizzabile un dovere del committente di informare l'esecutore in ordine a possibili insidie o situazioni di pericolo insite nell'ambiente o nelle strutture di sua pertinenza nelle quali la prestazione si deve svolgere, ma non è certo ipotizzabile un generale dovere di controllo del committente in ordine all'attitudine del prestatore e delle concrete modalità di svolgimento dell'opera; tale dovere è ipotizzabile, in relazione al generale precetto del neminem laedere, nel caso e nei limiti in cui la prestazione dell'opera si svolga nell'ambito dei locali di pertinenza del committente (cfr. Cass. civ., sez. III, 26.1.1995, n. 933) ma sempre purché vi sia la prova che la condizione dei locali abbia reso possibile l'insorgenza del danno.
Il contratto d'opera di cui agli artt. 2222 e ss. del codice civile è caratterizzato dall'autonomia del prestatore d'opera sul piano sia della scelta dei mezzi, sia dell'organizzazione della propria attività volta al conseguimento dell'opus. Esso, a differenza del contratto di appalto, è caratterizzato dalla prevalenza del lavoro personale rispetto all'organizzazione e ai mezzi materiali e per tale ragione il prestatore ha la libertà di scelta dei mezzi e dei modi necessari per l'esecuzione dell'opera (come pure di ogni altra attività preparatoria alla stessa, quale è quella tesa a fornire un preventivo al committente); e tale caratterizzazione sussiste, ancorché in forma più attenuata, anche nel lavoro a domicilio del cliente dove il potere di ingerenza del committente, in ordine ai tempi e ai modi dell'adempimento, è ipotizzabile in diversa misura, in relazione alla natura e lo stato dei luoghi ma sempre col limite della libertà ed autonomia del prestatore di scegliere il come operare nell'esecuzione della prestazione.
Conseguentemente, in tema di contratto d'opera non trova applicazione la norma dell'art. 2087 c.c.; che, integrando le disposizioni delle leggi speciali in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, impone all'imprenditore l'adozione delle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. 2737 - 1988); così come non trovano applicazione le norme speciali antinfortunistiche che presuppongono l'inserimento del prestatore nell'organizzazione dell'impresa del soggetto destinatario degli effetti dell'attività, salva specifica disposizione in senso diverso o particolari modalità di svolgimento della prestazione dell'opera.
Resta la possibilità di valutare i comportamenti omissivi del committente in ordine all'adozione di specifiche cautele, a lui direttamente non imposte, quali elementi di colpa in relazione al principio generale del "neminem laedere", e ciò nei confronti sia dell'esecutore dell'opera come dei terzi, secondo le generali regole di cui all'art. 2043 c.c..
Ma per questo è necessario dimostrare che l'omessa adozione di misure di sicurezza abbia determinato una situazione di pericolo occulto in danno del prestatore a cui lo stesso non avrebbe potuto far fronte utilizzando le sue normali capacità personali (attenzione e prudenza) e professionali (adeguata verifica e controllo dei luoghi ove si accede per l'esecuzione dell'opera). Può essere ipotizzabile un dovere del committente di informare l'esecutore in ordine a possibili insidie o situazioni di pericolo insite nell'ambiente o nelle strutture di sua pertinenza nelle quali la prestazione si deve svolgere; dovere che, sul piano contrattuale, si inquadra nella categoria generale dei doveri "di sicurezza" dipendenti dal contratto che l'esecuzione di una prestazione comporta tra le sfere giuridiche delle parti, e può essere ricondotto al paradigma dell'art. 1175 o dello stesso art. 1374 c.c.; come è pur ipotizzabile un potere - dovere di ingerenza di fronte a situazioni di pericolo che possano derivare dalla macroscopica imperizia o negligenza dell'esecutore, se percepibili dal committente con l'uso dell'ordinaria diligenza.
Per ciò che emerge dall'incarto processuale, invero, nessuna colpa può essere attribuita al P. - committente e conduttore dell'appartamento - una volta che si tiene conto che il G. aveva già verificato le condizioni del luogo e già riscontrato la presenza della scala a chiocciola priva di ringhiera; senza che sia emersa alcuna concreta circostanza atta a dimostrare l'insidia insita nella dedotta mancanza in relazione al comportamento tenuto dal danneggiato prima della caduta avvenuta, tra l'altro, durante lo svolgimento di una attività del tutto estranea alle operazioni legate alle misurazioni necessarie alla stesura del preventivo richiesto dal P.; essendo emerso che il G. era intento ad aiutare un imbianchino, su richiesta di quest'ultimo, a reggere o spostare un oggetto presente sul posto (v. teste D. all'udienza del 27.4.1998: "il (rubinetti mi riferì che un altro operaio, un pittore edile, che stava sul posto gli aveva chiesto un aiuto per reggere qualche cosa, che non ricorso, e che indietreggiando era caduto per la scala a chiocciola").
La sentenza impugnata, quindi, deve essere confermata; dovendosi, nell'ambito della responsabilità extracontrattuale a norma sia dell'art. 2051 che dell'2043 c.c., negare l'esistenza, a carico del committente/P., di colpe di alcun tipo, riconoscendosi, al contempo, che il G. in quanto "artigiano" falegname, come tale presumibilmente dotato di quel minimo di capacità personali e professionali in relazione all'opera richiestagli, e la cui esecuzione (seppur limitata al preventivo) egli aveva accettato senza riserve, a quanto risulta.


Il rigetto dell'appello, con la conferma della sentenza impugnata, ne deriva dunque di necessità.
Tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio, le spese del grado innanzi alla Cassazione vanno interamente compensate, mentre quelle del presente grado di rinvio vanno poste a carico delle odierne appellanti, in ragione della loro soccombenza, e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.


La Corte di Appello di Roma, definendo il giudizio su rinvio dalla Corte di Cassazione, ogni altra istanza reietta, così provvede:
a) respinge l'appello proposto da P.D., G.N. e G.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 17692/99 depositata il 27.9.1999, nei confronti di P.S., I.V. s.r.l. e A. S.p.A.;
b) condanna gli appellanti a rifondere in solido le spese del presente grado di giudizio che liquida - a favore delle parti appellate - nei seguenti termini P., Euro 1.250,00 per diritti e Euro 2.500.00 per onorari - oltre spese generali, iva e c.a.p.;
I.V. s.r.l. Euro 1.250,00 per diritti e Euro 2.500,00 per onorari - oltre spese generali, iva e c.a.p.;
A. S.p.A. Euro 1.250,00 per diritti e Euro 2.500.00 per onorari - oltre spese generali, iva e c.a.p.;
c) compensa interamente le spese del giudizio avanti alla Corte di Cassazione.