Dispensa per gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza, a cura del prof. Luciano Angelini
(Redazione 2002)


Sommario:
1. Premessa. - 2. Il quadro legale. La disciplina dell’art. 2087 c.c. - 3. La responsabilità risarcitoria per i danni alla salute del lavoratore. - 3.1. Configurabilità e risarcibilità del c.d. danno biologico nel rapporto di lavoro. - 4. Dall’individuale al collettivo: il diritto alla salute nel dibattito dei giuslavoristi. - 5. Sul ruolo della contrattazione collettiva in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. I modelli antecedenti l’emanazione dello Statuto dei lavoratori. – 5.1. Le rappresentanze dei lavoratori ex art. 9 dello Statuto dei lavoratori - 5.2. I modelli sindacali della sicurezza nella contrattazione collettiva post-statutaria. Le rappresentanze dei lavoratori sulla sicurezza e la loro sostanziale coincidenza con le rappresentanze sindacali tout court.- 5.2.1. (segue) A proposito degli effetti dell’opzione legislativa sulle rappresentanze sindacali di sicurezza operata con la riforma del Servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833, artt. 20, 21, 27). - 5.3. Gli esiti della contrattazione collettiva in materia di salute e sicurezza durante gli anni ottanta - 6. La formazione di una normativa comunitaria in tema di salute e sicurezza dei lavoratori. - 6.1. Le principali direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Cenni generali - 7. La direttiva quadro n. 391/1989. - 8. La direttiva n. 383/1991 in materia di sicurezza nei lavori atipici.- 8.1. Tutela della salute e lavoro atipico nell’ordinamento francese. - 9. L’attuazione delle direttive comunitarie in materia di salute nei principali Stati membri. - 9.1. La trasposizione della direttiva nell’ordinamento francese. - 10. L’attuazione delle direttive comunitarie. Il caso italiano (d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e successive modificazioni). – 10.1. Sul campo di applicazione. – 10.2. Ancora sulla natura giuridica dell’obbligo di sicurezza. - 10.3. Massima sicurezza tecnologicamente possibile vs. massima sicurezza ragionevolmente praticabile. Rapporti. – 10.4. Sul modello di prevenzione. – 10.4.1. Il Servizio di protezione e prevenzione. – 10.4.2. Il medico competente. – 10.4.3. Il datore di lavoro. – 10.4.4. I lavoratori. – 10.5. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. – 10.5.1. Sindacalizzazione e specializzazione dei rappresentanti per la sicurezza. – 10.5.2. Le prerogative dei Rls. Loro efficacia. – 10.5.3. Il nuovo modello collettivo di sicurezza. – 10.5.4. Il ricorso al procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28. Utilizzabilità. – 10.5.5. Gli organismi paritetici. – 11. Il nuovo sistema sanzionatorio. – 11.1. La responsabilità penale delle persone giuridiche in Francia (art. 121-2 Code du travail). – 12. Sull’opportunità di emanare un Testo Unico in materia di salute e sicurezza. - Bibliografia.


1. Premessa
Per lo svolgimento della sua prestazione, il lavoratore viene necessariamente inserito all’interno di un’organizzazione produttiva destinata al coordinamento di fattori naturali ed artificiali - i ritmi ed i tempi di lavoro, i locali dell’impresa, i macchinari, le materie di lavorazione – che, nel loro complesso, costituiscono il c.d. ambiente di lavoro. E’ da tale inevitabile inserimento che sorge la complessa problematica della tutela della persona fisica e della personalità morale dello stesso lavoratore.
L’obiettivo della tutela dell’integrità fisica del lavoratore costituisce un connotato originario del nostro ordinamento positivo del lavoro come diritto protettivo e dall’”anima” pubblicistica, che ha rappresentato la prima vera forma di disciplina del lavoro subordinato. Ci si riferisce ai decreti emanati alla fine del secolo scorso per la tutela di varie categorie di lavoratori (tra cui i più deboli, quali le donne ed i fanciulli) per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Anche dal punto di vista dell’assicurazione obbligatoria, la tutela si è successivamente sviluppata e perfezionata, in conformità anche ai principi della Carta costituzionale che attribuiscono un sicuro rilievo alla protezione dell’incolumità fisica del cittadino che svolge un’attività lavorativa dipendente ; in particolare, l’art. 32 che riconosce la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività e l’art. 41 co. 2, ai sensi del quale l’iniziativa economica privata può svolgersi in conformità con l’utilità sociale o in modo da non recare danno alla sicurezza. Si è così formato un organico sistema di protezione, in virtù del quale tutti i lavoratori addetti alle lavorazioni considerate potenzialmente pericolose o nocive hanno il diritto di essere assicurati contro gli eventi dannosi, lesivi della loro attitudine psico-fisica al lavoro, che potrebbero derivare alla loro persona (in occasione di lavoro), indipendentemente dalla colpa dell’imprenditore o dello stesso lavoratore (T.U. 30 giugno 1965, n. 24).
Alla base del modello assicurativo è posto il c.d. “principio del rischio professionale”, che si sostituisce a quello tradizionale della colpa come fondamento della responsabilità civile dell’imprenditore (su cui, infra): ciò spiega perché si realizzi l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante dal verificarsi, in capo al lavoratore, degli eventi dannosi assicurati. A risarcire il lavoratore sarà l’Ente assicuratore, il quale eroga prestazioni che vanno da un’indennità - per i periodi di sospensione del rapporto causato dall’infortunio o dalla malattia - ad una rendita, nel caso che sia derivata al lavoratore un’inabilità permanente al lavoro. Il che conferma come nell’ordinamento positivo il rischio ambientale sia stato originariamente collegato al solo rischio professionale, vale a dire all’evento dannoso derivante dal tipo di attività lavorativa esercitata.
Sotto il profilo della prevenzione, le norme più indicative attinenti l’organizzazione e l’ambiente di lavoro sono, rispettivamente, l’art. 2087 c.c., i decreti 27 aprile 1955, n. 547, 9 marzo 1956 n. 302 e 303 (cui se ne aggiungono numerosi altri riferiti a specifici settori d’attività), l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, i d. lgs. n. 277/1999 e n. 77/1992, nonché il d. lgs. 9 settembre 1994 n. 626, e successive modifiche, che è norma di attuazione di due importanti gruppi di direttive comunitarie.
Innanzitutto, un pur breve cenno va fatto al primo vero articolato di norme prevenzionistiche dell’ordinamento italiano, costituito da tre importanti decreti risalenti alla metà degli anni cinquanta (d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, 9 marzo 1956, n. 302-303), a cui se ne sono sommati altri, riferibili a specifici settori d’attività, non completamente superati dalla legislazione più recente. Si tratta di una normativa di carattere tecnico-regolamentare contenente alcune disposizioni di tipo generale, quali l’obbligo di attuare le misure di sicurezza previste nel decreto (art. 4 d.P.R. n. 547/1955 integrato, per le “misure di igiene”, dall’art. 4 del d.P.R n. 303/1956), unitamente ad altre di carattere tecnico - tra cui divieti di compiere operazioni (tecniche) non richieste da specifiche esigenze - tutte ispirate da una rigorosa delimitazione regolamentare e da una compromissoria “relativizzazione” della tutela rispetto al modello di organizzazione produttiva adottato. Purtroppo, a fronte di un evidente rafforzamento della normativa prevenzionistica, si è prodotta una forte frammentazione e tecnicizzazione della disciplina, con il consolidamento della disciplina penalistica della sicurezza.
Nell’ambito della prevenzione, l’aspetto forse più dibattuto in dottrina è stato quello dei rapporti tra individuale e collettivo nella tutela delle condizioni di lavoro, cui sarà necessario dedicare la giusta attenzione: tale tema concerne sia il profilo delle posizioni soggettive dei lavoratori interessati alla sicurezza, sia quello dei rimedi all’inadempimento datoriale, di natura individuale o ad iniziativa esclusivamente collettiva. L’analisi della tutela collettiva, inoltre, dovrebbe arrivare ad interrogarsi anche sul fondamento normativo e contrattuale della legittimazione del sindacato, tanto da rappresentare istituzionalmente i lavoratori in tale delicatissima materia.


2. Il quadro legale. La disciplina dell’art. 2087 c.c.
Stabilendo che l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, l’art. 2087 c.c. si configura come la principale fonte di obblighi contrattuali in materia di salute e sicurezza, obblighi che si inscrivono nel contesto di riconoscibili e preminenti interessi pubblici, originati dal limite posto dal diritto alla salute tutelato negli artt. 32 e 41 co. 2 Cost.
Si tratta di un obbligo positivo che si sostanzia in un facere, un intervento costante sul complesso dei beni organizzati affinché siano concretamente attuate ed applicate tutte le misure necessarie; una norma a contenuto aperto, che richiede un continuo adeguamento degli atti di adempimento in vista del risultato, consistente nella predisposizione e nel mantenimento di un ambiente rispettoso della persona fisica e morale del lavoratore; un’obbligazione di risultato, che colloca il dovere di sicurezza nel cuore del rapporto, con un’attenzione tutta particolare all’attività lavorativa: una piena “contrattualità” che non contraddice la sua natura non negoziabile.
Al di là delle differenti posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza, la norma sembrerebbe porre a carico del datore di lavoro uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del creditore-lavoratore, che si traduce in un complesso di doveri a rilevanza pubblicistica, la gran parte dei quali è anche penalmente sanzionato (si vedano, in proposito, gli art. 437 e 45 c. p., i quali considerano reato l’omissione o la rimozione di apparecchiature per prevenire infortuni sul lavoro: tali norme hanno, purtroppo, ricevuto un’applicazione alquanto limitata dalla giurisprudenza, anche per il ruolo negativo giocato dalla scarsa efficacia degli strumenti pubblici e delle procedure di accertamento dei fatti lesivi).
La previsione particolarmente ampia ed elastica, risulta essere comprensiva non soltanto del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro (d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, e d.P.R. 9 marzo 1956, n. 302 e 3, su cui, infra), ma anche dell’introduzione e manutenzione di tutte le misure idonee, nelle concrete condizioni aziendali, a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore, derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o penosità presenti nell’ambiente di lavoro.
In virtù di tale obbligo - che con la conclusione del contratto s’inserisce automaticamente nel rapporto di lavoro - l’imprenditore è vincolato a svolgere un’attività di prevenzione dei rischi derivanti dall’ambiente di lavoro; si tratta di un facere distinto dal semplice ricevimento della prestazione offerta al datore, che tende non tanto ad una prestazione patrimoniale verso il lavoratore, ma a limitare il potere direttivo imprenditoriale nell’organizzazione del lavoro. Insomma, a differenza degli altri contratti, nel rapporto di lavoro, di fronte alla necessità di tutelare il lavoratore dagli specifici rischi derivanti dall’ambiente di lavoro, ai normali obblighi di protezione integrativi (art. 1375 c.c., buona fede), distinti dai reciproci (e primari) obblighi di prestazione, viene ad aggiungersi l’esplicita previsione di un autonomo obbligo ulteriore - anch’esso primario - di protezione del fondamentale interesse del prestatore alla sua salute e sicurezza, riconosciuta dall’art. 2 Cost.


3. La responsabilità risarcitoria per i danni alla salute del lavoratore
E’ opinione unanime che l’art. 2087 c.c. abbia avuto scarsa rilevanza se considerato in funzione di prevenzione, vale a dire come strumento destinato ad impedire che il danno alla salute e sicurezza del lavoratore non si verifichi. Esso, infatti, è stato per lo più invocato ex post, cioè in chiave risarcitoria di eventi dannosi ormai verificati: ciò a causa delle difficoltà incontrate dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel definire con esattezza la posizione giuridico-soggettiva di datore di lavoro e di prestatore.
In dottrina, ad esempio, si è sostenuto che la norma non costituirebbe altro che una specificazione del generale onere di cooperazione che incombe sul creditore che voglia ricevere la prestazione; in tal senso, la mancata predisposizione di un ambiente di lavoro salubre equivarrebbe ad una mora del creditore (art. 1206 c.c).
In un contratto a struttura complessa qual è quello che disciplina il rapporto di lavoro, tutte le obbligazioni entrano a far parte del sinallagma contrattuale, cosicché nessun dubbio dovrebbe esserci sul fatto che il dovere di sicurezza venga a porsi come obbligazione fondamentale a carico del datore di lavoro accanto a quella retributiva. La conseguenza di tale tesi è che, in violazione dell’art. 2087 c.c., ferma restando la possibilità di dimissioni per giusta causa, il prestatore potrà vantare soltanto il diritto al risarcimento del danno.
La più recente giurisprudenza riconosce in capo al lavoratore la possibilità di agire giudizialmente contro il datore per l’adempimento in forma specifica ex art. 1453 c.c., di realizzare un ambiente di lavoro sano ed esente da rischi. Meno agevole sembra la possibilità di sostenere l’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., con conservazione della controprestazione retributiva. Altri hanno sostenuto l’esistenza di un vero e proprio obbligo di sicurezza - inteso come obbligo accessorio rispetto alle prestazioni principali (Mengoni) - a carico del datore di lavoro: il lavoratore vanterebbe un diritto soggettivo tutelabile con l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), con la domanda di risoluzione contrattuale o, al contrario, di esatto adempimento (art. 1453 c.c.), persistendo il dubbio che l’attività di prevenzione posta in capo al datore non sia fungibile. L’obbligazione di sicurezza verrebbe, in tal modo, mantenuta fuori del sinallagma contrattuale, estranea all’area della cooperazione del datore all’esatto adempimento contrattuale.
Una parte della dottrina ha affermato che la norma riconoscerebbe, in capo al lavoratore, un mero interesse legittimo, il quale si esplicherebbe soltanto nei confronti dell’autorità cui è demandato il controllo circa l’osservanza delle norme di sicurezza e d’igiene del lavoro. Tale tesi viene decisamente respinta dalla giurisprudenza: se la sicurezza è l’oggetto di una precisa obbligazione di fonte contrattuale gravante sul datore di lavoro ed è strettamente legata all’attività lavorativa, ne deve conseguire l’impossibilità di ricondurre la responsabilità ex art. 2087 c.c. all’ambito extracontrattuale, in quanto il principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. presuppone l’assenza di precedenti contatti tra le parti coinvolte dal fatto illecito. Si è, dunque, consolidata la tesi di ricondurre l’art. 2087 c.c. nell’ambito delle obbligazioni nascenti da contratto, anche se non mancano sostenitori dell’orientamento che si rifà ad un possibile concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.



3.1. Configurabilità e risarcibilità del c.d. danno biologico nel rapporto di lavoro
Con notevole ritardo, soltanto a partire dalla metà degli anni ottanta, anche nel diritto del lavoro è stato trasposto il principio della risarcibilità del c.d. danno biologico o (danno) alla salute, ad opera della Corte costituzionale (sentenze nn. 87, 185, 356 del 1991). Una delle ragioni di un tale ritardo va sicuramente ricercata nella presenza di un articolato sistema di assicurazioni sociali basato su un principio transattivo che pone sicuramente il lavoratore in una posizione privilegiata rispetto alla generalità dei danneggiati ma, al contempo, offusca l’esigenza di un pieno e totale ristoro dei danni alla persona. In realtà, si è sostenuto che il sistema delle assicurazioni sociali opererebbe alla stregua di una “tossina paralizzante” per l’operare del principio prevenzionistico.
Il danno biologico consisterebbe nella menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, la cui tutela deve andare oltre la soglia rappresentata dalla mera capacità lavorativa - che ha un contenuto sostanzialmente patrimoniale, essendo legata soltanto alla capacità di produrre reddito - tanto da comprendere l’insieme delle funzioni naturali della persona considerata nella sua esplicazione intellettuale e nelle relazioni sociali (in senso dinamico), comprensivo quindi del danno alla vita di relazione, del danno estetico ed anche del danno psichico.
Non è stato, tuttavia, chiarito, in modo sufficiente - né in giurisprudenza, né in dottrina - se del danno biologico debba farsi emergere la descritta nozione dinamica o, per converso, accreditare una nozione statica-naturalistica: in quest’ultimo senso, ogni lesione dovrebbe essere valutata nella sua obiettività, tanto da comportare un uguale risarcimento; in una prospettiva dinamica, invece, il risarcimento dovrebbe essere calibrato sulla situazione specifica. Mentre per quest’ultima nozione propende la giurisprudenza lavoristica - che utilizza criteri opportunamente elastici - la nozione statica è adottata in prevalenza da quella civilistica.
La soluzione maggiormente utilizzata nel diritto del lavoro può essere condivisa, destinata com’è la nozione dinamico-funzionale del danno biologico ad attutire il profilo tipicamente repressivo-risarcitorio della tutela, emancipandola dal mero significato del ristabilimento della forza lavoro, facendo dello stesso uno strumento di realizzazione del diritto al benessere psico-fisico del lavoratore e, dunque, alla salubrità dell’ambiente. In tal modo esso assumerebbe un connotato più marcatamente prevenzionistico, ovverosia come strumento ulteriore di pressione per costringere il datore a modificare la propria organizzazione produttiva in funzione sia della tutela collettiva che di quell’individuale.
La risarcibilità del danno biologico trova il proprio fondamento nella nozione giuridica generale di responsabilità extracontrattuale fondata sull’art. 2043 c.c., in combinato disposto con l’art. 32 Cost. Da tale ricostruzione, sembra desumersi l’estraneità del richiamo dell’art. 2087 c.c, anche se sussistono autorevoli opinioni difformi che mettono in risalto i vantaggi di una riconducibilità del danno biologico nell’ambito dell’area coperta dalla disposizione codicistica. E’, tuttavia, sostenibile che responsabilità contrattuale ed extracontrattuale possano in astratto tra loro concorrere, con la conseguenza che il lavoratore danneggiato si trova nella condizione di scegliere, caso per caso, se avvalersi dell’uno o dell’altro titolo di risarcimento.
Nell’ordinamento giuslavoristico, il problema dell’individuazione del soggetto responsabile per il risarcimento si intreccia con la disciplina dell’assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali, la quale garantisce al lavoratore un risarcimento automatico forfettario a carico dell’Inail - un’indennità giornaliera per inabilità temporanea od una rendita per inabilità permanente o agli eredi - anche in ipotesi in cui l’evento sia riconducibile a caso fortuito o colpa dell’infortunato. L’assicurazione obbligatoria esonera il datore dalla responsabilità civile, a patto che l’infortunio sia avvenuto per fatto costituente reato perseguibile d’ufficio commesso dal datore o da un suo dipendente. In tali casi, il lavoratore può richiedere al datore, secondo le regole comuni, il risarcimento per la parte di danno che superi in ammontare le indennità erogate dall’Inail, Ente che a sua volta può agire contro di lui (datore) in via di regresso per il recupero delle somme a sua volta erogate.
Risulta, a questo punto, necessario sciogliere l’alternativa fra il ritenere il danno biologico già coperto dall’assicurazione obbligatoria - quindi liquidabile secondo le regole di questa e nei suoi limiti - o ricondurlo integralmente e parzialmente sotto l’egida del diritto comune. La Corte ha specificato che l’esonero di responsabilità civile connesso all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, essendo posto a tutela del rischio di riduzione della capacità lavorativa, opera soltanto in relazione alla perdita di quest’ultima e non anche in relazione al danno biologico. Pertanto, si deve ritenere che, (per quest’ultimo), il datore di lavoro resti responsabile in modo pieno ed autonomo - anche se il risarcimento non potrà essere automatico, né sussistere in ipotesi di caso fortuito, forza maggiore o colpa esclusiva - indipendentemente dalla sussistenza di un evento qualificabile ai fini di legge come infortunio o malattia professionale. Sul punto, la Corte non ha previsto sic et simpliciter il cumulo fra risarcimento civilistico e prestazioni erogate dall’Inail per danno biologico; essa ha invece precisato che il risarcimento “civilistico” è dovuto solo nei limiti e per la parte non coperta dall’assicurazione. Può infatti verificarsi che l’istituto assicuratore, in caso di infortunio che abbia causato un’invalidità permanente totale o parziale, eroghi una rendita che in parte copre anche il danno biologico, nella proporzione che “equitativamente” il giudice indicherà. Il giudice risulta libero di ricorrere ai principi che riterrà più congrui, quali il criterio tabellare rigido del triplo della pensione sociale, il sistema a punti, la retribuzione o il c.d. “metodo equitativo puro”. Un intervento chiarificatore del legislatore è, tuttavia, auspicabile.


