Categoria: Commissione parlamentare "morti bianche"
Visite: 28897

SENATO DELLA REPUBBLICA

XVI LEGISLATURA

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE COSIDDETTE «MORTI BIANCHE»

TERZA RELAZIONE INTERMEDIA SULL’ATTIVITÀ SVOLTA


Approvata dalla Commissione nella seduta del 17 gennaio 2012

Relatore sen. Oreste TOFANI

I N D I C E
1. L’organizzazione dei lavori della Commissione
1.1. Le finalità dell’inchiesta
1.2. Gli strumenti dell’inchiesta
1.2.1. Le audizioni e i sopralluoghi
1.2.2. L’istituzione di gruppi di lavoro
1.2.3. Le acquisizioni di documenti
1.2.4. Le relazioni
2. L’inchiesta della Commissione: il sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in Italia
2.1. Premessa
2.2. Il monitoraggio sull’attuazione della nuova disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro
2.3. Il completamento dell’attuazione del «testo unico»
2.4. Il ruolo del Governo. Le politiche di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali
2.5. Il ruolo delle Regioni e delle Province autonome. I comitati regionali di coordinamento
2.6. La costruzione dei sistemi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro nelle diverse Regioni italiane
2.7. Il quadro statistico degli infortuni e delle malattie professionali
2.7.1. I dati definitivi del 2010
2.7.2. I dati provvisori dei primi nove mesi del 2011
3. Gli approfondimenti su temi particolari
3.1. Gli infortuni legati alle macchine e attrezzature da lavoro. Il problema del settore agricolo-forestale
3.2. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore delle attività pirotecniche
3.3. La qualificazione dei formatori per la sicurezza sul lavoro
3.4. La ricerca e l’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro
3.5. Le malattie professionali legate all’esposizione da amianto
3.6. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti e la qualificazione delle imprese del settore edile
4. I sopralluoghi della Commissione: gli infortuni ed il sistema di prevenzione sul territorio
4.1. Sopralluogo a Bologna (31 gennaio-1º febbraio 2011)
4.2. Sopralluogo a Firenze (27-28 marzo 2011)
4.3. Sopralluogo a Rocca Cencia (29 marzo 2011)
4.4. Sopralluogo a Trento (17-18-19 aprile 2011)
4.5. Sopralluogo a Bari (29-30 maggio 2011)
4.6. Sopralluogo a Napoli (26-27 giugno 2011)
4.7. Sopralluogo a Cagliari (10-11 luglio 2011)
4.8. Sopralluogo a Potenza (11-12 settembre 2011)
4.9. Sopralluogo ad Arpino (19 settembre 2011)
4.10. Sopralluogo ad Aosta (16-17 ottobre 2011)
4.11. Sopralluogo a Barletta (6-7 novembre 2011)
4.12. Sopralluogo ad Avellino (7-8 novembre 2011)
4.13. Sopralluogo ad Ancona (11-12 dicembre 2011)
5. Considerazioni conclusive


 


1. L’organizzazione dei lavori della Commissione
1.1. Le finalità dell’inchiesta
Sebbene il fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali in Italia abbia mostrato negli ultimi anni un trend decrescente, il che rappresenta un segnale certamente positivo, i numeri restano tuttavia ancora troppo elevati ed inaccettabili per un paese civile. Occorre quindi intensificare ulteriormente gli sforzi per la prevenzione e il contrasto del fenomeno che, come rilevato anche nelle precedenti relazioni intermedie, devono concentrarsi su tre direttrici fondamentali: la formazione/informazione dei lavoratori e delle imprese; i controlli sull’applicazione delle norme; il coordinamento fra tutti i soggetti sociali ed istituzionali competenti.
Anche in ragione di questi motivi il Senato della Repubblica ha ritenuto opportuna l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»1. Ciò è avvenuto, la prima volta, nel corso della XIV Legislatura con deliberazione del 23 marzo 2005. Nel corso della XV e della XVI legislatura il Senato ha ritenuto necessario non interrompere il lavoro prodotto dalla Commissione e, con successive deliberazioni, rispettivamente in data 18 ottobre 2006 e 24 giugno 2008, ne ha disposto la ricostituzione.
La Commissione istituita nella XVI legislatura si è posta in una logica di stretta continuità con quelle delle legislature precedenti, com’è testimoniato anche dalla sostanziale conferma degli obiettivi dell’inchiesta, individuati dall’articolo 3 della deliberazione istitutiva, secondo il quale la Commissione, nel corso della propria attività, accerta in particolare:
a) la dimensione del fenomeno degli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo al numero delle cosiddette «morti bianche», alle malattie, alle invalidità e all’assistenza alle famiglie delle vittime, individuando altresì le aree in cui il fenomeno è maggiormente diffuso;
b) l’entità della presenza dei minori con particolare riguardo ai minori provenienti dall’estero e alla loro protezione ed esposizione a rischio;
c) le cause degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alla loro entità nell’ambito del lavoro nero o sommerso e al doppio lavoro;
d) il livello di applicazione delle leggi antinfortunistiche e l’efficacia della legislazione vigente per la prevenzione degli infortuni, anche con riferimento alla incidenza sui medesimi del lavoro flessibile o precario;
e) l’idoneità dei controlli da parte degli uffici addetti alla applicazione delle norme antinfortunistiche;
f) l’incidenza complessiva del costo degli infortuni sulla finanza pubblica, nonché sul Servizio sanitario nazionale;
g) quali nuovi strumenti legislativi e amministrativi siano da proporre al fine della prevenzione e della repressione degli infortuni sul lavoro;
h) l’incidenza sul fenomeno della presenza di imprese controllate direttamente o indirettamente dalla criminalità organizzata;
i) la congruità delle provvidenze previste dalla normativa vigente a favore dei lavoratori o dei loro familiari in caso di infortunio sul lavoro.
La Commissione, composta, ai sensi dell’articolo 2 della deliberazione istitutiva, da venti senatori – nominati dal Presidente del Senato in proporzione al numero dei componenti i Gruppi parlamentari – e presieduta dal senatore Oreste Tofani, si è insediata il 23 luglio 2008.

1.2. Gli strumenti dell’inchiesta
1.2.1. Le audizioni e i sopralluoghi

Le audizioni, svoltesi nel corso delle sedute plenarie nonché dei sopralluoghi, sono state intese ad abbracciare l’intero arco dei temi posti ad oggetto dell’inchiesta.
Le audizioni tenutesi in sede plenaria possono distinguersi in quelle di carattere generale (relative a soggetti istituzionali pubblici o alle parti sociali) e in quelle concernenti settori o problematiche specifici, benché, naturalmente, in questa seconda tipologia siano stati affrontati anche profili di interesse trasversale.
I sopralluoghi della Commissione hanno avuto luogo in varie parti del territorio nazionale e, in un’occasione, anche all’estero. Essi hanno lo scopo di raccogliere informazioni sulle circostanze di eventi specifici (in particolare gravi incidenti sul lavoro) o di situazioni di carattere generale concernenti i problemi e l’organizzazione del sistema di tutela della sicurezza sul lavoro in determinati ambiti produttivi o territoriali.
Oltre a testimoniare, quindi, la doverosa attenzione e vicinanza delle istituzioni parlamentari nel caso di infortuni o di situazioni di difficoltà legate alla sicurezza dei lavoratori, tali missioni hanno consentito e consentono di acquisire contezza, direttamente dai soggetti istituzionali e sociali che con tali fenomeni quotidianamente si confrontano, di dati, difficoltà e soluzioni concrete legate alla sicurezza del lavoro, la cui conoscenza al di fuori dei contesti territoriali o settoriali di riferimento sarebbe oltremodo difficile.
Dall’inizio della sua attività, la Commissione ha svolto finora 87 audizioni in sede plenaria e 29 sopralluoghi conoscitivi, di cui 1 all’estero e 28 in Italia.

1.2.2. L’istituzione di gruppi di lavoro
Come già in altre legislature, inoltre, al fine di approfondire più compiutamente alcuni specifici profili dell’inchiesta, sono stati istituiti dieci gruppi di lavoro, i quali hanno affiancato la loro attività a quella del plenum della Commissione, fornendo importanti spunti e approfondimenti.
I gruppi in questione sono dedicati ai seguenti settori: edilizia, costruzioni e appalti pubblici (coordinato dal senatore De Luca); personale della pubblica amministrazione e controlli pubblici antinfortunistici (coordinato dal senatore De Angelis); malattie professionali (coordinato dal senatore Roilo); infortuni domestici (coordinato dalla senatrice Colli); agricoltura (coordinato dal senatore Conti); lavoro minorile e lavoro sommerso (coordinato dalla senatrice Maraventano); trasporti ed infortuni in itinere (coordinato dal senatore Morra); prevenzione e formazione (coordinato dalla senatrice Bugnano); verifica dello stato di attuazione delle nuova normativa di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, e al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, (coordinato dalla senatrice Donaggio); attività produttive (coordinato dalla senatrice Spadoni Urbani).
All’attività di ciascun gruppo hanno inoltre partecipato – secondo la possibilità prevista dal regolamento interno – alcuni collaboratori della Commissione.

1.2.3. Le acquisizioni di documenti
Le tematiche trattate dai documenti acquisiti riflettono, in genere, quelle delle audizioni svolte dalla Commissione plenaria, dalle delegazioni di missione e dai gruppi di lavoro. Molti di questi contributi sono stati illustrati, in sede di audizione, dai soggetti estensori e del loro contenuto, pertanto, si darà conto nel prosieguo della presente relazione.

1.2.4. Le relazioni
La Commissione, in stretta aderenza al proprio mandato istituzionale, ha svolto un ampio lavoro di indagine, attraverso gli strumenti prima richiamati (audizioni, sopralluoghi ed acquisizioni di dati e documenti), da un lato approfondendo alcuni aspetti specifici di un fenomeno certamente complesso e variegato, per offrire al Parlamento e al Governo un migliore quadro conoscitivo e, di conseguenza, eventuali proposte di miglioramento delle norme e delle procedure esistenti; dall’altro ponendosi come elemento di stimolo e di raccordo per l’azione dei diversi soggetti pubblici e privati chiamati ad operare per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Ai sensi dell’articolo 6 della deliberazione istitutiva, la Commissione ha riferito su questo vasto lavoro d’inchiesta, tuttora in corso, e sulle indicazioni e proposte operative che ne sono scaturite, mediante due relazioni intermedie annuali sull’attività svolta (Doc. XXII-bis n. 1 e n. 3), presentate e discusse rispettivamente il 21 ottobre 2009 e il 12 gennaio 2011 davanti all’Assemblea del Senato, che ha poi approvato in entrambe le occasioni uno specifico atto di indirizzo al Governo, teso a favorire una sempre più efficace attività di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
In modo analogo, la presente relazione intermedia intende dare conto del lavoro svolto dalla Commissione d’inchiesta durante il suo terzo anno di attività.


2. L’inchiesta della Commissione: il sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in Italia

2.1. Premessa
Nel suo terzo anno di attività la Commissione d’inchiesta ha proseguito il lavoro avviato nei due anni precedenti su alcuni importanti temi e, nel contempo, si è occupata di nuovi argomenti via via venuti alla sua attenzione, sempre nell’ambito dei compiti ad essa affidati dalla delibera istitutiva. Come in passato, questa nuova fase dell’inchiesta ha preso le mosse dalle conclusioni e dalle proposte contenute nella precedente relazione intermedia sul secondo anno di attività nonché dalle direttive impartite al Governo dall’Assemblea del Senato nella risoluzione approvata il 12 gennaio 2011 dopo il relativo dibattito.
In particolare, nell’atto d’indirizzo, pur riconoscendo la riduzione intervenuta negli ultimi anni nel numero degli incidenti mortali e degli infortuni sui luoghi di lavoro, anche grazie all’adozione di un corpus organico di norme, si è ribadita la necessità di assicurare il completamento, in tempi rapidi, dell’attuazione della nuova normativa di riferimento introdotta, sulla scorta della legge delega 3 agosto 2007, n. 123, dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, (chiamato ormai, anche se impropriamente, «testo unico» delle disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), anche alla luce delle successive modifiche e integrazioni, procedendo all’adozione dei vari atti di normazione secondaria.
L’atto d’indirizzo sottolinea inoltre la necessità di accrescere il coordinamento e le sinergie fra tutti gli enti istituzionali preposti alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, sia centrali che periferici; di rendere più incisivi i controlli e la repressione delle infrazioni in materia di salute e sicurezza del lavoro (specie per il lavoro sommerso ed irregolare e lo sfruttamento del lavoro minorile); di promuovere la diffusione della cultura della sicurezza, non solo attraverso la formazione/informazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, ma anche mediante appositi insegnamenti all’interno della scuola e dell’università, di assumere adeguate iniziative legislative e amministrative per aumentare la sicurezza del lavoro nel settore degli appalti, fissando regole più certe e selettive, non perseguendo il ricorso al massimo ribasso quale criterio di valutazione delle offerte, accrescendo la qualificazione delle imprese e contenendo la pratica del subappalto.
Anche nel suo terzo anno di attività, dunque, oltre ad approfondire alcuni temi specifici di particolare rilievo (di cui si dirà in dettaglio più avanti), la Commissione ha seguito con attenzione il completamento dell’attuazione della riforma introdotta dal testo unico. In particolare, in questa fase si è ritenuto opportuno iniziare un approfondimento teso a verificare lo stato di avanzamento e gli eventuali aspetti critici del processo di attuazione del testo unico nelle varie Regioni italiane, anche perché la nuova normativa ha affidato proprio alle Regioni e alle Province autonome il governo e il coordinamento dei sistemi territoriali di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

2.2. Il monitoraggio sull’attuazione della nuova disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro
Le attività di tutela della salute e della sicurezza del lavoro in Italia trovano oggi il loro principale riferimento nella nuova disciplina recata dalla legge delega n. 123 del 2007 e, soprattutto, dal relativo decreto legislativo n. 81 del 2008 (il già citato «testo unico») alla cui stesura, sul finire della precedente legislatura, ha peraltro significativamente contribuito la stessa Commissione d’inchiesta. Come già ricordato nelle precedenti relazioni intermedie, con l’adozione della nuova disciplina, l’ordinamento italiano ha riunito per la prima volta in un corpus finalmente organico ed esaustivo le varie norme di una materia complessa e multiforme e definito in maniera puntuale istituti e figure prima non chiaramente riconoscibili.
Ciò ha comportato notevoli esigenze di adeguamento per tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti nel sistema della prevenzione degli infortuni e delle malattie sul lavoro, ponendo una serie di problemi interpretativi e applicativi nonché, soprattutto da parte del mondo imprenditoriale, richieste di semplificazione di alcuni adempimenti ritenuti eccessivamente formali o burocratici e di rimodulazione dell’apparato sanzionatorio.
Il successivo decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106, ha apportato correzioni ed integrazioni al testo unico. La Commissione d’inchiesta ha seguito con attenzione l’iter di elaborazione e di approvazione del nuovo testo, fornendo anche le proprie osservazioni e valutazioni al Governo e alle Commissioni di merito.
La disciplina risultante è sicuramente esaustiva e in linea con gli standard giuridici comunitari ed internazionali, come la Commissione ha avuto modo di verificare nel corso della sua inchiesta (si vedano le precedenti relazioni intermedie). Naturalmente molte questioni rimangono ancora aperte ed occorrerà verificare concretamente l’efficacia della nuova disciplina, la cui attuazione non è purtroppo ancora del tutto completata.
Per queste ragioni, nel suo terzo anno di attività la Commissione ha continuato il monitoraggio della riforma, del suo iter di attuazione e dei relativi problemi, anche attraverso l’apposito gruppo di lavoro coordinato dalla senatrice Donaggio. Certamente la «fase di rodaggio» può ormai dirsi superata: molti progressi sono stati compiuti, tuttavia molto rimane ancora da fare. Da un lato, mancano ancora alcuni atti normativi secondari destinati a regolare specifici settori di attività economica, sebbene quasi tutti quelli previsti siano stati già emanati o siano comunque prossimi all’emanazione.
Dall’altro lato, come già accennato nel paragrafo precedente, uno degli aspetti cruciali riguarda l’attuazione del testo unico a livello territoriale, da parte dei soggetti istituzionali e delle organizzazioni datoriali e sindacali delle varie Regioni.
La nuova disciplina ha infatti attribuito alle Regioni e alle Province autonome le principali competenze di programmazione, coordinamento e controllo delle attività di prevenzione e di contrasto al fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali sul territorio, sia di quelle svolte dalle amministrazioni locali che di quelle realizzate dagli uffici periferici delle amministrazioni statali. La sede istituzionale nella quale si esercitano le suddette competenze sono i comitati regionali di coordinamento, già istituiti dall’articolo 27 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e disciplinati dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 dicembre 2007, i quali sono stati poi ulteriormente confermati e rafforzati dall’articolo 7 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008. Tali organismi sono formati da rappresentanti delle amministrazioni statali e locali compenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro e da rappresentanti delle parti sociali (organizzazioni datoriali e sindacali): essi gestiscono concretamente le attività di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali in ambito locale e assicurano il necessario raccordo tra il livello decisionale centrale e quello locale. Si tratta quindi di organismi di grande importanza, la cui attività dovrebbe essere adeguatamente valorizzata.
Per tali ragioni, in questo terzo anno di lavoro la Commissione, nel proseguire il monitoraggio del processo di attuazione del testo unico, ha inteso verificare l’andamento del processo nei diversi territori italiani, soffermandosi in particolare sul ruolo delle regioni e delle province autonome e dei rispettivi comitati regionali di coordinamento.
A tal fine, la Commissione ha avviato un confronto diretto con i rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome – in particolare con gli assessori alla salute – e ha svolto missioni in varie regioni del Paese (a cominciare da quelle nelle quali non si era ancora recata in questa legislatura), incontrando i soggetti istituzionali e sociali responsabili dei sistemi di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in ambito locale. Questa attività di approfondimento è ancora in corso, ma il quadro che sta emergendo sembra confermare che, se da un lato sono stati compiuti notevoli progressi nell’attuazione della nuova disciplina e nelle attività di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali, dall’altro però esistono ancora molte lacune e ancora molte, troppe differenze tra una Regione e l’altra nel livello e nell’organizzazione del sistema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Come ha confermato l’inchiesta della Commissione, tali differenze e asimmetrie si riscontrano poi anche a livello settoriale e nel confronto tra grandi e piccole imprese. Mentre infatti le disposizioni del testo unico sono state sostanzialmente recepite e applicate nelle grandi e medie imprese industriali, molti ritardi si registrano ancora tra le piccole imprese di settori come l’agricoltura, l’edilizia e l’artigianato. Le ragioni sono sia di carattere strutturale che culturale: si tratta infatti di settori con un tessuto produttivo molto frammentato, formato da aziende di piccole o piccolissime dimensioni, che hanno meno risorse e competenze e che più di altri stanno soffrendo l’attuale crisi economica. A ciò si aggiunge spesso la mancanza di una adeguata cultura della sicurezza, che porta molti operatori a ritenere l’applicazione delle regole della prevenzione come un mero aggravio di costi o, nel migliore dei casi, un appesantimento burocratico da adempiere in modo formale e, per così dire, senza una vera convinzione.
In questi settori e in queste realtà la sicurezza diventa quindi spesso più difficile da garantire e non a caso il numero degli incidenti e delle morti che si registrano sono sempre tra i più alti. La cosa è ancora più drammatica se si pensa che, nelle piccole imprese, i titolari lavorano gomito a gomito con i dipendenti e sono quindi le prime vittime degli infortuni, spesso anche mortali. Le associazioni di categoria negli ultimi anni hanno fatto molto per formare i loro associati e creare una sempre maggiore consapevolezza e sensibilità su questi temi, soprattutto in quei settori come l’edilizia e l’artigianato dove operano gli organismi paritetici tra datori di lavoro e sindacati. Tuttavia ci sono anche molte resistenze e alcune aziende non solo sono ancora restie ad applicare le norme del testo unico ma, se possono, cercano addirittura di aggirarle. Ad esempio c’è ancora molta diffidenza nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e dei rappresentanti territoriali dei lavoratori per la sicurezza (RLST), questi ultimi introdotti dal decreto legislativo n. 81 del 2008 (articolo 48) proprio per consentire la presenza di queste importanti figure di garanzia anche nelle realtà di minori dimensioni con pochi o pochissimi lavoratori, attraverso una rappresentanza a livello territoriale o settoriale per più imprese, evitando eccessivi aggravi per le aziende stesse.
Purtroppo la crisi economica degli ultimi anni non ha aiutato, accrescendo la precarietà delle piccole imprese e spingendo molte di esse a tagliare i costi, cominciando spesso proprio da quelli della sicurezza ritenuti magari «superflui», in una visione culturalmente distorta. A ciò si lega il fenomeno del lavoro irregolare e sommerso, che è ancora diffuso, anche in settori (come i servizi) che fino a poco tempo fa sembravano esserne esclusi. Da una parte ci sono operatori senza scrupoli, i quali non esitano a praticare una vera e propria concorrenza sleale nei confronti delle aziende oneste; dall’altra la crisi rischia di indurre anche aziende corrette, in crescente difficoltà, a entrare in tutto o in parte nel sommerso. In queste condizioni l’esperienza dimostra che i livelli di tutela della sicurezza calano drammaticamente e le statistiche degli incidenti lo testimoniano chiaramente.
Queste dinamiche sono particolarmente evidenti anche nel settore degli appalti e dei subappalti, dove il ricorso al criterio del massimo ribasso nella valutazione delle offerte spinge molte aziende, specialmente negli ultimi livelli della catena degli affidamenti, a comprimere fortemente i costi per offrire prezzi competitivi: anche in questo caso, una delle prime voci di spesa che viene tagliata è quella per la sicurezza.
In conclusione, nella valutazione della concreta attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, a fronte di innegabili e positivi risultati, si riscontrano purtroppo tuttora, a livello territoriale e settoriale, una serie di ritardi e incongruenze, delle vere e proprie «zone d’ombra», sulle quali è indispensabile intervenire. Il lavoro d’inchiesta della Commissione intende dare un contributo in tale direzione, nella consapevolezza che illuminare tali zone, colmare le lacune e superare le differenze ancora esistenti rappresenta oggi il passaggio decisivo per una sempre più efficace azione di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

