Categoria: Giurisprudenza amministrativa (CdS, TAR)
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T.A.R. Veneto Venezia, Sez. 1, 08 luglio 2011, n. 1156 - Mobbing


 

 

 

 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 140 del 2008, proposto da:

S.M., rappresentato e difeso dagli avv. Giovanni Attilio De Martin, Maria Chiara De Martin, con domicilio presso l'intestato Tribunale ai sensi dell'art. 25, I comma del DLgs n. 104/2010;

contro

Ministero della Difesa - Roma - (Rm), rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distr.le Venezia, domiciliata per legge in Venezia, San Marco, 63;

nei confronti di

Comando Generale Arma dei Carabinieri;

per

il risarcimento dei danni provocati da "mobbing";

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa - Roma - (Rm);

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 giugno 2011 il dott. Claudio Rovis e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

Fatto

 

Con il presente gravame l'odierno ricorrente, maresciallo capo in servizio presso l'ufficio Personale del Comando Regione Carabinieri del Veneto, Sezione "avanzamento e documentazione", pretende di essere risarcito per il danno patrimoniale e non patrimoniale subito a causa di supposte condotte di mobbing - l'interessato individua due episodi (la mancata partecipazione alla parata militare per la Festa dell'Arma inquadrato nel battaglione e l'avvenuta sostituzione, da parte del maresciallo M., nelle funzioni svolte presso l'Ufficio documentazione) che, a suo dire, sarebbero sintomatici di una condotta "mobbizzante" - asseritamente poste in essere nei suoi confronti dai superiori gerarchici nel periodo temporale ricompreso tra il 2005 e il 2007.

L'Amministrazione resistente, nel costituirsi in giudizio, evidenzia l'infondatezza del ricorso, anzitutto per l'insussistenza dell'antigiuridicità dei comportamenti posti in essere e, comunque, dell'elemento soggettivo dell'intento vessatorio e del nesso di causalità tra i fatti asseritamente lesivi e l'evento dannoso affermato: donde l'insussistenza di qualsiasi elemento che possa far ritenere integrati nel caso di specie gli estremi delle condotte di mobbing.

La causa è passata in decisione all'udienza del 26 maggio 2011.

 

Diritto

 

 

In termini generali, per mobbing (da lavoro) si intende un complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere, nell'ambiente di lavoro, nei confronti di un dipendente e che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l'isolamento e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità.

Quanto agli specifici presupposti che devono ricorrere perché possa parlarsi di mobbing, giova innanzi tutto rammentare che tale condotta illecita non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (CdS, VI, 6.5.2008 n. 2015; T.A.R. Piemonte, I, 8.10.2008 n. 2438). Per configurare il mobbing non è, quindi, sufficiente un singolo comportamento, dovendosi piuttosto riscontrare una diffusa ostilità proveniente dall'ambiente di lavoro che si realizzi in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, avente di mira l'emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte (TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877; TAR Puglia, Lecce, III, 10.9.2007 n. 3143; TAR Lombardia, Milano, III, 8.3.2007 n. 403).

Inoltre è stato posto in rilievo che il tratto strutturante del mobbing - tale da attrarre nell'area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro - è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Pertanto, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, I, 11.8.2009 n 4581; TAR. Lazio, Roma, III, 14.12.2006 n. 14604). In altri termini, il mobbing - proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo - non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877).

La sussistenza di una condotta mobbizzante deve dunque essere esclusa qualora la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare "singulatim" elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (CdS, IV, 21.4.2010 n. 2272; VI, 1.10.2008 n. 4738; V, 27.5.2008 n. 2515).

D'altra parte, secondo la giurisprudenza (TAR Perugia, I, 24.9.2010 n. 469), nell'esaminare i casi di preteso mobbing il giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica. Dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato. Tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.

In estrema sintesi, dunque, gli elementi strutturali della condotta mobizzante sono dati dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore.

Ai fini risarcitori è quindi necessaria: 1) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. Civ., sez. lav., 17/02/2009 n. 3785); 2) la prova del danno all'integrità subito; 3) che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (cfr, ex plurimis, Cass. civ., III, 8.7.2010 n. 16148).

In tale contesto, peraltro, non è revocabile in dubbio che l'azione risarcitoria da mobbing rinvenga il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c.: al che accede, in modo pacifico, il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria, con la conseguenza che, ricondotta la controversia in questione nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro - in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 c.c. - il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sè riferibile (in tal senso, ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 8.5.2007 n. 10441). Ne consegue che laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva, difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal senso, CdS, VI, 13.4.2010 n. 2045).

Orbene, alla luce delle surriferite coordinate ermeneutiche il ricorso non merita accoglimento.

A prescindere, infatti, dalla circostanza che l'asserito comportamento "mobbizzante" tenuto dall'Amministrazione si basa su due sole vicende e che l'Amministrazione ha analiticamente confutato la prospettata idoneità offensiva della propria condotta con argomentazioni che appaiono adeguatamente documentate, il ricorrente non fornisce alcuna prova sul piano oggettivo della "condotta persecutoria" contestata - sotto il profilo oggettivo, invero, i denunciati comportamenti posti in essere dall'Amministrazione resistente nei confronti dell'odierno ricorrente non si manifestano con carattere unitariamente persecutorio e discriminante - e sul piano soggettivo dell'intento persecutorio dell'Amministrazione datrice di lavoro.