4. Dall’individuale al collettivo: il diritto alla salute nel dibattito dei giuslavoristi
Quale che ne sia l’esatta natura giuridica, è indubbio che quello tutelato dall’art. 2087 c.c. è un diritto a soggettività individuale, che si confronta con un altro diritto, quello ad un ambiente di lavoro salubre, che ha un carattere inequivocabilmente collettivo, e fa capo all’insieme dei lavoratori individuato sulla base della c.d. “comunanza di rischio”.
La comunità di rischio è nozione elaborata dalla giurisprudenza: essa identifica un soggetto collettivo, non personificato, portatore di un interesse distinto e protetto alla salubrità delle condizioni di lavoro, come tale legittimato contro eventuali inadempimenti datoriali. Rispetto al diritto alla sicurezza del singolo – che è un diritto di credito con fonte contrattuale, cui sono collegati diversi rimedi di carattere generale, come l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), o di carattere tipico del diritto del lavoro, come il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. - quello collettivo è un interesse autonomo e distinto, ma altrettanto forte e rilevante, sulla cui qualificazione giuridica le posizioni sostenute sono diverse.
Una tra le più note ricostruzioni dottrinali - basata sull’art. 9 Stat. lav.- definisce la posizione soggettiva della collettività come diritto potestativo, d’iniziativa e di controllo, a fronte della quale la situazione del datore sarebbe di mera soggezione. Parte della dottrina individua, anche a livello collettivo, un vero e proprio diritto di credito dei lavoratori, a fronte del quale vi sarebbe una specifica obbligazione del datore. Diversamente, si ritiene che il diritto individuale alla sicurezza dovrebbe essere (lo è necessariamente e naturalmente) indirizzato alla tutela dell’interesse della collettività alla quale il lavoratore appartiene, in conseguenza dell’inscindibilità della posizione soggettiva individuale da quella degli altri soggetti che appartengono alla collettività di rischio, anche se va escluso qualsiasi rapporto di gerarchia o subordinazione tra le posizioni individuali e quelle collettive.
In verità, il concetto d’inscindibilità delle situazioni soggettive sembra esprimere una constatazione di immediata evidenza: la posizione soggettiva del singolo lavoratore in tema di sicurezza non può essere azionata senza che l’esito si riverberi necessariamente su tutti gli altri lavoratori che compongono la collettività di rischio. L’inscindibilità delle posizioni soggettive sta a significare che la sicurezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro interessano comunque una pluralità di individui, che costituisce la collettività di rischio: l’eventuale iniziativa del singolo, tendente a migliorare le condizioni di sicurezza o a far rilevare la carenza di misure appropriate, va indirettamente ed immediatamente a vantaggio di tutti gli altri lavoratori appartenenti a quella collettività.
Letta in questa prospettiva, la posizione collettiva non è altro che una prosecuzione ed un completamento del diritto del singolo lavoratore ex art. 2087 c.c., che pure va tenuto distinto, così come vanno tenuti separati i rimedi individuali da quelli collettivi, che possono utilmente “concorrere” tra loro. Circa l’esercizio dell’interesse collettivo alla salubrità dell’ambiente di lavoro, questo è giuridicamente imposto dalla legge per il tramite delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza di cui all’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, istituto oggi superato dall’istituzione del rappresentante per la sicurezza di cui agli artt. 18 e 19 del d. lgs. n. 626 del 1994. Sotto questo specifico aspetto, è doveroso domandarsi se queste due diverse forme di rappresentanza possano essere considerate come evoluzione di un unico originario modello, soprattutto dopo la sostanziale identificazione avallata dal legislatore del 1977 delle rappresentanze per la sicurezza ex art. 9 con le rappresentanze sindacali aziendali ex art. 19 Stat. lav.



5. Sul ruolo della contrattazione collettiva in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. I modelli antecedenti all’emanazione dello Statuto dei lavoratori
In ragione di un orientamento legislativo e contrattuale - che ha confermato di voler continuare ad affidare senz’altro a soggetti sindacali o di “estrazione” sindacale la rappresentanza dei lavoratori in materia di sicurezza - sembra opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione del ruolo assunto dal sindacato in materia, riflettendo, in particolare, sui profili di legittimità della sua azione.
A voler tracciare un breve excursus delle principali tappe che hanno segnato un sempre più significativo coinvolgimento della contrattazione collettiva in materia di tutela delle condizioni ambientali di lavoro, è opportuno partire dalla constatazione che i contratti collettivi stipulati prima dell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, si limitano a semplici rinvii alla normativa di legge, oppure si accontentano di mere dichiarazioni di principio, ribadendo la necessità di visite mediche preventive/periodiche e l’utilizzo di mezzi di protezione.
L’unico istituto contrattuale che merita di essere segnalato è il c.d. Comitato paritetico, istituito sul finire degli anni cinquanta, inizialmente ad opera della contrattazione integrativa, per poi riuscire ad estendersi anche a livello di contrattazione nazionale. Nella loro composizione originaria, a tali organismi, soggetti all’influenza dominante del datore di lavoro, sono attribuiti solo limitate funzioni di proposta da rivolgere alla direzione aziendale con riferimento alla soluzione di situazioni di pericolo o di nocività e di vigilanza sull’applicazione delle leggi e dei regolamenti. Sono del tutto simili a queste le funzioni assegnate alle c.d. Commissioni paritetiche territoriali.
Negli anni, i Comitati paritetici sono stati progressivamente sostituiti da nuovi organismi collettivi composti di soli lavoratori, in qualità di titolari del diritto alla salute: la salute, come qualsiasi altro diritto fondamentale scaturente dalle obbligazioni assunte dalle parti con contratto di lavoro, deve essere considerata oggetto di contrattazione collettiva all’interno della fabbrica, come tale gestita dal Consiglio di fabbrica o dalle Rsa. In tal modo, le strutture sindacali aziendali diventano parte integrante del modello di gestione della salute. Tutto ciò segna la completa sindacalizzazione di tutta l’attività in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il che, per la verità, non comporta il definitivo superamento del ruolo e dell’azione degli organismi collettivi composti di soli lavoratori, quali il c.d. gruppo omogeneo – che riunisce tutti i lavoratori esposti agli stessi rischi nell’ambito del processo produttivo indipendentemente dalla mansione svolta – o le Commissioni ambiente, che vengano addirittura a strutturarsi come sezioni specializzate nominate dallo stesso Consiglio di fabbrica.
Per concludere, si può ben dire che, tra la fine degli anni sessanta ed i primi settanta, la contrattazione collettiva ha saputo introdurre, in materia di salute e sicurezza, alcuni importanti strumenti di conoscenza e controllo, tra cui meritano di essere segnalati l’azione d’indagine, la partecipazione all’attività di accertamento, i compiti di promozione, elaborazione ed attuazione delle misure idonee. In particolare, la contrattazione integrativa di quegli anni si caratterizza per la previsione di importanti istituti sui quali si fondano rilevanti diritti di informazione e di consultazione, piani di bonifica, visite periodiche, pause di lavoro, separazione e rotazione delle lavorazioni nocive.



5.1. Le rappresentanze dei lavoratori ex art. 9 dello Statuto dei lavoratori
La situazione descritta si evolve significativamente, almeno sotto il profilo tecnico-giuridico, con l’emanazione dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori. Tale norma, infatti, attribuisce ai lavoratori il diritto ad esercitare, per mezzo di specifiche rappresentanze, il controllo sull’applicazione in azienda delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, nonché quello di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
L’art. 9 dello Statuto, infatti, pur continuando a muoversi nel contesto normativo “governato” dal principio generale dettato dall’art. 2087 c.c., ed avendo pur sempre come destinatari i lavoratori, apre una ben diversa prospettiva: la reazione del singolo lavoratore esposto ad agenti nocivi o pericolosi potrà pretendere con particolare forza - attraverso l’azione delle apposite rappresentanze - la modifica delle contestate condizioni di lavoro, realizzando il superamento della mera dimensione risarcitoria, che va confermata, per una tutela che si potrebbe definire “reale” delle condizioni di lavoro.
Insomma, la disposizione dello Statuto si muove in una nuova e più ampia prospettiva: rispetto alla confermata titolarità individuale del diritto alla salute del lavoratore, vengono finalmente a legittimarsi modalità di esercizio di tipo necessariamente collettivo, rese possibili dall’esistenza di specifiche rappresentanze di natura lato sensu “sindacale”, le quali emancipano la tutela da una pura e semplice contrattualità di stampo individual-civilistico, incapace per principio di imporre un facere di contenuto positivo. Anche il contenuto del diritto attribuito è innovativo: non si risolve, infatti, nel solo controllo delle condizioni esistenti attraverso il diritto di accesso ai luoghi di lavoro e quello all’informazione - cui il datore di lavoro è tenuto ad assoggettarsi, pena il configurarsi di un comportamento antisindacale, reprimibile ai sensi e per gli effetti dell’art. 28 St. lav. - ma anche attraverso la promozione di nuove misure protettive idonee a modificare le condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro.
Nell’immediatezza dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori - ma la questione conserva piena attualità, essendo prospettabile anche nei confronti del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui al d. lgs. n. 626/1994 (su cui infra) - la dottrina s’interrogò sulla possibilità, per le rappresentanze ex art. 9, di ricorrere alla procedura di cui all’art. 28 St. lav. in caso di inadempimento datoriale dell’obbligo (collettivamente inteso) di salvaguardia delle condizioni di lavoro. Parte della dottrina riteneva, infatti, che il procedimento di repressione della condotta antisindacale fosse esperibile da parte delle rappresentanze nel caso in cui il datore di lavoro avesse ostacolato l’esercizio delle prerogative di controllo e di promozione che il legislatore attribuisce loro, in ragione dell’esistenza, in capo al datore di lavoro, di un vero e proprio obbligo a trattare. Fatta eccezione per coloro che sostenevano l’esperibilità dell’art. 28 St. lav. nella sola ipotesi di ingiustificata negazione delle prerogative attinenti al controllo dell’attività di sicurezza, un’altra parte della dottrina considerava l’illecito in tema di sicurezza concettualmente diverso da quello relativo alla c.d. condotta antisindacale, essendo peraltro difficilmente verificabile la “coincidenza” tra le rappresentanze ex art. 9 con gli organismi locali delle associazioni nazionali, i soli esclusivamente legittimati dalla legge ad agire per la repressione dei comportamenti antisindacali del datore di lavoro.


5.2. I modelli sindacali della sicurezza nella contrattazione collettiva post-statutaria. Le rappresentanze dei lavoratori sulla sicurezza e la loro sostanziale coincidenza con le rappresentanze sindacali tout court
Anche dopo l’emanazione dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, il modello normativo cui l’ordinamento italiano affida la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro mantiene salda la difesa della posizione contrattuale del lavoratore, ora però sostenuta dalle nuove potenzialità di un’iniziativa collettiva autonoma, capace di per sé di controllare e promuovere concrete modifiche nell’organizzazione di lavoro.
Secondo la lettera della legge, legittimate ad esercitare i poteri dell’art. 9 sono non meglio definite “rappresentanze di lavoratori”. Quello che è certo è che non deve trattarsi necessariamente delle rappresentanze aziendali contemplate al successivo art. 19, nonostante, di fatto, negli anni successivi si sia realizzata la piena coincidenza con le strutture sindacali aziendali, in particolare con il Consiglio di fabbrica [nota 1].
Per quanto più strettamente attiene ai contenuti della contrattazione collettiva - che vede in alcuni casi far mero rinvio al dettato dell’art. 9, in altri riprodurre quasi testualmente l’articolo stesso – occorre, innanzitutto, sottolineare come la stessa si sia determinata ad individuare le irregolarità organizzative e le modifiche da apportare ai modelli produttivi. Inoltre, particolare attenzione è stata rivolta al funzionamento ed all’approntamento dei sistemi di accertamento, analisi e controllo delle condizioni ambientali, da effettuarsi, con oneri a carico delle imprese, a mezzo di esperti e tecnici esterni. In tal modo, non si sottrae affatto la titolarità dell’iniziativa in materia ai lavoratori, ma si dettano soltanto alcune modalità per l’esercizio concreto di prerogative che non possono utilmente realizzarsi se non richiamandosi ad un insieme di attività collettivamente concordate.
Il fatto di aver “tradotto la dimensione collettiva” dell’art. 9 St. lav. in dimensione esclusivamente sindacale (in senso organicistico), con l’inevitabile conseguenza di far rientrare anche la salute e sicurezza tra gli oggetti di contrattazione, non dovrebbe, per questo soltanto, farci assumere un atteggiamento critico. E ciò almeno per due ordini di motivi, il primo dei quali induce a riflettere sul fatto che in materia il datore di lavoro non si pone necessariamente in una posizione di contrapposizione rispetto ai lavoratori: tenuto - ai sensi dell’art. 2087 c.c. - a quella che dottrina e giurisprudenza chiamano la massima sicurezza tecnicamente fattibile, egli ha un indubbio interesse a partecipare ad ogni attività che possa individuare il limite di tale adempimento. Il secondo motivo sta tutto nell’interesse del datore al massimo contenimento dei costi della produzione: di là da una politica del diritto (non condivisibile), tesa alla mera “monetizzazione” dei rischi tipici del processo produttivo, la realtà mostra l’incomprimibile complessità derivante dalle diverse lavorazioni e dai vari settori produttivi, alla luce della necessità di realizzare un efficace contemperamento tra l’interesse dell’imprenditore al minor costo della produzione e l’interesse dei lavoratori al raggiungimento di un alto livello di salubrità dell’ambiente di lavoro.
Non sfugge ad alcuno che la più ampia legittimazione del ruolo della contrattazione collettiva in questa materia presenta il rischio di trasformare il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile - cui è informato il nostro ordinamento giuridico - in quello della massima sicurezza ragionevolmente praticabile da cui sono, per la verità, governati molti altri ordinamenti nazionali.
In dottrina, è stata proposta una lettura dei due principi che li interpreta come non contrapposti, nel caso risultino convivere - come sarebbe auspicabile che fosse - nello stesso ordinamento (Balandi). Secondo questa tesi, la massima sicurezza tecnologicamente possibile – principio ricavabile dal dettato dell’art. 2087 c.c. - costituirebbe l’obiettivo verso il quale il sistema deve tendere; la massima sicurezza ragionevolmente praticabile rappresenta, invece, lo strumento operativo del sistema, strumento i cui contorni si chiariscono grazie all’analisi delle diverse normative prevenzionistiche ed agli esiti raggiunti dalla contrattazione collettiva, nonostante la posizione critica assunta sul punto dalla giurisprudenza. Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, letto disgiuntamente dal principio della massima sicurezza ragionevolmente praticabile è destinato all’inattuazione; del resto, il secondo, svincolato dal primo, si rivela ostaggio dei forti condizionamenti indotti dalle dinamiche di mercato.
L’oscillazione interpretativa che caratterizza la lettura combinata dei due principi deve necessariamente emanciparsi da pericolose rigidità definitorie: possibilità e doverosità costituiscono, infatti, i termini della differenza e dell’integrazione. In sostanza, occorre riuscire ad individuare con esattezza l’interesse del lavoratore alla definizione di un livello di “pericolosità accettabile” e, per converso, l’interesse del datore all’ottimizzazione dei fattori produttivi in vista della massimizzazione del profitto: tra questi due interessi va ricercato uno spazio di intesa che ne realizzi la necessaria convergenza. L’equilibrio tra individuale e collettivo voluto dal legislatore statutario attraverso l’emanazione dell’art. 9 ben può trovare nella contrattazione collettiva uno strumento di sicura realizzazione, in concorso con il modello di partecipazione equilibrata propugnato dal diritto comunitario.
Sulla crisi del modello contrattuale di salute nei luoghi di lavoro, è importante riproporre come questa sia, innanzitutto, riconducibile alla difficile situazione economica del paese, cui si unisce l’incapacità di costruire un’azione che superi i confini della fabbrica, con tutte le ovvie conseguenze in termini di scarsa socializzazione delle metodologie sindacali, delle informazioni e delle conoscenze acquisite dai lavoratori. Inoltre, il sindacato non riesce a contrastare l’organizzazione del lavoro imposta dall’imprenditore, in particolare su ristrutturazioni, decentramenti produttivi, innovazioni tecnologiche, comportando l’inevitabile caduta della partecipazione operaia sui temi dell’igiene e della sicurezza. Anche in questo caso si evince con chiarezza la sopravvenuta inidoneità di un modello improntato ad un’alta conflittualità.


5.2.1. (segue) A proposito degli effetti dell’opzione legislativa sulle rappresentanze sindacali di sicurezza operata con la riforma del Servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833, artt. 20,21,27)
Dei risultati ottenuti in sede di contrattazione collettiva, utilmente proiettati in un’ottica esterna a quella tutta aziendale, ha sicuramente tenuto conto il legislatore del 1978 quando ha istituito il Servizio sanitario nazionale: l’intento perseguito è stato quello di raccordare gli interventi nella fabbrica e nell’ambiente di lavoro in un quadro più ampio di politica della salute sul territorio, da gestirsi a livello pubblico locale. Tale legge ha formalmente segnato il primo vero passaggio da concezioni e regole tipicamente assicurative ad un sistema informato alla prevenzione ed alla partecipazione.
Gli obiettivi sono chiaramente esplicitati in alcune rilevanti norme, tra cui rientra l’art. 21, il quale affida alle Unità sanitarie locali – ora Aziende sanitarie locali ai sensi e per gli effetti dell’art. 3 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 - i compiti di prevenzione, di igiene e di controllo sullo stato della salute dei lavoratori, in precedenza attribuiti agli Ispettorati del lavoro. Tale affidamento può essere causa di delicati problemi di coordinamento e di competenza, le cui conseguenze sono aggravate dalla scarsa efficienza di entrambe le strutture e dalla possibilità di costituire dei presidi anche all’interno delle unità produttive. Da considerare è anche l’art. 20, in cui si prevede che gli interventi all’interno dei luoghi di lavoro concernenti la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di misure di prevenzione non previste da specifiche norme, siano effettuati sulla base di esigenze verificate congiuntamente tra le rappresentanze sindacali e l’imprenditore, secondo le modalità previste dai contratti o accordi collettivi applicati nell’unità produttiva.
La dizione letterale della norma è estremamente ambigua: essa sembra distaccarsi dalla previsione dell’art. 9 St. lav., là dove condiziona l’esercizio del potere d’indagine all’intesa preliminare delle parti e, soprattutto, perché sembra far esclusivo riferimento alle Rappresentanze sindacali ex art. 19, non lasciando spazio alcuno a forme diverse di autooganizzazione collettiva, come invece disposto dal richiamato art. 9. Un’ambiguità forse necessaria a non limitare l’autonomia di azione delle parti sindacali; tale soluzione, infatti, consente di recuperare le precedenti esperienze collettive di sindacalizzazione del controllo sull’ambiente di lavoro, fornendo alla stessa contrattazione importanti strumenti di sostegno affidati all’iniziativa dell’Ente locale competente.
Da ultimo, merita senz’altro ricordare che l’art. 24 della citata legge di riforma n. 833/1978 aveva provveduto a conferire al Governo una delega per la redazione di un Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro, destinata a rimanere lettera morta, almeno fino al d. lgs. n. 626/1994, il quale sembra averne, in parte, realizzato gli obiettivi (sulla opportunità di redigere un Testo Unico vedi infra).



5.3. Gli esiti della contrattazione collettiva in materia di salute e sicurezza durante gli anni ottanta
Tra i successi che la contrattazione collettiva della fine degli anni settanta ha conseguito, c’è sicuramente quello di aver generalizzato la diffusione dei c.d. diritti di informazione – in particolare, quelli relativi agli elenchi delle sostanze nocive utilizzate nelle lavorazioni - i quali consentono al sindacato di conoscere anticipatamente gli aspetti più rilevanti dei programmi aziendali inerenti gli investimenti, le ristrutturazioni, i cicli di lavorazione, il decentramento produttivo, l’organizzazione del lavoro. Ai diritti di informazione, in alcuni casi, si affiancano quelli di consultazione, traendone anche da ciò conferma dell’insufficienza di un modello di tutela della salute di tipo conflittuale.
Gli sforzi per un efficace rilancio delle lotte per innalzare il livello di tutela della salute nei luoghi di lavoro non hanno grande fortuna a causa, soprattutto, della crisi economica che diminuisce drasticamente la capacità contrattuale del sindacato, impegnato a contenere l’aggravarsi della disoccupazione. Del resto, in un sistema economico in cui prevale su tutte l’esigenza di flessibilità, diventa arduo per il Sindacato agitare la “bandiera” della salute e sicurezza, soprattutto perché tali valori possono essere “letti”come forti vincoli all’iniziativa economica. Non dovendosi poi dimenticare che il sistema produttivo si è andato ulteriormente frammentando sotto l’incessante effetto della “rivoluzione tecnologica”; ciò ha reso ancor più difficile per la c.d. “comunità di rischio” arrivare ad avere una conoscenza approfondita del ciclo produttivo, essenziale per la metodica d’indagine incentrata sull’azione del “gruppo omogeneo”.
I rinnovi contrattuali degli anni ottanta sono destinati a conseguire la revisione del modello sindacale nei limiti in cui perfezionano e generalizzano i diritti d’informazione e consultazione su ristrutturazioni, investimenti, organizzazione del lavoro, decentramento produttivo, già introdotti nel precedente decennio. Quanto meno a livello di intenzione, si persegue una transizione morbida da un modello di azione essenzialmente unilaterale, ad una gestione più partecipata delle tematiche ambientali, che si colloca in un nuovo contesto di relazioni industriali: l’intervento sindacale si esplica, infatti, a monte dei processi di trasformazione, nell’area “elettiva” dei poteri imprenditoriali, quella che consiste nell’organizzare l’attività produttiva.
La conferma dell’avvenuta transizione è rappresentata dall’introduzione – negli importanti settori produttivi dell’edilizia, dei lapidei, delle miniere e della metalmeccanica - di Commissioni paritetiche per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene sul lavoro, con funzioni di studio, proposta e consultazione, integrate da specifici compiti di vigilanza circa l’applicazione delle leggi ed il controllo delle condizioni ambientali. Nella maggior parte dei casi, tali commissioni paritetiche convivono con la Commissione ambiente, il Consiglio di fabbrica, le Rappresentanze sindacali aziendali, in capo ai quali restano tutte le prerogative in materia di tutela ambientale precedentemente riconosciute. A ben vedere, le Commissioni paritetiche si pongono come sede di un confronto preventivo, in funzione di supporto allo svolgimento della successiva attività contrattuale delle rappresentanze dei lavoratori. Resta la perplessità per una soluzione normativa che realizza una duplicazione di ruoli e di sedi: essa richiede, infatti, un forte coordinamento per non pregiudicare l’unità dell’azione di tutela dei lavoratori.
A ben vedere, fatta eccezione per la generalizzazione dei diritti di informazione e di consultazione e per la costituzione delle Commissioni paritetiche, la contrattazione collettiva degli anni ottanta ripercorre sostanzialmente le orme di quella precedente. Il bilancio sull’azione collettiva in difesa del diritto alla salute non può essere considerato negativo. Tale azione, infatti, è innanzitutto servita ad integrare la possibile reazione individuale all’inadempienza del lavoratore che non intende limitarsi alla mera sospensione dell’attività lavorativa; inoltre, le rappresentanze sindacali hanno consentito di porre rimedio alle inefficienze del sistema pubblico, grazie all’agilità e flessibilità della loro struttura ed al fatto di essere calate nella realtà delle singole aziende e dei diversi settori produttivi, come tali in grado di assicurare un’azione costante di controllo e di promozione della sicurezza, anche attraverso l’integrazione-aggiornamento della normativa prevenzionale, con strumenti assai più agili rispetto a quelli previsti con norme di legge.
In conclusione, merita rilevare come, ben più significativamente che in altri casi, l’evoluzione del sistema di tutela della sicurezza sia strettamente connessa alle caratteristiche storico-istituzionali di ciascun paese. L’ordinamento italiano, in particolare, segnato com’è da una situazione generalizzata d’inefficienza dell’apparato pubblico, ha riservato alla contrattazione collettiva la “copertura di spazi” la cui gestione, specie in ragione della natura di tale portata, sarebbe forse dovuta rientrare nella piena responsabilità del legislatore.