2.3. Il completamento dell’attuazione del «testo unico»
Il primo passo per il potenziamento della prevenzione e del contrasto agli infortuni e alle malattie professionali è appunto il completamento del processo di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008. In proposito, le più importanti attività sono naturalmente svolte o coordinate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Come confermato direttamente dal ministro, professoressa Elsa Fornero, durante l’audizione del 13 dicembre 2011, tali attività procedono in maniera costante e hanno prodotto, nel corso dell’ultimo anno, importanti risultati.
Infatti, anche se, come già accennato nel paragrafo precedente, non è ancora stata completata l’emanazione di tutti i provvedimenti di «secondo livello» del testo unico, occorre comunque evidenziare come il processo di attuazione abbia ormai raggiunto una fase piuttosto avanzata.
In particolare, è stato quasi completato il quadro istituzionale di riferimento previsto dal testo unico, preposto a delineare, nell’ambito della competenza «tripartita» tra amministrazioni centrali, amministrazioni locali e parti sociali, le strategie nazionali per la definizione e il sostegno delle azioni a favore della salute e sicurezza sul lavoro. Infatti, sono stati costituiti ed operano regolarmente:
a) il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale dell’attività di vigilanza (articolo 5 del decreto legislativo n. 81 del 2008), sede in cui si discute tra amministrazioni centrali e Regioni degli indirizzi nazionali per le politiche di prevenzione e di vigilanza. Tale organismo, costituito presso il Ministero della salute, ha discusso di temi di grande rilievo, quali, ad esempio, la campagna nazionale per la prevenzione degli infortuni nei settori delle costruzioni e dell’agricoltura o, ancora, la definizione di indirizzi comuni – tra Stato e Regioni – per lo svolgimento delle rispettive attività di vigilanza;
b) la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (articolo 6 del testo unico), organo a composizione tripartita che include rappresentanti dei Ministeri, delle Regioni e delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, la quale, costituitasi nel marzo del 2009, ha effettuato varie riunioni affrontando argomenti di grande rilevanza (si pensi, per tutti, alle malattie professionali) e predisponendo documenti di indirizzo per gli operatori e per i lavoratori. La Commissione si articola in nove gruppi o comitati «tecnici» di lavoro, che svolgono le varie attività istruttorie. Tra i documenti elaborati dalla Commissione (tutti divulgati anche tramite lettera circolare e poi pubblicati sul sito istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali), si possono ricordare, a titolo di esempio:
– in data 17 novembre 2010, le indicazioni per la valutazione dello stress lavoro-correlato (articolo 28, comma 1-bis, del testo unico), da tempo attese da tutti gli operatori pubblici e privati per la rilevanza che tale «nuova» malattia professionale ha ormai assunto nel contesto lavorativo odierno. Le indicazioni sono state poi divulgate nell’apposita circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 18 novembre 2010 e, infine, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 304 del 30 dicembre 2010;
– le procedure operative per la corretta gestione della «fornitura» di calcestruzzo nei cantieri edili, approvate il 19 gennaio 2011;
– l’individuazione del concetto di «eccezionalità» per l’utilizzo delle attrezzature di lavoro per il sollevamento «in sicurezza» di persone, documento approvato anch’esso nella riunione del 19 gennaio 2011;
– in data 19 gennaio 2011, l’identificazione delle «esposizioni sporadiche e a debole intensità» (c.d. ESEDI) all’amianto, ai sensi dei commi 2 e 4 dell’articolo 249 del decreto legislativo n. 81 del 2008;
– le circolari sull’«impatto» dei regolamenti comunitari REACH e CLP sugli agenti chimici di cui al Titolo IX del decreto legislativo n. 81 del 2008, approvate nella riunione del 20 aprile 2011;
– sempre in data 20 aprile 2011, una banca dati per la valutazione del rumore nei cantieri edili, ai sensi dell’articolo 190, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008;
– il documento che individua, ai sensi dell’articolo 30, comma 5, del decreto legislativo n. 81 del 2008, le mancate corrispondenze tra i modelli di organizzazione e gestione della salute e sicurezza elaborati secondo le linee guida UNI-INAIL o BS 18001 e gli elementi indicati nell’articolo 30 del testo unico, approvato dalla Commissione consultiva sempre in data 20 aprile 2011;
– l’approvazione di un documento sulla presentazione delle «buone prassi» a tutela delle «differenze di genere» in materia di salute e sicurezza sul lavoro, approvato nella riunione del 21 settembre 2011, ai fini della loro validazione;
c) il Comitato consultivo per l’aggiornamento dei valori limite dell’esposizione professionale e dei valori limite biologici relativi agli agenti chimici (articolo 232, comma 1, decreto legislativo n. 81 del 2008), insediatosi nel luglio 2011 e che ha già svolto le proprie attività in relazione al recepimento (entro il 18 dicembre 2011) dei valori di esposizione di cui alla direttiva della Commissione europea n. 2009/161/UE;
d) i già citati comitati regionali di coordinamento (articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008), ormai presenti in ogni regione, sedi nelle quali le Amministrazioni locali, con la partecipazione delle parti sociali, discutono delle rispettive attività e le pianificano tenendo conto degli indirizzi provenienti dalla «cabina di regia» nazionale di cui all’articolo 5 del testo unico. (Di questi importanti organismi si parla in dettaglio nel paragrafo 2.5.)
Inoltre, a fine settembre 2011, è stata costituita presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali la Commissione sugli interpelli (articolo 12 del decreto legislativo n. 81 del 2008), al fine di fornire, su questioni suscettibili di diverse interpretazioni in materia di attività di vigilanza, indirizzi comuni agli ispettori delle ASL e delle DPL.
Il quadro di governo della salute e sicurezza delineato dal testo unico sconta però, come già detto, ancora alcune lacune, tra le quali particolarmente rilevante è quella relativa all’approvazione del decreto interministeriale concernente il Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP), previsto dall’articolo 8 del testo unico. Come più volte sottolineato anche nelle precedenti relazioni annuali, si tratta di uno strumento essenziale per l’attività delle amministrazioni, in quanto – grazie alla condivisione delle informazioni relative alle azioni di tutela e vigilanza della salute e sicurezza – consentirà loro di evitare sovrapposizioni di interventi e garantire un utilizzo efficace delle rispettive risorse da destinare alla prevenzione di infortuni e malattie professionali e alla vigilanza.
L’iter di approvazione del decreto è stato alquanto lungo e complesso, coinvolgendo la competenza di numerose amministrazioni, ma sembra ora finalmente arrivato a conclusione. Gli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali hanno inviato un primo testo consolidato, scaturito dal confronto «tecnico» con le altre amministrazioni pubbliche concertanti e con le regioni, al vaglio del Garante per la protezione dei dati personali, che ha reso parere favorevole in data 7 luglio 2011, formulando alcune osservazioni. Il Ministero ha, di conseguenza, elaborato una nuova versione dello schema di decreto e dei relativi allegati (che disciplinano il trattamento dei «flussi» di dati in materia) la quale, dopo essere stata condivisa dalle amministrazioni concertanti, è stata infine inviata alla Conferenza Stato-Regioni, che l’ha approvata definitivamente nella seduta del 21 dicembre 2011.
Un altro tema affidato a uno dei comitati «interni» della Commissione consultiva permanente è quello dell’attuazione del cosiddetto «sistema di qualificazione» delle imprese, il quale ha lo scopo di individuare, in determinati settori, quali imprese possano operare e con quali requisiti, con riferimento a elementi relativi alla salute e sicurezza sul lavoro. Tale sistema, che si dovrà realizzare per mezzo di un decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi degli articoli 6 e 27 del testo unico, è in corso di definizione anzitutto per il settore edile mediante l’attivazione della cosiddetta «patente a punti», mentre altri settori debbono essere individuati dalla Commissione consultiva. Purtroppo, su questo fronte continuano a registrarsi ritardi.
Si tratta infatti di una questione complessa e di grande rilevanza, che è da tempo oggetto di attenzione da parte della Commissione d’inchiesta e che è stata espressamente richiamata anche nell’atto di indirizzo al Governo approvato dall’Assemblea del Senato il 12 gennaio 2011, a seguito del dibattito sulla seconda relazione annuale della Commissione. Occorre ricordare che la richiesta di fissare dei requisiti «minimi» di qualificazione delle imprese in materia di salute e sicurezza del lavoro proviene dalle stesse associazioni di categoria, in particolare da quelle del settore edile, che denunciano da tempo la presenza di soggetti che intraprendono l’attività imprenditoriale senza avere adeguati livelli di organizzazione, di struttura e di esperienza. Questi soggetti praticano così una vera e propria concorrenza sleale nei confronti delle imprese più serie, offrendo prezzi assai più bassi, a danno però del rispetto delle norme di tutela dei lavoratori (quasi sempre disattese) e della stessa qualità del lavoro svolto.
Per fronteggiare questa situazione serve dunque una riforma di tipo normativo che, da un lato, salvaguardi la libertà di iniziativa economica, dall’altro garantisca la presenza di operatori seri e adeguatamente organizzati.
Anche la Commissione d’inchiesta sta studiando la questione per cercare di offrire, nell’ambito delle proprie competenze, un contributo alla sua risoluzione. Sul punto si tornerà diffusamente più avanti, nel paragrafo 3.6.
Un’ulteriore questione venuta all’attenzione della Commissione consultiva permanente è stata quella delle lavorazioni svolte in ambienti confinati (silos, cisterne, cunicoli, pozzi, ecc.), in ragione del drammatico ripetersi di gravissimi infortuni, tra i quali quello avvenuto l’11 settembre 2010 presso lo stabilimento della DSM s.p.a. di Capua, dove sono morti tre operai. Anche la Commissione d’inchiesta si era occupata di quell’incidente, segnalando con forza la necessità di regolamentazioni e controlli più stringenti per questo tipo di attività, troppo elevati essendo i rischi e troppo numerosi gli incidenti verificatisi in questo settore negli ultimi anni, quasi sempre mortali (si veda in proposito la precedente relazione intermedia).
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, riprendendo peraltro un’iniziativa già assunta prima della tragedia di Capua, ha predisposto una serie di misure ad hoc per fare fronte a questa grave problematica. Tali misure, condivise dai rappresentanti delle regioni e delle parti sociali all’interno della Commissione consultiva, inseriscono anzitutto le lavorazioni che si svolgono in ambienti confinati tra le attività del futuro sistema di qualificazione delle imprese, al fine di garantire ex lege che le imprese chiamate a svolgere tali operazioni siano soltanto quelle che applicano adeguate misure in termini di sicurezza.
Nel merito, sono stati poi previsti alcuni interventi di carattere operativo volti ad accrescere la sicurezza e i controlli dei lavori che avvengono in ambienti confinati. Questi interventi, adottati dapprima in via amministrativa, hanno infine trovato attuazione in sede normativa con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177, sugli «ambienti confinati», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 260 dell’8 novembre 2011.
Il citato regolamento del Presidente della Repubblica impedisce che in simili contesti possano operare soggetti non adeguatamente formati, addestrati o, comunque, non perfettamente a conoscenza dei rischi delle lavorazioni e di quelli propri degli ambienti nei quali le stesse si svolgano.
A tal fine sono previsti per le imprese e i lavoratori autonomi che effettuano i lavori una serie di obblighi specifici, in aggiunta a quelli già sanciti dalle norme vigenti: formazione e addestramento di tutto il personale; possesso e capacità di utilizzo dei necessari dispositivi di protezione individuale, strumenti e attrezzature; regolarità e qualificazione sia delle imprese appaltatrici che subappaltatrici; limitazione del ricorso al subappalto.
Al fine di garantire la massima coordinazione ed informazione tra committenti ed appaltatori, le imprese committenti sono poi obbligate a informare preventivamente gli appaltatori e i lavoratori di tutti i rischi e le condizioni del lavoro, a nominare un proprio esperto che sia presente durante le attività e ad adottare una procedura di lavoro (anche sotto forma di «buone prassi») specificamente diretta a eliminare o ridurre al minimo i rischi.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, inoltre, ha completato o sta completando talune ulteriori attività, previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008, al di fuori dei compiti della Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro. Per quanto riguarda i provvedimenti già vigenti in attuazione del testo unico, si segnalano, solo a titolo di esempio tra gli ultimi, i seguenti:
– il decreto 13 aprile 2011 (ex articolo 3, comma 3-bis, del testo unico) che individua la normativa di salute e sicurezza relativa alle «peculiari esigenze» per le società cooperative e per alcune categorie di volontari (della protezione civile, della Croce Rossa ecc.), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 159 dell’11 luglio 2011;
– il decreto 11 aprile 2011 per l’individuazione delle modalità per la effettuazione delle verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro e dei criteri per l’abilitazione dei soggetti pubblici o privati legittimati a realizzare tali verifiche (articolo 71, comma 13, decreto legislativo n. 81 del 2008), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 29 aprile 2011, S.O. n. 111;
– il decreto 9 febbraio 2011, ex articolo 82, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, relativo alle autorizzazioni per i lavori sotto tensione (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 83 dell’11 aprile 2011);
– il regolamento di cui al decreto 24 gennaio 2011, n. 13 sulle modalità di applicazione in ambito ferroviario del decreto 15 luglio 2003, n. 388, ai sensi dell’articolo 45, comma 3, del testo unico (cosiddetto «pronto soccorso in ambito ferroviario»), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 58 dell’11 marzo 2011;
– lo schema di Regolamento, approvato in sede di Conferenza Stato-Regioni del 22 settembre 2011 ex articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, recante le disposizioni per l’attuazione della salute e sicurezza negli uffici all’estero del Ministero degli affari esteri;
– gli accordi, approvati in sede di Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, relativi all’individuazione dei contenuti e delle modalità della formazione del datore di lavoro che intenda svolgere «in proprio» i compiti del servizio di prevenzione e protezione (articolo 34, del decreto legislativo n. 81 del 2008) e della formazione dei dirigenti, preposti e lavoratori (articolo 37 del testo unico), pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012.
Altri provvedimenti sono nella fase finale dell’iter normativo e la loro approvazione dovrebbe quindi essere imminente. Tra di essi, si possono citare:
– il regolamento che disciplinerà le «particolari esigenze» delle università e delle scuole in materia di salute e sicurezza sul lavoro, al momento oggetto di una rivisitazione da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per tenere conto delle osservazioni del Consiglio di Stato, che sarà pubblicato a breve;
– l’istituzione in data 27 maggio 2011 del Comitato consultivo per l’aggiornamento dei valori limite dell’esposizione professionale e dei valori limite biologici relativi agli agenti chimici (articolo 232, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008). Il Comitato ha proceduto innanzitutto alla elaborazione di un documento per il recepimento dei valori di esposizione di cui alla direttiva n. 2009/161/UE, da recepire entro il 18 dicembre 2011; tale documento è stato approvato, nella seduta del 13 settembre 2011 (è, quindi, in corso la procedura di recepimento di cui all’articolo 232, comma 2, del testo unico essendo stata, in particolare, redatta la relativa bozza di decreto);
– la prosecuzione dei confronti, iniziati in data 9 settembre 2010, con i rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e le parti sociali del settore trasporti relativi all’attuazione dell’articolo 161, comma 2-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008, il quale prevede la adozione di un decreto interministeriale dedicato alla segnaletica stradale per i cantieri in presenza di traffico veicolare;
– l’approvazione, in data 15 settembre 2011, sotto la supervisione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di un «avviso comune» tra le parti sociali dell’agricoltura relativo alle semplificazioni nei riguardi dei lavoratori «stagionali» del settore, ove essi non vengano impiegati per oltre 50 giornate lavorative nell’anno di riferimento (articolo 3, comma 13, decreto legislativo n. 81 del 2008). È, quindi, in fase avanzata di elaborazione il relativo decreto ministeriale il quale recepirà i contenuti del citato «avviso comune»;
– la predisposizione, in fase molto avanzata, della bozza di decreto che individuerà le modalità della formazione richiesta per determinate attrezzature di lavoro (macchine agricole, gru, ecc.), elaborata da parte di un gruppo di «tecnici» di Stato e regioni e che verrà sottoposta alla Conferenza Stato-Regioni per la prevista approvazione (articolo 73, comma 5, del testo unico), presumibilmente alla prima riunione utile.
Quest’ultimo provvedimento riveste particolare importanza, perché potrebbe contribuire a risolvere un problema molto serio, del quale la Commissione si è occupata a lungo e che verrà trattato in modo approfondito nel paragrafo 3.1. Si tratta degli incidenti legati all’utilizzo delle macchine agricole, in particolare dei trattori, che costituiscono una delle più frequenti modalità di infortunio del settore agricolo: tra le concause degli incidenti vi è anche la circostanza che nell’ordinamento vigente non è richiesta una particolare abilitazione per i conducenti di questi mezzi, essendo sufficienti le normali patenti automobilistiche. Peraltro, spesso nelle campagne si assiste al fenomeno di persone molto anziane (in genere ex agricoltori) o addirittura di minorenni che si pongono alla guida, con i risultati tragici che è possibile immaginare.
Vi sono naturalmente altri fattori che concorrono ad alimentare questo tipo di infortuni, in particolare la mancanza su molti mezzi dei necessari dispositivi di sicurezza, anche a causa dell’elevata vetustà del parco macchine circolante. Tuttavia la mancanza di una regolamentazione più stringente in merito ai requisiti dei conducenti è senz’altro il problema più importante, sul quale la Commissione d’inchiesta sta sollecitando con forza un intervento normativo. D’altra parte, anche altri macchinari molto complessi come le gru dell’edilizia richiederebbero una specifica abilitazione, come già accade in altri Paesi e come chiedono da tempo le stesse associazioni di categoria2. L’auspicio è dunque che il lavoro della Commissione consultiva permanente su questo tema possa condurre presto a un risultato concreto. La Commissione d’inchiesta intende naturalmente continuare a seguire con attenzione il relativo iter, cercando di contribuire, per quanto di sua competenza, alla sua positiva conclusione.