In relazione, peraltro, agli episodi descritti dall'interessato il collegio, oltre a ribadire che il giudice, nel valutare l'operato del datore di lavoro, deve tener conto delle peculiarità di un contesto lavorativo qual è quello militare (nel quale non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate), osserva che la documentazione prodotta dall'Amministrazione resistente - e cioè la relazione 19.3.2008 del Comandante della Regione Carabinieri del Veneto a cui la difesa erariale si richiama (e che, proprio in ragione della provenienza, non può essere ragionevolmente tacciata di mancanza di obiettività): a tal proposito, peraltro, è appena il caso di osservare che se è vero che la difesa dell'Amministrazione non ha contestato l'effettività degli "affermati e perpetrati episodi" (cfr. la memoria 12.5.2011 del ricorrente), è altresì vero che ne ha contestato la sua qualificazione come "mobbing" per insussistenza degli elementi caratterizzanti tale istituto, sicchè non appare comprensibile come, in applicazione dell'art. 115, I comma cpc, ciò dovrebbe "condurre.....all'accoglimento del ricorso" - offre elementi che smentiscono la prospettazione del ricorrente.

S'intende far riferimento, in particolare, alla vicenda secondo cui il ricorrente, autodefinitosi "autore e creatore del progetto di lavoro strutturale eseguito con criteri "rivoluzionari" non tradizionali....che hanno consentito all'Amministrazione la catalogazione di tutte le carriere dei Militari dell'Arma del Veneto" mediante la realizzazione di un "supercasellario", sarebbe stato inopinatamente sostituito, "senza alcun preavviso, come responsabile dell'area, con il maresciallo UPS M.". Ora, in disparte la considerazione che l'avvicendamento del personale nei vari uffici è fisiologico nella Pubblica Amministrazione e, soprattutto, nell'ambiente militare; in disparte, altresì la considerazione che il menzionato "supercasellario" sembra ridursi "a un database (foglio excel), già esistente e creato dal maresciallo D.N. in forza anni prima al Servizio amministrativo ed utilizzato dagli appuntati S. e F. prima dell'arrivo del maresciallo S." (cfr. la relazione dell'Amministrazione, pag. 7): nel caso di specie la sostituzione, a cui non appare connessa alcuna intenzionalità vessatoria, risulta giustificata anche da ragioni organizzative, e cioè dalla "incapacità dello S. a confrontarsi con serenità nei rapporti interpersonali, per cui sorgeva l'impellente necessità e l'opportunità di collocare altro maresciallo nel medesimo ufficio, allo scopo di migliorare i rapporti di comprensione, così come infatti è accaduto con l'arrivo del maresciallo M. che, prima dell'assenza per malattia del maresciallo S., era già riuscito a riportare un clima distensivo e collaborativo tra tutti i militari presenti, invogliandoli a lavorare in piena sintonia tra loro e riuscendo anche ad eliminare qualsiasi arretrato" (cfr. la relazione cit., pag. 12).

Quanto, poi, all'ulteriore episodio relativo alla "Grande Uniforme Storica", non vi è alcun motivo per dissentire da quanto affermato dal Comandante della Regione secondo cui il 31 maggio 2007 il ricorrente, dopo aver svolto le prove per la cerimonia della Festa del'Arma come guardia in GUS, "chiese un colloquio con il suo Capo ufficio e nella circostanza segnalò di non gradire la partecipazione alla cerimonia....A tale proposito giova ricordare che lo S., lo stesso giorno, si recava presso l'infermeria....ove rappresentava, al medico presente, un suo "disagio" nell'indossare la Grande Uniforme in occasione delle cerimonie. Tale circostanza convinse il Capo di Stato M.re....a non impiegare lo S. per la Festa dell'Arma, allo scopo di prevenire improvvise assenze che avrebbero potuto compromettere il complessivo buon esito della cerimonia". Tale assunto risulta peraltro confermato dallo stesso difensore del ricorrente, che nell'atto introduttivo del presente giudizio afferma espressamente che "l'avere ormai 42 anni pone certamente un qualche disagio al ricorrente, non fosse altro per la circostanza di trovarsi a sfilare con colleghi molto più giovani di lui e senza funzioni di comando: uno tra i tanti".

Tenuto conto di quanto precede, dunque, il Collegio ritiene che i suesposti episodi di (asserito) conflitto tra il ricorrente e l'Amministrazione militare manchino - ancorchè considerati cumulativamente - di qualsiasi sistematicità, e siano comunque riferibili alla normale condotta del datore di lavoro: donde l'insussistenza dei presupposti, non essendo in essi ravvisabile alcun intento discriminante nei confronti del ricorrente, per accogliere le istanze istruttorie dal medesimo formulate.

Ma, come si è detto, manca del tutto la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio dell'Amministrazione.

Ne consegue che il presente gravame deve essere respinto perché infondato.

In considerazione della particolarità delle questioni trattate sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.