6. La formazione di una normativa comunitaria in tema di salute e sicurezza dei lavoratori
Ai sensi dell’art. 118 del Trattato di Roma, le condizioni di lavoro, la protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nonché l’igiene del lavoro rientrano tra le materie relativamente alle quali la Commissione ha il compito di promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati membri. Di queste, la materia della salute e sicurezza è certamente da ritenere tra quelle, allo stato, “più comunitarizzate” (la comunitarizzazione è nozione da intendersi sia come convergenza degli ordinamenti nazionali intorno a modelli comuni sia come capacità di attrazione sotto il vincolo comunitario, anche per quanto concerne il profilo interpretativo). Tale risultato è stato possibile grazie alla disposizione dell’art. 118 A, frutto dell’Atto unico europeo - ratificato con la legge 23 dicembre 1986, n. 909 - a mente del quale gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento in particolare dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Lo strumento giuridico, destinato a dare concretezza a questo rinnovato impegno delle istituzioni comunitarie, è stato individuato nella possibilità di adottare direttive a maggioranza qualificata da parte del Consiglio. Fino all’Atto unico, infatti, tutta la politica sociale comunitaria era stata “confinata” in una posizione di decisa subordinazione rispetto a quella economica; l’armonizzazione sociale si è, pertanto, realizzata soltanto quando - e nei limiti in cui - ciò fosse funzionale al raggiungimento di un’auspicabile condizione di armonizzazione economica, anche in vista dell’instaurazione del mercato unico. Peraltro, anche nella nuova prospettiva dell’Atto unico, il profilo economico resta determinante, come può, ad esempio, evincersi dal principio che impone alle direttive (su tale base adottate) di garantire l’osservanza dei vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese.
Nella stessa direzione - quella di progressiva “emancipazione” della politica sociale dagli obiettivi di armonizzazione economica - un forte impulso è stato impresso dalla solenne proclamazione della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (Strasburgo, 9 dicembre 1989), la quale dedica la disposizione dell’art. 19 proprio al rafforzamento della Protezione sanitaria e di sicurezza nell’ambiente di lavoro. La Carta indica chiaramente come valori fondamentali la garanzia di livelli soddisfacenti di protezione sanitaria e di sicurezza, l’eliminazione o la riduzione dei rischi nonché accredita l’importante principio della partecipazione equilibrata dei lavoratori. Nonostante la sua natura programmatica, con l’emanazione della Carta il diritto alla sicurezza del lavoro acquista finalmente lo status di diritto sociale fondamentale. In verità, sembra addirittura più avanzata la posizione assunta già dal 1961 dalla Carta sociale europea, nella quale l’obiettivo della protezione della salute è apprezzato in chiave di sicurezza assoluta, secondo la formula che impone di eliminare, per quanto possibile, le cause di una salute imperfetta (art. 11 co. 2).
E’ senz’altro esatta la percezione di molti secondo cui la tutela dell’ambiente di lavoro sia stata il terreno di sperimentazione più avanzato per le tecniche comunitarie di armonizzazione coesiva, insieme alla parità tra i sessi ed alla previdenza sociale dei lavoratori migranti. La promozione di una nozione ampia di “ambiente di lavoro” ha finito, infatti, col rappresentare una sorta di “grimaldello” destinato a scardinare i limiti derivanti dalle competenze istituzionali in materia di diritti ed interessi dei lavoratori: un “pericolo”, questo, che sarà fortemente avvertito dal governo britannico, indotto per tale ragione a ricorrere alla Corte di giustizia per ottenere l’annullamento della direttiva sull’orario, fondata anch’essa sull’art. 118 A, e quindi su una concezione allargata della tutela e della promozione dell’ambiente di lavoro. La Corte, respingendo il ricorso, ha confermato la rilevanza di tale nozione per il raggiungimento di un più sicuro consolidamento della stessa dimensione sociale comunitaria.
In definitiva, la normativa sulla salute e sicurezza si è posta agli occhi degli interpreti come una possibile misura del livello di armonizzazione raggiungibile in materia sociale, strumento per verificare se la strada di una standardizzazione regolativa ad ampio raggio sia ulteriormente percorribile e, soprattutto, fino a quando. In questo senso, dalla seconda metà degli anni ottanta, sì è sviluppato un intenso dibattito in merito all’insufficienza del tradizionale modello di armonizzazione legislativa per direttiva a favore di un orientamento più propenso all’utilizzo di strategie istituzionali leggere quali sono le soft law.
E’, peraltro, evidente come la direttiva sulla sicurezza del luogo di lavoro, pur manifestando l’espressione più alta dell’armonizzazione sociale comunitaria, contenga al suo interno elementi che di quel modello di intervento segnano un qualche superamento, almeno come modello esclusivo di intervento. Ci si intende riferire, ad esempio, all’indubbia promozione e più precisa connotazione giuridica di diritti individuali e collettivi - quali il diritto alla consultazione, alla formazione ed alla informazione, la generalizzazione del droit d’alert et de retrait, l’individuazione di procedure per la valutazione dei rischi o l’istituzione di un servizio di prevenzione e protezione e la valorizzazione dell’expertise - che costituiscono momenti salienti di un approccio mirato a fornire il sistema di strumenti di autoregolazione per il raggiungimento di una maggiore effettività.
E’ ragionevole allora pensare che la produzione normativa di tipo “hard” (per direttive) stia raggiungendo la sua “massa critica”. La ricerca di nuove politiche e nuovi strumenti tende sempre più decisamente ad indirizzarsi verso le soft law ed altre esperienze comunque riconducibili al c.d. diritto promozionale in genere.
Tali nuove strategie renderanno, altresì, inevitabile un maggiore ricorso alla strumentazione di controllo e monitoraggio degli standards di applicazione della legislazione comunitaria attraverso Agenzie, Ispettorati, Comitati di esperti che del diritto comunitario possono garantire l’effettività, con conseguente aumento dei procedimenti di infrazione davanti alla Corte di giustizia. Questi mutamenti vanno ad aggiungersi alla notevole diffusione di guidance notes e di materiale informativo per agevolare la corretta applicazione della normativa, l’incremento dei programmi di formazione ed educazione alla trasformazione tecnica e sociale del lavoro nonché per convincere i destinatari della normativa comunitaria della virtuosità del circuito che può instaurarsi tra efficienza aziendale, buona gestione economica, protezione ambientale e sostegni finanziari. In tal senso, nel caso che ci riguarda, si comprende la scelta destinata ad attuare una politica tesa a coordinare la tutela dell’ambiente aziendale e dell’ambiente esterno, puntando sulla ricerca, sui trasporti, sulla protezione dei consumatori, nella consapevolezza dell’oggettiva circolarità delle problematiche indicate nonché della loro marcata trasversalità.
Il rapporto tra ambiente di lavoro ed ambiente “esterno” è, innanzi tutto, un rapporto di continenza: l’ambiente aziendale è un microcosmo nel quale l’uomo - il lavoratore subordinato - è esposto ad una non comune concentrazione di potenziali effetti nocivi, che ha giustificato e continua a giustificare l’esigenza di una sua protezione “differenziata”. Tuttavia, la tutela dell’ambiente di lavoro non può non essere una parte del grande tema della tutela dell’ambiente: anzi, pare possibile sostenere che l’ambiente di lavoro rappresenti, in realtà, una sorta di laboratorio sperimentale di più ampi modelli di tutela ambientale, ed anche che fra ambiente interno ed esterno (ai luoghi di lavoro) esistono delle connessioni tali da legittimare la loro valutazione in una prospettiva unitaria di interventi.
Sotto quest’ultimo specifico aspetto, purtroppo - come avremo modo di costatare meglio in seguito - nessun rilievo, per quanto concerne il diritto del lavoro, è riconosciuto al rispetto dei principi di tutela ambientale, fatta eccezione per l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 4 co. 5., lett. n) del d. lgs. n. 626/1994 quando impone al datore di lavoro di prendere provvedimenti appropriati per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l’ambiente esterno. Diversamente, il lavoratore ed i suoi rappresentanti non vengono minimamente sollecitati a farsi carico dell’esistenza di consistenti rischi per l’equilibrio ambientale: la protezione ambientale esterna può costituire, quindi, soltanto un benefico effetto preterintenzionale della messa a regime dell’ambiente interno.
Tuttavia, occorre riconoscere come nei più recenti programmi della Commissione europea (su cui infra), l’importanza del coordinamento degli interventi di protezione dell’ambiente di lavoro con provvedimenti di natura più generale viene ripetutamente sottolineata, anche con riferimento a norme in tema di ricerca, agricoltura, strategie industriali, trasporti e protezione dei consumatori. Purtroppo, è il diritto del lavoro nazionale a registrare la condizione più preoccupante, vittima di un’autoreferenzialità assiologica e culturale da cui sembra davvero difficile riuscire ad emanciparsi.



6.1. Le principali direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Cenni generali
Di una vera politica comunitaria in materia di salute e sicurezza si può parlare soltanto dopo la seconda metà degli anni settanta: risale, infatti, al 1978 il primo programma d’azione sulla sicurezza ed igiene del lavoro, cui ha fatto seguito una prima direttiva quadro, la n. 80/1107 del 27 novembre 1980 - poi modificata dalla direttiva n. 642/1988 - la quale ha generato ben quattro direttive specifiche.
Questo complesso normativo presenta due elementi caratterizzanti: il primo raggruppa i principi generali che orientano la prevenzione; il secondo indirizza le politiche di prevenzione verso una protezione di natura esclusivamente oggettivo-tecnologica, diretta a predisporre il complesso degli strumenti di carattere tecnico-oggettivo da adottare nelle diverse realtà produttive, tralasciando gli aspetti relativi ai fattori soggettivi di rischio derivanti dalle caratteristiche psico-fisiche dell’individuo e dall’incidenza delle modalità temporali di svolgimento della prestazione di lavoro ed in generale dall’organizzazione di lavoro. Ispirandosi alle logiche presenti nei sistemi anglosassoni, anche il modello comunitario viene informato alla c.d. “massima sicurezza ragionevolmente praticabile”, principio che esige la ricerca di forme di alto “compromesso” tra riduzione dei rischi ambientali ed aumento dei costi aziendali.
La parte più consistente di questo complesso normativo è stata recepita dall’ordinamento italiano con il d. lgs. 15 agosto 1991, n. 277; alla quarta delle direttive particolari sopra citate è stata invece data attuazione con il d.lgs. n. 25 gennaio 1992, n. 77. I due decreti si segnalano soprattutto per aver concorso a specificare il contenuto dell’obbligo di sicurezza: in particolare, gli artt. 13 e 41 del d. lgs. n. 277/1991 parlano di misure concretamente attuabili; l’art. 7 del d. lgs. n. 77/1992, invece, utilizza la nozione delle tecniche necessarie ad evitare le condizioni di pericolo.



7. La direttiva quadro n. 391/1989
Nell’ambito del terzo programma d’azione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, in base all’art. 118 A, è stata approvata un importante direttiva-quadro, la n. 89/391 del 12 giugno 1989.
Rispetto alla precedente disciplina comunitaria, essa realizza un indubbio “salto di qualità”, soprattutto per aver abbandonato il principio della massima sicurezza ragionevolmente praticabile per quello della massima sicurezza tecnologicamente possibile, che impone ai datori di seguire i progressi tecnici e le conquiste scientifiche applicabili al processo produttivo specifico. La direttiva n. 391/1989 prescrive, infatti, l’adozione di tutte le misure necessarie per la protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, dovendosi altresì provvedere costantemente al loro aggiornamento per tenere conto dei mutamenti tecnologici ed organizzativi.
Inoltre, rispetto all’impostazione esclusivamente tecnologica precedente, il legislatore comunitario del 1989 dà grande attenzione ai profili soggettivi della prevenzione, ai rapporti endo-aziendali ed alle relazioni industriali, mettendo al centro delle considerazioni le molte connessione esistenti tra le condizioni di lavoro e i sistemi organizzativi della produzione. In tale contesto, si inserisce la problematica del ruolo delle relazioni industriali, attraverso la previsione di importanti diritti di informazione, consultazione e partecipazione equilibrata.
Non è possibile, in questa sede, dar conto delle molte disposizioni contenute nelle direttive, se non limitandosi a richiamare i “metaprincipi” che le informano. Di questi, il primo è sicuramente l’obbligatoria generalizzazione delle strategie di prevenzione in tutti i settori di attività, compresi i servizi e le Pubbliche Amministrazioni, causa di molte preoccupazioni in quei Paesi di cui è noto l’alto livello di inefficienza. Inoltre, la direttiva fa propria una nozione integrale di salute, comprensiva dell’innalzamento del benessere fisico e psichico e della lotta allo stress, alla monotonia, alla ripetitività del lavoro, la quale presuppone un collegamento organico tra tutela dell’ambiente esterno e di quello interno all’azienda.
Assai significativa è la “sdrammatizzazione” che essa realizza tra le due nozioni, poste formalmente in antitesi, quelle della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” e della “massima sicurezza ragionevolmente praticabile” che distinguono i sistemi continentali da quelli anglosassoni. La direttiva-quadro fa proprio, nell’art. 5, il principio di prevenzione assoluta, che correda con strumenti allo stesso funzionale, miranti ad una tendenziale e progressiva riduzione al minimo dei rischi attraverso un orientato sviluppo della tecnologia. Tuttavia, tali strumenti non possono che coesistere con un tasso ineliminabile - socialmente accettato ed accettabile - di rischio.
Resta esatta la constatazione che la direttiva contribuisca ad arricchire il contenuto dell’obbligo di sicurezza, dilatando così l’area del debito del datore di lavoro (art. 6 lett. d): avendo l’obiettivo di adeguare il lavoro all’uomo, l’istanza di tutela di cui la stessa si fa portatrice finisce per abbracciare anche profili attinenti all’organizzazione del lavoro, al contenuto delle mansioni ed ai ritmi di lavoro, come avviene per direttive che condividono la stessa base giuridica, quelle sull’orario di lavoro e sulla protezione della lavoratrice madre.



8. La direttiva n. 383/1991 in materia di sicurezza nei lavori atipici
Nel descritto contesto normativo, la direttiva n. 383/1991 sulla tutela della salute dei lavoratori atipici e temporanei - destinata a dettare specifiche misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori a tempo determinato ed interinale – assume una funzione ancora più cruciale e strategica rispetto a quanto si sarebbe potuto prevedere al momento della sua emanazione. Sulla tutela di tale debolissimo segmento della forza lavoro in continua espansione vengono, infatti, messi alla prova la capacità di tenuta, l’efficienza e la sostanziale adeguatezza dei sistemi di sicurezza nazionali, conformati e armonizzati dagli interventi comunitari. Com’è noto, in tutti i Paesi membri, i lavoratori temporanei risultano esposti a maggiori rischi di infortuni e malattie professionali, anche per la tendenza delle imprese ad assegnare loro quelli più rischiosi, pericolosi o insalubri, cui vanno ad aggiungersi la scarsa formazione e la non affezione al lavoro, che aumenta il normale rischio di incidenti per distrazione, stress, negligenza.
Nell’ipotesi dei lavori atipici, più che dare attenzione agli aspetti di natura tecnico-specialistica del provvedimento comunitario, è assai più interessante evidenziare la connessione esistente tra tali rapporti e la sicurezza e la salute dei lavoratori ivi impegnati. Partendo, ovviamente, da una nozione ampia di “lavoro atipico”, che va molto al di là della qualificazione legale limitata (interinale, termine), per ricomprendere una vasta tipologia di prestazioni di lavoro destinate a restare ai margini dell’indagine giuridica: lavori precari, occulti, instabili, spesso portati a confluire in una vasta area di economia sommersa o parallela. Entra così pesantemente in gioco la complessa tematica della frammentazione del mercato del lavoro e della progressiva degradazione delle condizioni di impiego.
La connessione tematica tra lavoro atipico e salute potrebbe apparentemente sembrare una “contraddizione” in termini. Le manifestazioni dell’autonomia negoziale e dell’iniziativa economica privata si articolano, sempre più frequentemente, attorno a modelli di utilizzazione del lavoro non riconducibili allo schema unitario della subordinazione, in tal modo assecondando la tendenza alla frammentazione del mondo della produzione, la destrutturazione dell’apparato produttivo e la diversificazione delle modalità di incontro tra domanda e offerta.
Purtroppo, più ci si allontana dai rapporti di lavoro stabilmente strutturati ed inseriti all’interno del macro-sistema aziendale organizzato, più si allenta il circuito virtuoso tra tutela della salute e prestazione di lavoro. Non sembri paradossale, ma spesso le opportunità di lavoro sorgono soltanto grazie al venir meno o, comunque, sono favorite dalla riduzione significativa delle garanzie legali e contrattuali. In tal senso, si comprende come anche il controllo collettivo della nocività ambientale, quando non assente, stenta dal rafforzarsi per il timore di arrivare a mettere in discussione i posti di lavoro. Il c.d. ricatto occupazionale, tra l’altro, è una delle cause che inficia la realizzazione di forme più strette di solidarietà tra lavoratori temporanei e lavoratori stabili, solidarietà già indebolita dalla mancata comunanza di interessi, nonché dalle diverse modalità fisiche e temporali di svolgimento della prestazione.
A voler concludere sul punto, è evidente come per le categorie di lavoratori che sono impegnate in rapporti atipici, le solenni affermazioni della nostra Carta costituzionale sembrano ancora più destinate a rimanere lettera morta. Le manifestazioni di elusione strisciante e programmatica della disciplina di tutela della salute e sicurezza si manifestano come vere e proprie strategie di aggiramento degli obblighi di legge. In dottrina è stata ampiamente documentata, ad esempio, la relazione esistente tra decentramento ed infortuni, soprattutto quando il decentramento è utilizzato per esternalizzare attività pericolose, ripetitive, nocive, alienanti, il tutto aggravato dalla situazione di debolezza economica delle piccole imprese e dalla gravissima piaga del lavoro nero.
Di fronte a tale situazione, pare difficile che la Direttiva sul lavoro temporaneo posso andare molto al di là della mera affermazione di principio, anche per il ristretto ambito di applicazione (contratti di lavoro a termine e temporaneo). Essa rappresenta, tuttavia, un primo importante successo, considerati i molti tentativi, tutti irrimediabilmente falliti, della Commissione europea di fornire una disciplina comunitaria complessiva del lavoro atipico, soprattutto per l’accostamento tematico tra lavoro atipico e salute. Del resto, più che prospettare nuove ed ulteriori forme di tutela, sarebbe importante riuscire a potenziare gli strumenti già a disposizione degli organi ispettivi e di controllo, sostenendo in particolare l’azione collettiva di autotutela.
E’ proprio attraverso il forte recupero di effettività della normativa in materia di salute e sicurezza che il diritto del lavoro, comunitario e nazionale, può sperare di incidere sui complessi equilibri che disciplinano le modalità di incontro tra lavoro e capitale, nel tentativo di evitare che, tra le necessità produttive dell’impresa e gli obiettivi di progresso sociale, il riconoscimento delle prime finisca inevitabilmente per limitare il raggiungimento dei secondi, nel rispetto delle precise scelte di valore contenute nella nostra Carta costituzionale.
Non si deve, tuttavia, sottovalutare il fatto che il rafforzamento dell’effettività normativa potrebbe, da un lato, ritardare l’emersione del lavoro irregolare o, dall’altro, tradursi in forme di mera monetizzazione del rischio. Quello che occorre realizzare è il raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio tra le istanze di flessibilizzazione delle modalità di utilizzazione della forza lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro, in particolare, di quelle relative alla salute e sicurezza. A tale risultato può utilmente concorrere anche l’abbandono di un’azione qualificatoria dei rapporti di lavoro basata sull’alternativa secca autonomia-subordinazione, che punti a ridurre la “convenienza” all’instaurazione di rapporti di lavoro non subordinati i quali, come tali, fuoriescono dal campo di applicazione della tutela prevista dalla disciplina lavoristica.
E’ questa la prospettiva seguita dal disegno di legge n. 2049 a firma dei senatori Smuraglia, De Luca ed altri, recante “Norme di tutela dei lavori atipici”. Esso predispone un nuovo ed articolato impianto normativo volto ad accordare, anche ai rapporti di lavoro prestati in forma coordinata e continuativa seppure senza vincolo di subordinazione, una tutela minima di legge, tra cui una specifica normativa prevenzionistica. Il disegno di legge è stato giudicato da una parte della dottrina eccessivamente garantista: oltre la predisposizione di una disciplina minimale, infatti, esso finisce per predisporre un articolato insieme di tutele, il cui effetto potrebbe essere quello di accentuare il processo di “fuga nel sommerso” di quel sistema di imprese ora marginali che non sarebbero in grado di reggere i costi aggiuntivi che l’applicazione della nuova disciplina richiederebbe.
Non è mancato, per la verità, anche un differente approccio che cerca più empiristicamente di affrontare la questione sotto il profilo delle tutele piuttosto che della qualificazione del rapporto: rinunciando ad un difficile percorso di tipo definitorio/classificatorio di una realtà contrattuale in rapido e continuo mutamento, l’obiettivo diventa quello di predisporre un nucleo essenziale di norme e di principi inderogabili comuni a tutti i rapporti negoziabili, tra cui non può non rientrare la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Sotto questo aspetto, la Commissione incaricata dal Ministro Treu di redigere una Proposta di Testo Unico in materia di salute e sicurezza del lavoratori ha previsto di estendere l’ambito di applicazione della normativa al di là della subordinazione, comprendendovi una categoria concettuale che potrebbe essere quella del lavoro parasubordinato. A tal fine, diventa essenziale definire per legge, limitatamente al profilo della tutela della salute e sicurezza, la nozione di parasubordinazione, dovendo, in tal senso, limitarsi a ricomprendere soltanto i lavoratori parasubordinati che sono inseriti nell’ambiente di lavoro organizzato dal committente.
Ai soli fini della tutela della salute e sicurezza, dunque, l’art. 4 della Proposta di Testo Unico definisce il lavoratore come la persona che presta il proprio lavoro fuori dal proprio domicilio, alle dipendenze o sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, inclusi tutti i lavoratori con rapporti di lavoro subordinato anche speciale o di durata determinata, i prestatori di lavoro temporaneo, gli apprendisti e i lavoratori con altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, qualora siano inseriti nell’ambiente di lavoro organizzato dal committente. Devono intendersi equiparati ai lavoratori: i soci di cooperative o di società, anche di fatto, che prestino la loro attività per conto delle società e degli enti stessi (legge 1 agosto 1991, n. 266); gli utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica universitaria e professionale avviati presso datori di lavoro per agevolare o per perfezionare le loro scelte professionali; gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari e i partecipanti a corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro nonché di agenti chimici, fisici e/o biologici.
La formula utilizzata presenta aspetti di sicuro interesse. E’, innanzitutto, innovativa rispetto al dettato dell’art. 2094 c.c., nel quale i termini “alle dipendenze/sotto la direzione” sono da intendersi come concorrenti mentre, nel caso della Proposta, la disgiuntiva espressamente utilizzata li rende alternativi. Ciò consente di fare rientrare nel campo di applicazione del futuro “Testo Unico sulla sicurezza” anche coloro che operano semplicemente sotto le direttive altrui, ancorché formalmente non dipendenti, quando vengono a trovarsi più o meno stabilmente inseriti in un contesto organizzativo gestito da altri. In tal modo, la proposta asseconda una tradizionale tendenza del diritto del lavoro ad estendere l’ambito delle sue tutele fondamentali; significativa, sotto questo profilo, è la disposizione dell’art. 6 co. 1, della legge n. 196/1997, quando stabilisce che l’impresa utilizzatrice - la quale, per definizione, non ha alcun vincolo negoziale con il lavoratore intermittente - deve osservare nei confronti del prestatore di lavoro temporaneo tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed è responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.
Un importante contributo è in tal senso offerto dalla giurisprudenza di legittimità: la Cassazione ha, infatti, recentemente precisato (Cass. n. 1687 del 17 febbraio 1998) che l’obbligo di vigilanza previsto in capo al datore dal combinato disposto degli art. 2087 c.c. e 41 Cost. è da ritenersi ancora più intenso quando il soggetto destinatario della tutela è un lavoratore assunto con un contratto di formazione e lavoro. Ciò comporta che quando l’interprete sarà chiamato ad individuare natura e livello degli obblighi di sicurezza gravanti sul datore di lavoro, dovrà prudentemente tenere conto di un insieme di parametri essenziali relativi al prestatore di lavoro, quali l’età, l’esperienza, l’anzianità di servizio nonché la stabilità del vincolo contrattuale.
Sotto un profilo più strettamente tecnico-giuridico, l’intervento della Corte induce a ritenere che, soprattutto per quanto riguarda la tutela della salute e sicurezza, la struttura causale dei rapporti di lavoro temporanei/atipici si configura in modo del tutto peculiare rispetto ai contratti di lavoro subordinato standard, nel senso che la ripartizione di diritti, obblighi e responsabilità assumono un’intensità correlata al grado di inserzione e stabilità del vincolo contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro. Il grado e l’intensità delle obbligazioni reciproche varia in funzione del grado e dell’intensità del vincolo giuridico: l’attivazione dei rapporti di lavoro temporanei, precari, atipici dovrebbe comportare un incremento degli obblighi di sicurezza.
L’importanza di questa osservazione è evidente: si è sempre perseguito l’obiettivo dell’assimilazione formale tra lavoratore con contratto di lavoro subordinato standard e lavoratore atipico, quasi che la garanzia della parità di trattamento in materia di salute e sicurezza fosse idonea ad assicurare l’effettività dei diritti e delle tutele del lavoratore atipico. Invero, l’applicazione pura e semplice del principio di parità di trattamento può produrre, in materia di salute e sicurezza, effetti distorsivi e paradossali in quanto non consente di tenere conto della peculiarità di queste forme di lavoro. Insomma, una maggiore attenzione al profilo strutturale del rapporto di lavoro in funzione dell’interesse più o meno durevole dell’impresa alla prestazione dedotta in contratto potrebbe consentire di correlare l’intensità dell’obbligo di sicurezza con le caratteristiche del rapporto, bilanciando positivamente l’oggettiva precarietà di quei rapporti.