2.4. Il ruolo del Governo. Le politiche di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali
La strategia di contrasto al fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali non passa naturalmente solo attraverso il completamento del quadro giuridico di riferimento – attraverso la disciplina di rango secondario rispetto al decreto legislativo n. 81 del 2008, – ma anche mediante la realizzazione di una serie di azioni pubbliche e private dirette a migliorare la prevenzione e i livelli di tutela in tutti gli ambienti di lavoro.
In tale contesto rientrano le iniziative assunte dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per favorire la sinergia con vari soggetti pubblici e privati e rafforzare l’efficacia delle rispettive attività. L’ultimo aggiornamento su tali attività è stato fornito alla Commissione in occasione dell’audizione del ministro del lavoro e delle politiche sociali Fornero svolta il 13 dicembre 2011. Tra le varie iniziative, si segnala lo stanziamento, nel triennio 2008-2010, dei fondi per lo svolgimento delle attività promozionali in materia di salute e sicurezza di cui all’articolo 11, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, sulla base dell’Accordo Stato- Regioni del 20 novembre 2008.
In particolare, per il 2008 sono stati stanziati (e già impegnati e resi disponibili) fondi per 50 milioni di euro, destinati:
– alla realizzazione, già effettuata, di una campagna di comunicazione (per l’importo complessivo di 20 milioni di euro) sulla salute e sicurezza sul lavoro;
– al finanziamento di attività di formazione su base regionale (per complessivi 30 milioni di euro). A ciascuna regione è stato chiesto da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – per ottenere l’erogazione di quanto dovuto – di presentare un programma di attività formative coerenti con i contenuti dell’Accordo e si è già provveduto, sempre da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a erogare le somme alle regioni adempienti.
Per il 2009, sono stati stanziati oltre 37 milioni di euro ed è stato predisposto il decreto interministeriale di riparto, per finanziare attività promozionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro tra i seguenti tre temi:
– progetti di investimento per le piccole e medie imprese, con particolare riferimento al finanziamento di modelli di organizzazione e gestione (5 milioni di euro);
– finanziamento di progetti formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sempre su base regionale;
– finanziamento di attività di istituti scolastici, universitari e di formazione dirette a inserire nei rispettivi programmi il tema della salute e sicurezza sul lavoro e finanziare iniziative promozionali nelle scuole e università (5 milioni di euro).
Per il 2010, sono state messe a disposizione risorse per oltre 36 milioni di euro. La bozza del decreto di riparto, già discussa nella Commissione consultiva permanente, ha altresì avuto il parere favorevole della Conferenza Stato-Regioni, I fondi sono quindi così ripartiti:
– 20 milioni di euro per il finanziamento di attività promozionali per le piccole e medie imprese, di cui 15 relativi all’acquisto di attrezzature di lavoro rispettose delle previsioni comunitarie di riferimento e 5 da destinare al finanziamento dell’adozione di modelli di organizzazione e gestione per la sicurezza da parte delle piccole e medie imprese;
– circa 11 milioni di euro per attività formative su base regionale, in continuità con le impostazioni adottate per il 2008 ed il 2009;
– 5 milioni di euro per il finanziamento di attività di istituti scolastici, universitari e di formazione diretti a inserire nei rispettivi programmi il tema della salute e sicurezza sul lavoro.
Riguardo ai fondi stanziati sia per il 2009 che per il 2010 a favore delle scuole e delle università, occorre sottolineare come si tratti delle prime iniziative concrete per inserire gli insegnamenti relativi alla salute e sicurezza sul lavoro all’interno degli istituti di formazione giovanile, intesa nell’accezione più ampia. La Commissione si è a lungo battuta a favore di tale iniziativa, nella convinzione che solo la sensibilizzazione dei giovani, anche in età infantile, sui temi della prevenzione possa consentire la diffusione di una vera cultura della sicurezza, che è il metodo più efficace per contribuire a combattere la piaga degli infortuni e delle malattie professionali.
A livello istituzionale, occorre segnalare come si sia ormai definita l’organizzazione chiamata a progettare e dare concreta attuazione a queste attività. In particolare, è stata costituita e si è già più volte riunita la «cabina di regia» prevista dalla Carta d’intenti tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della pubblica istruzione, dell’università e della ricerca e l’INAIL. Al riguardo, si deve ricordare che, proprio sotto la supervisione della citata cabina di regia, è stato emanato dal Ministero della pubblica istruzione un bando che, scaduto lo scorso giugno, ha ottenuto un grande riscontro, con oltre 1.000 progetti presentati e 800.000 studenti coinvolti in tutta Italia. La valutazione dei progetti, da parte di un apposito comitato, si è conclusa alla fine dell’estate 2011 e ha consentito di individuare i 48 progetti vincitori, che dovranno essere realizzati dalle scuole e dagli studenti interessati nel corso dell’anno scolastico 2011-2012.
Naturalmente, è auspicabile che, accanto a singoli progetti di questo tipo, si possa individuare il modo per realizzare anche dei moduli didattici ad hoc di tipo regolare, all’interno dei vari programmi scolastici e formativi, ad esempio nell’ambito dell’insegnamento di cittadinanza attiva già esistente.
In materia di attività promozionali un ruolo fondamentale spetta naturalmente all’INAIL, nell’esercizio della sua funzione di «polo unico» italiano della prevenzione (funzione consolidata anche a seguito dell’«incorporazione » dell’ISPESL). L’Istituto sta incentivando le imprese a realizzare interventi finalizzati al miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (progetti di investimento per l’ammodernamento degli impianti e delle attrezzature, per la formazione e per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale), e ha stanziato, ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del decreto legislativo n. 81 del 2008, 60 milioni di euro per il 2010, 180 milioni per il 2011, 225 milioni per il 2012 e 280 milioni per il 2013, ripartiti su base regionale.
Destinatarie dell’incentivo sono le imprese, anche individuali, iscritte alla Camera di commercio industria artigianato e agricoltura. La prima erogazione degli incentivi è avvenuta tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, mediante un’apposita procedura informatica: a partire dal 10 dicembre 2010, le aziende interessate hanno potuto verificare il possesso dei requisiti per poter accedere al finanziamento nella sezione «Punto Cliente» del sito dell’INAIL, mentre le domande di contributo sono state presentate in data 12 gennaio 2011 (c.d. «click day») tramite la piattaforma informatica INAIL, in un numero tale da avere esaurito in poche ore la capienza dei finanziamenti.
Se da un lato quindi questa iniziativa si è rivelata un grande successo, dall’altro proprio il rapido esaurirsi dei finanziamenti e il fatto che molte aziende non abbiano potuto accedervi ha messo in luce l’importanza di prevedere un volume di risorse più ampio per fare fronte a un’esigenza (quella del miglioramento dei livelli di salute e sicurezza) che è ormai assai diffusa e avvertita tra le imprese.
Per questa ragione, l’attività promozionale continuerà negli anni 2011 e 2012, opportunamente potenziata sotto il profilo finanziario e migliorata sotto quello tecnico, superando così anche alcuni inconvenienti della procedura informatica verificatisi nella fase di avvio del «click day». In particolare, come formalizzato nella delibera del Comitato di indirizzo e valutazione (CIV) dell’INAIL n. 15 del 3 agosto 2011, l’INAIL garantirà per il 2011 benefici economici per le imprese che investono in sicurezza per 180 milioni di euro, ai quali peraltro andranno aggiunte le risorse residue rispetto all’esercizio 2010, secondo criteri di immediatezza (tramite la modalità di aggiudicazione «a sportello»), promuovendo le misure più efficaci in termini prevenzionistici quali, solo a titolo di esempio, il finanziamento della «messa in sicurezza» di attrezzature di lavoro, con particolare riguardo a quelle utilizzate in agricoltura, settore a particolare rischio infortunistico3.
Per completare il quadro informativo sulle attività di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, occorre accennare alle prestazioni erogate dall’INAIL ai lavoratori infortunati. Negli ultimi tempi, l’Istituto sta cercando di potenziare la propria attività in questo settore, nell’ottica di costruire un sistema di «tutela globale ed integrata» a favore degli assicurati, erogando prestazioni economiche, sanitarie, riabilitative e protesiche nonché realizzando interventi atti a favorire il reinserimento delle persone con disabilità da lavoro nella vita di relazione.
L’INAIL sta favorendo in particolare gli interventi per l’abbattimento delle barriere architettoniche nel contesto domestico, rafforzando l’aspetto relativo al reinserimento nella vita di relazione dei disabili da lavoro, anche attraverso azioni volte a supportare i familiari dei lavoratori disabili e i superstiti di quelli deceduti per infortunio sul lavoro o tecnopatia. Si tratta di un aspetto importante, che mira a tradurre in azioni concrete la profonda evoluzione culturale intervenuta negli ultimi anni rispetto ai temi della disabilità e che si è recentemente concretizzata nell’elaborazione del sistema di classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF), adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale indirizzo qualifica la «riabilitazione» non più unicamente nell’accezione di recupero funzionale, ma con un significato più ampio che comprende la riappropriazione da parte della persona divenuta disabile della capacità di autodeterminazione e del proprio ruolo nel contesto familiare, socio-ambientale e lavorativo.
Sempre ai fini al miglioramento dei livelli delle prestazioni erogate per il pieno recupero dell’integrità psico-fisica da parte dei lavoratori infortunati, nel corso del 2011 è stata ampliata dall’INAIL la tipologia dei presidi concedibili nel periodo di inabilità temporanea assoluta al lavoro.
Inoltre, una volta stipulato l’Accordo quadro in sede di Conferenza Stato- Regioni – in attuazione dell’articolo 9, comma 4, lettera d-bis, del decreto legislativo n. 81 del 2008, che consente l’erogazione di prestazioni di assistenza sanitaria riabilitativa non ospedaliera da parte dell’Istituto – l’obiettivo che si intende perseguire è quello di attivare, sulla base di Protocolli d’intesa, forme stabili di collaborazione tra l’INAIL ed i Servizi sanitari regionali, miranti a garantire ai lavoratori assicurati prestazioni tempestive, assistenza continuativa e, soprattutto, un adeguato e omogeneo livello di tutela sanitaria su tutto il territorio nazionale.
In sostanza, come risulta dalla delibera n. 14 del CIV del INAIL dello scorso 3 agosto, l’INAIL mira a dare finalmente attuazione – in coerenza con la concreta realizzazione del «Polo salute e sicurezza» – al principio della «tutela globale del lavoratore», finora rimasto ineffettivo soprattutto in ragione della incompiutezza delle norme di riferimento, creando un ciclo completo di ricerca, prevenzione, cura, indennizzo, riabilitazione, reinserimento sociale e lavorativo, ferma restando l’esigenza della piena sostenibilità finanziaria.
Un altro importante passo nel processo di costruzione del «Polo salute e sicurezza» intorno all’INAIL è stato compiuto con il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha attribuito all’INAIL le funzioni in precedenza svolte dai soppressi ISPESL ed IPSEMA, rafforzando e consolidando la missione dell’Istituto, che ha acquisito ora un ruolo centrale nella gestione della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, in stretta e sinergica collaborazione con gli altri soggetti istituzionali che compongono il sistema del welfare.
La Commissione d’inchiesta ha seguito con molta attenzione questo processo (si veda in proposito la seconda relazione intermedia), nella convinzione della validità della «scommessa» lanciata dal legislatore di mettere assieme, nello stesso ente, le attività di ricerca e certificazione a fianco di quelle assicurative e prevenzionali, al fine di costituire un sistema integrato di servizi, riducendo il numero degli attori e, contemporaneamente, mantenendo la necessaria visibilità ed autonomia alle attività di ricerca in precedenza svolte dall’ISPESL, per loro natura diverse da quelle assicurativo-prevenzionali esercitate dall’INAIL e dall’IPSEMA. Il punto essenziale era ed è quindi quello di garantire che questo processo di accorpamento non comprometta il corretto svolgimento delle varie funzioni, ma che anzi le rafforzi e le potenzi in una logica di gestione integrata e sinergica. A circa un anno e mezzo dall’avvio, il processo di riordino per incorporazione di INAIL, IPSEMA e ISPESL è in pieno svolgimento, anche se non ancora concluso. Si tratta obiettivamente di un’operazione assai complessa, dovendosi progettare un nuovo ed efficiente modello organizzativo, che superi la logica della conferenza di servizi e del coordinamento di autonome entità istituzionali attraverso l’integrazione delle competenze, la semplificazione dei processi decisionali e la riorganizzazione degli apparati, sia a livello centrale che territoriale.
I vari adempimenti richiesti, anche di carattere strettamente amministrativo, sono comunque ormai in fase avanzata e, secondo le informazioni fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche la progettazione del nuovo modello organizzativo, svolta sotto il coordinamento di una cabina di regia appositamente costituita e articolata in undici diversi gruppi tematici integrati, è a buon punto e dovrebbe concludersi in tempi rapidi, avendo già definito il Piano generale o «Master plan» del percorso di integrazione, documento che riconduce i progetti individuati alle diverse strutture delineando in modo chiaro le relative competenze.
Al di là dei modelli organizzativi che verranno formalmente adottati, tuttavia, la ricomposizione in un’unica struttura delle competenze prima appartenenti ai tre Istituti e l’effettiva sinergia tra di essi implica anche un cambiamento culturale e uno sforzo concreto di collaborazione tra i vari uffici, per superare quelle duplicazioni e quei ritardi che troppo spesso rallentano l’efficacia e la speditezza dell’attività amministrativa.
Il coordinamento tra i diversi attori del sistema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, del quale l’integrazione di INAIL, IPSEMA e ISPESL rappresenta una tappa fondamentale, è infatti uno degli aspetti cruciali di una sempre più efficace azione di prevenzione e repressione degli infortuni e delle malattie professionali.
Al riguardo, i primi segnali che la stessa Commissione d’inchiesta ha avuto modo di cogliere nelle sue numerose missioni sul territorio italiano appaiono certamente incoraggianti: funzionari e strutture delle amministrazioni accorpate collaborano in maniera sempre più stretta e sinergica, anche se, in alcuni casi, permangono ancora talune difficoltà e resistenze.
L’auspicio è naturalmente che queste incertezze e ritardi possano essere superati e che il processo di integrazione – formale e sostanziale – di INAIL, IPSEMA e ISPESL continui e si concluda in maniera rapida ed efficace.
A conclusione di questa lunga panoramica, occorre dare conto dell’audizione, già richiamata, che la Commissione ha svolto il 13 dicembre 2011 con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, professoressa Elsa Fornero. Oltre a fornire un aggiornamento sul processo di attuazione del testo unico e sulle attività di prevenzione portate avanti dal Governo, di cui si è già riferito, l’audizione è stata soprattutto l’occasione per fare il punto sul complesso delle politiche in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, anche alla luce dell’insediamento del nuovo Esecutivo Monti.
In particolare, la Commissione ha richiamato il lavoro svolto in questi tre anni di inchiesta, segnalando al Ministro le problematiche più rilevanti riscontrate e alle quali appare più urgente fornire risposta: oltre a richiamare l’esigenza di completare quanto prima l’attuazione del testo unico, si sono quindi evidenziate questioni specifiche come i problemi della sicurezza degli appalti e dei subappalti, quelli degli incidenti legati all’uso delle macchine nel settore agricolo, ecc. Ancora, si è segnalato l’aggravarsi del contenzioso INAIL per il recupero dei contributi assicurativi evasi, che oltre a mettere in difficoltà l’istituto rappresenta una ingiusta concorrenza sleale delle aziende morose nei confronti di quelle oneste.
Inoltre, è stata chiesta un’attenzione particolare per la condizione del lavoro femminile e azioni concrete contro il fenomeno sempre più invasivo delle malattie professionali. Si è altresì rappresentata l’esigenza di un rafforzamento dei controlli e delle attività ispettive, anche attraverso una standardizzazione delle procedure e dei verbali di contestazione. Si è richiamata, altresì, l’attenzione sul problema della sicurezza degli edifici scolastici, considerato che l’80 per cento di tali strutture in Italia non è, di fatto, a norma.
Un aspetto particolare sul quale la Commissione ha insistito molto è poi quello della corretta collaborazione tra lo Stato e le regioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, alla luce della competenza legislativa concorrente e delle importanti competenze di programmazione e coordinamento sul territorio che proprio il testo unico affida alle regioni.
L’inchiesta della Commissione, come si è già accennato, ha rilevato molti ritardi e lacune al riguardo, atteso che molte Regioni non stanno operando come dovrebbero. Soprattutto, vi è il rischio che ci sia una applicazione non uniforme delle normative nei vari territori, ciò che sarebbe estremamente grave.
Infine, la Commissione ha evidenziato l’opportunità di assicurare un’applicazione delle norme anche in quei settori «nascosti» o marginali che ancora fanno resistenza, per un complesso di motivi, non ultimo il peso dell’attuale crisi economica che sta incoraggiando una preoccupante diffusione del lavoro nero o irregolare, anche in settori che ne erano un tempo esclusi.
Il ministro Fornero ha assicurato la più ampia disponibilità sua e del Governo a perseguire con decisione le politiche di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, in tutte le loro forme. Sul tema dell’attuazione del testo unico, ha fatto presente come la quasi totalità dei provvedimenti secondari previsti dalla normativa siano stati emanati ovvero siano prossimi ad esserlo o, comunque, abbiano completato la relativa istruttoria. Il Ministro si è detta altresì assai interessata a recepire tutti gli spunti e le segnalazioni che la Commissione d’inchiesta ha fornito sulle tematiche in questione, convenendo in particolare sull’opportunità di garantire la massima uniformità nell’applicazione delle disposizioni su tutto il territorio nazionale e di vigilare contro gli effetti negativi che la crisi economica può avere sulle aziende in termini di rispetto delle norme antinfortunistiche.
La professoressa Fornero si è altresì soffermata sulla questione della recente procedura di infrazione aperta dall’Unione europea contro l’Italia in relazione ad alcune norme del decreto legislativo n. 81 del 2008, introdotte a suo tempo con il decreto legislativo n. 109 del 2009. Il Ministro ha assicurato che il Governo sta seguendo con la massima attenzione la vicenda, al fine di studiare le soluzioni più opportune per superare il contenzioso, in particolare per quanto concerne le contestazioni sull’articolo 16 del testo unico relativo alla delega di funzioni da parte del datore di lavoro, sul quale si intende compiere una verifica approfondita.
La Commissione ha accolto con grande favore la disponibilità del Ministro, auspicando che il proficuo rapporto di collaborazione instaurato con il Governo e gli altri attori istituzionali possa continuare, nell’obiettivo comune di una sempre più efficace azione di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.

2.5. Il ruolo delle regioni e delle province autonome. I comitati regionali di coordinamento
Nel paragrafo 2.2 si è sottolineato il ruolo centrale che il testo unico ha affidato alle regioni e alle province autonome in materia di programmazione, coordinamento e controllo delle attività di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali a livello territoriale, nonché l’importanza dei comitati regionali di coordinamento nei quali dovrebbero esercitarsi tali funzioni.
Occorre anzitutto ricordare che la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, nell’attuale sistema istituzionale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), è materia di legislazione concorrente e, pertanto, la sua attuazione implica di per sé una costante cooperazione tra lo Stato da una parte e le regioni e province autonome dall’altra. Inoltre, la programmazione e la gestione dei vari interventi non può che essere affidata, concretamente, agli organismi che hanno competenza diretta sui singoli territori, siano essi enti locali o articolazioni decentrate di enti statali.
Sul tema della competenza legislativa è tuttora in corso un ampio dibattito, fra chi ritiene che essa dovrebbe essere ricondotta in via esclusiva allo Stato, per assicurare una effettiva uniformità di indirizzo, e chi invece sostiene l’opportunità che essa rimanga concorrente fra lo Stato e le regioni e le province autonome, per garantire una più efficace attuazione in ambito territoriale. Si tratta ovviamente di una questione complessa, che si iscrive nel più generale dibattito sulla ridefinizione dei rapporti e sulla ripartizione delle competenze tra lo Stato centrale e gli enti locali, intorno al quale esistono opinioni e sensibilità diverse.
Al di là di questi profili, quello che conta però è che la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro sia applicata in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, proprio per evitare che, a fronte della suddetta competenza legislativa concorrente, si possano un giorno determinare pericolose asimmetrie tra una regione e l’altra in una materia così delicata.
In termini giuridico-formali, la possibilità esiste: l’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede infatti che le disposizioni del decreto stesso concernenti ambiti di competenza delle regioni e delle province autonome siano applicate «nell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato e con carattere di cedevolezza», ovvero fino all’eventuale approvazione di una normativa propria da parte delle regioni e delle province autonome. Di conseguenza, se una regione volesse emanare una normativa in deroga alle previsioni del testo unico potrebbe farlo, a meno che non vada ad incidere sui livelli essenziali delle prestazioni.
Finora le regioni e le province autonome hanno avuto un approccio molto attento a questo riguardo, evitando di emanare disposizioni o di adottare interpretazioni che fossero anche solo parzialmente in contrasto con la normativa nazionale. Per assicurare la tenuta del sistema, resta comunque essenziale il dialogo e la collaborazione costante tra gli apparati centrali e locali dello Stato, attraverso l’articolata rete di istituti che il legislatore ha creato a tal fine e che è opportuno richiamare.
A livello centrale, operano anzitutto il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale dell’attività di vigilanza previsto dall’articolo 5 del testo unico, cui spetta di elaborare e valutare le politiche nazionali in materia si salute e sicurezza sul lavoro, di programmare i relativi interventi e di assicurare il coordinamento tra gli enti che si occupano della vigilanza, nonché la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro prevista dall’articolo 6 del testo unico, che ha una serie di compiti legati all’elaborazione, alla valutazione e al miglioramento della normativa, delle procedure e delle buone prassi nonché alla programmazione delle attività di prevenzione e promozione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’aspetto che qui interessa sottolineare è che in entrambi gli organismi è prevista un’ampia rappresentanza delle regioni e delle province autonome, accanto a quella delle amministrazioni centrali dello Stato e delle parti sociali. In tal modo, gli enti territoriali partecipano da subito all’elaborazione e alla definizione delle linee guida in tema di salute e sicurezza sul lavoro.
Per poter garantire il recepimento e la concreta attuazione nelle diverse regioni del Paese, il legislatore ha opportunamente individuato un’apposita sede istituzionale anche in ambito territoriale, ossia i comitati regionali di coordinamento, disciplinati dall’articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008. Secondo tale norma, la loro finalità è quella di realizzare una programmazione coordinata di interventi, nonché una uniformità degli stessi ed il necessario raccordo con il Comitato di cui all’articolo 5 e con la Commissione di cui all’articolo 6 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008. La loro funzione primaria è dunque proprio quella di garantire il collegamento tra il livello decisionale centrale e quello locale nelle politiche della salute e della sicurezza del lavoro, in ossequio al principio di sussidiarietà e di leale collaborazione tra le istituzioni che deriva dalla potestà legislativa concorrente in questa materia.
L’altra funzione, strettamente connessa, è quella di assicurare il coordinamento nella programmazione delle azioni e l’uniformità delle stesse su tutto il territorio nazionale. Come si è più volte segnalato nelle precedenti relazioni intermedie, infatti, l’attività di prevenzione e contrasto a favore della sicurezza sul lavoro rischia spesso di essere rallentata e a volte addirittura vanificata dalla sovrapposizione e duplicazione degli interventi da parte dei numerosi enti pubblici competenti, specialmente per quanto riguarda i controlli ispettivi. Le ragioni sono note: frammentazione e incertezza delle competenze, differenti approcci culturali e organizzativi, resistenze di carattere burocratico, scarso dialogo tra le varie amministrazioni.
La normativa introdotta dal testo unico ha fatto chiarezza in questo campo e ridefinito in maniera più precisa compiti e funzioni dei diversi organismi, puntando a rafforzare il raccordo e la sinergia tra gli stessi: nella maggior parte dei casi questi cambiamenti (che sono prima di tutto culturali) sono stati pienamente recepiti e talvolta addirittura anticipati, grazie all’attenzione e alla solerzia dei funzionari preposti. In taluni casi, invece, permangono lentezze e difficoltà: le amministrazioni non collaborano come dovrebbero e i risultati dell’attività complessiva ne risentono.
Uno dei profili più sensibili riguarda i controlli ispettivi: se questi mancano o sono troppo sporadici, rischia di venire meno l’efficacia delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Ma conseguenze altrettanto negative si creano se la medesima azienda è controllata in più occasioni da enti diversi, che magari adottano anche procedure amministrative o interpretazioni giuridiche difformi tra loro. Si tratta purtroppo di eventualità non infrequenti, che da un lato accrescono la confusione e la sfiducia degli operatori, traducendosi anche in ulteriori costi per le aziende, dall’altro riducono l’efficacia stessa dell’azione di vigilanza.
Purtroppo, malgrado alcuni innegabili progressi, su questo fronte restano ancora molte difficoltà, specie nel rapporto tra enti ispettivi statali e regionali. Alla fine di dicembre 2011, la Commissione ha interpellato in proposito la Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per avere notizie circa la situazione del coordinamento delle attività di vigilanza, anche ai fini dell’adozione di procedure uniformi e di un verbale unico ispettivo per la contestazione degli illeciti amministrativi. La Direzione generale ha risposto confermando le difficoltà di realizzare un coordinamento sinergico tra lo Stato e le Regioni, sia riguardo all’adozione di procedure e strumenti uniformi per i controlli ispettivi, sia in termini più generali per la programmazione delle attività di prevenzione. Il problema principale segnalato dal Ministero sta nell’impossibilità di individuare, all’interno del sistema regionale, un referente unico dotato di potere decisionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro, dovendo ogni atto di rilevanza esterna (tra cui i rapporti con le amministrazioni statali) passare per la Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome, il che allunga inevitabilmente i tempi.
Per superare tali difficoltà e cercare di condividere tra Stato e regioni circolari interpretative e operative, modelli unificati e altri aspetti, si è deciso allora di utilizzare come sede di confronto – sia pure impropriamente dato il diverso ruolo che esso assume nel sistema istituzionale delineato dal decreto legislativo n. 81 del 2008 – il già citato Comitato di cui all’articolo 5 dello stesso decreto. L’auspicio è che tale scelta possa rafforzare la cooperazione e il raccordo tra gli enti: oltre a evitare duplicazioni e sovrapposizioni (nell’attività di vigilanza e non solo), ciò servirebbe anche a mettere in comune le risorse di personale, ovviando almeno in parte alla cronica insufficienza degli organici che affligge le amministrazioni pubbliche, specie in questa fase di sofferenza della finanza pubblica.
In ambito locale, il coordinamento tra gli organismi che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro, siano essi articolazioni decentrate di enti statali o enti locali in senso stretto, è invece affidato alle regioni e alle province autonome, attraverso lo strumento dei comitati regionali di coordinamento.
Come già ricordato, i comitati sono disciplinati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007. Essi sono presieduti dal Presidente della giunta regionale (o provinciale nel caso di Trento e Bolzano) ovvero da un assessore da lui delegato, di solito quello della salute o del lavoro, con la partecipazione degli assessori preposti alle funzioni correlate. Dei comitati fanno poi parte, secondo un elenco molto dettagliato4, i rappresentanti delle amministrazioni statali e locali compenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro che operano sul territorio e i rappresentanti delle parti sociali (quattro per i datori di lavoro e quattro per i lavoratori) designati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello regionale. I comitati si riuniscono almeno ogni tre mesi e svolgono funzioni di programmazione e di indirizzo delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, nel rispetto delle indicazioni e dei criteri formulati a livello nazionale e al fine di individuare i settori e le priorità di intervento. Essi quindi assicurano il necessario raccordo tra il livello decisionale centrale e quello locale e il coordinamento sul territorio degli interventi dei diversi enti preposti.
Un’altra funzione essenziale affidata ai comitati regionali è quella di organizzare e coordinare le attività di vigilanza. A tal fine, all’interno di ogni comitato è prevista l’attivazione di un ufficio operativo composto da rappresentanti degli organi di vigilanza che pianifica il coordinamento delle rispettive attività, individuando le priorità a livello territoriale e stilando appositi piani operativi, nei quali sono definiti gli obiettivi specifici, gli ambiti territoriali, i settori produttivi, i tempi, i mezzi e le risorse ordinarie «che sono rese sinergicamente disponibili da parte dei vari soggetti pubblici interessati». Per migliorare ulteriormente l’efficacia delle azioni di prevenzione e di vigilanza, si prevede inoltre che, «in specifici contesti produttivi e in situazioni eccezionali», si possano costituire speciali gruppi di lavoro tra i vari enti competenti.
Aspetto importante, sul quale si tornerà più avanti, è infine la previsione che i piani operativi delle attività di vigilanza siano attuati da organismi provinciali composti dai servizi interessati (Servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro delle ASL, Direzione provinciale del lavoro, INAIL, ex ISPESL, INPS e Comando provinciale Vigili del fuoco).
I comitati regionali di coordinamento provvedono a monitorare le attività di vigilanza svolte dalle sezioni permanenti per verificare il raggiungimento degli obiettivi, dando comunicazione annuale dei risultati di tale monitoraggio ai Ministeri della salute e del lavoro e delle politiche sociali.
Ai comitati regionali di coordinamento sono comunque affidati compiti più ampi di monitoraggio e raccolta dati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in attesa del completamento del Sistema informativo nazionale per la prevenzione.
Infine, nel caso di mancata costituzione, ripetuta mancata convocazione del comitato regionale ovvero inadempimento da parte delle amministrazioni o degli enti pubblici che ne fanno parte, la legge prevede l’esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato, al fine di assicurare i necessari adempimenti.
Dopo aver richiamato le funzioni e l’organizzazione dei comitati regionali di coordinamento, si comprende dunque come il legislatore si sia sforzato di comporre un sistema articolato e completo che, pur nel rispetto delle competenze e delle specificità di ognuno, fosse però in grado di agevolare concretamente, a livello territoriale, il coordinamento e la collaborazione tra i diversi attori della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro pubblici e privati, centrali e periferici. In tale ambito, il comitato regionale di coordinamento appare come uno strumento in grado di favorire il dialogo e la sinergia tra le varie amministrazioni pubbliche competenti e, in modo particolare, tra quelle statali e regionali, soddisfacendo le esigenze esposte in precedenza.
Il successo di questo istituto richiede però che, nelle diverse regioni e Province autonome, sia attuato in modo completo e che, soprattutto, funzioni regolarmente. In altre parole, esso deve rivestire un ruolo sostanziale e non meramente burocratico, altrimenti rischia di trasformarsi nell’ennesima superfetazione amministrativa che rallenta e complica l’attività istituzionale anziché agevolarla. Come si è accennato in precedenza, in questo terzo anno di attività la Commissione ha avviato uno specifico approfondimento per verificare il modo in cui le varie Regioni stanno organizzando il sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro nei loro territori, sistema di cui i comitati regionali di coordinamento dovrebbero appunto costituire il fulcro. Dei risultati di tale approfondimento si darà conto nel paragrafo seguente.