8.1. Tutela della salute e lavoro atipico nell’ordinamento francese
Il modello cui è informata la direttiva sulla salute e sicurezza dei lavoratori temporanei e a termine recupera principi e soluzioni sperimentate felicemente nell’ordinamento giuslavoristico francese: tale ordinamento, infatti, aveva raggiunto, durante gli anni ottanta, un elevato livello di tutela dei lavoratori temporanei. Tra il 1982 ed il 1992, in particolare, si sono susseguiti diversi interventi legislativi di riforma, cui hanno concorso le parti sociali attraverso la stipulazione di accordi nazionali intercategoriali a favore dei lavoratori temporanei, accordi che pongono in capo ai datori di lavoro oneri assai significativi.
L’intervento legislativo del 1982 era stato determinato dalla preoccupazione di limitare il ricorso ai contratti atipici e, contestualmente, di contrastare più efficacemente la pratica del lavoro precario. Il Codice del lavoro è stato così arricchito con la previsione di alcune ipotesi di divieto assoluto di utilizzare tali contratti, indicando negli altri casi le modalità specifiche di assunzione. Tuttavia, ben presto, sotto la pressione dall’aggravarsi della crisi economica e sociale, si è ridotto il rigore dell’intervento, conservando le ipotesi di divieto, ma ampliando la sfera dei casi di legittima costituzione di un rapporto temporaneo.
E’ utile ricordare che nell’ordinamento francese, oltre al divieto generale in ragione del quale il contratto precario non può avere né come oggetto né come effetto quello di vincolare stabilmente l’occupazione all’attività normale e prevalente dell’impresa (art. L. 122-1,1), sono previsti molti “divieti particolari”, relativi al caso di sostituzione di lavoratori in sciopero, per l’esecuzione di lavori particolarmente pericolosi (quelli sottoposti ad una particolare sorveglianza sanitaria come decoibentazioni, demolizioni e fabbricazioni di sostanze tossiche) risultanti da una lista stabilita per Decreto dal Ministero del lavoro, anche se sono possibili deroghe, autorizzate con specifica procedura nella quale risultano coinvolti il medico del lavoro ed il Comitato d’Igiene e Sicurezza. Per quanto concerne, invece, le ipotesi di ricorso al lavoro precario definite dal Codice civile, queste fanno sostanzialmente capo a tre fattispecie generali: la sostituzione di un lavoratore assente; l’ aumento temporaneo dell’attività d’impresa; le variazioni “quantitative” connesse all’attività d’impresa.
Com’è facile constatare, la trasposizione della direttiva non ha determinato necessità di interventi urgenti di attuazione: per quanto riguarda, ad esempio, il principio di non discriminazione tra lavoratori tipici e temporanei di cui all’art. 2 della Direttiva, esso è da tempo riconosciuto nell’ordinamento francese: lavoratori tipici e temporanei condividono così disposizioni legali, contrattuali ed usi. Relativamente ai previsti obblighi di informazione circa i rischi specifici del lavoro, il contratto deve essere redatto per iscritto, e contenere - almeno per i lavoratori interinali - l’indicazione precisa delle ragioni del suo ricorso come anche di un certo numero di informazioni circa le modalità della prestazione lavorativa. Nel caso sussistano rischi particolari, sono previste informazioni specifiche, integrate dalle misure da adottare per farvi utilmente fronte. Per il lavoratore interinale, ad esempio, l’informazione di sicurezza è specificata in entrambi i contratti, quello di lavoro e quello di fornitura; in entrambi, infatti, vanno precisate le caratteristiche particolari del posto da occupare, la qualifica richiesta, il luogo della prestazione e l’orario di lavoro, la natura degli equipaggiamenti di protezione individuale.
In materia di formazione, il titolare dell’impresa è tenuto ad organizzare una formazione pratica e appropriata in tema di sicurezza; inoltre i rappresentanti del personale sono preventivamente consultati e sovrintendono alla loro attuazione. A ben vedere, la formazione dei lavoratori temporanei non differisce significativamente da quella programmata per i lavoratori stabilmente occupati. Le uniche disposizioni particolari riguardano l’esecuzione dei lavori pericolosi; i lavoratori temporanei devono riceve tutte le informazioni necessarie circa le particolari condizioni dell’impresa e del suo ambiente di lavoro che siano suscettibili di avere una qualche incidenza sulla loro sicurezza: i rappresentanti del personale vanno a tal fine consultati.
Circa il controllo medico per i lavoratori interinali, la responsabilità è posta in capo all’Agenzia che è titolare del rapporto (L. 124-4-6, e R. 243-15): essa è tenuta a garantire l’effettuazione delle visite di assunzione e di quelle periodiche previste durante lo svolgimento del rapporto. Il coinvolgimento del medico dell’impresa utilizzatrice è essenziale: i suoi compiti sono determinati in modo specifico dal legislatore (R. 241-41) e consistono principalmente in una sorta di attività di consulenza resa indistintamente nei confronti del datore e dei lavoratori circa il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nell’impresa, la situazione di igiene generale, l’adattamento dei posti, delle tecniche e dei ritmi di lavoro, la protezione contro i disagi, i rischi di infortunio sul lavoro nonché l’utilizzo di macchinari ed attrezzature pericolose.


9. L’attuazione delle direttive comunitarie in materia di salute nei principali Stati membri
A voler analizzare, seppur superficialmente, l’attuale stadio di adeguamento di ciascun ordinamento nazionale agli standards europei in materia di salute e sicurezza, è facile constatare come, almeno dal punto di vista formale, l’armonizzazione abbia determinato processi di differenziazione normativa più che di uniformità; da tale armonizzazione taluno ritiene emerga tutta la fragilità di fondo di alcune importanti affermazioni di principio contenute nel diritto comunitario. Ciò si spiega tenendo conto delle rilevanti diversità strutturali che caratterizzano gli ordinamenti degli stati membri, i quali abbisognano di interventi specifici che consentano a tutti di centrare l’obiettivo comune prefissato.
Le reazioni dei diversi ordinamenti nazionali all’impulso armonizzante della Comunità europea consentono di distinguere sostanzialmente due modelli (con la posizione rispettivamente intermedia della sola Francia): nel primo si identificano tutti quei Paesi che hanno dovuto soltanto adattare la loro precedente disciplina statale attraverso modesti interventi di integrazione ed ammodernamento (Europa continentale e nordica); del secondo fanno invece parte gli Stati membri che sono stati costretti ad innovare profondamente il loro ordinamento (Europa latina).
Da un’analisi d’insieme dei provvedimenti di recezione adottati, risulta la sostanziale omogeneità degli obiettivi di tutela e prevenzione unitamente all’apparato regolativo ed ai principi allo stesso sottesi. Tale esito è stato sicuramente favorito dall’adozione di un modello normativo articolato in disposizioni di principio e direttive tecniche, che limita la discrezionalità degli Stati alla sola scelta degli strumenti operativi. In tal senso depone, ad esempio, la disposizione dell’art. 11, in cui la direttiva afferma il principio della partecipazione equilibrata in conformità alle legislazioni e/o alle prassi nazionali, legislazioni che operano su base tendenzialmente volontaristica (Gran Bretagna ed Italia) o istituzionale. La scelta di un profilo così scarsamente vincolistico in materia di partecipazione è da ritenersi una costante del diritto comunitario; il che, del resto, non ha impedito a qualcuno di ritenere contenuta nella previsione comunitaria un’indicazione chiara verso un modello di partecipazione di tipo codeterminativo. Quello che è certo è che i lavoratori devono diventare soggetti del sistema di sicurezza attraverso i loro delegati, qualunque sia la forma che verrà, di fatto, utilizzata per la loro individuazione.
Sotto quest’ultimo specifico profilo, l’indagine comparata mette in evidenza la volontà dei legislatori nazionali di specializzare per separazione (dalle altre) le “rappresentanze di sicurezza” (Francia, Germania, Spagna), o comunque di arrivare a caratterizzarne fortemente la funzione all’interno degli organismi di rappresentanza sindacali generali, con ciò inducendo un’evoluzione di tutti i modelli di partecipazione di tipo istituzionale a livello aziendale (organismi bilaterali o trilaterali per la presenza “neutrale” di esperti sono previsti in Francia, Belgio, Germania e Danimarca).
Tuttavia, anche in Italia e in Spagna, dove la scelta del legislatore è stata più marcatamente caratterizzata dall’istituzione di rappresentanze di tipo non codeterminativo, al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza vengono comunque riconosciuti importanti strumenti di consultazione bilaterale (ad esempio, le riunioni periodiche). Al di là del modello di rappresentanza adottato, dunque, sono presenti in tutti gli ordinamenti meccanismi procedurali e strategie partecipative basate sugli strumenti classici dell’informazione, della consultazione, del controllo, della formazione: la ratio è quella di creare la più larga base di consenso rispetto a decisioni che, visto l’elevato grado di tecnicismo che le caratterizza, non possono non essere di pertinenza del management aziendale.
Nei sistemi francese e spagnolo, in particolare, la partecipazione aziendale con compiti di formazione, controllo e proposta si giustappone, senza una precisa integrazione istituzionale, all’intervento statale, cui è invece riservato il monopolio della disciplina, della sanzione e del controllo (attraverso le strutture dell’Ispettorato). In entrambi gli ordinamenti, tuttavia, si manifesta una chiara tendenza verso l’integrazione delle funzioni gestionale e di controllo, in modo da trasformare quest’ultima in una sorta di attività di consulenza/collaborazione istituzionale.
Lo sviluppo in senso partecipativo della gestione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, attraverso la diffusione di strutture aziendali a ciò deputate, pone il problema del ruolo svolto dalle parti sociali, in particolare quello della contrattazione collettiva di tipo conflittuale/acquisitivo come possibile fonte di disciplina della materia.
Si è già avuto modo di rilevare come il carattere residuale assunto dalla contrattazione collettiva in materia di salute e sicurezza dei lavoratori può essere spiegato in ragione della complessità tecnica e dell’attitudine, degli stati nazionali prima e delle istituzioni comunitarie poi, ad agire direttamente attraverso disposizioni di legge; a ciò si aggiunge il rischio che deriva dalla natura inevitabilmente compromissoria delle mediazioni ivi raggiunte, nonché del possibile collegamento funzionale e “servente” rispetto alla salvaguardia di altri interessi, in particolare economici e di mantenimento dei posti di lavoro, che mal si concilia con la tutela di un diritto assoluto e primario come quello della salute.
Tutto ciò ha fatto sì che la contrattazione collettiva si “specializzasse” nel rafforzamento del metodo della partecipazione e nell’amplificazione dei diritti di informazione e di consultazione riconosciuti dalle disposizioni normative. Così facendo, la stessa contrattazione ha finito per assumere in sé i connotati tipici del metodo dinamico/istituzionale fino quasi a rischiare di dissolversi nella partecipazione, così come può chiaramente evincersi dalla creazione di istituti e procedure di gestione permanente e bilaterale.
La direttiva-quadro impone, altresì, la previsione di un’obbligazione generale di sicurezza (art. 5): con la stessa viene introdotto il principio della responsabilità imprenditoriale assoluta - quella che non può essere esclusa neppure nell’ipotesi di caso fortuito - che gli Stati possono, tuttavia, “degradare” a mera responsabilità oggettiva, anche emancipandola dal rispetto dei comuni principi che governano la materia della responsabilità civile (e penale). Così è, ad esempio, avvenuto in Spagna; in Francia, l’introduzione della norma sull’obbligazione generale, in un sistema che a tale risultato era già pervenuto per intervento di dottrina e giurisprudenza, ha avuto funzione esclusivamente simbolica come norma di chiusura; in altri sistemi, come quello italiano dove esistevano norme che già la prevedevano (art. 2087c.c.), non si sono prodotti particolari adattamenti.
L’effetto di armonizzazione che l’introduzione di tale nozione assicura è legata al ruolo centrale assegnato ai datori di lavoro nell’assetto dei poteri e delle funzioni destinate agli adempimenti previsti dalle leggi di attuazione delle direttive. Il datore di lavoro - privato o pubblico non rileva - viene gravato di compiti, funzioni gestionali e responsabilità di rilevanza pubblica, da assolversi con il consenso dei destinatari delle politiche di sicurezza. Agli apparati statali ed ai diritti nazionali viene riservata soltanto la funzione di controllo esterno sull’adeguamento strutturale e funzionale dei sistemi agli standards comunitari.
Sulla c.d. clausola paracadute - quella destinata ad evitare che le direttive in materia ambientale impongano vincoli finanziari, amministrativi e giuridici di natura tale da ostacolare lo sviluppo e la creazione di piccole e medie imprese - i legislatori nazionali hanno, invece, dato prova di scarsa inventiva: ciò è particolarmente grave se si pensa che questo è il settore più statisticamente esposto ad infortuni e malattie professionali. L’esito è che tutti i datori che gestiscono imprese medio-piccole o imprese artigiane sono sicuramente soggetti al sistema di prevenzione: gli adempimenti più defatiganti e costosi sono alleggeriti attraverso l’adozione di procedure standardizzate, ma le responsabilità e le sanzioni fondamentali restano le stesse.
A proposito delle Pubbliche Amministrazioni, la direttiva costituisce il primo caso in cui un atto di diritto comunitario derivato incide direttamente sulla sfera di regolazione del lavoro pubblico: per quanto riguarda i diversi Paesi membri, basta rilevare come la normativa comunitaria abbia avuto impatti differenziati anche in relazione ai particolari sistemi di regolazione dell’impiego pubblico in ognuno di questi vigente.