2.6. La costruzione dei sistemi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro nelle diverse regioni italiane
L’attività di verifica della Commissione riguardo all’attuazione della disciplina sulla salute e sicurezza sul lavoro a livello regionale si è mossa lungo due percorsi paralleli: da una parte la Commissione ha aperto un confronto sul tema con i rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dall’altra ha iniziato un ciclo di missioni nelle varie regioni, per acquisire informazioni direttamente dai soggetti che operano sul territorio.
Il primo incontro con i rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome si è svolto il 25 maggio 2011, con l’audizione degli esperti del Coordinamento tecnico interregionale prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il Coordinamento tecnico interregionale è attivato attualmente presso l’Assessorato alla salute della regione Veneto, in quanto la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha delegato a quest’ultima il compito di raccordare le iniziative svolte dalle regioni e dalle province autonome in materia di tutela e sicurezza nei luoghi di lavoro. L’audizione, promossa dal gruppo di lavoro sulla prevenzione e sulla formazione coordinato dalla senatrice Bugnano, aveva una duplice finalità: da un lato verificare le iniziative a favore della prevenzione e della formazione messe in campo dalle regioni italiane, dall’altro avere notizie sul completamento del processo di attuazione del testo unico.
Il responsabile del Coordinamento, dottor Luciano Marchiori, ha anzitutto ricordato che l’attività di prevenzione negli ambienti di lavoro è pianificata dalle Regioni sulla base del Patto per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro del 2007, adottato nella Conferenza Stato-Regioni. Il Patto impegna le ASL a coprire nella loro attività di vigilanza almeno il 5 per cento delle unità produttive locali del territorio; impegna altresì il sistema delle regioni a sviluppare sistemi di sorveglianza epidemiologica sugli infortuni e sulle malattie professionali nonché alla predisposizione di piani mirati di intervento nei comparti a maggior rischio, in particolare edilizia e agricoltura.
Un altro riferimento strategico è il piano nazionale di prevenzione 2010-2012 basato sull’intesa Stato-Regioni del 29 aprile 2010. Il piano impegna le regioni a destinare, nel periodo 2010-2012, 200 milioni di euro a favore delle attività di prevenzione, intese in senso generale e non solo con riferimento alla salute e alla sicurezza negli ambienti di lavoro.
Per questo specifico aspetto, il piano nazionale di prevenzione (in base al quale nel dicembre 2010 tutte le regioni e province autonome hanno elaborato i loro piani di prevenzione e formazione) ha fissato come obiettivi principali la riduzione degli infortuni gravi e invalidanti e delle malattie professionali e lo sviluppo dei sistemi informativi. Per questi obiettivi si è definita una strategia che prevede il potenziamento dell’attività dei comitati regionali di coordinamento, lo sviluppo dei piani nazionali di prevenzione in edilizia e in agricoltura (i settori con il maggior rischio di infortuni), nonché azioni di contrasto agli infortuni gravi e mortali.
Lo sviluppo delle attività di prevenzione in edilizia e agricoltura si è tradotto in un incremento delle attività di vigilanza: il piano dell’edilizia, ad esempio, impegna le regioni a controllare annualmente 50.000 cantieri, di cui almeno il 20 per cento in maniera congiunta con i servizi ispettivi delle direzioni provinciali del lavoro, per garantire una maggiore omogeneità a livello nazionale. Al momento dell’audizione, non erano ancora disponibili i dati consuntivi del 2010, che sono stati successivamente trasmessi alla Commissione d’inchiesta dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome alla fine di novembre 2011 in un’apposita relazione, intitolata appunto «Attività delle regioni per la prevenzione nei luoghi di lavoro e per il contrasto agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali. Anno 2010».
Integrando quindi le indicazioni fornite dai tecnici del Coordinamento interregionale con questi ultimi dati, risulta che nel 2010 le aziende ispezionate dai Servizi regionali sono state 162.525 (rispetto alle 120.196 nel 2007); i cantieri ispezionati sono stati 53.165 (41.457 nel 2007); le inchieste concluse sugli infortuni sono state 16.337 (21.573 nel 2007), mentre quelle concluse sulle malattie professionali 8.863 (8.603 nel 2007); infine, le aziende o i cantieri controllati con indagini di igiene industriale sono stati 3.519 (3.552 nel 2007). Poiché il Patto per la salute del 2007 impegna le Regioni a controllare annualmente almeno 150.000 unità locali con un dipendente e 50.000 cantieri edili (valori assunti come livello essenziale di assistenza per valutare la tutela della salute in ambito lavorativo da parte delle regioni), si può dire che nel 2010 questi obiettivi sono stati raggiunti.
È da sottolineare la percentuale di cantieri ispezionati su quelli notificati: nel 2010 è stato controllato il 17 per cento circa dei cantieri notificati a rischio (18 per cento nel 2010), a riprova dell’importanza del sistema delle notifiche. Tale flusso informativo permette infatti alle ASL di pianificare il controllo del territorio rispetto all’edilizia, considerando che, mediamente, il 40 per cento di questi cantieri presenta problemi di irregolarità rispetto alla normativa per la sicurezza sul lavoro, un dato che si è ormai standardizzato negli anni e che è indicativo del problema.
Anche i controlli in agricoltura sono aumentati negli ultimi anni. In particolare, dal 2007 al 2010 si è registrato un aumento di oltre 2.200 unità, passando da 3.701 a 5.980 aziende. Se si guarda alla distribuzione per regioni, emerge chiaramente come quelle a maggiore densità abitativa sviluppano solitamente un livello di controllo maggiore. Aver individuato una priorità in agricoltura e averla sancita nel Patto sottoscritto nel 2007 sta dunque portando un forte miglioramento nei controlli in questo ambito produttivo, anche se si è ancora lontani dall’obiettivo nazionale di 10.000 aziende ispezionate all’anno proposto dal gruppo di lavoro in agricoltura.
Nel periodo 2007-2010, le inchieste sugli infortuni concluse a livello nazionale sono state mediamente circa 20.000 all’anno; variazione che deriva probabilmente anche da una variazione del fenomeno infortunistico nel suo complesso. Nel 2010, sono state rilevate violazioni di legge nel 32 per cento delle inchieste effettuate.
Sempre nel periodo 2007-2010, le malattie professionali indagate annualmente dal sistema sono state, in media, intorno a 10.000: un terzo di quelle denunciate all’INAIL. Si riconferma dunque, anche sotto questo aspetto, la necessità di una maggiore attenzione al fenomeno, mediante un approfondimento dei profili di responsabilità e del nesso di causalità.
Nel 2010, mediamente, il 12 per cento delle malattie professionali indagate ha portato ad un riscontro di violazione della normativa di sicurezza o igiene del lavoro.
In conclusione, nel periodo 2007-2010, l’attività di vigilanza ha visto un incremento dei controlli del 35 per cento per le unità locali, del 28 per cento per i cantieri, del 62 per cento per le aziende agricole e una crescita del 3 per cento delle risorse impiegate. Resta ancora una certa disomogeneità tra le varie regioni, anche se i dati indicano un riallineamento tra le regioni per quanto riguarda l’attività di controllo, per cui le regioni che erano in maggiore ritardo lo hanno ridotto mentre, viceversa, quelle che avevano un’attività molto intensa l’hanno un po’ diminuita, probabilmente alla ricerca di un miglioramento del livello qualitativo rispetto alla quantità degli interventi posti in essere. Se gli obiettivi in generale appaiono raggiunti, restano però alcune criticità nell’integrazione dei controlli tra aziende sanitarie locali e direzioni provinciali del lavoro. L’obiettivo annuale del 20 per cento di controlli congiunti sembra in molti casi «eccessivo», nel senso che il suo raggiungimento richiederebbe un impegno di risorse da parte delle amministrazioni coinvolte maggiore di quello attuale.
Infine, il dottor Marchiori si è soffermato sull’attività di formazione e assistenza, che rappresenta l’altro aspetto del lavoro dei Servizi di prevenzione.
Accanto ai corsi di formazione straordinaria finanziata ex articolo 11, comma 7, del decreto legislativo 81 del 2008 per lavoratori, datori di lavoro di comparti a rischio, insegnanti e studenti, vi è da segnalare soprattutto l’attività di formazione cosiddetta «partecipata», quella erogata da parte delle ASL, in collaborazione con le parti sociali e gli organismi paritetici, secondo piani e progetti regionali. Rifacendosi anche in questo caso ai dati più recenti forniti dall’ultima relazione del novembre 2011, risulta che nel 2010, complessivamente, i Servizi delle ASL hanno erogato 40.229 ore di formazione, coinvolgendo 88.571 persone. Rispetto al 2007 vi è stato quindi un significativo aumento, tanto nel monte ore complessivamente erogato (+24,9 per cento) quanto nel numero delle persone coinvolte nei diversi percorsi di formazione (+12,1 per cento), entrambi fattori indicativi del radicamento territoriale del Servizio sanitario nazionale. Accanto a queste attività, va poi ricordato che i Servizi di prevenzione svolgono anche azioni di controllo sull’idoneità e qualità della formazione erogata da altri soggetti formatori garantendo l’appropriatezza dei programmi rispetto alle disposizioni legislative in materia di formazione dei lavoratori.
Se il dato fornito testimonia dunque un crescente impegno delle regioni anche sul fronte della formazione, il dottor Marchiori ha però avvertito che il dato stesso deve essere valutato in modo critico, in quanto, a differenza delle attività di vigilanza, manca ancora una statistica completa e articolata delle altre attività di prevenzione svolte all’interno delle regioni, in particolare la formazione, l’informazione e l’assistenza, nonché la produzione di materiali informativi. Per rafforzare questi interventi, nel futuro si dovrà allora allargare la capacità di monitoraggio e di valutazione dei prodotti erogati dal sistema di prevenzione nei luoghi di lavoro, anche nell’ottica del più volte citato Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) di cui all’articolo 8 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che dovrebbe aiutare anche le Regioni a meglio valutare e programmare le proprie azioni.
Nel tracciare una valutazione complessiva sulle attività di prevenzione svolte dalle regioni e dalle province autonome, i rappresentanti del Coordinamento interregionale hanno messo in luce come la scelta strategica di definire delle priorità a livello nazionale assegnando obiettivi precisi a tutto il sistema delle regioni abbia certamente avuto effetti positivi sia in termini di risultati che di partecipazione, coinvolgendo anche attori esterni quali le forze sociali (organizzazioni sindacali e datoriali).
In termini di efficienza l’aumento medio misurato nell’ultimo triennio, senza un aumento delle risorse del sistema, è stato del 30 per cento. Il problema delle risorse deve però essere valutato da regione a regione, dato che vi è una grossa differenza di investimento su questo tema: alcune regioni investono il doppio rispetto ad altre, però indicare obiettivi e priorità di interventi permette a tutti di raggiungere uno standard che è il livello essenziale di assistenza.
Ad esempio, il dottor Fabio Menin, della direzione formazione della regione Veneto, ha illustrato, come esempio di eccellenza in questo settore, l’esperienza della campagna straordinaria di formazione portata avanti dalla sua regione nel periodo settembre 2010 - dicembre 2011 a favore delle piccole e medie imprese locali. Sono stati avviati 49 progetti, per un totale di circa 1.300 interventi, dei quali circa la metà già realizzati.
Purtroppo però non tutte le regioni riescono, per motivi finanziari od organizzativi, a fare altrettanto e le differenze tra i vari territori possono essere anche molto sensibili. In ogni caso, si pone l’esigenza di sviluppare un sistema di monitoraggio dell’attività di formazione svolta sia dagli enti accreditati dalle regioni, che da quelli accreditati ope legis (enti bilaterali ed organizzazioni datoriali), proprio per misurare in modo più preciso i risultati e facilitare i confronti tra le diverse Regioni.
Un aspetto critico segnalato dal dottor Marchiori è stato poi quello del sistema di monitoraggio e di sistema di sorveglianza epidemiologica sviluppato negli ultimi anni in collaborazione con l’ex ISPESL. Con l’accorpamento dell’ISPESL all’INAIL questa attività dovrebbe essere «formalizzata» per raccordare in maniera sistematica questo supporto tecnologico ed informatico con il sistema delle regioni. Se infatti quest’ultimo ha il vantaggio di essere capillarmente diffuso sul territorio e di avere un rapporto privilegiato con i lavoratori e i datori di lavoro, proprio l’ampio decentramento ne riduce la capacità di coordinamento e l’efficacia, per cui i tempi si allungano.
Infine, i rappresentanti del Coordinamento interregionale hanno richiamato l’opportunità di avere strumenti che valorizzino maggiormente la formazione del lavoratore, come ad esempio il libretto formativo individuale.
Questo strumento consentirebbe al lavoratore di spendere meglio il proprio percorso formativo nell’ambito di un rapporto contrattuale, mentre da parte sua il datore di lavoro, nel momento in cui assume un lavoratore, sarebbe immediatamente in grado di valutare quali sono le sue capacità.
Si tratta quindi di uno strumento che avrebbe un notevole valore anche dal punto di vista del miglioramento dell’efficacia del sistema e del quale non a caso le organizzazioni sindacali e datoriali invocano da tempo la realizzazione.
L’altro tema dell’audizione riguardava lo stato di avanzamento del processo di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 nelle varie regioni e province autonome. Tralasciando quindi le attività a competenza congiunta con le istituzioni centrali dello Stato e le parti sociali (sulla cui situazione si è già riferito nel paragrafo 2.3) e soffermandosi sulle attività di stretta competenza regionale, i rappresentanti del Coordinamento hanno confermato sostanzialmente come gli adempimenti previsti siano ormai stati in gran parte completati. In particolare, per quanto riguarda i comitati regionali di coordinamento, essi sono stati regolarmente costituiti da tutte le regioni e le province autonome. Purtroppo, nella realtà non in tutti i casi l’istituzione formale corrisponde a un effettivo funzionamento di questi organismi, con tutti i problemi connessi.
Tale situazione ha indotto la Commissione a instaurare un confronto diretto con gli assessori alla salute delle regioni e delle province autonome, in qualità di principali responsabili dei sistemi territoriali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. L’audizione, fortemente voluta dalla Commissione, si è svolta il 27 luglio 2011 e ha consentito di fare il punto della situazione, nell’auspicio di contribuire a rilanciare l’azione dei comitati, in virtù del loro ruolo fondamentale di raccordo tra gli organismi centrali e periferici preposti alla prevenzione e al contrasto degli infortuni e delle malattie professionali. Al momento dell’audizione, la Commissione aveva già svolto una serie di missioni sul territorio (in Toscana, Trentino- Alto Adige, Campania, Puglia e Sardegna), specificamente dirette a verificare lo stato dell’arte, e i primi riscontri avevano appunto evidenziato un quadro molto variegato: mentre alcune regioni sono molto avanti nel processo, altre accusano ancora ritardi, anche se, in generale, vi è ormai una maggiore consapevolezza e attenzione sui temi della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.
Questi aspetti sono emersi chiaramente nell’audizione con gli assessori alla salute, ciascuno dei quali ha anzitutto illustrato l’esperienza della propria Regione. Così l’assessore alla salute della regione Liguria, dottor Claudio Montaldo, ha descritto una situazione molto positiva in quella Regione, dove il comitato regionale di coordinamento opera regolarmente fin dal 2008, con una forte collaborazione sia tra gli enti istituzionali che tra i rappresentanti delle parti sociali. Analogamente è stato attivato anche l’ufficio operativo del comitato, che riunisce per legge gli enti ispettivi. Per quanto riguarda le azioni di prevenzione, queste si sono concentrate sul problema dell’incidentalità e quindi sui settori con il più alto tasso di infortuni, con particolare riguardo all’edilizia e alle attività portuali, che nella regione Liguria rivestono particolare importanza e che, negli anni passati, hanno visto purtroppo anche molti incidenti mortali.
In particolare, nel caso delle attività portuali il comitato regionale di coordinamento si è indirizzato soprattutto verso la prevenzione dei rischi legati alle cadute dall’alto e all’uso dei mezzi di movimentazione merci, mentre nel caso dell’edilizia si sono attivati specifici progetti di formazione, anche in collaborazione con l’INAIL. In generale, grande attenzione è stata posta nella nomina dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nonché nella formazione, sia verso i lavoratori che verso gli studenti delle scuole. Su questo fronte, in particolare, è stata avviata un’azione molto intensa, che negli ultimi tre anni ha coinvolto 1.500 insegnanti e 22.000 studenti della scuola primaria e secondaria, attraverso varie campagne di informazione e di comunicazione. Altre iniziative hanno visto la realizzazione di piani integrati di intervento in specifici settori, mentre un’attenzione speciale è stata dedicata al fenomeno delle malattie professionali, specie quelle da amianto, che sono legate alle attività portuali.
Il dottor Montaldo ha infine richiamato il problema della carenza di risorse adeguate per le attività di prevenzione, soprattutto per quanto riguarda il personale sanitario, sempre più ridotto per il blocco del turn over imposto al servizio sanitario nazionale. In proposito si è auspicata quindi una specifica attenzione del Parlamento, per non vanificare l’importante lavoro fin qui fatto.
È quindi intervenuto il dottor Luca Coletto, che ha portato la sua esperienza come assessore alla salute della regione Veneto e come coordinatore della Commissione salute della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Nel Veneto l’attività di prevenzione e controllo è da ritenersi positiva, e supera del 5 per cento i livelli previsti dalla norma.
La Regione inoltre ha registrato negli ultimi anni un calo degli infortuni sul lavoro del 13,2 per cento, a fronte di un aumento del numero degli iscritti INAIL del 18 per cento, il che rappresenta dunque un buon risultato, cui si affianca la forte emersione dei casi di malattie professionali, dovuta anche ai lunghi periodi di latenza delle stesse. Ha infine sottolineato l’importanza della già citata formazione nelle scuole e delle attività di prevenzione, che però devono essere supportate da adeguate risorse e considerate non come costi ma come investimenti.
La Commissione ha convenuto sull’importanza della diffusione della cultura della sicurezza nelle scuole, tema sul quale si è impegnata direttamente.
In proposito, è stata richiamata la specifica intesa tra il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e l’INAIL che ha dato origine alla cosiddetta «cabina di regia»: tra le iniziative più recenti, è stato ricordato il concorso per finanziare progetti di formazione sulla sicurezza sul lavoro nelle scuole, che ha visto la partecipazione di oltre 800.000 studenti in tutta Italia e di cui si è già detto nel paragrafo 2.4. Alcune regioni sono state però meno attive di altre, per cui la Commissione ha auspicato in futuro una maggiore sinergia tra gli Assessorati alla salute e quelli all’istruzione, al fine di consentire una più ampia partecipazione di tutte le regioni a questi progetti.
La dottoressa Mariella Zezza, assessore al lavoro e formazione della regione Lazio, ha illustrato l’impegno della regione Lazio sul fronte della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, citando l’esempio virtuoso dell’azienda Viscolube in provincia di Frosinone, dove da sette anni non si verificano incidenti sul lavoro, grazie alle rigorose procedure adottate e all’intensa attività di formazione: ben 3.000 ore all’anno, di cui oltre la metà dedicate proprio alla sicurezza sul lavoro.
Sulla scorta di tali positivi risultati, la dottoressa Zezza ha confermato la volontà della regione Lazio di diffondere tali prassi anche in altre aziende, attraverso specifiche azioni di prevenzione, finanziate con il recente assestamento di bilancio. Tra le altre, sono state avviate campagne di formazione per i lavoratori (ad esempio per quelli stranieri, con specifiche traduzioni nelle lingue d’origine) e azioni di comunicazione per gli studenti delle scuole. Un’attenzione specifica sulla sicurezza del lavoro è stata posta nel settore edile, anche in previsione degli sviluppi legati al nuovo piano regionale della casa (che secondo le previsioni dovrebbe dare lavoro a oltre 21.000 persone). Infine, particolarmente interessanti sono state le misure di sostegno all’occupazione dei lavoratori in mobilità e in cassa integrazione, finalizzate a prevenire il rischio del lavoro sommerso e che hanno favorito l’assunzione di 1.400 lavoratori.
Per quanto riguarda il comitato regionale di coordinamento, l’assessore Zezza ha confermato che esso è pienamente operativo e svolge varie attività di prevenzione, cui sono dedicati fondi specifici: in particolare, sono state segnalate le iniziative a favore dell’emersione delle malattie professionali e della prevenzione dello stress lavoro-correlato, tema molto sentito in una regione come il Lazio la cui economia è fortemente incentrata sui servizi e sulle attività amministrative. Infine, è stata richiamata l’importanza di campagne di sensibilizzazione mirate sui temi della sicurezza, che potrebbero essere ospitate negli appositi spazi istituzionali dei mezzi di comunicazione.
Il dottor Luciano Bresciani, assessore alla sanità della regione Lombardia, ha esposto le attività svolte in materia di prevenzione e contrasto degli infortuni sul lavoro attraverso il comitato regionale di coordinamento, che opera attivamente e che ha concentrato le azioni sul fronte della comunicazione, dei controlli e del coinvolgimento delle imprese, fissando una serie di obiettivi e di parametri di valutazione. Attraverso i Piani di prevenzione 2008-2010 e 2011-2013, nel periodo 2008-2011 si è avuto un significativo calo degli incidenti (dal 33 al 28 per cento) e delle morti (-37,5 per cento), specie in agricoltura e in misura maggiore nell’industria, mentre vi è un livello costante nell’edilizia. Questo resta infatti il settore più critico, a causa soprattutto della presenza di un alto numero di operatori extracomunitari, non preparati e non formati, che stanno arrivando in queste aree di lavoro e che sono maggiormente esposti ai rischi in assenza di una adeguata formazione. Per tale ragione occorrerebbe coinvolgere maggiormente i datori di lavoro.
Se dunque il trend degli incidenti in Lombardia è complessivamente in diminuzione, i numeri assoluti restano però alti, in ragione dell’elevato numero di ore lavorate della Regione: i risultati sono quindi soddisfacenti ma non ancora sufficienti, per cui sono previsti obiettivi di ulteriore calo degli incidenti e di emersione delle malattie professionali.
Il dottor Carlo Lusenti, assessore alle politiche per la salute della regione Emilia-Romagna, ha confermato che anche nella sua Regione le azioni di prevenzione hanno prodotto un calo significativo degli incidenti sul lavoro. Si è poi soffermato sul legame tra la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il rispetto della legalità, ad esempio nel settore dei subappalti, uno di quelli dove i lavoratori sono meno tutelati e più esposti al rischio. Un altro tema è quello della qualità e stabilità dei rapporti di lavoro, poiché qualsiasi attività di formazione e prevenzione è indebolita dalla precarietà del lavoro, che a sua volta si lega strettamente al problema dell’integrazione e dell’accoglienza dei lavoratori stranieri. Infine è stata ricordata l’esperienza virtuosa, già nota alla Commissione5, della collaborazione avviata tra la regione Emilia-Romagna e l’Università di Bologna istituendo un centro di ricerche specificamente dedicato al rapporto tra salute e condizioni di lavoro.
Il dottor Lusenti ha quindi richiamato il dibattito sull’eventuale trasferimento delle competenze di tutela della salute e sicurezza sul lavoro dalle regioni al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ossia allo Stato centrale. In proposito egli, a nome della sua Regione, si è dichiarato nettamente contrario, osservando che queste funzioni rientrano in quelle più generali di tutela della salute dei cittadini affidate alle Regioni, che possono quindi svolgerle in modo più efficace, mentre allo Stato spetta una diversa competenza, quella di vigilare sul rispetto delle norme e sulla regolarità dei rapporti di lavoro.
Al riguardo, la Commissione ha sottolineato come il problema non sia quello della competenza legislativa in tema di sicurezza e salute sul lavoro, essendo ormai assai difficile immaginare un ritorno al passato, per riattribuire la competenza esclusiva allo Stato centrale. Occorre invece garantire una legislazione omogenea su tutto il territorio nazionale, evitando che in tema di sicurezza sul lavoro vi siano differenze normative o interpretative tra le Regioni, da cui potrebbero derivare diverse condizioni non tanto in campo sanitario, quanto nella gestione dei rapporti economici e lavorativi. È quindi essenziale assicurare un effettivo coordinamento a livello nazionale, per prevenire possibili discrasie. La Commissione ha insistito fortemente su questo punto, auspicando una collaborazione sempre più stretta tra istituzioni centrali e locali, che ha trovato peraltro la piena condivisione da parte degli assessori presenti all’audizione.
Le due audizioni testé richiamate del 25 maggio e del 27 luglio 2011 sono dunque servite a fornire un quadro più ampio sull’attività delle regioni e delle province autonome a favore della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nel contesto della nuova disciplina dettata dal testo unico e della riorganizzazione dei servizi che questa comporta. Al tempo stesso, l’avvio di un confronto diretto tra la Commissione e i responsabili delle politiche di settore (ossia gli assessori regionali alla salute) potrà certamente contribuire a una maggiore sinergia fra tutte le istituzioni su un tema così complesso.
L’altro percorso di approfondimento e di confronto avviato dalla Commissione riguarda i sopralluoghi intrapresi nelle varie realtà territoriali italiane, che hanno toccato finora otto regioni: Toscana, Trentino-Alto Adige, Campania, Puglia, Sardegna, Basilicata, Valle d’Aosta e Marche.
Rinviando al successivo capitolo 4 per il resoconto dettagliato di ciascuna missione, è opportuno in questa sede svolgere alcune considerazioni di carattere generale sui risultati emersi dall’indagine. Pur essendo infatti questa ancora in corso, è comunque già possibile trarre alcune indicazioni, necessariamente parziali, ma non per questo meno significative.
Il primo aspetto – confermato in parte anche dalle due audizioni del Coordinamento tecnico interregionale e degli assessori regionali alla salute – è che sussistono ancora molte, troppe differenze organizzative e procedurali tra le varie regioni nel processo di attuazione del testo unico, che rischiano di compromettere l’efficacia delle azioni di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.
Questa eccessiva frammentazione e diversificazione riguarda in primo luogo proprio i comitati regionali di coordinamento. Anche se ormai istituiti in tutte le regioni, questi organismi incontrano a volte ancora difficoltà nella loro attività. Anzitutto, le regioni hanno spesso adottato soluzioni diverse in merito alla disciplina dell’organizzazione e al funzionamento.
Pur trattandosi di materia di dettaglio la cui regolazione è rimessa all’autonomia regionale, sarebbe però essenziale, su questo e su altri aspetti, che vi fosse una impostazione omogenea. Accade invece, ad esempio, che in alcuni casi le riunioni avvengano con una cadenza più lunga di quella trimestrale prevista dalla legge: pur essendo il termine in questione ordinamentale e non tassativo, è però vero che l’allungamento potrebbe rallentare l’azione del comitato. Ancora, specie in alcune regioni ad autonomia speciale, può succedere che la composizione dei comitati sia più ampia rispetto a quella indicata dalla norma, con il rischio di creare un organo eccessivamente pletorico e meno efficiente.
Più in generale, in alcune delle regioni visitate si è riscontrata ancora una certa «fatica» nell’instaurare un pieno coordinamento e una più ampia sinergia tra i diversi soggetti istituzionali preposti alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Si tratta di ritardi legati in parte a motivi organizzativi, in parte anche a elementi culturali: va detto comunque che vi è ormai una consapevolezza sempre più diffusa dei problemi e che, sia pure in modo diversificato nelle varie realtà locali, si sta concretamente cercando di superarli, anche sulla spinta delle direttive che arrivano dallo Stato centrale e che non a caso enfatizzano molto questo aspetto.
In molte circostanze, poi, la Commissione ha riscontrato che l’attività dei comitati regionali di coordinamento coesiste con quella di altri organismi, che riuniscono una parte più o meno ampia dei soggetti che compongono i comitati regionali e svolgono funzioni simili. Si tratta spesso di organismi istituiti prima delle riforma del testo unico, che svolgono un ruolo anche importante, ma che in assenza di un disegno più organico e coordinato rischiano di tradursi in una sovrapposizione e duplicazione dei comitati regionali di coordinamento, indebolendone l’azione complessiva.
In proposito, occorre ricordare che, già prima dell’istituzione dei comitati regionali di coordinamento, in molte regioni erano stati attivati dei comitati provinciali, presieduti dai prefetti nella loro qualità di commissari del Governo, che riunivano i vari soggetti istituzionali e sociali competenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro (comprese le forze dell’ordine) allo scopo di programmare e coordinare gli interventi sul territorio. In molti casi, queste iniziative hanno conseguito risultati di grande importanza, favorendo una collaborazione effettiva tra le amministrazioni competenti e una maggiore attenzione alla sicurezza sul lavoro, che si sono poi tradotte in una migliore azione di prevenzione, specie sul fronte delle attività di vigilanza, e in un calo significativo degli infortuni a livello locale.
Un aspetto critico di questi organismi era però il fatto di essere troppo legati all’iniziativa e alle capacità organizzative delle singole Prefetture, creando situazioni spesso disomogenee anche all’interno della stessa regione. Con l’avvento dei comitati regionali di coordinamento, i comitati provinciali hanno assunto un ruolo più sfumato, con esiti piuttosto diversificati a seconda delle situazioni: in alcune Province i comitati sono sopravvissuti e continuano ad operare in modo attivo, in altre hanno invece ridotto la loro attività. In entrambi i casi, tuttavia, non esiste un raccordo formale con i comitati regionali di coordinamento, perché in effetti la legge non lo prevede e perché diverse sono le competenze delle autorità prefettizie e regionali.
D’altro canto, i comitati prefettizi, a differenza dei comitati regionali, sono in genere integrati anche dalle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza) e questo consente una migliore programmazione dei controlli ispettivi. Contemporaneamente, come si è accennato in precedenza, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007, che disciplina il funzionamento dei comitati regionali di coordinamento, dispone espressamente che le attività di vigilanza pianificate dai comitati attraverso gli uffici operativi siano attuate da organismi provinciali composti dai servizi interessati (tra i quali non rientrano, ovviamente, le forze dell’ordine). Potrebbe quindi senz’altro essere utile un raccordo diretto tra queste strutture in ambito provinciale, per garantire una più efficace attività di controllo. In genere, questa esigenza viene soddisfatta attraverso protocolli d’intesa stipulati ad hoc in sede prefettizia tra i soggetti istituzionali interessati, ma manca una cornice giuridica formale che sarebbe forse opportuno prevedere.
Un altro punto critico nell’attuale funzionamento dei comitati regionali di coordinamento rilevato dalla Commissione sia durante le audizioni in Senato che nei sopralluoghi presso le regioni, è il fatto che, contrariamente a quanto prevede la norma, finora quasi nessuna regione ha trasmesso la relazione annuale sul monitoraggio delle attività di vigilanza ai Ministeri del lavoro e della salute. Si tratta di un adempimento importante, sulla cui necessità la Commissione d’inchiesta, nei vari incontri, ha insistito con forza, ricordando che le relazioni dovrebbero fornire agli organismi di programmazione nazionale (Commissione consultiva permanente e Comitato nazionale di coordinamento) un riscontro diretto sui risultati, a livello locale, delle politiche decise in ambito centrale, rafforzando così il collegamento tra i due livelli decisionali.
D’altra parte, proprio i rappresentanti di alcune regioni, nel corso dei sopralluoghi sul territorio, hanno evidenziato come le norme non definiscano esattamente il contenuto di questo tipo di relazione: il rischio che è stato segnalato alla Commissione è che le varie amministrazioni regionali, all’atto di stilare la relazione, adottino modelli diversi, il che, oltre ad accrescere la confusione in una materia così delicata, renderebbe poi anche difficile fare confronti omogenei sui risultati ottenuti, indebolendo il valore delle stesse informazioni. Per questo, si è indicato da parte degli stessi rappresentanti regionali l’opportunità di definire, a livello nazionale, un «formato» comune e standardizzato per la relazione ai ministeri, che possa aiutare ad adempiere meglio a questa disposizione.
Conclusivamente, dalle prime verifiche sulla costruzione dei sistemi regionali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro emerge un quadro piuttosto variegato. Rispetto al passato, la situazione è certamente migliorata: come già accennato, la scelta strategica di definire delle priorità a livello nazionale assegnando obiettivi precisi a tutto il sistema delle regioni sulla base del «Patto per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro» del 1º agosto 2007, ha avuto effetti largamente positivi, consentendo fin da quell’anno alle regioni, nel loro complesso, di garantire a livello nazionale la copertura dei livelli essenziali di assistenza (LEA), tra i quali l’obiettivo del controllo del 5 per cento delle aziende con almeno un dipendente o assimilato. In quella stessa logica si sono elaborati i Piani regionali di prevenzione 2010-2012 che, seguendo gli indirizzi del Piano nazionale di prevenzione e tenendo conto dei dati raccolti a livello locale, danno priorità agli interventi dotati di maggiore efficacia e rivolti alle situazioni di maggior rischio.
Ciononostante, permangono ancora molte difficoltà nel coordinamento tra i diversi attori del sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia nel rapporto tra gli organi centrali e periferici a livello nazionale, sia in quello tra gli organi periferici di ciascuna regione. In questo contesto, diventa cruciale il ruolo dei comitati regionali di coordinamento, che dovrebbero costituire appunto la «cabina di regia» del sistema a livello territoriale. La relazione della Conferenza delle regioni e delle province autonome sull’attività di prevenzione 2010 sottolinea che i comitati sono costituiti e operanti in tutte le regioni e ne ribadisce il ruolo centrale.
Tuttavia, come si è spiegato in precedenza, le verifiche condotte dalla Commissione hanno evidenziato che la situazione è più complessa e che i comitati regionali non riescono sempre a funzionare in maniera ottimale, nel senso che non vengono convocati regolarmente o che non svolgono tutti i compiti loro assegnati. Senza ripetere le considerazioni già svolte, in molti casi c’è ancora bisogno di mettere a punto una serie di meccanismi, per garantire la piena efficacia del sistema territoriale di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, che risulta altrimenti indebolita o addirittura annullata.
Naturalmente, non si può generalizzare: in molte regioni i comitati funzionano bene e stanno ottenendo significativi risultati. Il punto però è che su questo, come su altri aspetti, si registrano ancora troppe differenze e asimmetrie tra le varie regioni, nonostante gli sforzi fatti per superarle.
Ad esempio, in questi anni si è cercato di lavorare molto sulla formazione degli operatori delle ASL, mediante corsi gestiti a livello centralizzato, per garantire la massima omogeneità di intervento su tutto il territorio nazionale. Ciononostante, come la stessa Commissione d’inchiesta ha potuto rilevare, il livello delle attività e spesso anche l’approccio non è sempre uniforme: un caso tipico è quello dell’attività di vigilanza, in cui non solo il numero dei controlli, ma anche le forme di svolgimento degli stessi possono variare, in particolare per quanto riguarda il livello di coordinamento che si riesce a instaurare tra i diversi enti e corpi ispettivi. Su questo punto, del resto, si è già riferita nel precedente paragrafo 2.5 la risposta fornita alla Commissione dalla Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che ha purtroppo confermato il persistere di difficoltà e ritardi nel coordinamento tra Stato e regioni sia sul fronte delle attività ispettive che su quello più generale della attività di prevenzione.
La stessa relazione della Conferenza delle regioni e delle province autonome evidenzia come la costituzione dei comitati regionali di coordinamento sia avvenuta in momenti diversi nelle varie regioni (in tre, Calabria, Campania e Sardegna, addirittura solo nel 2011). Questi ritardi sono dovuti a cause diverse, ma hanno creato difficoltà operative e rallentato l’azione complessiva di prevenzione. In altri casi, lo svolgimento delle elezioni in alcune regioni durante il 2010 ha ugualmente rallentato l’azione dei comitati di coordinamento, dovendosi attendere la ricostituzione degli organi regionali politici e amministrativi e il conferimento delle necessarie deleghe per poter reinsediare i comitati. Un altro dato che emerge dalla relazione è poi il fatto che nelle varie regioni i comitati si sono riuniti con una frequenza molto diversa tra loro.
A parte i fattori legati al diverso tessuto economico-sociale dei vari territori italiani, un aspetto che incide profondamente sul divario dei sistemi di prevenzione regionale è il diverso ammontare di risorse che le singole regioni sono in grado di mettere in campo. Si tratta però di un divario non facile da ridurre, anche per le possibilità sempre più limitate di incrementare le risorse disponibili per la prevenzione, in un periodo di crisi economica come quello che caratterizza questi anni e quelli a venire.
La sfida è quindi anche quella di un ulteriore sforzo di razionalizzazione delle risorse, senza compromettere la qualità delle prestazioni, agendo sugli obiettivi (aziende o situazioni a maggior rischio) e sui metodi di intervento (abbandono delle pratiche poco efficaci o che interessano un target limitato). In questo contesto diventa allora essenziale recuperare in pieno il ruolo dei comitati regionali di coordinamento, superando i ritardi e le resistenze di carattere organizzativo e burocratico, per realizzare un effettivo raccordo, in ambito territoriale, tra gli enti del sistema regionale della prevenzione afferenti ai comitati e, in ambito nazionale, tra lo Stato e le regioni stesse. Lo scopo è quello di garantire finalmente, a tutti i livelli, una vera sinergia e integrazione dei programmi e delle azioni di vigilanza e di promozione della salute e sicurezza sul lavoro.
La Commissione è attivamente impegnata su questo fronte, attraverso un dialogo costante con tutti i soggetti competenti nazionali e regionali e un confronto diretto con le singole realtà territoriali, sia al fine di ottenere un quadro conoscitivo completo della situazione, sia al fine di contribuire, per quanto di sua competenza, alla realizzazione di un efficace sistema di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

2.7. Il quadro statistico degli infortuni e delle malattie professionali
A conclusione di questa seconda sezione, è opportuno fornire alcuni dati sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali nel corso dell’ultimo anno, utilizzando i dati ufficiali contenuti nel Rapporto annuale INAIL 2010 presentato il 5 luglio 2011. Contemporaneamente, si daranno anche alcune indicazioni di massima sull’andamento dei primi nove mesi del 2011, sulla base dei dati provvisori diffusi dall’INAIL in data 13 dicembre 2011. È bene sottolineare che i dati per il 2010 sono consolidati e definitivi e possono quindi consentire una serie di valutazioni più precise.
Viceversa, i dati per il 2011 sono, oltre che riferiti solo a una parte dell’anno, ancora provvisori e suscettibili di successivi controlli e revisioni, fino al consolidamento che avverrà, per l’intero 2011, a metà dell’anno successivo. Essi, di conseguenza, devono essere considerati con cautela, ai fini delle valutazioni sull’andamento del fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali nell’ultimo anno.

2.7.1. I dati definitivi del 2010
I dati INAIL mostrano per il 2010 un andamento degli infortuni sul lavoro ancora in diminuzione dopo il forte calo registrato nell’anno precedente.
Con 775.000 denunce pervenute – 15.000 in meno rispetto al 2009 – si è avuta una diminuzione (sia pure più contenuta) dell’1,9 per cento degli infortuni. Da segnalare è anche il risultato sul versante degli incidenti mortali che, per la prima volta nella storia della Repubblica, scendono sotto la soglia simbolica dei mille casi, passando dai 1.053 del 2009 ai 9736 del 2010, con una riduzione del 7,6 per cento.
Dopo la forte riduzione del 2009 – quando gli infortuni, anche per effetto della grave crisi occupazionale, erano scesi del 9,7 per cento rispetto al 2008, la diminuzione più alta dell’ultimo quindicennio –, si temeva infatti che si potesse creare una sorta di «effetto-rimbalzo», con una ripresa del fenomeno infortunistico e un suo riallineamento ai livelli più consolidati degli anni precedenti. Così non è stato e la diminuzione degli infortuni nel 2010, dell’1,9 per cento pur in un perdurante clima di incertezza economica, rappresenta pertanto un risultato importante, anche se, come testimoniano i dati provvisori per i primi nove mesi del 2011 del successivo paragrafo, purtroppo i numeri assoluti degli incidenti e dei casi mortali restano ancora molto, troppo elevati per un Paese avanzato come l’Italia e impongono un ulteriore sforzo sul fronte della prevenzione e del contrasto.
Nel dettaglio, gli infortuni in itinere sono scesi del 4,7 per cento (dai 93.037 casi del 2009 agli 88.629 del 2010), mentre quelli in occasione di lavoro dell’1,5 per cento (da 697.075 a 686.745). Tra questi ultimi, da segnalare l’impennata degli infortuni occorsi ai lavoratori che operano sulla strada (autotrasportatori merci, autotrasportatori di persone, rappresentanti di commercio, addetti alla manutenzione stradale, ecc.), passati dai 50.969 casi del 2009 ai 53.679 del 2010 (+5,3 per cento): il valore più alto dal 2005, primo anno di rilevazione strutturale e completa del dato. Per quanto riguarda i casi mortali, scendono del 10,9 per cento le morti in itinere (da 274 a 244) e del 5,5 per cento quelle in occasione di lavoro (da 779 a 736). Tra questi, in calo anche i decessi per circolazione stradale in ambito lavorativo (-3,9 per cento): da 308 a 296.
Un discorso importante riguarda naturalmente l’impatto dell’occupazione sul fenomeno infortunistico. Nel 2010, rispetto al 2009, gli effetti della crisi hanno pesato meno sul piano dell’occupazione, soprattutto per quanto riguarda il monte ore lavorate: c’è stato, infatti, un ricorso minore alla cassa integrazione e al taglio degli orari. Questa situazione viene valutata attraverso le ULA, le unità di lavoro per anno equivalente, che elabora l’ISTAT e che per il 2010 fanno registrare un calo dello 0,7 per cento (nel 2009 era stato del 2,9 per cento). A fronte di questa situazione si può stimare che, a livello medio generale, nel 2010 la riduzione degli infortuni in termini reali – al netto quindi della componente del calo del lavoro – è di circa 1,2 per cento per gli infortuni e 6,2 per cento per i casi mortali.
Su questo punto è necessario però chiarire alcuni aspetti. Il dato elaborato dall’ISTAT riguarda gli occupati nel complesso: si tratta cioè delle persone che prestano la propria attività lavorativa e che, anche se temporaneamente non al lavoro, mantengono un legame formale con la loro posizione lavorativa, come i lavoratori in «cassa integrazione guadagni» (CIG). Per la definizione stessa di occupati, quindi, il loro numero non subisce riduzioni per prestazioni lavorative a tempo ridotto. Poiché dunque il numero sugli occupati incorpora anche lavoratori temporaneamente assenti dal lavoro, esso potrebbe non offrire un’indicazione chiara dell’eventuale effetto che l’andamento occupazionale ha su quello degli infortuni sul lavoro.
Per tali ragioni, al fine di poter valutare in maniera più corretta se e in che misura l’evoluzione del quadro occupazionale possa aver influito sulla riduzione degli incidenti sul lavoro nell’ultimo anno, la Commissione ha chiesto uno specifico approfondimento all’INAIL, con particolare riferimento ai dati sul numero delle ore effettivamente lavorate, che consentono di avere una visione più chiara del fenomeno.
L’INAIL, con il consueto spirito di collaborazione, ha quindi svolto tale analisi, dalla quale è emerso che nell’anno 2010 il monte ore lavorate relativo ai lavoratori dipendenti, secondo l’ISTAT, è diminuito dello 0,9 per cento rispetto al 2009. In particolare il decremento è stato del 2,5 per cento per l’industria (di cui -2,6 per cento è da attribuire al settore delle costruzioni) e dello 0,4 per cento per i servizi, mentre si è avuto addirittura un aumento del 3,0 per cento in agricoltura. Dalle statistiche congiunturali sull’occupazione e sui redditi dell’ISTAT si desumono poi i dati relativi alla cassa integrazione guadagni effettivamente «utilizzate» dalle imprese con almeno 10 dipendenti. Il numero di ore di CIG per mille ore lavorate è in diminuzione: si passa infatti da 39,8 nel 2009 a 32,8 nel 2010. Tale dato risulta evidente anche dai comunicati stampa e dal Rapporto annuale dell’INPS, che confermano come il numero di ore di CIG autorizzate ed effettivamente utilizzate siano in diminuzione: nel 2009 erano state autorizzate più di 914 milioni di ore ed utilizzate quasi 600 milioni (con un «tiraggio» pari al 65,4 per cento), nel 2010 di 1,2 miliardi autorizzate se ne sono utilizzate 580 milioni («tiraggio» pari al 48,2 per cento). In definitiva, quindi, anche l’andamento del monte ore lavorate conferma le stime precedenti sull’impatto del calo occupazionale sulla riduzione degli infortuni.
Un altro aspetto che incide sulla completezza delle statistiche sugli infortuni sul lavoro è quello degli incidenti occorsi ai cosiddetti lavoratori «in nero». Poiché tali eventi naturalmente non sono denunciati, l’INAIL ha fatto una stima basandosi sui lavoratori irregolari rilevati dall’ISTAT.
Considerando che, secondo l’Istituto di statistica, i lavoratori non coperti da assicurazione sono quasi tre milioni, si può stimare che siano circa 165.000 gli infortuni che sfuggono alle rilevazioni ufficiali, ossia circa il 20 per cento degli incidenti totali.
In un’ottica di genere, il calo infortunistico nel 2010 riguarda esclusivamente gli uomini: -2,9 per cento rispetto al 2009 per gli infortuni in complesso e -8,2 per cento per i casi mortali. Crescono lievemente invece gli infortuni per le donne: un migliaio in più quelli in complesso (+0,4 per cento rispetto al 2009) e 7 in più quelli mortali (da 72 a 79), tenendo conto che metà dei decessi femminili è avvenuto in itinere. I dati sono coerenti con l’andamento dell’occupazione, scesa rispetto all’anno precedente per i maschi (-1,1 per cento) e rimasta stabile per le donne. Occorre comunque precisare che, poiché le donne rappresentano circa il 40 per cento degli occupati e la quota di infortuni femminili rispetto al totale è del 32 per cento e dell’8 per cento per i casi mortali, l’incidenza del rischio nel lavoro femminile è in media più bassa.
Relativamente ai settori di attività, nel 2010 quelli che hanno beneficiato di più del calo infortunistico sono l’agricoltura – che ha registrato un calo del 4,8 per cento degli incidenti e del 10,2 per cento dei casi mortali – e l’industria (rispettivamente -4,7 per cento e -10 per cento). Il ramo dei servizi, invece, ha fatto registrare una sostanziale stabilità degli infortuni (+0,4 per cento) e un calo modesto del 3 per cento degli incidenti mortali.
Per una valutazione più completa di questi dati, è opportuno ricordare che nello stesso periodo l’ISTAT ha rilevato una diminuzione degli occupati nell’industria del 3,0 per cento e, viceversa, una leggera ripresa nei servizi (+0,2 per cento) e un significativo aumento dell’1,9 per cento in agricoltura.
Più in dettaglio, tra le attività industriali – le più colpite dalla crisi economica – le costruzioni registrano la diminuzione più elevata (-12,4 per cento) a fronte di una lieve contrazione dell’occupazione (-0,7 per cento). Riduzioni più contenute si hanno per la metallurgia (-3,6 per cento) e la meccanica (-3,3 per cento), tenendo però conto che nel 2009 questi settori avevano visto cali addirittura del 25-30 per cento. Nei servizi la mancata diminuzione degli infortuni è da ascrivere praticamente a tre settori, che confermano purtroppo il trend crescente degli ultimi anni: i servizi domestici (colf e badanti, +25,6 per cento), l’istruzione (+17,7 per cento) e, più consistenti in termini assoluti (quasi 1.500 casi in più rispetto al 2009), gli altri servizi pubblici quali smaltimento rifiuti e lavanderie (+4,0) per cento. Il primo di tali settori occupa una elevata quota di lavoratori stranieri, che sono infatti i più colpiti dagli incidenti (3 su 4).
Altri settori rilevanti dei servizi sono i trasporti e comunicazioni e il commercio, dove gli infortuni scendono rispettivamente del 4,6 per cento e del 4,3 per cento.
Per quanto riguarda i casi mortali, nel 2010 sono scesi in tutti i rami di attività: agricoltura (-10,2 per cento), industria (-9,7 per cento) e servizi (-3,0 per cento). Particolarmente elevato il calo nella metallurgia (- 37,8 per cento, 28 decessi in meno) e nel commercio (-26,3 per cento, 26 in meno), più contenuto nelle costruzioni (-6,1 per cento, 14 in meno). In aumento viceversa le vittime occupate nei trasporti e comunicazioni (+9,8 per cento, 12 in più rispetto al 2009).
Per i lavoratori immigrati, pur in presenza di un lieve calo degli assicurati, l’andamento infortunistico nel 2010 fa registrare un leggero incremento (+900 casi, pari al +0,8 per cento). Per i casi mortali, invece, la diminuzione in termini percentuali si attesta al -4 per cento. Le comunità più interessate continuano a essere la Romania, il Marocco e l’Albania che da sole rappresentano il 40 per cento di tutti gli infortuni agli stranieri e il 50 per cento dei casi mortali.
Passando a un’analisi di tipo territoriale, il calo registrato a livello nazionale (-1,9 per cento tra il 2009 e il 2010) ha interessato tutte le aree del Paese, in maniera crescente dal Nord al Sud (dal -1,3 per cento del Nord-Ovest al -3,2 per cento del Mezzogiorno, passando per il -1,6 per cento del Nord-Est e il -1,8 per cento del Centro), l’area meridionale essendo più penalizzata delle altre dal calo occupazionale (-1,4 per cento contro il -0,7 per cento nazionale).
A livello regionale, praticamente quasi tutte le regioni vedono una contrazione degli incidenti con i risultati più significativi in Piemonte (- 3,6 per cento), Veneto (-2,5 per cento) e Campania (-6,5 per cento).
Nel Nord continua a concentrarsi il 60 per cento degli infortuni, trattandosi d’altronde del territorio a maggiore densità occupazionale (52 per cento degli occupati nazionali nel 2010). Le regioni con più denunce di infortunio si confermano Lombardia (133.000), Emilia-Romagna (106.000) e Veneto (87.000): tre regioni che concentrano da sole il 42 per cento dell’intero fenomeno. La diminuzione del 7,6 per cento delle morti sul lavoro è la risultante del forte calo al Nord-Ovest (15,2 per cento, 41 vittime in meno), al Centro (-9,5 per cento) che recupera così sul sensibile aumento fatto registrare lo scorso anno, al Mezzogiorno (- 5,5 per cento) e, infine, dell’aumento pari al 3,7 per cento (8 decessi in più) del Nord-Est.
Per quanto riguarda gli infortuni occorsi a lavoratori stranieri, il 2010 è stato un anno peggiore del precedente in termini di infortuni sul lavoro.
A fronte di una diminuzione complessiva del numero di assicurati presso l’INAIL (-1,6 per cento, da 2.713.740 a 2.669.808), si è passati infatti dai 119.240 infortuni del 2009 ai 120.135 del 2010, con un incremento dello 0,25 per cento. Migliore la situazione per i casi mortali, che sono ancora diminuiti passando dai 144 del 2009 ai 138 del 2010.
Gli infortuni degli stranieri rappresentano il 15,5 per cento degli infortuni complessivi, quelli dei soli extracomunitari, invece, l’11,5 per cento; se si considerano i casi mortali le percentuali sono rispettivamente del 14,1 per cento e dell’8,6 per cento.
Con riferimento alla gestione assicurativa, nel 2010 il 94,4 per cento degli infortuni degli stranieri si sono verificati nell’industria e servizi (+0,7 per cento rispetto al 2009), il 4,9 per cento in agricoltura (+2,8 per cento rispetto al 2009) e lo 0,7 per cento tra i dipendenti conto Stato (-4,8 per cento rispetto al 2009). Il settore più colpito è quello delle costruzioni, che con poco più di 15.000 infortuni copre il 12,5 per cento delle denunce. A seguire, i trasporti (7,8 per cento) e i servizi alle imprese (7,7 per cento) che inglobano anche le attività di pulizia nelle quali è elevata la concentrazione di lavoratori stranieri.
Per quanto riguarda i casi mortali, il triste primato spetta alle costruzioni dove nel 2010, pur in forte diminuzione rispetto al 2009, si sono avuti comunque 32 decessi, a fronte dei 22 in agricoltura e dei 21 nei trasporti.
L’incidenza infortunistica, espressa dal rapporto tra infortuni denunciati e lavoratori assicurati all’INAIL, risulta più elevata per gli stranieri rispetto a quella degli italiani, rispettivamente 45 casi denunciati ogni 1.000 occupati contro 39,2. A determinare queste differenze concorre senz’altro l’occupazione prevalente degli immigrati in settori particolarmente rischiosi nei quali l’attività manuale è prevalente (edilizia, industria pesante, agricoltura), i turni di lavoro sono più lunghi e spesso la formazione professionale non è adeguata. Da sottolineare il caso del comparto relativo al personale domestico, intendendo con questo colf e badanti, nel quale 77 infortuni su 100 riguardano proprio lavoratori immigrati, in prevalenza donne.
Rispetto al genere, per gli stranieri il sesso maschile prevale nettamente su quello femminile quanto a numero di infortuni, infatti la quota raggiunge il 75 per cento delle denunce e l’88 per cento dei casi mortali (per il complesso dei lavoratori le percentuali sono rispettivamente pari al 68 per cento e 92 per cento).
Romania, Marocco e Albania nell’ordine sono le comunità che ogni anno denunciano il maggior numero di infortuni sul lavoro: circa il 40 per cento del totale. Se si considerano, poi, i casi mortali la percentuale arriva al 48 per cento, in calo rispetto al 2009 quando superava il 50 per cento.
A livello territoriale, il 42,9 per cento degli infortuni ai lavoratori stranieri avviene nel Nord-Est e ben il 75 per cento al Nord. Il Mezzogiorno fa registrare il 7,2 per cento delle denunce in complesso ed il 18,1 per cento degli eventi mortali. La maggior parte delle denunce si concentrano nelle regioni a maggior densità occupazionale, ossia Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto che insieme totalizzano il 55,3 per cento delle denunce e il 41,3 per cento dei decessi.
Per quanto riguarda le malattie professionali, anche nel 2010 si è avuto un record delle denunce, superando il livello già assai elevato dell’anno precedente: si è infatti passati dai 34.750 casi del 2009 ai 42.350 del 2010, con un incremento del 22 per cento.
La crescita del fenomeno, osservata già da alcuni anni, si è fatta nell’ultimo biennio particolarmente alta, ma si tratta in realtà di un fatto positivo.
Da sempre l’INAIL, le parti sociali e i medici del lavoro consideravano quello delle malattie professionali un fenomeno sottostimato, una parte rilevante del quale non riusciva a emergere, dando luogo alle cosiddette malattie «nascoste» o «perdute». Ciò per una serie di motivi, tra cui i lunghi periodi di latenza di molte patologie, le difficoltà nell’individuazione e nell’accertamento del nesso causale ma, soprattutto, un significativo fenomeno di «sottodenuncia» da parte degli interessati.
Il notevole aumento degli ultimi anni si può quindi ricondurre senz’altro ad una più matura consapevolezza raggiunta da lavoratori e datori di lavoro. Hanno certamente contribuito in tal senso le numerose iniziative di formazione/informazione intraprese dai medici INAIL e le attività di istituzioni e organizzazioni interessate al fenomeno come enti di ricerca (ex ISPESL), parti sociali, medici di famiglia, patronati, ecc.
Un altro fattore che ha concorso all’incremento delle denunce è stata l’entrata in vigore delle nuove «tabelle» delle malattie professionali. Alcune malattie prima erano «non tabellate», cioè non erano riconosciute direttamente e richiedevano l’onere della prova per il lavoratore che doveva dimostrarne l’origine professionale. L’aggiornamento dell’elenco delle tecnopatie con il decreto ministeriale del 9 aprile 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 169 del 21 luglio 2008, ha invece introdotto la presunzione legale d’origine per molte patologie, in particolare per le malattie muscolo-scheletriche causate da sovraccarico biomeccanico (ormai anche in Italia come in Europa la prima causa di malattia professionale). Lo status di «tabellate», agevolando il riconoscimento sul piano probatorio, ha quindi favorito un ricorso più massiccio allo strumento assicurativo.
Le nuove tabelle hanno inoltre consentito l’emersione di una serie di patologie meno note o sottovalutate in passato nonché, in alcuni casi, la denuncia di più malattie insistenti su un unico lavoratore e connesse alla sua mansione. Al riguardo, negli ultimi due anni si è assistito ad un notevole aumento di queste denunce «plurime» con un rilevante effetto sul conteggio complessivo dei casi. Ad esempio, nel 2010 sono stati circa 34.000 i lavoratori che hanno presentato denuncia all’INAIL e, delle oltre 42.000 denunce, un quarto sono plurime.
L’analisi per gestione evidenzia come anche nel 2010 in agricoltura l’aumento del fenomeno delle malattie professionali sia stato molto più sostenuto che nelle altre gestioni, con un incremento del 63 per cento (6.380 denunce, 2.500 in più del 2009). Da segnalare anche la particolare incidenza delle denunce plurime, che in questo comparto arriva addirittura al 38 per cento. Per quanto riguarda l’industria e servizi, l’aumento è stato del 17 per cento (35.548 denunce, 5.000 casi in più del 2009), mentre nei dipendenti conto Stato del 13 per cento (419 denunce, 47 in più).
Tra le tecnopatie, anche nel 2010 le più numerose sono state le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee, dovute prevalentemente a sovraccarico biomeccanico: da sole, con quasi 26.000 denunce nel 2010, rappresentano circa il 60 per cento del totale. Le affezioni dei dischi intervertebrali (oltre 9.000 denunce) e tendiniti (più di 8.000) sono invece le patologie più frequenti: più che raddoppiate negli ultimi cinque anni.
Tuttora molto diffuse si confermano le ipoacusie da rumore: quasi 6.300 denunce nel 2010 (circa 600 casi in più rispetto all’anno precedente).
Un cenno particolare meritano le patologie da amianto, passate a 2.300 denunce nel 2010, con una crescita del 7 per cento rispetto al 2009. Si conferma così il trend crescente degli ultimi anni, causato anche dai lunghi periodi di latenza pari, come nel caso del mesotelioma, anche a 40 anni col picco di manifestazione stimato intorno al 2025. Circa 300 infine i casi denunciati di silicosi nell’ultimo quinquennio, con una certa variabilità negli anni.
Più in generale, i tumori professionali restano la principale causa di morte per malattia tra i lavoratori. Le cifre rilevate dall’INAIL devono, purtroppo, considerarsi sottostimate: esiste infatti per queste patologie un fenomeno di sottodenuncia, a causa delle difficoltà di riscontro del nesso causale – il più delle volte di natura multifattoriale – e della ancora ridotta consapevolezza della possibile natura professionale di molti tumori.
I tumori denunciati (compresi quelli da asbesto) – per tutte le gestioni – continuano a superare i 2.000 casi l’anno, restando tra le patologie professionali più frequenti. Più della metà sono legati ai polmoni e alla pleura, con una certa rilevanza anche di quelli legati alla vescica (quasi 300 denunce l’anno).
Un ultimo accenno alle malattie professionali di natura psichica. I cambiamenti occorsi negli ultimi anni ai rapporti lavorativi, a causa anche del protrarsi della crisi economica e del fenomeno del precariato, hanno purtroppo contribuito a innescare in alcuni lavoratori malesseri e disagi psicologici, fino a sfociare, in alcuni casi, in vere e proprie malattie, definibili sinteticamente come disturbi psichici da stress lavoro-correlato.
Tale fenomeno ha trovato un importante riconoscimento normativo con la circolare del 18 novembre 2010 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che ha fornito le indicazioni metodologiche per la valutazione, da parte dei datori di lavoro, dello stress lavoro-correlato negli ambienti di lavoro (così come previsto dal testo unico).
Le denunce pervenute all’INAIL per tale patologia devono essere considerate, in una certa misura, sottostimate, sia per la difficoltà di distinguere, in fase di denuncia e prima codifica, lo specifico disturbo psichico, sia in base a confronti con i dati provenienti da altri organismi e osservatori.
In generale comunque i «disturbi psichici da stress lavoro-correlato», hanno registrato, nell’ultimo quinquennio, circa 500 denunce l’anno, con una diminuzione tendenziale nell’ultimo biennio. I casi denunciati si concentrano soprattutto nelle attività dei servizi, piuttosto che in quelle dell’industria, e tra i dipendenti dello Stato.
In linea con quanto osservato negli ultimi anni e con l’andamento del fenomeno in generale, il 2010 ha fatto registrare un aumento di denunce di malattia professionale anche tra i lavoratori stranieri. Si è passati dalle 2.068 denunce del 2009 alle 2.462 del 2010 con un incremento del 19 per cento; notevole è stato l’aumento di denunce in agricoltura, passate dai 58 casi del 2009 ai 111 del 2010 (+91,4 per cento).
Aumentano le malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee, che rappresentano ormai quasi i due terzi del complesso delle denunce. Tornano a crescere anche le ipoacusie da rumore che dopo la frenata del 2009 (22008 casi) sono arrivate a quota 364 denunce. Continua il trend crescente dei tumori con 44 denunce.
I Paesi di provenienza dei tecnopatici sono principalmente Marocco (14,0 per cento), Romania (9,8 per cento) e Albania (9,6 per cento), gli stessi che detengono il primato per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro.
Come già ricordato nel paragrafo 2.4, la legge n. 122 del 2010 (che ha convertito il decreto-legge n. 78 del 2010) ha previsto tra l’altro l’incorporazione nell’INAIL dell’IPSEMA (Istituto di previdenza per il settore marittimo) che assicura i lavoratori del comparto marittimo. Nella fase di transizione che necessariamente accompagna il complesso lavoro di integrazione e armonizzazione delle attività, nonché degli apparati informatici, l’INAIL ha ritenuto di mantenere separate le informazioni raccolte nei diversi ambiti di competenza relativamente agli andamenti infortunistici.
Di conseguenza, per gli infortuni 2010, i dati finora esposti riguardano le sole gestioni tradizionali INAIL (agricoltura, industria e servizi, dipendenti conto Stato).
Per quanto attiene specificamente al fenomeno infortunistico del personale della navigazione marittima, in termini molto sintetici, tra il 2009 e il 2010 si è avuto un netto calo, in linea con i dati osservati per le altre categorie di lavoratori assicurati INAIL. Precisamente, gli infortuni nel complesso sono scesi da 1.293 a 1.268 (-1,9 per cento), mentre quelli mortali sono calati da 7 a 5.
Di questi infortuni, circa il 97 per cento è avvenuto in occasione di lavoro, ossia a bordo delle navi, mentre solo il rimanente 3 per cento in itinere. Gli incidenti a bordo delle navi sono scesi del 29 per cento, mentre quelli in itinere sono aumentati del 41 per cento, un valore elevato che però si ridimensiona quando si tiene conto del numero molto esiguo di casi.
La diminuzione degli infortuni del 2010 si accompagna ad un aumento del 2,7 per cento della massa retributiva accertata per l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali e quindi ad un livello di occupazione da ritenersi stabile.
Il dato conferma il trend decrescente registrato negli ultimi anni: tra il 2001 e il 2010, infatti, nel settore marittimo gli infortuni sono scesi da 1.693 a 1.268, ossia di circa un quarto.
Se si esamina la distribuzione degli incidenti per categoria di naviglio, la categoria passeggeri (trasporto persone) è quella nella quale si è contato il maggior numero di infortuni sul luogo di lavoro, con oltre la metà dei casi; la categoria passeggeri insieme alla categoria del carico (trasporto merci) e al settore pesca copre oltre l’86 per cento degli eventi avvenuti nel 2010. Il settore passeggeri è anche quello che ha registrato, tra il 2009 e il 2010, la diminuzione più significativa: -8,7 per cento, a fronte di un andamento dell’occupazione in lieve aumento (il complesso delle retribuzioni imponibili è salito del 6,6 per cento), segno che la riduzione degli incidenti non è riconducibile a una diminuzione dell’attività lavorativa e quindi dell’esposizione al rischio.
Dei 5 casi mortali accaduti nel 2010, 3 sono avvenuti a bordo e 2 in itinere. I 3 avvenuti a bordo appartengono tutti al settore della pesca, che conferma purtroppo ogni anno la sua rischiosità, soprattutto a causa dei naufragi che mettono a repentaglio la vita degli equipaggi. Nel periodo 2001-2010, infatti, dei circa 70 infortuni avvenuti in luogo di lavoro, quasi il 68 per cento si è registrato nel settore della pesca.
Infine, nel raffronto con l’Europa, in attesa dei dati EUROSTAT 2008, occorre ribadire come sulla base dei tassi d’incidenza standardizzati EUROSTAT l’Italia registri per il 2007 (ultimo anno reso disponibile) un indice infortunistico pari a 2.674 infortuni per 100.000 occupati: più favorevole, dunque, rispetto a quello medio riscontrato nelle due aree dell’Unione europea (3.279 per l’area euro e 2.859 per l’Unione europea a 15).
Nelle statistiche armonizzate l’Italia risulta in posizione migliore rispetto a Paesi come Spagna (4.691), Francia (3.975) e Germania (3.125).
Per quanto riguarda gli infortuni mortali7, nel 2007 si è registrata per l’intera UE, rispetto all’anno precedente, una diminuzione dei tassi d’incidenza da 2,4 a 2,1 decessi (sempre per 100.000 occupati), anche se tale valore è ancora provvisorio, poiché alcuni Paesi non hanno comunicato a EUROSTAT i dati riguardanti l’anno 2007. Anche l’indice dell’Italia ha registrato nel 2007 un calo da 2,9 a 2,5 decessi per 100.000 occupati, mantenendosi ancora al di sopra del valore medio UE. È possibile, tuttavia, anticipare che l’indice relativo all’anno 2008 per il nostro Paese è destinato a segnare una sensibile riduzione, in linea peraltro con il calo degli infortuni mortali registrato tra gli anni 2007-2008, e a posizionarsi, probabilmente, al di sotto della media UE.