9.1. La trasposizione della direttiva nell’ordinamento francese

Tra i sistemi nazionali di tipo “istituzionale” che presentano un maggior grado di aderenza al dettato della direttiva - anche perché il modello della direttiva è stato da questi in gran parte mutuato - c’è sicuramente il modello francese di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Già alla fine del 1991, i principi della direttiva n. 391/1989 erano stati integralmente trasfusi nel Code du travail dalla legge n. 1414/1991.
In via preliminare, va osservato come tale provvedimento abbia dato priorità all’azione individuale rispetto a quella collettiva: sul primo versante, infatti, si registra l’espressa introduzione di un obbligo generale di sicurezza in capo allo chef d’établissement (art. L. 230-2), colmando così una lacuna cui veniva in precedenza ovviato attraverso un’interpretazione sistemica delle norme prevenzionistiche. Il datore di lavoro è ora tenuto ad adottare specifiche misure di prevenzione, di informazione e di formazione come pure la mise en place d’une organisation et des moyens adaptés; detto obbligo assume, altresì, una valenza dinamica, nel senso che il datore deve provvedere “à l’adaptation de ces mesures pour tenir compte du changement des circostances et tendre à l’amélioration des situations existantes.
In relazione a quest’ultimo aspetto, il legislatore ha definito in modo dettagliato i canoni ai quali si deve informare l’azione del datore, in particolare, con riguardo al pericolo, agli accorgimenti da prestare, alle dimensioni della gestione dell’impresa interessata. Viene, in tal modo, a delinearsi un nuovo modello di diligenza dell’imprenditore in materia di sicurezza, grazie all’adozione di criteri relativi alla valutazione sia dei rischi (processi di fabbricazione, disposizione dei luoghi di lavoro) sia della congruità dei mezzi di tutela apprestati.
Nella maggior parte dei casi, le decisioni del datore di lavoro sono sottoposte a controlli e/o integrazioni, anche grazie all’intervento consulenziale di un esperto, a tal fine interpellato dal Comité d’hygiène et de sécurité des conditions de travail (art. L. 236-9, I e II cod. trav.). Questo meccanismo di controllo opera come canale di trasmissione di standards tecnici, alla luce dei quali valutare la conformità dell’attività posta in essere, così da assicurare un adeguamento dello sforzo richiesto; il datore, infatti, ha la facoltà di opporsi al ricorso dell’esperto contestando la necessità, la designazione, i costi e l’ambito della valutazione richiesta.
L’ordinamento francese conosce, altresì, la delega di autorità, quando la stessa sia resa necessaria dalle dimensioni o dalla dislocazione geografica dell’impresa; purtroppo, di tale istituto è forte il pericolo di un uso distorto, potendo il delegato dall’imprenditore delegare a sua volta parte delle competenze o responsabilità trasferite ad una terza persona. Ad evitare che ciò accada, l’art. L. 236-2-1 del Code du travail prevede che sia data una particolare garanzia finanziaria: il delegante deve garantire, infatti, per l’operato del delegatario, così che il Tribunale potrà decidere di addossare in tutto o in parte sul datore di lavoro l’onere finanziario derivante dalla responsabilità per la violazione degli obblighi di sicurezza.
La legge del 1991 incide anche sullo stato giuridico del lavoratore in quanto ne amplia gli obblighi, sia quelli relativi alla sua sicurezza personale sia quella di terzi, nonché alla partecipazione “au retablissement des conditions de travail protétrices de la sécurité (art. L. 122-34, co. 2). Così facendo, il legislatore francese dà attuazione alla disposizione dell’art. 13 della Direttiva n. 391/1989, secondo cui il lavoratore è tenuto al duty to care conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni fornite. Ciò non comporta un indebolimento del principio di responsabilità dello chef d’etablissement (art. L. 230-4), perché i lavoratori devono comunque attenersi alle istruzioni loro impartite nel regolamento interno, alla cui stesura concorre il Comité d’hygiène quando previsto, o il Comité d’entreprise, limitatamente al livello di formazione di ciascuno dei lavoratori di cui si dispone (art. L. 122-36).
Del Comité d’hygiène fanno parte, oltre ai lavoratori ed ai datori di lavoro, anche il medico del lavoro. Per quanto riguarda la rappresentanza dei lavoratori, questa è designata da un collegio composto dai membri del Comité d’entreprise e dai délégués du personnel: i primi si caratterizzano per la loro appartenenza “organica” ai Sindacati; i secondi, eletti dai lavoratori, seppure in conformità a liste presentate dai sindacati, esprimono il rapporto diretto con il gruppo di lavoratori da rappresentare. In sostanza, l’influenza del sindacato circa la formazione del Comité d’hygiène risulta essere determinante, del tutto coerentemente con il monopolio sindacale della rappresentanza aziendale tipico del sistema francese. Da segnalare sono, altresì, alcune modifiche previste all’originaria disciplina del droit d’alert, esteso alla “défectuosité” del sistema di protezione (art. L. 231-8), il cui esercizio garantisce al dipendente il beneficio della faute inexcusable. Ciascun membro del Comité d’hygiène, in ogni caso in cui venga riscontrata la presenza di un pericolo grave ed imminente, di determinare l’apertura di una pubblica inchiesta e l’adozione delle misure che si dovessero rendere necessarie.
Le misure attinenti al versante collettivo sembrano complessivamente preordinate a rafforzare il sistema di partecipazione istituzionale già vigente, tramite l’estensione dell’obbligo di istituire il Comité d’hygiène nelle imprese di costruzioni e nei lavori pubblici in cui siano impiegati almeno 50 dipendenti. Il che va a scapito delle competenze attribuite al Comité d’entreprise (art. L. 236 co. 1 e 2). Le competenze del Comité d’hygiène vengono ampliate, soprattutto per quanto concerne i diritti di informazione, di formazione dei propri componenti a spese del datore, di partecipazione ai controlli effettuati dall’Ispettorato, nonché di proposta. In particolare, per quanto concerne i diritti di informazione, il datore di lavoro è tenuto alla presentazione di un rapporto annuale sul livello di sicurezza dell’impresa e sul programma di prevenzione dei rischi; per quanto concerne i poteri di iniziativa e di proposta del Comité d’hygiène, invece, il datore di lavoro è obbligato a motivare il mancato accoglimento delle proposte formulate.
Al di là di quanto strettamente richiesto in attuazione dei principi posti dalla direttiva, bisogna riconoscere che nel sistema francese un ruolo sicuramente rilevante a livello prevenzionale è rivestito dal sistema di sanzioni penali. A parte, infatti, l’effetto deterrente sicuramente prodotto dalle pesanti ammende previste, il giudice penale ha anche il potere di imporre al datore un piano di attuazione delle misure di sicurezza ritenute necessarie, da eseguirsi entro una determinata scadenza, sotto il puntuale controllo dell’Ispettorato del lavoro. Inoltre, in caso di recidiva, lo stesso giudice può arrivare ad ordinare la chiusura totale o parziale, definitiva o temporanea dello stabilimento, quando il datore mostri di non voler ottemperare alle procedure di ingiunzione di modifiche necessarie alla sicurezza del lavoro avviate dall’Ispettore incaricato o, direttamente, dallo stesso Tribunale.
Com’è facilmente apprezzabile, in Francia il perno del sistema pubblico di prevenzione e controllo continua ad essere rappresentato dagli Ispettori del lavoro, quali organi periferici del sistema di sicurezza. A livello centrale, la tutela della sicurezza è, invece, affidata a l’Agence Nationale pour l’Amélioration des Conditions de Travail e al Fonds pour l’Amélioration des Conditions de Travail, che coordinano l’azione degli organismi professionali di sicurezza e svolgono attività di formazione e di ricerca sulle cause degli infortuni e delle malattie professionali. Un importante ruolo consultivo è assegnato, infine, al Consiglio superiore per la prevenzione dei rischi professionali, a l’Istitut National de Recherche sur la Sécurité - cui spetta l’attività di controllo sull’omologazione di macchine ed impianti - ed al Servizio di medicina del lavoro.



10. L’attuazione delle direttive comunitarie. Il caso italiano (d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e successive modificazioni)

Se i decreti legislativi n. 277/1991 e n. 77/1992 hanno assestato al sistema giuridico italiano due forti scossoni, gli effetti prodotti con l’emanazione del d. lgs. n. 626/1994 sono stati simili a quelli di un vero “sisma”; a voler rimanere in metafora, molte sono anche state le “scosse di assestamento”, rappresentate la prima, dal decreto legislativo “correttivo”, n. 242 del 1996, e le successive, dai decreti “specifici” in materia di macchine, segnaletica stradale, industrie estrattive, lavoratrici gestanti. All’insieme dei ricordati provvedimenti, vanno aggiunte le disposizioni dettate dal decreto legislativo n. 758/1994 che ha modificato il sistema relativo all’estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.
Pur avendo come epicentro Bruxelles, gli effetti del sisma non sono stati ridimensionati dall’intervento del legislatore italiano, il quale ha deciso di andare oltre l’attuazione degli standards imposti, nel tentativo di risolvere in modo definitivo alcune questioni interpretative ed applicative relative alla risalente normativa tecnica degli anni cinquanta che necessitava, oramai, di un profondo ripensamento.
Più che il cambiamento del quadro giuridico formale è, tuttavia, l’evoluzione culturale ed organizzativa della sicurezza nei luoghi di lavoro che merita di essere adeguatamente sottolineata: dai tradizionali metodi di prevenzione tecnica si è passati ad un sistema di sicurezza globale che pone l’uomo, anziché la macchina, al centro della nuova organizzazione (di tutela), con il conseguente coinvolgimento attivo dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché dei c.d. esperti della sicurezza.
Non mancano certamente strumenti di legislazione regolativa, anzi, detti elementi sono sicuramente prevalenti nel sistema; tuttavia, molto è lo spazio che viene lasciato dallo Stato, che è intervenuto puntualmente con norme organizzative, procedurali e premiali. Tali norme costituiscono un modello di legislazione che si potrebbe definire “riflessivo”, il quale si basa sulla predisposizione di nuove procedure (valutazione dei rischi, piano di sicurezza, riunione periodica di prevenzione), fonda nuove relazioni tra le parti (informazione, formazione, consultazione, riunioni periodiche) ed individua nuovi attori responsabili (servizio di prevenzione e protezione, medico competente, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza).
Per certi versi la nuova normativa sembra accentuare notevolmente gli aspetti pubblicistici rispetto a quelli strettamente civilistici, in considerazione della rilevanza degli interessi coinvolti (ampliamento degli obblighi del lavoratore; rappresentanza necessaria dei lavoratori). Si avalla, peraltro, una nozione molto ampia di prevenzione e di sicurezza, da intendersi come il complesso di disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno.



10.1. Sul campo di applicazione
Del decreto legislativo n. 626/1994 va, innanzitutto, segnalata l’ampiezza del relativo campo di applicazione, che comprende tutti i lavoratori subordinati, anche con rapporto speciale, in (quasi) tutti i settori di attività pubblici e privati. Sono, inoltre, inclusi anche coloro che vengono a contatto in modo continuativo con luoghi di lavoro e relativi fattori di rischio, quali gli utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale avviati presso i datori di lavoro per lo svolgimento di stages.
Entro certi limiti, destinatari della tutela sono anche i lavoratori autonomi (art. 7). Al di là, infatti, del combinato disposto degli artt. 2087 c.c. e 2094 c.c. che limitano la loro efficacia al lavoratore subordinato, domiciliare e domestico, una prima estensione la si è avuta con i citati d.P.R. degli anni cinquanta che indicano tra i possibili destinatari delle loro disposizioni anche coloro che prestano la loro attività in via non onerosa nonché ai lavoratori equiparati a quelli subordinati (soci di società e di cooperative, allievi degli istituti di istruzione e dei lavoratori scolastici che prevedono l’uso di macchine e di attrezzature).
Una circolare ministeriale del 1996 (n. 172) ha chiarito che, anche successivamente all’emanazione del d. lgs. n. 626/1994, i lavoratori autonomi non possono essere considerati come rientranti nell’ambito della tutela prevenzionistica. Diversamente, i lavoratori autonomi sono tra i destinatari delle norme dettate dal d. lgs. n. 494/1996, anch’esso in attuazione di una direttiva comunitaria (la n. 57/1992) limitatamente ai profili di salute e sicurezza inerenti la gestione dei cantieri temporanei e mobili, dovendo intendersi per “cantiere” qualunque luogo in cui si effettuino lavori edili o di genio civile. Il decreto n. 494/1996 - che definisce il lavoratore autonomo come persona fisica la cui attività professionale concorre alla realizzazione dell’opera senza vincolo di subordinazione (nozione del tutto omologa a quella contenuta nell’art. 2222 c.c.) – avalla, in materia di sicurezza, una sorta di “sostanziale equiparazione” tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, in base alla quale anche i primi sono tenuti ad utilizzare le attrezzature di lavoro ed i dispositivi di protezione in conformità alle disposizioni del decreto n. 626/1994. Inoltre, i lavoratori autonomi devono adeguarsi alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori; quest’ultimo metterà i piani a disposizione dei lavoratori autonomi e ne coordinerà l’attività lavorativa, mentre il lavoratore autonomo dovrà adeguare la propria attività alle indicazioni fornite.
Anche nel d. lgs. n. 626/1994, tuttavia, la tutela del lavoratore autonomo trova una qualche protezione, alla stregua di quanto già prevedeva il d.P.R. n. 547/1955. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 7, destinato esclusivamente a quei lavoratori autonomi a cui verranno affidati incarichi all’interno dell’azienda. Sotto un certo aspetto, la problematica recupera alcuni profili relativi all’altrettanto delicata questione degli obblighi imposti a carico dei progettisti, dei fornitori, degli installatori e dei fornitori.
Com’è noto, il committente ha l’obbligo di scegliere oculatamente il lavoratore autonomo e l’impresa appaltatrice, dovendo per questo, prima di stipulare il contratto, indagare per accertare la sua effettiva qualificazione, in particolare attraverso il controllo dell’iscrizione alla Camera di commercio. Suo ulteriore obbligo è quello di informare dettagliatamente il lavoratore autonomo sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui i lavori devono essere eseguiti e sulle misure prevenzionistiche da adottare; per l’aggravio di rischio che l’inserimento del lavoratore autonomo comporta nell’ambiente di lavoro, è il committente che si assume l’obbligo di promuovere le necessaria attività di cooperazione e di coordinamento: ne consegue che anche i lavoratori autonomi sono chiamati all’attuazione delle misure di prevenzione dovendo, a tal fine, coordinare la loro attività con gli interventi dei datori/committenti nonché scambiando informazioni sulla specificità dei rischi di ciascun prestatore.
Tradizionalmente estranea alle problematiche del lavoratore autonomo, la contrattazione collettiva si è recentemente interessata anche di loro, specificamente dei c.d. lavoratori parasubordinati, stipulando il primo accordo generale dell’ 8 aprile 1998 (lo si veda in DPL, 1998, n. 24, p. 1592 ss.). Tale accordo – che è stato siglato da alcune associazioni di settore estranee al “mondo” confederale - si caratterizza per una regolamentazione che si potrebbe definire “mite” su aspetti cruciali del rapporto di lavoro (compensi minimi, stabilità del rapporto), che ha sollevato non poche critiche. Tuttavia, circa la disciplina in materia di salute e sicurezza che qui interessa, ci si limita a precisare che valgono le stesse norme stabilite dal CCNL adottato nell’azienda o nella cooperativa per i lavoratori dipendenti; il che significa rinviare pressoché integralmente alle disposizioni del decreto n. 626/1994. Anche l’art. 2 del d.d.l. n. 2389 - già più volte richiamato e contenente la delega legislativa per l’emanazione di un Testo Unico in materia di salute e sicurezza - prevede che i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, quando siano più o meno stabilmente inseriti in un dato contesto organizzativo, rientrino nell’ambito di applicazione delle discipline prevenzionistiche.
Rimane, ovviamente, decisiva l’esistenza di un rapporto giuridico tra soggetto tutelato e titolare dell’azienda, prevalentemente contraddistinto dai connotati della subordinazione, in particolare della soggezione al potere direttivo e di conformazione del datore di lavoro. Sono esclusi i lavoratori domestici e familiari; sono, invece,“semiesclusi” quelli a domicilio o con contratto di portierato, per i quali il decreto si applica soltanto nei casi espressamente previsti (ad esempio, obblighi di formazione ed informazione).
L’estensione della disciplina al settore pubblico è questione complessa, non soltanto sotto il profilo tecnico-giuridico: in verità, fin dagli anni cinquanta le Amministrazioni Pubbliche avrebbero dovuto utilmente confrontarsi con i problemi della sicurezza e dell’igiene perché quei decreti erano già alle stesse Amministrazioni integralmente applicabili. Attualmente, le difficoltà maggiori relative all’applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sono determinate dallo stato fatiscente della maggior parte degli uffici, dall’esatta individuazione del datore di lavoro (su cui, amplius, vedi anche il seminario di approfondimento in appendice a questa dispensa) e della sostenibilità dei rilevanti costi della prevenzione, rispetto ai molti vincoli di bilancio.
Per quanto attiene specificamente ai costi della prevenzione, questi innescano due distinte problematiche. La prima concerne il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, rispetto al quale non sembrerebbero proponibili e (soprattutto) giustificabili arretramenti connessi alle difficoltà economiche: i datori di lavoro sono sempre e comunque tenuti ad apportare tutte le migliorie consentite dall’evoluzione tecnologica (su cui infra). La seconda attiene alle esigenze delle piccole imprese, per le quali la direttiva n. 389/1989 chiede che il legislatore adotti una particolare cura ed attenzione nell’individuazione delle misure di attuazione di quanto disposto dall’art. 118 A; tuttavia, se è giusto prendere in considerazione le differenti esigenze e possibilità delle piccole e medie imprese rispetto alle grandi imprese, sarebbe colpevole non considerare che le stesse rappresentano l’area produttiva sicuramente più a rischio.
Pur garantendo piena uniformità di tutela fra i lavoratori, nell’intento di ridurre l’impatto sulle piccole imprese delle misure di sicurezza, il legislatore italiano ha significativamente attenuato e semplificato alcuni importanti vincoli organizzativi e procedurali. I datori di lavoro delle aziende fino a 10 dipendenti potranno, infatti, autocertificare la valutazione dei rischi senza predisporre il piano di sicurezza; non saranno obbligati a tenere le riunioni di sicurezza, se non su formale richiesta del rappresentante dei lavoratori; sarà loro consentito di svolgere direttamente le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione (art. 10); infine, per le imprese fino a quindici dipendenti che dovessero adeguarsi alle nuove disposizioni prima dello scadere dei termini di legge, i premi Inail saranno significativamente ridotti.



10.2. Ancora sulla natura giuridica dell’obbligo di sicurezza

Ribadita la natura fondamentale per il sistema rappresentata dalla norma dell’art. 2087 c.c., l’indicazione delle misure generali di tutela di cui all’art. 3 del decreto legislativo n. 626/1994 (tra cui: eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisiste in base al progresso tecnico; programmazione della prevenzione; rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione) non fanno altro che esplicitare principi che la dottrina e la giurisprudenza avevano già avuto modo di enucleare in sede d’interpretazione ed applicazione dell’originaria norma codicistica.
Per la verità, una qualche disarmonia tra il modello codicistico e quello del decreto c’è ed è insita nella taratura marcatamente pubblicistica del secondo, che porta a valutare l’interesse alla salute anche come interesse generale e collettivo oltre che, naturalmente, individuale. Tale profilo potrebbe indurre a rivalutare letture e ricostruzioni in chiave “extracontrattuale” dell’obbligo di sicurezza. Una ricostruzione dottrinale recente (Franco) sollecita a ricercare un nuovo equilibrio tra l’itinerario contrattuale e quello extracontrattuale dell’obbligo di sicurezza: le ipotesi di responsabilità civile si concretizzerebbero (soltanto) quando alla violazione dell’art. 2087 c.c. consegua una menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Alla mera violazione dell’obbligo di sicurezza senza che si producano conseguenze in capo al lavoratore - quindi in chiave esclusivamente preventiva - sarà possibile rispondere secondo le procedure della responsabilità extracontrattuale.
Quello che si può dire è che in materia di salute il lavoratore ha, oramai, acquisito una posizione di diritto soggettivo superprotetto, in cui le garanzie civil-contrattualistiche si sommano a quelle pubblicistico/penalistiche: soltanto in questa seconda prospettiva si può spiegare il fatto che l’apparato normativo preveda una tutela che va al di là del contratto e del rapporto, per dare protezione anche a coloro che entrano semplicemente in contatto con l’ambiente di lavoro. Tuttavia, là dove esista un rapporto di lavoro, la tutela della salute del lavoratore - ed il corrispondente obbligo del datore - non potrà non influenzare struttura ed assetto del contratto che è posto alla base di quel rapporto.


10.3. Massima sicurezza tecnologicamente possibile vs. massima sicurezza ragionevolmente praticabile. Rapporti

Anche prima dell’azione comunitaria, il nostro ordinamento era improntato al principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, principio che si estrinseca in due corollari: il datore deve adeguare i sistemi di prevenzione in azienda alle acquisizioni della più moderna tecnologia; tale obbligo non può trovare validi limiti in motivazioni di ordine economico.
La subordinazione del fattore economico-produttivo alle esigenze di salvaguardia della salute dei lavoratori trova un solido fondamento giuridico nella Carta costituzionale all’art. 41 co. 2, là dove si chiarisce che l’iniziativa economica privata non può mai svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Il principio è stato consolidato dall’azione della giurisprudenza: un qualche tentennamento si è avuto con l’emanazione del d. lgs. n. 277/1991 che, in attuazione del gruppo di direttive dei primi anni ottanta - nelle quali dominava il contrario principio di derivazione anglosassone della reasonable practicability - in tema di protezione dei rischi contro l’esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici ha introdotto il principio della concreta attuabilità delle misure, che non avrebbe dovuto produrre incertezze interpretative se letto unitamente all’inciso che lo pone in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico.
La Cassazione ha affermato che tra le disposizioni del decreto ed il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile non c’è alcuna contraddizione: la saldezza del principio non è stata neppure scalfita da qualche riserva che deriva principalmente dalla sua applicazione in campo penalistico, in riferimento, soprattutto, al principio di legalità (art. 25 Cost.), applicazione potenzialmente compromessa dall’indeterminatezza delle norme da cui lo stesso (principio) si desumerebbe: la Corte costituzionale ha inteso “salvare” le norme del decreto, ritenendo che la fattispecie penale fosse sufficientemente determinata con riferimento ai “suggerimenti” che la scienza può fornire in un determinato momento storico.
Sotto questo profilo, le norme del d. lgs. n. 626/1994 sembrano confermare che conoscenza e capacità tecnica costituiscono l’unico parametro in grado di circoscrivere l’area dell’obbligo di sicurezza (v. infra); tuttavia, almeno in sede applicativa, l’elasticità del criterio produce tutti gli effetti d’incertezza già descritti, con la conseguenza di rendere difficile per il datore sapere come adempiere correttamente il proprio dovere, evitando un’applicazione eccessivamente rigorosa che potrebbe compromettere la sostenibilità economica dell’intera attività d’impresa. Il conflitto tra capitale e salute potrebbe tramutarsi in “conflitto” tra salute e lavoro.
In dottrina ed in giurisprudenza sono diverse le letture destinate a rendere ragionevole l’applicazione del principio: c’è, ad esempio, chi ritiene che i due principi della MSTP e MSRP siano destinati a ben coesistere, nel senso che MSRP sarebbe lo strumento operativo dell’obiettivo ideale della MSTP, per la determinazione del quale va rivalutato il ruolo della contrattazione collettiva.
Nello stesso senso sembra porsi la Corte costituzionale in una recente sentenza (n. 312/1996), chiamata a pronunciarsi sul presunto contrasto tra le norme del decreto n. 277/1991 in tema di riduzione del rumore e la (ritenuta) “insufficiente” determinatezza della norma penale: per la Corte, la costituzionalità della norma può essere salvata, ma dato il significativo ampliamento dello spettro dei comportamenti rilevanti, diventa indispensabile darne un’applicazione rigorosa, in modo da restringere la discrezionalità dell’interprete. Ne consegue che, per misure concretamente attuabili, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto riferirsi alle misure che nei diversi settori e nelle diverse lavorazioni corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed accorgimenti organizzativi acquisiti, rimanendo censurata soltanto la deviazione dagli standards di produzione industriale. Anche se l’art. 41 Cost. potrebbe estendersi molto oltre, il rispetto del requisito necessario della determinatezza della fattispecie penale impone di restringerne la portata. Insomma, affermare che l’obbligo dell’imprenditore è quello di non deviare dagli standards concretamente diffusi – con la conseguente applicazione delle misure adottate dalle altre imprese - significa accettare il rischio implicito dell’adozione di un sistema autoreferenziale, caratterizzato da un possibile disimpegno delle imprese e dalla scarsa spinta al dialogo ed alla partecipazione.