2.7.2. I dati provvisori dei primi nove mesi del 2011
Il 13 dicembre 2011 l’INAIL ha diffuso i dati provvisori sull’andamento degli infortuni sul lavoro nel periodo gennaio-settembre 2011. La Commissione ha chiesto in merito alcuni approfondimenti e l’Istituto, con la consueta disponibilità e puntualità, ha fornito una dettagliata e articolata analisi, dalla quale è possibile evincere alcune importanti indicazioni.
Si tratta però, è bene ribadirlo, di valutazioni ancora del tutto provvisorie, essendo i dati ancora soggetti a revisione, in attesa del consolidamento definitivo che avverrà a metà del 2012.
In primo luogo, i dati dei primi nove mesi del 2011 segnano una riduzione nel numero complessivo degli infortuni di circa 26.000 casi (da 579.000 a 553.000) rispetto allo stesso periodo del 2010: si tratta di un calo pari al 4,5 per cento, sensibilmente superiore a quello, pari all’1,9 per cento, che si era registrato per l’intero anno precedente. Per quanto riguarda gli infortuni mortali, nei primi nove mesi si registra, invece, un decremento più contenuto pari allo 0,9 per cento (da 697 a 691 vittime); occorre però ricordare, come evidenziato nel paragrafo precedente, che il 2010 è stato un anno che ha fatto registrare un calo molto sostenuto rispetto agli anni precedenti scendendo, per la prima volta dal dopoguerra, sotto la soglia dei mille casi.
Anche in questo caso, come nel paragrafo precedente, il dato sul trend degli infortuni può essere confrontato con i dati ISTAT sull’andamento dell’occupazione, che nel confronto tra i primi nove mesi del 2009 e lo stesso periodo del 2010 registra un leggero aumento, sia rispetto al numero degli occupati (+0,4 per cento), sia rispetto al monte ore lavorate (+0,5 per cento). Anche il numero delle ore di cassa integrazione guadagni (CIG) è in diminuzione: si passa infatti da 33,6 ore per mille ore lavorate nei primi nove mesi del 2010, a 26 ore nei primi nove mesi del 2011. Questa tendenza al calo della CIG risulta evidente pure dai dati INPS, secondo i quali nei primi nove mesi del 2011 erano state autorizzate 732 milioni di ore, delle quali se ne sono utilizzate solo 337 milioni («tiraggio» 46,1 per cento), confermando così l’andamento decrescente già rilevato nel 2010 rispetto al 2009 e di cui si è detto nel paragrafo precedente.
Dal punto di vista settoriale, il calo tendenziale degli infortuni è comune a tutti i rami di attività, seppure in misura diversa. La diminuzione degli infortuni è più pronunciata nell’industria (-6,7 per cento) rispetto all’agricoltura (-4,9 per cento) e alle attività dei servizi (-3,1 per cento). Per quanto riguarda l’andamento occupazionale, l’ISTAT segnala un lieve aumento nel numero degli occupati distribuito fra tutti i comparti: agricoltura +0,2 per cento, industria +0,1 per cento e servizi +0,4 per cento. Viceversa, vi è un andamento differenziato per quanto riguarda il numero delle ore lavorate, che sono aumentate del 3,9 per cento in agricoltura e dello 0,7 per cento nei servizi, ma sono diminuite dello 0,3 per cento nell’industria.
Analizzando i principali settori di attività, nell’industria positivo è stato il dato infortunistico delle costruzioni (-9,8 per cento), sia pure condizionato dal calo dell’occupazione nel settore (-1,2 per cento come numero degli occupati e addirittura -7,0 per cento come monte ore lavorate); una riduzione degli infortuni si è riscontrata anche per gli altri due settori industriali notoriamente più a rischio, la metallurgia (-2,0 per cento) e la meccanica (-2,1 per cento). Nei servizi, si è avuto un calo significativo nei trasporti e comunicazioni (-6,1 per cento) e nel commercio (-5,6 per cento). Più limitata (-1,4 per cento) la diminuzione verificatasi nel settore dei servizi alle imprese (che comprende tra l’altro noleggio di macchinari, manutenzione e riparazione di macchine per ufficio, servizi di pulizia e disinfestazione industriale, ecc.).
Per quanto riguarda i casi mortali, a fronte di una contrazione nei servizi (-3,6 per cento) appare preoccupante l’aumento in agricoltura (+4,7 per cento), mentre sostanzialmente stabile è il dato nell’industria (+0,3 per cento). Tale ultimo dato è però la risultante di andamenti discordanti all’interno dei singoli settori di attività. Se per le costruzioni, il settore in assoluto più colpito dagli infortuni, si registra un sensibile calo delle vittime (-7,5 per cento, da 146 a 135), nell’industria manifatturiera si è verificato, viceversa, un aumento significativo dei decessi. Per tale comparto, i settori notoriamente più a rischio – industria metallurgica e meccanica – hanno registrato un aumento delle vittime sul lavoro (rispettivamente 3 e 4 in più), come pure l’industria chimica e quella della lavorazione dei minerali non metalliferi (vetro, ceramica, ecc.). Nei servizi, il calo dei decessi (11 casi in meno rispetto ai primi nove mesi del 2010) è dovuto prevalentemente al buon risultato del settore dei trasporti e comunicazioni (-18,6 per cento); vi sono poi 2 vittime in meno nel commercio, mentre il settore dei servizi alle imprese registra 4 decessi in più (da 40 a 44).
A livello territoriale, il calo degli infortuni complessivi risulta generalizzato. Precisamente, nel Nord vi è una riduzione del 3,8 per cento, nel Centro del 4,9 per cento e nel Mezzogiorno del 6,4 per cento: tali dati devono essere raffrontati con l’andamento occupazionale (misurato come numero di occupati), che ha segnato un aumento più sostenuto nel Mezzogiorno (+1,2 per cento) e uno più contenuto nel Nord (+0,3 per cento), registrando invece un calo nel Centro (-0,3 per cento). La lieve crescita indicata per il Sud si può attribuire per lo più all’occupazione femminile precedentemente penalizzata nel Meridione, oltre che ad un effetto di tipo statistico. Infatti, la variazione positiva deriva dal confronto con un periodo (primi nove mesi 2010) in pieno clima di crisi, in cui l’occupazione del Sud era diminuita rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente dell’1,9 per cento, contro un decremento nazionale pari a 0,9. Per i casi mortali, il Mezzogiorno registra ugualmente una contrazione molto alta (33 decessi in meno, -13,9 per cento), mentre preoccupante è l’aumento nel Nord e nel Centro (+6,6 per cento e +4,3 per cento rispettivamente).
Per quanto riguarda la distribuzione per dimensione aziendale degli infortuni sul lavoro avvenuti nel corso del 2011, l’INAIL ha precisato che per le aziende assicurate nel 2011 tale informazione sarà tecnicamente disponibile – per la prima volta per le nuove aziende, aggiornata per quelle già esistenti – negli archivi informatici dell’Istituto solo dopo il procedimento di «autoliquidazione», che prevede per il datore di lavoro la dichiarazione e la trasmissione delle retribuzioni effettivamente erogate in ciascun anno entro il 16 febbraio dell’anno successivo (16 marzo se la comunicazione avviene per via telematica). Comunque la distribuzione degli infortuni per dimensione aziendale è ormai abbastanza consolidata negli anni: pertanto, in base all’osservazione dell’ultimo triennio (2008- 2010) nell’ambito della gestione industria e servizi, si rileva che oltre il 40 per cento degli infortuni sul lavoro denunciati ha colpito i lavoratori autonomi e le imprese fino a 15 addetti, il 32 per cento le aziende con 16-250 addetti e il 28 per cento le grandi imprese. In pratica, quasi 3 infortuni su 4 sono avvenuti nell’ambito delle piccole-medie imprese (fino a 250 addetti).
Sulla base dei dati raccolti, l’INAIL ha sviluppato anche alcune stime prospettiche sul presumibile andamento degli infortuni per l’intero anno 2011. Per quanto riguarda il fenomeno nel suo complesso, il bilancio dovrebbe essere comunque positivo: secondo le previsioni dell’Istituto, infatti, nell’ipotesi in cui l’andamento del quarto trimestre – trascorso anche il necessario periodo di consolidamento tecnico dei dati – confermasse l’andamento delle rilevazioni provvisorie, si potrebbe prospettare un bilancio consuntivo per l’intero anno 2011 con un numero di infortuni sotto i 750.000 casi (contro i 775.000 del 2010, con un calo del 3,2 per cento).
Relativamente ai casi mortali, è bene ricordare che per rilevare tale fenomeno è necessario un congruo periodo di osservazione. Ai fini statistici, infatti, vanno conteggiati i decessi avvenuti entro 180 giorni dall’evento: l’INAIL, inoltre, sottopone costantemente a verifica le denunce d’infortunio sul lavoro e alcuni casi possono essere rivisti in un senso o in un altro. Pertanto, il dato provvisorio elaborato dall’Istituto per i primi nove mesi del 2011 è destinato a lievitare nel tempo, per cui occorre procedere a una stima per ricavare il dato definitivo dell’intero anno e consentire il confronto (da effettuarsi comunque con una certa cautela) con il dato consolidato del 2010. Ciò premesso, l’andamento dell’ultimo trimestre, l’aggiornamento tecnico degli archivi e l’evolversi di eventi potenzialmente letali ma non ancora risultanti tali, determineranno il risultato finale relativamente alle vittime sul lavoro dell’anno 2011. Per le ragioni tecniche anzidette, le stime più attendibili per il 2011 saranno elaborate e diffuse a marzo del 2012. L’INAIL, al momento, ritiene comunque ragionevole ipotizzare che il numero delle morti per l’anno 2011 possa rimanere al di sotto dei 973 casi registrati nel 2010, quindi ancora una volta sotto le mille unità.
I dati appena esposti, pur nel loro carattere preliminare e parziale, confermano quindi il numero ancora alto degli infortuni nel nostro Paese, soprattutto di quelli mortali, che in alcuni settori e in alcune Regioni risultano addirittura aumentati, pur a fronte di un andamento occupazionale tendenzialmente stabile. Ciò testimonia anzitutto come, malgrado un trend complessivo decrescente degli infortuni, permangano ancora forti contraddizioni e asimmetrie nell’applicazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, sia a livello settoriale che territoriale. Occorre dunque tenere desta l’attenzione e intensificare le azioni di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali, capitalizzando i successi già ottenuti e potenziando gli sforzi, con azioni mirate, in quei settori e in quelle realtà che sono tuttora vulnerabili. Si tratta cioè di «illuminare gli angoli bui» che ancora esistono nel tessuto economico-produttivo del nostro Paese, in una battaglia di civiltà che richiede l’impegno e la coesione di tutti gli attori istituzionali e sociali.