10.4. Sul modello di prevenzione

Rispetto alla normativa tecnica degli anni cinquanta - che ha avuto l’indubbio merito di costituire la prima forma di intervento organico e globale in tema di sicurezza del lavoro con effettive finalità di prevenzione, seppur limitando il suo intervento quasi esclusivamente alle condizioni oggettive di svolgimento dell’attività lavorativa (soltanto in chiave tecnologica), attraverso la predisposizione di strumenti di carattere tecnico-oggettivo, quali i dispositivi di sicurezza, i mezzi personali di protezione, l’illuminazione e i rumori ambientali a seconda della realtà produttiva - il nuovo modello prevenzionale punta a dare importanza ai c.d. fattori soggettivi di rischio: si tratta dei fattori che attengono alle caratteristiche psico-fisiche dell’individuo, o alle modalità temporali di svolgimento della prestazione ed, in generale, dell’organizzazione del lavoro.
Nel decreto legislativo n. 626/1994, la predisposizione di un ambiente sicuro - con attenzione anche alla riduzione dello stress e della monotonia nonché al miglioramento del benessere del lavoratore - non costituisce tanto l’effetto, più o meno diretto, di decisioni operate a valle delle scelte organizzative e produttive, ma diventa uno dei momenti cardine di tali scelte. Pertanto, caratteri essenziali delle nuove tecniche di prevenzione introdotte sono l’attività di programmazione della prevenzione, l’affermazione del necessario raccordo tra tutela della salute ed organizzazione del lavoro, la considerazione degli aspetti soggettivi oltre a quelli tecnico-oggettivi.
Le affermazioni di principio indicate nell’art. 2087 c.c. si trovano oggi specificate nell’art. 3 del d. lgs. n. 626/1994, il quale prevede, tra le misure generali di prevenzione, la valutazione dei rischi, la programmazione della prevenzione, il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti e nella definizione dei metodi. L’importanza delle indicazioni di cui all’art. 3 del d. lgs. n. 626/1994 va, quindi, considerata unitariamente all’utilizzo delle tecniche riflessive, le quali si concretano nella predisposizione di procedure, strumenti e soggetti affinché i principi generali possano trovare concreta attuazione. Con particolare attenzione vanno considerati, pertanto, gli obblighi di programmazione e la realizzazione scrupolosa di adempimenti procedurali e documentali nonché la previsione del ricorso a specifiche competenze tecniche (servizio di prevenzione, medico competente) che possano garantirne l’esatto adempimento, almeno da un punto di vista tecnico.
Se è certamente vero che tutta la filosofia del decreto n. 626/1994 è stata condensata nell’analitica indicazione di principi generali e linee direttrici cui il datore di lavoro deve attenersi, bisogna tuttavia ricordare che non si tratta di una guida severa ed eccessivamente prescrittiva. La tutela della sicurezza continua ad essere “l’arte del possibile”: si pretende il massimo impegno nell’eliminazione del rischio, ma è sufficiente raggiungere una significativa riduzione del rischio; si afferma, ad esempio, che è doveroso sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso; si impone di ridurre al minimo il numero dei lavoratori esposti al rischio o ancora utilizzare in misura limitata gli agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro.
Insomma, benché salute e sicurezza siano beni assoluti ed indisponibili la cui tutela non dovrebbe ammettere mediazioni, il legislatore non ha mai preteso dal datore di lavoro il raggiungimento di standards troppo elevati: si potrebbe dire che più che di risultati, l’obbligazione che incombe sul datore di lavoro è un’obbligazione di mezzi, a contenuto aperto, modulata su parametri esterni, variabili e mutevoli. Resta inteso che, se non potrà essere eliminato, il rischio dovrà essere comunque governato con tutti i mezzi disponibili ed in modo adeguato.
Circa gli obblighi di valutazione del rischio e la redazione del relativo documento, si tratta di operazioni che andranno ripetute ogniqualvolta lo richiedano modifiche organizzative e produttive rilevanti ai fini della salute e sicurezza - comunque periodicamente ogni tre anni, in situazioni di rischio elevate - e che implicano il coinvolgimento di tutti i soggetti e le professionalità previste dalla legge, vale a dire il servizio di prevenzione e protezione, il medico competente, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, tutti soggetti legittimati a partecipare alla riunione periodica di sicurezza prevista dall’art. 11.
Il rilievo delle procedure di programmazione e di documentazione si evince riflettendo sui due scopi dalle stesse perseguiti: la trasparenza della gestione e l’intervento di tutti i soggetti comunque coinvolti. E’ questo il contesto nel quale si giocano le maggiori chances concesse dal legislatore alle rappresentanze dei lavoratori, attraverso il loro diritto ad essere consultate in sede di valutazione dei rischi e di predisposizione del piano di sicurezza, oltre che di partecipare alle riunioni periodiche di prevenzione. Programmazione e proceduralizzazione dovrebbero riuscire, infatti, ad anticipare l’esame e la soluzione di tutti quei problemi che sono tradizionalmente affrontati ex post, con grave rischio di inefficienza.
Può essere tentato un confronto tra l’art. 2087 c.c. e le misure degli artt. 3 e 4 del d. lgs. n. 626/1994, nel tentativo di verificare il superamento della disposizione codicistica. Per quanto concerne il livello di impegno richiesto al datore di lavoro dagli artt. 3 e 4, essi esigono l’eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e la loro riduzione al minino, nonché l’aggiornamento delle misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza, in relazione al grado di evoluzione tecnologica.
Entrambe le disposizioni attuano, dunque, il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, secondo il quale il datore di lavoro è tenuto ad uniformarsi alla migliore scienza ed esperienza del momento storico in un dato settore. Tuttavia, il riferimento all’esperienza ed alla tecnica, al fine della definizione del contenuto dell’obbligo previsto dall’art. 2087 c.c. limita la portata di quella norma: non si tratta di adottare qualsiasi mezzo nuovo e non sperimentato, ma soltanto quegli strumenti che, parte del patrimonio tecnico-scientifico, si deve ritenere costituiscano utilizzazioni normali nel settore professionale di riferimento. Insomma, l’esperienza limita l’efficacia precettiva del riferimento alla tecnica ed è facile rilevare come tale riferimento non sia riprodotto dagli artt. 3 e 4 del decreto: dal che si potrebbe dedurre la necessità che il datore sia chiamato ad inseguire ogni sorta d’innovazione introdotta sul mercato, al fine di aggiornare il sistema antinfortunistico.
Non dovrebbe, tuttavia, dimenticarsi che il decreto n. 626/1994 ha previsto particolari procedure di certificazione della legittimità delle misure antinfortunistiche che il progresso tecnico-scientifico via via propone, investendo di tale compito appositi soggetti istituzionali. Inoltre, l’art. 6 prevede, per i progettisti dei luoghi o posti di lavoro, l’obbligo di scegliere macchine nonché dispositivi di protezione rispondenti ai requisiti di sicurezza previsti dalla legislazione. Ne consegue che il sistema, prima di imporne l’uso, seleziona, fra le diverse misure antinfortunistiche offerte dal progresso tecnico-scientifico, quelle conformi agli obiettivi previsti dal legislatore. Il principio dell’esperienza si è, pertanto, tradotto in un principio di “normalità” operativa e gestionale. A ben vedere, però, si tratta di un nuovo concetto di normalità: nel 2087 c.c., tale concetto era connesso alla pratica diffusa in un certo settore, con il rischio di ingenerare una pericolosa autoreferenzialità; nel decreto n. 626/1994, esso deriva da una valutazione espressa da organi istituzionali quali la Commissione consultiva permanente o il Ministero del lavoro, in merito alla conformità delle misure antinfortunistiche proposte dalla scienza e dalla tecnica agli standards normativi fissati dal legislatore.
Se questo è, ci si può allora interrogare sull’attuale valenza dell’art. 2087 c.c. A ben vedere, esso mantiene un’autonoma rilevanza sotto il profilo funzionale. Disciplinando una fattispecie obbligatoria in termini di clausola generale, rende le misure cautelari previste dai decreti veri e propri obblighi contrattuali, utili anche ad individuare i criteri per formulare il giudizio di colpa: il datore di lavoro potrà essere chiamato a tener conto del più elevato standard aziendale, che diventa sempre esigibile, al di là dell’impiego di misure antinfortunistiche oggettivamente meno rigorose.


10.4.1. Il Servizio di protezione e prevenzione

La riuscita dell’impostazione legislativa è legata “a doppio filo” alla previsione della partecipazione di soggetti dotati delle indispensabili capacità tecniche quali il servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente.
Per quanto riguarda il servizio di prevenzione, ai sensi dell’art. 8, il datore di lavoro è tenuto a designare uno o più lavoratori (da lui dipendenti) per occuparsi dei servizi di protezione e prevenzione; qualora le competenze interne non siano sufficienti, il datore di lavoro può fare ricorso a competenze esterne; in casi specifici (piccole imprese, lavorazioni non pericolose) il datore di lavoro può svolgere direttamente le attività di prevenzione (in quest’ultima ipotesi, egli deve trasmettere all’organo di vigilanza competente per territorio una dichiarazione attestante la capacità di svolgimento dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi; una dichiarazione attestante gli adempimenti dell’art. 4 e 11; una relazione sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali della propria azienda elaborata in base ai dati degli ultimi tre anni del registro; l’attestazione di frequenza del corso di formazione in materia di sicurezza e di salute).
La costituzione di un servizio interno - per il quale il legislatore manifesta comunque la preferenza - è obbligatoria quando si tratta di attività particolarmente pericolose o a forte rischio (centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, che richiedono maggiori garanzie di efficacia e di continuità dell’attività di prevenzione). Soltanto nel caso in cui non esistano le competenze necessarie all’interno dell’unità produttiva e/o dell’azienda (il che è da intendersi escluso quando essa sia dotata di un’elevata capacità occupazionale, corrispondente a più di 200 dipendenti, 50 nelle industrie estrattive), il datore deve procurarsele all’esterno. Volendo adeguare il servizio quanto più possibile alla specificità dei luoghi e dei rischi sul lavoro, la soluzione di organizzare una specifica struttura interna è, per il legislatore, la migliore garanzia dell’efficienza e della continuità del servizio assicurata, tra l’altro, dalla più facile reperibilità dei suoi addetti.
Il servizio deve avere un responsabile, designato dopo idonea consultazione del rappresentante per la sicurezza. Trattasi di persona in possesso di attitudini e capacità adeguate, soprattutto se rapportate agli importanti compiti che gli sono attribuiti. E’ utile notare che l’art. 22 del decreto non pone tra i destinatari della formazione il responsabile del servizio di prevenzione: il che fa desumere che egli debba essere già adeguatamente formato all’atto della sua designazione. Inoltre, il dipendente scelto dal datore non è tenuto ad accettare la designazione, a differenza di quanto accade, invece, per i lavoratori assegnati alla prevenzione incendi, evacuazione, pronto soccorso.
A voler fare una ricognizione dei compiti principiali assegnati al servizio, questi consistono in attività complementari e preparatorie di quelle proprie del datore di lavoro, che resta il primo destinatario degli obblighi di sicurezza: individuazione dei fattori di rischio, elaborazione di misure, sistemi e procedure, proposte di programmi di informazione e formazione, partecipazione alle consultazioni nelle riunioni periodiche, emissione di pareri circa l’idoneità dei dispositivi di protezione individuale da adottare. Non si tratta, dunque, di funzioni operative, fatta eccezione per quella di fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’art. 21: del mancato assolvimento degli obblighi di informazione rispondono datore, dirigenti, e preposti.
Il servizio prevenzione può, in concreto, essere chiamato ad occuparsi anche delle emergenze (organizzazione squadre antincendio, pronto soccorso ed evacuazione dei lavoratori), nonché di interventi volti ad evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la popolazione e deteriorare l’ambiente esterno. Tuttavia, non viene in alcun modo contraddetta la natura eminentemente consultiva di questo organismo e del suo responsabile. Proprio in tal senso, è corretto parlare di compiti e non di obblighi.
A ben vedere, l’obiettivo perseguito dal legislatore non è tanto quello di organizzare in azienda una nuova struttura formale, piuttosto quello di individuare alcune persone, dalle competenze specifiche, che siano in grado di garantire lo svolgimento dei compiti assegnati al servizio. Essi devono essere legati da rapporto di lavoro subordinato con il datore, che deve fornire loro il tempo ed i mezzi adeguati all’incarico conferito: devono, altresì, essere preservati da eventuali provvedimenti pregiudizievoli nei loro confronti, proprio perché, pur essendo collaboratori dell’imprenditore, la loro attività può dar luogo anche a dialettiche accese, se non a veri e propri conflitti fra poteri aziendali diversi.
Il servizio esterno richiede, da parte dell’imprenditore, una scelta particolarmente oculata: tale servizio deve essere adeguato alle caratteristiche dell’azienda e dell’unità produttiva, tenuto conto del numero dei lavoratori di cui dispone: della scelta e dell’operato del servizio continua a rispondere il datore di lavoro, salvo il caso dell’affidamento incolpevole.
La funzione assegnata al servizio è, essenzialmente, di tipo tecnico: essa non inciderà in alcun modo sulla ripartizione degli obblighi e delle responsabilità tra datori di lavoro, dirigenti e preposti: nessuna sanzione penale è prevista per il suo responsabile. Anche nel caso in cui il datore ricorra ad un servizio esterno, non è per ciò soltanto liberato dalla propria responsabilità; è evidente che, nel caso del servizio interno, i lavoratori assegnatari del servizio risponderanno in ragione delle competenze esercitate in tali qualità.
I membri del servizio di protezione e prevenzione non possono subire pregiudizio a causa di tale attività; inoltre, si precisa opportunamente che tale servizio è utilizzato dal datore di lavoro. Si tratta di disposizioni che possono sembrare tra loro in contraddizione: la prima lascia pensare ad una certa autonomia ed a una sorta di equidistanza rispetto agli interessi in gioco, mentre la seconda, pare orientare in senso diametralmente opposto. Il dettato normativo, tuttavia, lascia preferire l’individuazione di un servizio protezione e prevenzione come mero supporto tecnico del datore di lavoro: il che, come accade per il medico, non esclude, dato lo svolgimento di servizi altamente tecnici, la possibilità di garantire un’azione caratterizzata da un alto grado di imparzialità.
Ferma restando la responsabilità sul piano civile del responsabile del servizio di prevenzione e protezione - potendo, ovviamente, il datore di lavoro rivalersi su di lui per le conseguenze dannose derivanti dall’errata ed incompleta attività di consulenza interna o esterna fornita - sul piano penale è attribuibile soltanto la responsabilità per colpa generica derivante da condotta negligente, imperita o imprudente al pari di qualsiasi altro soggetto, nel caso si tratti di consulente interno-dipendente. Se si tratta di consulente esterno, invece, entra in gioco la c.d. colpa professionale secondo le regole generali del codice penale (artt. 42 - 43, in combinato disposto con l’art. 2236 c.c.) qualora, nell’esercizio della sua attività particolarmente qualificata, non abbia tenuto conto dello stato dell’arte o non abbia prestato la propria attività con diligenza, prudenza e perizia.
La responsabilità penale è, ovviamente, configurabile quando il responsabile del servizio sia un dirigente o un legittimo delegato del datore: è da ritenere, dunque, compatibile con la funzione di responsabile del servizio, la figura del delegato alla sicurezza, che avvalora la prassi di nominare responsabile chi aveva ricevuto in passato la delega in materia di sicurezza. Non pare, invece, cumulabile nella stessa persona il ruolo di responsabile per la prevenzione e protezione e quello del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, stante la diversità di funzioni e di mandato che riguardano le due figure.



10.4.2. Il medico competente

Il medico competente è uno degli “attori” stabili del sistema di sicurezza aziendale; come tale, egli deve possedere particolari titoli professionali che lo qualifichino. Del medico competente, il d. lgs. n. 626/1994 sottolinea l’aspetto di collaboratore del datore e del servizio di prevenzione e protezione, in ordine alla valutazione dei rischi; egli è, tuttavia, chiamato a svolgere un ruolo autonomo e distinto, con obblighi propri, sanzionati penalmente, dei quali è tenuto a rispondere sia verso l’azienda, sia verso la collettività. La sua nomina, a differenza del responsabile per la protezione e prevenzione, può essere oggetto di delega da parte del datore.
La centralità del medico competente era già stata riconosciuta dal d. lgs. n. 277 del 1991 - relativo all’attuazione di quattro direttive in tema di protezione contro i rischi da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici - che gli affidava gli accertamenti sulla salute dei soggetti esposti agli agenti inquinanti, la gestione delle visite di idoneità, la tenuta della cartella sanitaria e di rischio, la cura dei rapporti informativi con i lavoratori e i loro rappresentanti. Tuttavia, mentre nel decreto 1991 si prevede, ove possibile, che tale medico sia un dipendente del servizio sanitario nazionale, nel d. lgs. n. 626/1994 non esistono indicazioni, avendo il datore ampia facoltà di scelta: il medico può essere sia un libero professionista che un dipendente dell’imprenditore. In ogni caso, i costi relativi al suo compenso professionale sono sopportati dal datore, che è tenuto a fornirgli i mezzi ed assicurare le condizioni necessarie per lo svolgimento dei suoi compiti.
Al medico competente, il decreto n. 626/1994 affida funzioni assai importanti, tra cui rientrano: gli accertamenti preventivi e periodici, la formulazione dei giudizi di idoneità alla mansione specifica, la tenuta della cartella sanitaria e di rischio, la cura dei rapporti informativi, la comunicazione anonima dei risultati degli accertamenti clinici nel corso della conferenza annuale, la visita degli ambienti di lavoro almeno due volte l’anno e l’impostazione dei progetti di formazione ed informazione.
Qualora si trovi ad esprimere un giudizio di inidoneità a seguito degli accertamenti preventivi e periodici, il medico deve informare il datore ed il lavoratore. Il giudizio di idoneità del lavoratore, tuttavia, non è mai definitivo: è prevista la possibilità di ricorrere, entro trenta giorni dalla comunicazione, all’organo di vigilanza territorialmente competente che, all’esito di eventuali ed ulteriori accertamenti, potrà disporre la conferma, la modifica o la revoca del giudizio.
Il giudizio di idoneità del lavoratore alla specifica mansione può condizionare l’inserimento dell’attività produttiva ed il mantenimento del posto di lavoro. Parte della dottrina, a tal proposito, ha avallato l’esistenza di un diritto di spostamento ad altre mansioni”, anche inferiori, purché compatibili, sulla base della ritenuta prevalenza dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro rispetto all’interesse professionale acquisito. In tal senso, si era formalmente espresso il decreto n. 277/1991 (art. 8), in cui si affermava l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore inidoneo alle sue originarie mansioni ad altro incarico, anche se professionalmente inferiore, con conservazione della retribuzione. L’art. 3 del d. lgs. n. 626/1994, invece, si limita a ribadire l’obbligo di allontanare il lavoratore inidoneo, ma non offre alcuna indicazione specifica a proposito di soluzioni alternative dirette alla conservazione del posto di lavoro.
Una questione giuridica di rilievo consiste nell’accertare se gli artt. 15, 16, 17 del d. lgs. n. 626/1994 abbiano abrogato l’art. 5 St. lav., che pone un limite, penalmente sanzionato, alla possibilità di accertamenti sanitari da parte del datore.
Per riuscire a definire eventuali profili di incompatibilità tra le due normative occorre distinguere tra l’accertamento dell’idoneità del lavoratore e l’accertamento dell’infermità per malattia o infortunio. Il primo accertamento non è necessariamente connesso al sopravvenire di un evento lesivo o di una condizione patologica; viceversa, l’accertamento dell’infermità interviene proprio a seguito del sopravvenire di detto evento. Mentre l’art. 5 vieta al datore di svolgere entrambi questi tipi di accertamenti, il d. lgs. n. 626/1994 ne riconosce la legittimità. In tal senso, la normativa più recente dovrebbe porsi come implicitamente abrogativa della prima. Tuttavia, la questione del superamento si complica considerando le due discipline in oggetto sotto il profilo funzionale: mentre l’art. 5 Stat. lav. regola le modalità di controllo della giustificazione dell’assenza del lavoratore quando il datore di lavoro sospetti la non genuinità dell’allegato impedimento certificato dal medico curante del lavoratore, nel d. lgs. n. 626/1994, l’accertamento ed il controllo si inscrive esclusivamente in un’ottica di rafforzamento dei livelli di tutela prevenzionale del lavoratore. In questa seconda situazione, l’idoneità del lavoratore è valutata non in relazione alla tutela dell’interesse del datore allo svolgimento della prestazione di lavoro, ma alla salvaguardia della persona del lavoratore dal rischio specifico al quale è esposta durante la prestazione di lavoro. Non è, pertanto, scontata l’abrogazione tacita dell’art. 5 St. lav.


10.4.3. Il datore di lavoro

Si è già avuto modo di ricordare come, in materia di salute e sicurezza del lavoro, la tradizionale impostazione lavoristica e civilistica per la quale è sufficiente affermare che il datore di lavoro è il titolare del rapporto di lavoro, deve essere ripensata alla luce della natura penalistica delle sue molte responsabilità. In tal senso, è chiara la definizione di datore di lavoro come colui che secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa ha la responsabilità dell’impresa stessa o dell’unità produttiva in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa (art. 2 co. 1, d. lgs. n. 626/1994). Nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni, in particolare, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano i poteri di gestione ovvero il funzionario, non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale.
La giurisprudenza ha avuto modo di affermare che, negli enti o imprese a struttura complessa ed indifferenziata, occorre fare riferimento alla ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze. L’individuazione del destinatario della norma di prevenzione non deve essere necessariamente fatta con riferimento alla persona che rappresenta l’ente o la società, ma seguire la ripartizione dei compiti e delle funzioni al suo interno. Inoltre, la questione è ulteriormente complicata dal principio della personalità della responsabilità penale, da un lato, e dalla spersonalizzazione dei rapporti nelle organizzazioni anche imprenditoriali, dall’altro.
Al di là di ogni specifico profilo, è sufficiente rilevare come le normali dimensioni dell’azienda siano tali da imporre una ripartizione delle funzioni tra più soggetti: ciò porta ad escludere che, nella maggior parte dei casi, l’imprenditore possa provvedere personalmente a tutti gli adempimenti connessi con la sua qualità di datore di lavoro. Con l’intervento correttivo del decreto n. 242/1996, il legislatore ha preso atto che il dirigente non è soltanto l’alter-ego del datore ma, nella maggior parte dei casi, è lui stesso il datore di lavoro ai fini dell’applicazione della disciplina di sicurezza, uno per ciascuna unità produttiva. E’ certo che il provvedimento solleciterà le imprese a definire, con maggiore attenzione, visibilità e certezza, i propri referenti in materia di sicurezza.
Resta, comunque, confermata la tradizionale ripartizione tra datori di lavoro, dirigenti e preposti voluta dai decreti legislativi degli anni cinquanta. E resta l’importanza della riflessione sui due aspetti problematici della questione che sono la ripartizione e la delega di funzioni, aspetti che in giurisprudenza spesso si confondono ma che, ad una più corretta analisi dottrinale e metodologica, sono ben distinte. Per quanto concerne la ripartizione, il fascio di obblighi che la legge imputa al datore di lavoro, al dirigente ed al preposto trova il suo titolo originario ed esclusivo direttamente nella norma legislativa. E’ questa originaria ripartizione che la delega va ad alterare, attraverso il trasferimento da parte del datore di lavoro o del dirigente, di parti più o meno ampie della propria posizione di garanzia.
Sul versante della ripartizione, il d. lgs. n. 626/1994 configura un modello cumulativo, nel senso che la distribuzione dei compiti non implica che la responsabilità posta in capo ad un soggetto escluda automaticamente quella di un’altro: è quanto si evince dalle stesse norme sanzionatorie, le quali puniscono, seppur diversamente, per gli stessi obblighi, i datori, i dirigenti ed, in qualche caso, anche i preposti.
A ben vedere, il modello sembrerebbe caratterizzarsi per una sorta di “convergenza” verso la figura centrale, quella del dirigente, soprattutto dopo la creazione della nuova figura del dirigente/datore di lavoro. Anche il preposto che non ha compiti di organizzazione e di predisposizione delle misure protettive, piuttosto di sorveglianza e di controllo, vede estendersi l’area delle responsabilità dovendo, ad esempio, aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza o adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei lavoratori nonché per il caso di pericolo grave ed imminente. Tuttavia, poiché per le disposizioni generali il preposto sovrintende le attività esercitate e dirette da datore di lavoro e dirigente, la sua area di responsabilità sarà comunque limitata al controllo ed alla vigilanza.
Il decreto individua specificamente una serie di obblighi esclusivi del datore di lavoro, i quali si evincono dal combinato disposto dell’art. 1 co. 4 bis e dall’art. 89 co. 1. L’analisi delle norme si intreccia necessariamente con i profili di legittimità della delega: essa ha rappresentato lo strumento - di creazione fondamentalmente giurisprudenziale - con il quale si è cercato di risolvere il problema di conciliare la personalità della responsabilità penale con la spersonalizzazione dei rapporti nell’ambito di organizzazioni complesse, consentendo al soggetto obbligato di trasferire, in misura più o meno ampia, poteri, doveri e responsabilità connesse alla posizione di garanzia attribuita in ragione della ripartizione della responsabilità imposta dal legislatore.
Sulla delega, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale è sempre stato molto acceso; l’obiettivo è quello di consentire un razionale assetto organizzativo delle aziende, evitando di imputare obblighi e responsabilità a soggetti privi di ingerenza gestionale e colpire, al di là degli specifici e formali affidamenti, i veri titolari del potere organizzativo. La giurisprudenza, nel tempo, ha risolto la complessa questione riconoscendo la possibilità e l’efficacia penalmente scriminante della delega limitatamente alla presenza di specifici requisiti: dimensionali, visto che quest’ultima si giustifica soltanto se la complessità dell’azienda è tale da rendere indispensabile la realizzazione di una razionale suddivisione delle funzioni gestionali; formali, che implicano la possibilità di fornire la prova certa della stessa delega; specificatori, dai quali deriva l’indicazione di obblighi del datore di lavoro non delegabili.
Il decreto n. 626/1994, sul punto utilmente corretto dal d. lgs. n. 242/1996, ha specificato che la delega è ammissibile, tranne alcuni obblighi di carattere generale attinenti all’impostazione delle politiche e delle prassi di prevenzione. Tra questi rientrano: la valutazione dei rischi, la redazione del relativo documento, l’autocertificazione nelle aziende minori, la designazione del responsabile del servizio di prevenzione. Tuttavia, per gli obblighi richiamati e sanzionati all’art. 89 del d. lgs. n. 626/1994, esclusa risulta soltanto la delega di funzioni con efficacia scriminante, non la c.d. “delega di mera esecuzione”, formalmente esclusa soltanto per le disposizioni di cui all’art. 1 co. 4-ter. Circa il profilo dimensionale, è corretto precisare che anche nelle piccole imprese le responsabilità di prevenzione sono delegabili, seppur limitatamente alle modalità di adempimento semplificato per le stesse previste circa gli obblighi di valutazione dei rischi e di redazione del piano di sicurezza.


10.4.4. I lavoratori

I prestatori di lavoro, oltre ad essere soggetti tutelati e titolari di posizioni soggettive attive, sono individuati come destinatari dell’obbligo di sicurezza ex art. 5 del d. lgs. n. 626/1994 e sono, come tali, penalmente sanzionati: ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro ... conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro;inoltre, dopo l’elencazione di specifici obblighi, il legislatore precisa ulteriormente che essi contribuiscono -insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti - all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autoritàcompetente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro.
I criteri indicati - formazione, istruzione, mezzi forniti -concorrono a qualificare un dovere di cura contenuto entro i limiti della normalità: la norma riconosce l’esistenza di una sfera autonoma di azione del lavoratore rispetto alle condotte dovute in base alle regole tipizzate, conforme alla sua formazione ed ai mezzi ricevuti, soprattutto quando ci si trovi in un caso di urgenza per eliminare o ridurre deficienze o pericoli. Nel nuovo sistema, la posizione del prestatore non è più limitata ad una mera cooperazione, ma all’assolvimento di precisi obblighi, con un intreccio strettissimo tra diritto alla protezione della salute ed obbligazione di sicurezza.
Per quanto concerne i diritti dei lavoratori, sono diverse le disposizioni del decreto che individuano alcuni specifici diritti in capo ai prestatore di lavoro. Senza soffermarsi sui c.d. diritti di informazione e formazione, è sufficiente fare riferimento alla disposizione dell’art. 14 che, al primo comma, disciplina il potere dei lavoratori ad allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, senza subire alcun pregiudizio. E’, peraltro, doveroso riconoscere che una tale facoltà di allontanamento poteva ritenersi riconosciuta già in base al comune diritto dei contratti, sia richiamando l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) - in combinato con l’azione di adempimento di cui all’art. 1456 c.c. ed al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. - sia ricorrendo all’istituto della mora credendi, cui incorrerebbe il datore per mancata predisposizione delle misure di sicurezza, con garanzia, in entrambi i casi, della retribuzione.
L’art. 14 non pone alcun collegamento con le descritte norme generali: la dottrina è divisa nel considerare “speciale” questa disposizione, come tale capace di precludere il ricorso al comune diritto dei contratti. Nella scelta fra le possibili soluzioni interpretative, dovrà senza dubbio tenersi in giusta considerazione il principio, sancito nella legge delega n. 142/1992, secondo cui la nuova normativa non deve comportare un abbassamento dei livelli di tutela.
Nel caso specifico in cui il lavoratore utilizzi attrezzature munite di videoterminale, quando questo avvenga in maniera continuativa, sistematica ed abituale per almeno quattro ore consecutive, ha diritto ad una pausa di quindici minuti; in alternativa alla sospensione, il lavoratore dovrà interrompere il contatto con il video per lo stesso tempo ed eseguire altre attività. Dette modalità potranno essere stabilite dalla contrattazione collettiva anche aziendale: in mancanza, il lavoratore conserva il diritto alla sospensione per quindici minuti ogni quattro ed il medico competente può temporaneamente stabilire a livello individuale le modalità e la durata delle interruzioni.


10.5. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza

Si è già riflettuto adeguatamente sul fatto che l’ordinamento italiano avesse già una norma specificamente dedicata a riconoscere il diritto del lavoratori a dotarsi di specifiche rappresentanze a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Con l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, infatti, il legislatore aveva attribuito agli stessi lavoratori il diritto di costituire loro rappresentanze con finalità di controllo e di promozione delle misure di prevenzione all’interno delle aziende. Il legislatore del 1970 aveva lasciato alla comunità di rischio la facoltà di scegliere le forme e le modalità di costituzione delle rappresentanze stesse, riconoscendo implicitamente l’importanza dei movimenti spontaneisti che, verso la metà degli anni sessanta, avevano rivendicato con forza un loro ruolo prioritario attraverso l’esperienza del c.d. “gruppo omogeneo” e della “non delega”.
Diversamente da quanto lo Statuto dei lavoratori aveva deciso di fare con l’emanazione dell’art. 19, “riportando” le rappresentanze dei lavoratori in azienda (i consigli di fabbrica) nell’ambito dell’organizzazione sindacale esterna, con l’art. 9 si era individuato un “canale alternativo di rappresentanza” potenzialmente diverso nella composizione e nelle logiche di azione, funzionalmente specializzato nella tutela dell’interesse alla salute dei prestatori di lavoro. Tra l’altro, tale scelta avrebbe potuto proporsi come “modello apripista” per una possibile articolazione del sistema di rappresentanza in azienda (doppio canale), da noi tradizionalmente assestato sul canale unico, in conformità alla maggior parte dei Paesi europei come Spagna, Francia, Germania, Austria, Grecia, Belgio, Danimarca, Svezia e Gran Bretagna, dove quadro legale e prassi consolidate prevedono, accanto a rappresentanze generali dei lavoratori, la presenza di organismi con competenze specifiche in materia di salute e sicurezza.
Successivamente, la situazione è andata sostanzialmente consolidandosi in tutt’altra direzione: le rappresentanze a tutela della sicurezza sono state, di fatto, riassorbite nell’ambito delle rappresentanze sindacali aziendali dell’art. 19; l’art. 9 ha funzionato soltanto come supporto per il riconoscimento, in capo alle Rsa, anche dei diritti di informazione e dei poteri di controllo sull’ambiente di lavoro da esercitarsi in rappresentanza dei lavoratori occupati. A seguito di questo processo disindacalizzazione” delle rappresentanze ex art. 9”, la sicurezza del lavoro è diventata, ancor più che in passato, dominio delle politiche contrattuali e delle logiche di scambio in cui queste, necessariamente, si muovono, possibile anticamera della monetizzazione della salute dei prestatori di lavoro.
Nell’ottica illustrata, la disciplina dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di cui agli artt. 18 e 19 del d. lgs. n. 626/1994 non è altro che il risultato, da un lato, della presa d’atto dell’inutilità ed illusorietà - e quindi del fallimento - della formula promossa dall’art. 9 dello Statuto, e dall’altro, degli impulsi derivanti dall’intervento, non più rinviabile, di attuazione delle disposizioni comunitarie. Queste ultime, infatti, pur nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà - che non consente loro di far altro che rinviare alle norme e prassi dei singoli Paesi - optano decisamente per la presenza di rappresentanze con una funzione specifica in materia di protezione della salute e sicurezza.
Della sorte dell’art. 9 dello Statuto il decreto non dice nulla: se si tiene conto di quanto detta l’art. 98 del d. lgs. n. 626/1994, sembrerebbe doversi avvalorare la tesi dell’abrogazione implicita. Non mancano le opinioni favorevoli alla “conservazione” dell’ art. 9 St. lav., in ragione del principio che nega l’abbassamento dei precedenti livelli di tutela, effetto che si verificherebbe allorché i gruppi minoritari di lavoratori - quelli che non dovessero sentirsi adeguatamente tutelati dall’azione svolta dal rappresentante individuato ex art. 18 d. lgs. n. 626/1994 – rimanessero privi della tutela collettiva che l’art. 9 St. avrebbe loro precedentemente assicurato.
La specificità della nuova disciplina, tuttavia, fa apparire del tutto illogica la ribadita sopravvivenza dell’art. 9 St. lav. Né pare doversi dubitare che il nuovo modello, inteso nella sua complessità, garantisca più del precedente; lo si evince facilmente riflettendo sull’istituzionalizzazione della presenza e dell’azione di una rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza in tutte le aziende ed unità produttive, dotata di prerogative sicuramente più articolate ed incisive, ma anche di maggiori tutele rispetto alle rappresentanze ex art. 9. Ai rappresentanti individuati ex art. 18 d. lgs. n. 626/1994, infatti, viene estesa la specifica tutela prevista per i rappresentanti sindacali tout court, sebbene sia doveroso riconoscere che la maggior parte di essi sia già membro di Rsa o Rsu. Inoltre, la sopravvivenza dell’art. 9 legittimerebbe una “pericolosa” moltiplicazione delle rappresentanze, rendendo oltremodo complesso il coordinamento delle loro azioni. Né serve preservare l’art. 9 come norma di salvaguardia: l’art. 18, infatti, prevede che, accertata l’impossibilità di eleggere o designare i nuovi rappresentanti nell’ambito delle Rappresentanze sindacalmente costituite in azienda, sia possibile procedere all’elezione diretta dei lavoratori al loro interno, come specificamente previsto per le piccole imprese con meno di sedici dipendenti.


10.5.1. Sindacalizzazione e specializzazione dei rappresentanti per la sicurezza

Legificando una prassi applicativa in materia di rappresentanze dei lavoratori sulla salute e sicurezza, l’art. 18 del d. lgs. n. 626/1994 esclude - salvo il caso delle piccole aziende con meno di 16 dipendenti - che tali rappresentanze siano espressione diretta” della comunità di rischio. Inoltre, trattasi di rappresentanza legale necessaria dei lavoratori per tutte le questioni relative alla sicurezza sul lavoro: i rappresentanti, infatti, sono eletti o designati in tutte le aziende o unità produttive, ciò rispondendo ad un interesse di ordine pubblico alla gestione, anche collettiva, della salute dei lavoratori. Così, alla stregua di quanto sostenuto per datori di lavoro e lavoratori, anche i rappresentanti per la sicurezza diventano esecutori di compiti che il legislatore assegna a tutela di un interesse generale al miglioramento delle condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro.
E’ necessario interrogarsi adeguatamente sul concetto di rappresentanza necessaria: soltanto i rappresentanti qualificati dall’art. 18 possono esercitare le prerogative di controllo e di partecipazione disegnate nel decreto; in via transitoria, l’accordo interconfederale del 1995 individuava nelle Rsa aderenti alle Confederazioni firmatarie i titolari dei diritti di consultazione previsti nel decreto conferendo, altresì, legittimazione all’intervento suppletivo regolamentare del ministro.
Per quanto concerne le modalità di costituzione dei Rls, il decreto - conformemente alla direttiva che li individua come qualsiasi persona eletta scelta o designata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali (art. 10) - ne indica esclusivamente due: la designazione e l’elezione da parte dei lavoratori. Alla contrattazione collettiva è affidato il compito di definire le modalità di elezione, il numero (non meno di 1 fino a 200 dipendenti, 3 da 201 a 1000, 6 oltre 1000), i permessi retribuiti e gli altri strumenti per l’espletamento delle funzioni nonché le modalità e i contenuti della formazione. Resta la previsione dell’intervento suppletivo regolamentare del ministro unitamente all’indicazione del numero minimo dei rappresentanti in relazione al dato dimensionale delle aziende/unità produttive.
L’utilizzazione del terminedesignazione” giustapposto a quello di elezione lascia perplessi: una possibile differenza potrebbe essere individuata nel carattere più formalizzato della procedura elettiva rispetto a quella propria della designazione. Si potrebbe, ad esempio, ritenere che, in tutti i casi in cui vi siano candidature concorrenti, l’elezione sia la modalità da seguire.
Il ruolo rilevante assegnato dal legislatore alla contrattazione collettiva ha permesso di costruire un diretto collegamento tra i Rls e le nuove strutture sindacali in azienda, vale a dire le Rsu. In questo senso, la contrattazione sembra essere andata oltre gli spazi ad essa strettamente riservati dalla legge: essa, infatti, ha tentato di realizzare un utile contemperamento tra un modello di rappresentanza fondato sulla “legittimazione dal basso” da parte dei lavoratori ed un più “rassicurante” collegamento con le strutture sindacali in azienda. Per la verità, la contrattazione descrive un modello che privilegia il criterio elettorale ma, ove le Rsu siano già costituite, saranno i componenti di queste ultime a designare al loro interno gli Rls, seppur a condizione di una successiva positiva ratifica della designazione da parte dei rappresentati riuniti in assemblea.
La scelta diretta da parte dei lavoratori al loro interno è riservata ai casi in cui non esistano Rsu (in aziende o unità produttive in cui avrebbero potuto essere costituite), o in aziende o unità produttive con meno di sedici dipendenti, dove la costituzione delle rappresentanze sindacali ex art. 19 non è consentita pur essendo, anche in questo caso, liberi i lavoratori di costituire associazioni sindacali aziendali ai sensi e per gli effetti dell’art. 14 St. lav.
La locuzione generica utilizzata (“rappresentanze sindacali in azienda”) ha consentito ad una parte della dottrina di sostenerne il non necessario riferimento alle rappresentanze di cui al titolo III dello statuto: sarebbe sufficiente, cioè, ricollegarsi a rappresentanze che abbiano il carattere della sindacabilità. Tuttavia, tale soluzione alimenterebbe pericolose forme di concorrenza fra organismi “sindacali” di diversa legittimazione, potendo tradursi in improprie “corse al rialzo o al ribasso” nella rivendicazione delle misure di sicurezza.
L’individuazione della contrattazione collettiva del rappresentante per la sicurezza soltanto tra i membri delle Rsu, ove possibile, potrebbe suscitare perplessità circa la legittimità costituzionale di tale scelta ex art. 39 Cost. Non si deve, inoltre, dimenticare che, nel caso delle piccole imprese, il legislatore ha previsto anche la possibilità di individuare un unico rappresentante per più aziende nell’ambito territoriale o nel comparto produttivo, offrendo l’opportunità di sviluppare un nuovo modello organizzativo di rappresentanza territoriale e settoriale. Si tratta, tuttavia, di una soluzione tutt’altro che facile da attuare, a cominciare dalla concreta scelta del rappresentante e dall’utile esercizio delle importanti funzioni assegnategli, essendo chiamato ad affrontare problematiche di cui avrà una conoscenza soltanto esterna ed inevitabilmente superficiale. Inoltre, egli dovrà dedicarsi a tempo pieno a tale compito, senza potere attendere più alla propria attività lavorativa presso l’impresa che lo ha assunto. Il suo ruolo finisce inevitabilmente per ricalcare la figura classica di un rappresentante sindacale di professione, con il rischio di appiattirsi su posizioni di sterile conflittualità, a scapito della ricerca di nuove ed efficaci forme di collaborazione/partecipazione come vuole, invece, il legislatore comunitario.
L’evoluzione della rappresentanza sindacale in azienda, dalle Rsa alle Rsu a legittimazione elettorale, ridimensiona gran parte delle perplessità espresse in merito alle specifiche modalità di scelta del Rls, visto il globale assorbimento, anche quantitativo, dei Rls nelle Rsu: i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza saranno individuati fra i membri eletti nella Rsu, così da abilitarli ad esercitare le funzioni in materia di salute e sicurezza. La scelta adottata finisce, inevitabilmente, per sovraccaricare e confondere le diverse ed importanti funzioni assunte dalla rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori.
Una conseguenza immediata di tale sovrapposizione di funzioni in capo agli stessi rappresentanti si evince riflettendo sul diritto dei membri eletti della Rsu a disporre del tempo necessario allo svolgimento del loro incarico senza perdita di retribuzione. Per quanto attiene ai permessi, in particolare, è necessario sostenere che il “monte ore” indicato dalla contrattazione collettiva per i Rls sia da considerarsi come aggiuntivo rispetto a quello già spettante alla Rsu nel suo complesso. In particolare, le ore occorrenti all’assolvimento delle funzioni assegnate dal decreto n. 626/1994 non possono essere rigidamente prefissate - come al contrario avviene per i permessi sindacali - ma dovranno essere determinate in base alle specifiche esigenze delle singole realtà aziendali.


10.5.2. Le prerogative dei Rls. Loro efficacia

Arricchendo la succinta previsione dell’art. 9 St. lav., il d. lgs. n. 626/1994 attribuisce ai Rls diritti di informazione (e relativa documentazione aziendale), di accesso (ai luoghi ed ai documenti), di consultazione preventiva (valutazione dei rischi, designazione del responsabile e degli addetti al servizio di prevenzione ed alla gestione delle emergenze, organizzazione della formazione), di proposta e di controllo: l’efficacia di tali prerogative risulta assicurata anche dalla previsione di un severo sistema sanzionatorio a carico del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti, anche attraverso l’impiego di sanzioni penali.
Alla nuova figura del Rls viene garantita una posizione stabile ed attiva nell’individuazione e nella realizzazione di un più alto livello di protezione dei lavoratori, mediante la tecnica della procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore: tecnica che non toglie a quest’ultimo la titolarità o la responsabilità delle relative decisioni ma mira a favorire soluzioni consensuali o quantomeno elaborate sulla base della ponderazione delle diverse valutazioni degli attori ammessi al procedimento decisionale. In tal senso, la disciplina non può escludere che la partecipazione possa sfociare nella stipulazione di contratti o in momenti conflittuali, quando i diritti di informazione e di confronto siano disattesi o l’eventuale trattativa non dia gli esiti sperati; tale conflitto può esprimersi non soltanto nelle forme dell’autotutela ma anche ricorrendo a “vie istituzionali”, ovverosia alle autorità di vigilanza e controllo.
Novità interessante è costituita dal diritto dei Rls ad una formazione specifica, anche se l’art. 22 del d. lgs. n. 626/1996 non indica su chi ricada esattamente quell’obbligo: non sicuramente sui rappresentanti, ma non sarebbe giusto neppure porlo integralmente sulle spalle delle imprese, anche se è ovviamente corretto che vi si provveda durante l’orario di lavoro. La soluzione adottata è stata quella del progetto concordato in sede di Comitati paritetici, progetti idonei ad accedere anche ai finanziamenti pubblici nazionali e comunitari: è escluso che la frequenza ai corsi di formazione possa consentire di detrarre il tempo impiegato dal “monte ore” di permessi sindacali previsti dalla legge e dai contratti.
A voler analizzare la tipologia delle sanzioni poste in capo a datori e dirigenti che non abbiano consentito il pieno dispiegarsi delle prerogative riconosciute dal legislatore al Rls, potrebbe inizialmente rilevarsi come le sanzioni penali siano riservate alle violazioni dei poteri di controllo sull’applicazione delle misure di sicurezza ed alle ipotesi di preventiva consultazione. Non sono, invece, contemplate sanzioni per quanto concerne la violazione del diritto di accesso ai luoghi, di informazione sui rischi relativi alle singole attività e sulle prescrizioni impartite dagli organi di vigilanza, a partecipare alle riunioni periodiche, a formulare osservazioni nel corso di visite ispettive. In tali casi, è doveroso domandarsi se si tratta di precetti privi di sanzione o se sia comunque possibile ricorrere agli artt. 89 co. 2, lett. b) e 90 co. 1, lett. b): posto che si tratta di comportamenti che si concretizzano in ostacoli tali da impedire l’applicazione delle misure prevenzionali, possono essere correttamente ricondotti all’ampio alveo delle c.d. funzioni di controllo.
Ai Rls non è attribuita alcuna responsabilità sul piano prevenzionale; ne deriva la mancata previsione di sanzioni. Al di là del profilo sanzionatorio, tuttavia, il Rls, nell’esercizio delle sue funzioni, è sempre tenuto al rispetto del segreto in ordine ai processi lavorativi cui viene a conoscenza. Tale principio è ribadito nell’Accordo interconfederale Confindustria del 1995, là dove si precisa che il rappresentante, ricevute le notizie e la documentazione, è tenuto a farne un uso strettamente connesso alla sua funzione nel rispetto del segreto industriale. Il confine tra informazione e riservatezza, infatti, non può essere tracciato a priori, ma esige un preventivo contemperamento di interessi da ricercarsi rispetto ad ogni singola fattispecie. La Convenzione dell’Ufficio internazionale del lavoro del 22 giugno 1993 n. 174 precisa, tuttavia, che il rispetto del segreto non può tradursi in danno dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente.


10.5.3. Il nuovo modello collettivo di sicurezza
Uno degli aspetti più importanti della strategia promossa dal d.lgs. n. 626/1994 è sicuramente rappresentato dallo spostamento dell’attenzione del legislatore dal rispetto delle regole a quello dell’individuazione di nuovi strumenti operativi di tutela collettiva della sicurezza dei lavoratori. Tra questi rientra anche il notevole impulso dato alla diffusione delle logiche partecipative nella gestione della sicurezza in azienda: informazione e consultazione danno contenuto alla nozione comunitaria di partecipazione equilibrata, che non arriva mai a trasformarsi in un sistema basato sulla codeterminazione.
Sul ruolo della contrattazione è necessario distinguere due profili: quello gestionale, che comprende la costituzione dei Rls, l’individuazione delle modalità per l’interruzione dell’attività e le procedure di trasporto degli agenti biologici; quello normativo, in cui ci si deve confrontare con la rilevanza del valore in gioco – la salute e la sicurezza dei lavoratori – e la sua soggettiva indisponibilità, tanto da arrivare quasi a dubitare della legittimazione della contrattazione collettiva come fonte di regole prevenzionali.
A questo proposito, è opportuno riflettere sul fatto che l’obiettivo di realizzare la migliore prevenzione possibile sui luoghi di lavoro non può essere limitato ad una mera prospettiva di sicurezza ed igiene, ma comprende la tutela dell’ambiente di lavoro in senso lato, anche con riferimento alla riduzione dei fattori di scomodità e di stress; non mancano, nel decreto, norme di prevenzione dal contenuto elastico che necessitano di specificazione; il collegamento tra Rls e Rsu impone un necessario coordinamento funzionale tra i soggetti della prevenzione e coloro che esercitano i poteri contrattuali in azienda.
Anche in considerazione di ciò, in assenza di logiche partecipative veramente avanzate, sembra che la contrattazione collettiva sia chiamata ad assumere un ruolo importante anche in sede di definizione degli standards di tutela, sia per dare contenuto alle lacune dell’intervento legislativo, sia per incrementare il livello degli standards previsti dal decreto. L’assegnazione di un tale ruolo alla contrattazione collettiva all’interno di un sistema di tipo partecipativo non dovrebbe meravigliare più di tanto: esso risulta, infatti, pienamente coerente con i caratteri strutturali del nostro modello di relazioni industriali, basato proprio sulla coesistenza di logiche e prassi contrattuali, da un lato, e logiche e prassi partecipative, dall’altro, che alcuni hanno tradotto nella felice formula di “contrattazione partecipativa”, formula che mostra opportunamente come sulle tradizionali funzioni contrattuali si siano innestate esperienze e strumenti di consultazione e partecipazione.
Si tratta, ovviamente, di un modello che si pone idealmente a metà strada tra quello negoziale/conflittuale e quello codeterminativo. Del resto, in materia di sicurezza, le modalità di partecipazione dei lavoratori sono assai diverse nei Paesi europei. In alcuni di questi, in particolare la Germania e la penisola scandinava, l’approccio codeterminativo e specialistico è, senz’altro, più maturo; in altri, Francia e Spagna in testa, esso è scarsamente diffuso e praticato; in altri ancora, tra cui proprio l’Italia, un ruolo determinante è giocato dalle rappresentanze sindacali e dalla contrattazione collettiva.
Ciò non muta, tuttavia, l’orientamento di fondo del decreto e, con esso, di tutta la legislazione normativa in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro: la fonte normativa unilaterale resta più garantista di quella convenzionale e la repressione penale si dimostra più efficace dei possibili rimedi civili, sia individuali che collettivi. In ragione di ciò, si può continuare a spiegare il perché di una tecnica definitoria che insiste ancora sulle cautele da osservare in ogni possibile situazione ed evenienza, con il rischio di creare una normazione torrentizia e di scarsa effettività, anche in ragione dell’insofferenza e della disaffezione da parte dei suoi stessi destinatari. Una maggior fiducia nella fonte negoziale potrebbe ovviare anche a questo pericolo.


10.5.4. Il ricorso al procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28. Utilizzabilità
Una questione giuridica di non poco conto è quella che attiene alla possibilità per i Rls di ricorrere alla procedura di cui all’art. 28 St. lav.: tale ricorso, infatti, va incontro ad evidenti limiti oggettivi e soggettivi, sia perché gli ostacoli alla piena realizzazione delle prerogative riconosciute dal decreto non sembra essere perfettamente coincidente con la nozione di antisindacalità, sia per il fatto che – ai fini della legittimazione attiva - i Rls non possono essere considerati organismi locali delle associazioni sindacali nazionali.
Per ovviare alle difficoltà tecnico-giuridiche connesse all’esperibilità del “rimedio”, è stato presentato un disegno di legge per consentire la piena applicativa del procedimento ex art. 28, conferendone la relativa legittimazione attiva al Rls. Nello stesso disegno di legge si configura, altresì, la possibilità per gli stessi Rls di intervenire, nonché di costituirsi parte civile nei processi penali in materia di igiene e sicurezza. All’esperibilità dell’art. 28 St. lav. osterebbe, inoltre, anche la disposizione dell’art. 20 del ricordato disegno di legge, laddove viene riconosciuta agli organismi paritetici territoriali la funzione di organo decisionale di prima istanza in merito a controversie sorte in sede di esercizio dei diritti di rappresentanza, formazione ed informazione previsti dalle norme.
Il ricorso all’art. 28 St. lav. non sarebbe, tuttavia, l’unico rimedio collettivo a tutela della sicurezza: l’art. 19 co. 1 lett. o), consente al rappresentante di fare ricorso alle autorità competenti allorché ritenga insufficienti le misure di sicurezza adottate in azienda e/o i mezzi impiegati per attuarle. Tale ricorso-denuncia potrebbe essere presentato non soltanto ai servizi Asl o all’Ispettorato del lavoro ma anche, direttamente, all’autorità giudiziaria. L’azione del Rls, infatti, si inscrive tra le funzioni tipicamente attribuibili ad un “organismo esponenziale degli interessi di una collettività” cui viene concessa, in via esclusiva, la legittimazione ad esperire un determinato rimedio, i cui risultati andranno a vantaggio di tutti gli interessati. Con le dovute precisazioni e distinzioni, potrebbe trattarsi di una fattispecie simile a quella riscontrata nell’art. 4 co. 6, della legge n. 125 del 1991 - di derivazione anch’essa comunitaria - dove si riconosce al solo Consigliere di parità regionale la legittimazione ad agire in giudizio per la rimozione di eventuali discriminazioni a carattere collettivo. La tendenza normativa che si evince dalla legittimazione di ipotesi di tal tipo, infatti, è quella di sostenere l’opportunità di affidare ad apposite istanze specializzate la tutela degli interessi di una collettività di lavoro (v. esperienza francese). Resta, ovviamente, inteso che nel contesto partecipativo disegnato dal decreto legislativo il ricorso agli organi di vigilanza ed al giudice dovrebbe essere considerato come extrema ratio.


10.5.5. Gli organismi paritetici
La previsione che dispone la costituzione, a livello territoriale, di specifici organismi paritetici in materia di salute e sicurezza nell’ambiente di lavoro tra le organizzazioni sindacali dei datori e dei lavoratori è destinata ad assolvere due precipue funzioni: la prima attiene all’orientamento ed alla promozione di iniziative formative nei confronti dei lavoratori; la seconda mira alla creazione di una sede di prima istanza per la soluzione di controversie sorte nell’applicazione dei diritti di rappresentanza, informazione e formazione previsti dalle norme vigenti. Tale funzione conciliativa - se opportunamente esercitata e definita nei suoi passaggi procedurali, che il legislatore ha purtroppo evitato di indicare - potrà servire sicuramente ad un utile raffreddamento dei possibili conflitti, in modo da favorire soluzioni di mediazione degli opposti interessi, valorizzando appieno l’ottica partecipativa del nuovo modello di sicurezza.
Non può essere considerato un organismo, quanto piuttosto un procedimento partecipativo, quello previsto dall’art. 11 del d. lgs. n. 626/1994, che introduce l’obbligo di una riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi per le aziende con più di quindici dipendenti; la riunione potrà essere indetta anche su richiesta del Rls nelle imprese di minori dimensioni, quando si siano verificate significative modifiche delle condizioni di rischio.
Alla riunione sono tenuti a partecipare tutti i soggetti aventi compiti in materia di sicurezza. Una delle principali attività dei suoi partecipanti consiste nella discussione del documento predisposto dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 4 del decreto; a tal fine, infatti, la riunione va convocata almeno una volta l’anno per affrontare l’esame congiunto del documento valutativo dei rischi e del piano prevenzionale, compresi i programmi di informazione e formazione dei lavoratori. Resta inteso che la riunione dovrà essere altresì convocata in occasione di eventuali significative variazioni delle condizioni di esposizione al rischio o quando siano introdotte nuove tecnologie di produzione che possano avere riflessi sulla salute e sicurezza degli addetti.


11. Il nuovo sistema sanzionatorio
L’importanza della disposizione che consente al rappresentante della sicurezza di fare ricorso alle autorità competenti – esercitando sul punto una piena discrezionalità decisionale in merito all’opportunità di promuovere il ricorso agli organi di vigilanza in caso di inadempienze datoriali - si apprezza soprattutto se interpretata alla luce dell’art. 19 e seguenti del d. lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, in cui viene previsto che il personale ispettivo della Asl, una volta accertata l’infrazione commessa dal datore, deve impartire delle prescrizioni volte a regolarizzare la situazione, prescrizioni che, se rispettate dal destinatario, estinguono il reato commesso.
L’istituto della prescrizione ha come scopo quello di eliminare la contravvenzione accertata e risponde al principio secondo cui, nella materia in esame, più che puntare all’applicazione della pena occorre realizzare il superamento delle condizioni di pericolo per l’incolumità dei lavoratori. Purtroppo, in passato non è stato così: al di là della problematica della salute e sicurezza, il nostro ordinamento giuridico si è andato, in generale, via via caratterizzando per un utilizzo sempre più eccessivo della sanzione penale anche rispetto ad illeciti di modesta pericolosità; tale situazione ha provocato l’inevitabile appesantimento dell’apparato giudiziario, cui ha fatto seguito il rischio di una diffusa impunibilità.
Si è, pertanto, imposta l’esigenza di sottoporre il sistema ad una decisa depenalizzazione, trasformando cioè gran parte delle sanzioni penali previste in illeciti amministrativi. Del resto, limitatissimi erano stati gli effetti prodotti dall’applicazione dei due provvedimenti generali di depenalizzazione, la legge 24 dicembre 1975, n. 706 e la legge 24 novembre 1981 n. 689. Per la riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro bisogna pertanto attendere la legge delega 6 dicembre 1993, n. 499, alla quale si deve, appunto, l’introduzione dell’istituto della prescrizione come sopra descritto. Sulla base della citata legge delega, infatti, il Governo ha provveduto all’emanazione di tre distinti decreti: il d. lgs. 24 marzo 1994 n. 211 in materia di omesso versamento delle ritenute previdenziali; il d. lgs. 9 settembre 1994 n. 566 in materia di lavoro minorile, lavoratrici madri e lavoro a domicilio; il d. lgs. 19 dicembre 1994 n. 758, in materia di salute e sicurezza, che ha previsto un singolare meccanismo estintivo per le contravvenzioni, modellato sullo schema della “diffida amministrativa ad adempiere”.
In base al decreto n. 758/1994, infatti, l’organo ispettivo competente, nel momento in cui detta al datore di lavoro le prescrizioni che dovrà rispettare, fissa un termine per la regolarizzazione non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario per provvedere, prorogabile per un periodo non superiore a sei mesi in base a giustificati motivi; contestualmente, provvede a darne comunicazione al Pubblico Ministero (art. 20), che ne prende nota in quanto notizia di reato, aprendo il procedimento penale, che resta tuttavia sospeso ex lege (artt. 22 e 23). Entro e non oltre 60 giorni dallo scadere del termine prefissato per la regolarizzazione, l’organo ispettivo procederà a controllare se la prescrizione impartita sia stata eseguita, secondo le modalità ed i termini indicati (art. 21). Nel caso in cui la prescrizione dell’autorità di vigilanza sia stata osservata, il contravventore sarà ammesso a pagare una sanzione amministrativa nei successivi 30 giorni: all’avvenuto pagamento, l’organo ispettivo informerà il Pubblico Ministero, il quale sarà tenuto a chiederà al giudice delle indagini preliminari l’archiviazione del procedimento. Nell’ipotesi in cui la prescrizione non sia stata osservata - entro 90 giorni dalla scadenza del termine di prescrizione – l’organo ispettivo informerà il Pubblico Ministero che darà corso all’azione penale, essendo venuta tecnicamente meno la causa che aveva determinato la sospensione (art. 21).


11.1. La responsabilità penale delle persone giuridiche in Francia (art. 121-2 Code du travail)
Un aspetto che sta assumendo sempre maggior rilievo nel contesto del sistema sanzionatorio relativo alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori attiene alla possibilità di attribuire responsabilità penali direttamente in capo alle persone giuridiche datori di lavoro. Al di là delle importanti riflessioni della dottrina, un esempio in merito alla praticabilità di tale soluzione lo offre l’ordinamento francese: ai sensi e per gli effetti dell’art. 221-7 Code du travail, infatti, possono essere dichiarate penalmente responsabili le persone giuridiche che abbiano - per imperizia, imprudenza, negligenza, noncuranza o violazione di un’obbligazione di sicurezza imposta da legge o da regolamento – causato la morte di un uomo o gli abbiano procurato lesioni personali colpose. Inoltre, l’art. 223-1 Code du travail prevede la responsabilità della persona giuridica/datore di lavoro per il solo fatto di aver esposto un lavoratore al rischio immediato di morte o lesione personale o infermità permanente, in conseguenza della violazione di un’obbligazione di sicurezza.
Interessanti sono anche due nuove figure delittuose che conducono alla punibilità della persona giuridica ai sensi dell’art. 225-16 Code du travail: quando ottenga da una persona, abusando della sua vulnerabilità o della sua situazione di dipendenza, la fornitura di servizi non retribuiti o di una retribuzione manifestamente non adeguata all’importanza del lavoro; quando sottometta una persona a delle condizioni di lavoro incompatibili con la dignità umana. Per le ipotesi descritte, le pene accessorie indicate dall’art. 131-39 Code du travail sono lo scioglimento della società, la chiusura definitiva o temporanea dello stabilimento e l’esclusione dai pubblici mercati.


12. Sull’opportunità di emanare un Testo Unico in materia di salute e sicurezza
E’ stato opportunamente ricordato come la legge n. 833 del 1978 di istituzione del Sistema sanitario nazionale avesse ritenuto di conferire al Governo un’ apposita delega per l’emanazione di un Testo Unico relativo alle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro (art. 24). Il tentativo di arrivare ad un Testo Unico in materia di salute e sicurezza negli ambienti di vita e di lavoro è stato più volte perseguito senza esito, almeno fino all’emanazione del d. lgs. n. 626/1994.
Tuttavia, a volerlo considerare come Testo Unico, il d. lgs. n. 626/1994 lascerebbe molto a desiderare: la finalità principale di un Testo Unico, infatti, consiste nella razionalizzazione e coordinamento di un materiale normativo che, così com’è, non soddisfa più il principio irrinunciabile della certezza del diritto. Sotto questo specifico aspetto, purtroppo, è doveroso constatare che l’art. 98 del decreto n. 626/1994 si limita a disporre che restano in vigore, in quanto non specificamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti. Non è, infatti, possibile interpretare il terminespecificamente” come espressamente modificate”. Se così fosse, potremmo affermare che il decreto chiarisce ed assicura la permanenza in vigore di tutte le norme non esplicitamente abrogate dallo stesso; purtroppo, il legislatore del 1994 affida all’interprete il compito di individuare - caso per caso, accanto alle disposizioni cui fa espressamente rinvio - tutte le norme anteriori implicitamente superate o sostituite dalla nuova disciplina. In tal senso, il decreto n. 626 del 1994 non può essere davvero considerato un Testo Unico.
Quanto considerato non sminuisce, anzi sicuramente rafforza, l’esigenza di un vero Testo Unico di consolidazione e di razionalizzazione, che possa fornire chiarezza al dato legale ed agevolarne la praticabilità e l’effettiva esigibilità. In tal senso, si spiega il valore dell’incarico - affidato nel 1996 ad una Commissione tecnica dall’allora Ministro del lavoro Treu - per la predisposizione di un Testo Unico in tema di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Tale incarico, peraltro, ben si inscrive nella prospettiva aperta dalla Risoluzione del Consiglio dell’8 luglio 1996 sulla semplificazione legislativa ed amministrativa nel settore del mercato interno, tra le cui finalità veniva indicata anche quella di realizzare un miglior collegamento fra la norma astratta di legge con la concretezza dei problemi pratici che emergono quotidianamente nelle diverse realtà applicative.
La logica seguita dalla Commissione è stata, innanzitutto, quella di giungere alla sistematizzazione e razionalizzazione del materiale normativo esistente, limitando al massimo le modifiche ma non rinunciando a procedere a spostamenti, accorpamenti, innovazioni per renderlo meglio utilizzabile. Per realizzare ciò, la tecnica utilizzata ha comportato la necessità di distinguere norme primarie generali e di indirizzo, da una disciplina “secondaria”, di tipo prevalentemente regolamentare, che è stata espressamente richiamata nel Testo Unico così da attribuirle organicità e stabilità senza, tuttavia, arrivare ad impedire la necessaria evoluzione, in ragione del progresso tecnico e del mutamento del quadro legislativo nazionale e comunitario.
La scelta operata pone, in ogni caso, delicati problemi di gerarchia delle fonti, soprattutto per quanto concerne il conferimento di forza giuridica alla c.d. disciplina “secondaria”. La questione richiama il difficile contesto che si apre di fronte ad ogni operazione di delegificazione: è necessario, infatti, definire quali norme siano delegificabili, il ruolo da assegnare alla contrattazione collettiva e, soprattutto, se sia possibile arrivare a delegificare gli stessi decreti legislativi con cui l’ordinamento recepisce le direttive Ue. Sotto questo specifico profilo, la dottrina costituzionalistica prevalente ritiene che una successiva legge ordinaria non può delegificare un decreto legislativo di recepimento di direttive Cee; ciò comporterebbe la possibilità che le disposizioni dettate nel decreto di attuazione siano abrogate e superate anche da mere disposizioni regolamentari e statutarie successive.
Non sembra, del resto, possibile arrivare ad una sostanziale delegificazione di tutto il complesso meccanismo di recepimento: le direttive comunitarie richiedono di poter innovare l’ordinamento nazionale - in ragione del principio del primato che connota la normativa comunitaria - e di imporsi anche su leggi future rispetto a quelle destinate alla loro attuazione. In questo caso, ciò avviene in un contesto di discipline assai dettagliate, nei confronti delle quali l’esigenza di delegificazione è ancora più utile. Ovviamente, tale normativa di dettaglio potrebbe essere considerata “secondaria” soltanto in senso genetico, ma non anche dal punto di vista sostanziale: le norme regolamentari avrebbero, infatti, forza normativa in virtù della legge delegante, come accade in ipotesi di rinvio legge-contratto collettivo, in cui le disposizioni di quest’ultimo acquistano la stessa efficacia generale propria della fonte che quel rinvio (normativo) ha deciso di operare, essendo ciò funzionale al compito di integrazione loro assegnato.


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[nota 1]
A vedere i lavori parlamentari, si evince come - a fronte di una primitiva formulazione dell’art. 9 Statuto che prevedeva un esplicito collegamento tra le rappresentanze per la sicurezza e le Rsa di cui al successivo art. 19 - la definitiva stesura della norma fa propria una formulazione più generica, con ciò mostrando chiaramente l’intenzione di non voler realizzare tale necessaria identificazione, senza tuttavia arrivare, altrettanto necessariamente, ad escluderla.