3. Gli approfondimenti su temi particolari

3.1. Gli infortuni legati alle macchine e attrezzature da lavoro. Il problema del settore agricolo-forestale
Già negli anni passati (si vedano le precedenti relazioni intermedie) la Commissione si era occupata attivamente della questione degli infortuni legati all’uso di macchine e attrezzature da lavoro. Com’è noto, alcune macchine e attrezzature non dispongono di tutti i necessari dispositivi atti a garantire la sicurezza degli operatori, perché troppo vecchie (e quindi tecnologicamente superate) o perché presentano difetti di progettazione che non tengono conto delle effettive esigenze di tutela degli utilizzatori.
Il problema non riguarda pertanto solo le macchine più obsolete, ma talvolta anche quelle di nuova immissione sul mercato che, benché formalmente in regola con le prescrizioni vigenti (ad esempio con la marcatura CE), possono però all’atto pratico risultare prive delle dotazioni che sarebbero più adeguate rispetto alle condizioni concrete in cui si svolge un certo tipo di lavoro.
La conseguenza di tale situazione è che ogni anno si verificano numerosi e gravi incidenti, spesso mortali, derivanti dall’utilizzo di macchine e attrezzature da lavoro non idonee. I settori più colpiti sono, statisticamente, quello agricolo-forestale e quello edile, che fanno ampio uso di macchinari e attrezzi in spazi aperti e in condizioni di lavoro spesso variabili e quindi meno controllabili. In particolare, in agricoltura è drammaticamente frequente il caso del ribaltamento dei trattori e del conseguente schiacciamento dei conducenti, legato alle condizioni orografiche del territorio agricolo italiano (in gran parte collinare o montuoso) e all’assenza, su molte macchine, dei dispositivi di sicurezza (barra antiribaltamento, cinture di sicurezze, cabina antischiacciamento).
Al riguardo, la Commissione nei due anni passati ha svolto un intenso lavoro di approfondimento del problema, interpellando sia i rappresentanti delle categorie coinvolte che i vari enti e ministeri competenti. La Commissione ha altresì promosso una serie di atti d’indirizzo, contenuti in vari ordini del giorno nonché nelle risoluzioni approvate dall’Assemblea del Senato il 21 ottobre 2009 e il 12 gennaio 2011, per impegnare il Governo a promuovere iniziative legislative, volte a istituire incentivi economico- fiscali per favorire la rottamazione e la messa in sicurezza delle macchine ed attrezzature agricole, forestali ed edili.
Un primo segnale in questa direzione è giunto con gli incentivi introdotti dal Governo con l’articolo 4 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, per favorire la sostituzione di macchine o attrezzature agricole e per il movimento terra di fabbricazione anteriore al 31 dicembre 1999, nonché la rottamazione delle gru a torre per l’edilizia messe in esercizio prima del 1º gennaio 1980. Altri fondi ad hoc sono poi disponibili in altri ambiti: ad esempio, come ricordato nel paragrafo 2.4, tra le risorse per le azioni promozionali previste dall’articolo 11 del decreto legislativo n. 81 del 2008 trasferite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali all’INAIL oppure stanziate direttamente dall’INAIL stesso, una quota è riservata specificamente a progetti d’investimento volti a favorire la sostituzione o l’ammodernamento di attrezzature di lavoro non a norma.
Tali interventi possono però risolvere il problema solo in minima parte, anzitutto in quanto i fondi a disposizione (necessariamente limitati per i pressanti vincoli di bilancio imposti dall’attuale crisi economica) non coprono le effettive esigenze di ammodernamento del parco macchine. In secondo luogo, nel settore agricolo-forestale – il più colpito da questo tipo di incidenti – all’obsolescenza o all’inadeguatezza dei macchinari si sommano una serie di problemi strutturali e di lacune legislative e amministrative, che devono essere parimenti affrontati.
Nel corso dell’inchiesta, la Commissione ha ricevuto molte sollecitazioni al riguardo, ad esempio durante le missioni svolte in Regioni a forte vocazione agricola, dove naturalmente il problema è particolarmente sentito, specie nelle zone montuose o collinari. Si tratta però di una situazione molto diffusa, sulla quale una denuncia molto circostanziata è giunta anche dall’Associazione nazionale fra lavoratori mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL), il cui direttore generale, dottor Stefano Giovannelli, è stato audito dalla Commissione il 9 febbraio 2011. Nei giorni precedenti, l’ANMIL aveva infatti richiamato con forza l’attenzione sull’alto numero di infortuni che continuano a funestare il settore agricolo, soprattutto con il ribaltamento dei trattori.
Il dottor Giovannelli ha confermato la gravità del fenomeno, evidenziando come il settore agricolo sconti una serie di problemi strutturali che incidono sugli aspetti della sicurezza: l’alto numero di lavoratori autonomi, l’età elevata di molti addetti, la forte presenza di lavoratori stranieri (regolari o irregolari) e di lavoratori occasionali non esperti, nonché l’elevata polverizzazione delle aziende, la ridotta disponibilità di capitali e la bassa redditività. Tutto ciò rende difficile fare prevenzione e attività di controllo e il numero degli infortuni, anche mortali, resta alto.
Gli incidenti più preoccupanti sono i ribaltamenti dei trattori, causati dall’elevata obsolescenza delle macchine e dalla difficoltà delle aziende di procedere ad una loro sostituzione per i fattori economici prima indicati.
Secondo l’ANMIL, il supporto pubblico con incentivi per la sostituzione o la rottamazione delle macchine, pur utile, non è però risolutivo, mentre andrebbe favorita la manutenzione programmata e potenziati i controlli, nonché avviata un’azione capillare di formazione e informazione a tutti gli addetti, coinvolgendo associazioni ed esperti del settore. L’ANMIL è fortemente impegnata a contribuire a tale azione, ma serve naturalmente un più ampio coinvolgimento delle istituzioni. Rispondendo ad alcune richieste di chiarimento della Commissione, il dottor Giovannelli ha poi confermato che l’utilizzo combinato dei dispositivi di sicurezza oggi presenti sul mercato (cinture di sicurezza, cellula antischiacciamento e strutture antiribaltamento) può effettivamente prevenire gli incidenti, anche se questi supporti da soli non sono risolutivi, come dimostra il fatto che negli ultimi anni si sia determinata grazie ad essi una riduzione degli infortuni in termini relativi ma non assoluti. Serve soprattutto una forte presa di coscienza degli operatori, ma il problema resta complesso, proprio per l’esistenza di molte categorie di addetti difficili da raggiungere ai fini di una specifica formazione.
Nel dibattito è quindi emersa chiaramente la necessità di misure incisive, anche di tipo normativo, che rendano obbligatori gli adeguamenti delle macchine, i controlli e che sanciscano precisi requisiti di età e di capacità per gli operatori che usano le macchine stesse, al fine di ridurre l’alto numero di incidenti. Nelle campagne, infatti, molte macchine sono spesso condotte da persone anziane, ormai in pensione, o da lavoratori occasionali (cosiddetti «hobbisti») che svolgono normalmente altre attività e lavorano nei campi solo nel tempo libero. Si tratta comunque di soggetti che probabilmente non avrebbero, per l’età avanzata o per la mancanza di esperienza, caratteristiche idonee a usare quelle macchine. In questo senso fondamentale appare il coinvolgimento delle istituzioni, non solo centrali ma soprattutto regionali, in quanto specificamente preposte al governo dei territori locali.
Partendo dalle indicazioni emerse da tale confronto, la Commissione ha dunque avviato una serie di ulteriori approfondimenti sul tema, interpellando in primo luogo gli esperti dell’INAIL, tra i quali (a seguito dell’accorpamento tra i due istituti) rientrano ora anche i tecnici dell’ex ISPESL (attuale Dipartimento delle tecnologie di sicurezza), che hanno un’esperienza consolidata sull’argomento delle macchine agricole, in quanto svolgono anche la sorveglianza di mercato per conto del Ministero dello sviluppo economico e, in tale veste, erano già stati sentiti in passato dalla Commissione.
Nel corso dell’audizione, il dottor Vincenzo Laurendi, del Dipartimento tecnologie per la sicurezza, ha anzitutto confermato la gravità di questo fenomeno infortunistico, segnalando che ogni anno muoiono mediamente in Italia circa 160 lavoratori per incidenti legati a macchinari agricoli, specificamente trattori. La causa principale è il ribaltamento orizzontale e trasversale: la legge prevede la presenza di appositi dispositivi di sicurezza, quali l’abitacolo rinforzato e le cinture di sicurezza per la trattenuta dell’operatore, ma su circa 1.600.000 trattori circolanti, circa 800.000 non risultano dotati di questi dispositivi di protezione e circa 1.300.000 non sono dotati di sistemi di ritenuta del conducente.
Il problema è determinato principalmente dall’alto grado di obsolescenza del parco trattori attualmente circolante in Italia. Occorre quindi anzitutto procedere all’adeguamento dei trattori più vecchi, che può avvenire secondo le informazioni tecniche messe a disposizione dall’Istituto già da diverso tempo, che permettono alle officine meccaniche di installare in maniera più o meno semplice detti dispositivi a costi contenuti (circa 2.000-3.000 euro). Il dottor Laurendi ha però anche ricordato che a volte anche i trattori di nuova immissione sul mercato, pur formalmente in regola, possono di fatto non essere dotati di idonei dispositivi di sicurezza per la tutela degli operatori. Si tratta in particolare dei trattori dotati di telai di protezione abbattibili, cioè leggermente pieghevoli in avanti, per garantire all’operatore di lavorare anche nelle operazioni sotto chioma.
Nel 2010 in Italia ci sono stati 15 morti su trattori dotati di telai di protezione tenuti abbattuti. Questo è un problema che deve essere affrontato e risolto a livello normativo e per il quale l’INAIL ha già studiato delle soluzioni di tipo tecnico.
Servono dunque norme che da un lato incentivino la messa in sicurezza dei trattori e ne rendano obbligatoria la revisione periodica (oggi di fatto non prevista dal codice della strada) e che dall’altro prevedano un’adeguata formazione dei conducenti, con patenti specifiche, posto che oggi un qualsiasi giovane neopatentato può guidare trattori agricoli, anche grandi, su strada. Si tratta di una serie di carenze a livello normativo che non fanno che aggravare il già elevato numero di infortuni mortali determinato dai trattori. Il discorso va poi esteso ad altre tipologie di macchine agricole che vengono purtroppo immesse sul mercato e che, pur essendo formalmente in regola con le vigenti disposizioni, risultano inadeguate sotto il profilo della sicurezza.
Il dottor Flaminio Galli, direttore centrale prevenzione dell’INAIL, ha poi ricordato che l’INAIL ha stanziato a favore delle imprese che investono in sicurezza circa 745.000.000 di euro nel quadriennio 2010-2013, di cui 60 milioni nel 2010, 180 milioni di 2011, 225 milioni nel 2012 e 280 milioni nel 2013. La prima quota è stata erogata tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, con un’apposita procedura informatica8. A tali fondi possono naturalmente accedere anche le imprese agricole che intendono, ad esempio, adeguare o sostituire i macchinari. Purtroppo, per il settore agricolo a livello comunitario vige il limite «de minimis» che stabilisce un tetto massimo complessivo per gli aiuti pubblici. Dal 1º aprile 2011, tale soglia è passata da 15.000 a 7.500 euro ed è troppo bassa per consentire un contributo significativo a favore delle imprese. Servirebbe quindi una deroga in sede europea.
Il dottor Galli si è quindi soffermato sul tema dei controlli, richiamando il piano nazionale della prevenzione avviato dall’INAIL, che prevede un’intensa azione anche in agricoltura, con attività di formazione agli operatori e 10.000 ispezioni all’anno in tutta Italia, ad opera dei tecnici delle ASL locali. La recente unificazione dell’ex ISPESL e dell’ex IPSEMA all’interno dell’INAIL consente importanti sinergie anche in questo campo, che cominciano a dare i primi frutti.
La Commissione ha osservato in proposito che, essendo l’agricoltura materia di competenza regionale, occorre elaborare linee guida omogenee a livello nazionale, per assicurare che i piani di prevenzione regionali e in particolare le ispezioni, avvengano secondo modalità uniformi, tenuto conto anche dei problemi di organico delle ASL. Si tratta di temi che sono emersi frequentemente nell’inchiesta, anche durante i numerosi sopralluoghi sul territorio.
Il dottor Laurendi ha fatto presente che i tecnici delle ASL incaricati dei controlli in agricoltura sono stati tutti appositamente formati a livello nazionale. Purtroppo, finora si è riusciti a fare solo il 60-70 per cento delle ispezioni programmate. Occorre quindi soprattutto rendere obbligatoria la revisione periodica e puntare sulla messa a norma delle macchine, molto meno onerosa e più efficace della sostituzione completa. Un contributo importante può venire anche dall’azione di verifica preventiva sui macchinari di nuove immissione sul mercato, come testimoniato dai successi ottenuti dall’ex ISPESL in questo campo. Un altro elemento fondamentale è quello della modifica del codice della strada per quanto riguarda i requisiti dei conducenti e le patenti di abilitazione alla guida dei mezzi, che andrebbero completamente rivisti.
Nel dibattito, è stata comunque sottolineata, da parte dei componenti della Commissione, la necessità che le azioni di prevenzione degli incidenti legati alle macchine agricole, pur condivisibili e necessarie, siano però studiate in modo da non imporre nuovi ed eccessivi costi ai lavoratori agricoli, che già versano in gravi difficoltà. Si è inoltre richiamato con particolare preoccupazione un altro aspetto del problema, che riguarda quei soggetti che pur non avendo, o non avendo più, i requisiti per essere coltivatori diretti, possiedono però appezzamenti di terreno, in genere piccoli, che lavorano per proprio conto con l’ausilio di trattori e altri macchinari.
Si tratta spesso anche di persone anziane, ormai in pensione, una realtà assai diffusa sul territorio nazionale, cui si aggiungono coloro che svolgono normalmente altre attività, coltivando la terra per sé stessi, magari nel tempo libero.
Il dottor Laurendi ha fatto presente che, in base a una recente sentenza della Corte di Cassazione, possono configurarsi come coltivatori diretti (e dunque quindi accedere ai contributi pubblici) anche altre figure che, pur non avendo tutti i requisiti formali di reddito e di mezzi previsti dalla legge, svolgono comunque attività agricola. Dai dati in possesso dell’ex ISPESL e ferma restando l’esigenza di ulteriori approfondimenti, non sembra però esservi una incidenza elevata di queste figure non professionali sul totale degli incidenti legati ai mezzi agricoli. Il vero problema, come evidenziato dal dottor Galli, è che i fondi INAIL, per la natura assicurativa dell’Istituto, sono riservati necessariamente alle imprese e ai lavoratori agricoli professionali, per cui appare difficile un’estensione anche a figure di agricoltori «privati». L’INAIL svolge comunque una serie di attività di formazione/informazione su queste materie che possono beneficiare anche i lavoratori non professionali.
L’ingegner Gabriella Mancini, del settore Consulenza tecnica accertamenti rischi e prevenzione dell’INAIL, si è soffermata sui problemi di rilevazione statistica degli incidenti in esame. Secondo i dati INAIL, nel 2009 vi sono stati solo 20 morti per ribaltamento del trattore: questa evidente sottostima rispetto ai 160 morti registrati in totale – che peraltro si riferiscono solo agli incidenti avvenuti nei campi e non tengono conto degli incidenti legati alla circolazione stradale – deriva dal fatto che l’Istituto registra solo i lavoratori iscritti, ossia quelli di tipo professionale, mentre, come si è detto, gli infortuni coinvolgono anche molti lavoratori non professionali. In relazione al possesso dei requisiti per i conducenti dei mezzi, una soluzione potrebbe senz’altro essere quella di introdurre un’apposita abilitazione. In merito l’ingegner Mancini ha ricordato che, nell’ambito del completamento dell’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, esiste un apposito comitato presso la Commissione consultiva permanente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che sta ultimando il confronto per definire appunto una specifica patente per l’uso di determinati macchinari, tra cui anche i trattori e le macchine agricole. Sarebbe dunque opportuno cogliere l’occasione per adeguare finalmente la normativa in questo settore.
Gli approfondimenti condotti dalla Commissione hanno dunque evidenziato come il tema degli incidenti sul lavoro legati all’utilizzo di macchinari agricoli, con particolare riguardo al ribaltamento dei trattori, sia di per sé estremamente complesso, coinvolgendo anche problemi di carattere legislativo, ad esempio per i requisiti dei conducenti, per gli obblighi delle dotazioni di sicurezza e delle revisioni periodiche dei mezzi. In ordine a tali aspetti, la Commissione ha quindi ritenuto necessario ascoltare gli esperti del competente Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per fare il punto sulla vigente normativa di settore e sugli eventuali miglioramenti da apportare.
L’audizione ha avuto luogo il 6 luglio 2011 e ha visto la partecipazione dei rappresentanti della Direzione generale per la motorizzazione. Il Direttore generale, architetto Maurizio Vitelli, ha anzitutto riepilogato i dati statistici del settore: attualmente in Italia circolano 1.600.000 mezzi agricoli, con una età mediamente assai elevata e che, in taluni casi, raggiunge addirittura i cinquant’anni. Si tratta spesso di veicoli i cui intestatari originali sono morti e che sono poi passati ai loro eredi, i quali continuano a utilizzarli. Secondo le statistiche, ogni anno avvengono sulla strada circa 200-300 incidenti che coinvolgono tali mezzi, di cui 10-15 mortali. Gli incidenti e le morti più numerose, che sfuggono alla rilevazione puntuale, sono però quelli che avvengono nei lavori agricoli dei campi. Anche se non sempre tali infortuni sono imputabili a carenze nei requisiti dei guidatori o dei mezzi, essendo in genere legati al ribaltamento, è comunque vero che l’attuale normativa prevista dal codice della strada presenta alcune lacune da colmare.
In particolare, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti sta da tempo cercando di dare corso all’obbligo di revisione periodica anche per i veicoli agricoli, previsto dall’articolo 111 del codice della strada fin dalla sua approvazione con il decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, ma di fatto mai attivato in Italia. Ciò richiederebbe un grosso sforzo organizzativo, dovendo fare i controlli direttamente presso i possessori dei veicoli, sparsi su tutto il territorio nazionale. I veicoli agricoli che circolano su strada sono controllati in maniera efficace dalla polizia stradale: ad esempio, dal 1º gennaio al 30 settembre 2009 sono state rilevate 3.580 infrazioni, mentre dal 1º gennaio al 30 settembre dell’anno successivo le infrazioni rilevate sono state 2.910. Assai più complesso è invece il discorso per i mezzi che lavorano nei campi, che di fatto non vengono mai controllati.
Altro problema, segnalato anche dall’ex ISPESL (ora Dipartimento delle tecnologie per la sicurezza dell’INAIL), è quello di dotare i mezzi agricoli inferiori ai 600 chilogrammi di massa a vuoto di strutture di protezione antiribaltamento e antischiacciamento. Poiché la normativa attuale non prevede questo obbligo, occorrerebbe una apposita modifica dei regolamenti comunitari. Il Ministero ha già dal 2009 iniziato il relativo iter presso la Commissione europea, che ha però chiesto di avere dati statistici sul fenomeno per poter valutare l’impatto di tale modifica legislativa, dati in possesso proprio dell’ex ISPESL.
Due degli altri esperti del Ministero presenti all’audizione, l’ingegner Salvatore Napolitano e l’ingegner Antonio Erario, hanno precisato che l’obbligo in questione sussiste già per i veicoli di massa superiore ai 600 chilogrammi. Viceversa, il problema si pone per i macchinari più piccoli, denominati «T30» e che comprendono sia trattori che motrici, motozappe e altri veicoli minori. C’è il progetto di un apposito regolamento comunitario che introdurrebbe l’obbligo a partire dal 2014, presumibilmente per i veicoli di massa compresa tra i 400 e i 600 chilogrammi, mentre per quelli di massa inferiore sono in corso i negoziati in sede OCSE per un apposito accordo tecnico.
Una volta stabilito l’obbligo per legge, i veicoli di nuova costruzione avrebbero tutti i nuovi dispositivi di protezione, mentre quelli già circolanti dovrebbero essere adeguati. Al riguardo, si è ricordato che l’ex ISPESL, in collaborazione con il Ministero, ha già definito le apposite linee guida per gli adeguamenti e che, come confermato alla Commissione anche in altre occasioni, tali interventi tecnici sui vecchi mezzi sono abbastanza semplici e di costo limitato, pari a circa 2.000-3.000 euro.
Come sottolineato dall’architetto Vitelli, il Ministero e l’ex ISPESL collaborano attivamente, anche se occorrerebbe uno sforzo maggiore per accelerare l’iter di modifica dei regolamenti comunitari. Una volta ottenute le modifiche normative, resterebbe però il vero problema, ossia quello di controllare in maniera capillare che tutti i mezzi esistenti si conformino alla nuova normativa.
Un altro tema affrontato nel corso dell’audizione è stato poi quello delle abilitazioni per la guida dei mezzi: attualmente, infatti, i requisiti dei conducenti sono gli stessi previsti per la guida degli altri automezzi, posto che non esistono patenti specifiche per l’utilizzo dei veicoli agricoli9. Sul tema, come si è visto nel paragrafo 2.3, uno dei comitati della Commissione consultiva permanente in seno al Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha messo a punto una prima bozza di decreto che individua le modalità della formazione richiesta per determinate attrezzature di lavoro, tra le quali appunto le macchine agricole. Ciò potrebbe senz’altro contribuire ad agevolare la risoluzione del problema, ma, per le ragioni già dette, è certamente necessaria anche un’ampia riforma del codice della strada. Servirebbe inoltre una formazione ad hoc per chi utilizza questi mezzi, tenuto conto che essi operano spesso su terreni impervi e scoscesi e hanno notevoli difficoltà di manovra. Questo intervento richiederebbe la collaborazione delle regioni. D’altra parte, mentre per i mezzi che vanno su strada esistono dei controlli capillari, quelli che sono usati solo nei campi sfuggono alle rilevazioni e sono talvolta guidati anche da persone molto anziane, o addirittura giovanissime o sprovviste di patente.
Un punto cruciale emerso nel dibattito è infine che le modifiche legislative in questo settore, sui requisiti dei conducenti o dei mezzi, richiedono comunque una forte volontà politica, in quanto molti mezzi ora circolanti diventerebbero immediatamente inutilizzabili, con un pesante impatto sugli agricoltori, che produrrebbe difficoltà e malcontenti.
La Commissione ha confermato la propria volontà di contribuire, nell’ambito delle proprie competenze, a definire gli interventi più appropriati per ridurre la grave piaga degli incidenti nel settore agricolo legati all’uso dei macchinari. Come risulta dall’inchiesta, le soluzioni dovrebbero concentrarsi su due direttrici: la prima è quella degli adeguamenti normativi per quanto concerne soprattutto i requisiti dei conducenti e dei mezzi agricoli, la seconda è quella delle agevolazioni per la sostituzione e, soprattutto, per la messa in sicurezza dei mezzi stessi. In merito al primo aspetto, la Commissione si è fatta parte attiva per favorire il dialogo e la collaborazione delle amministrazioni competenti, affinché possano essere identificate le modifiche più idonee ed equilibrate da apportare alla legislazione vigente, cercando di non penalizzare eccessivamente le categorie interessate ma, al tempo stesso, di mettere ordine in un settore dove sono emerse gravi lacune. Questa attività si dovrà poi naturalmente accompagnare anche con una campagna mirata di formazione e informazione rivolta agli utilizzatori dei mezzi agricoli, di tipo professionale e non, al fine di accrescerne il livello di consapevolezza e attenzione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello delle agevolazioni, la situazione è certamente più complessa: i vincoli di bilancio, sempre più pressanti e ineludibili, rendono infatti molto difficile ipotizzare la possibilità di stanziare ulteriori risorse pubbliche per questa finalità, per lo meno nella dimensione che sarebbe effettivamente necessaria. Occorre allora garantire un uso più efficiente e mirato delle risorse già disponibili, che però, come si è visto, nel settore agricolo si scontra con i forti vincoli imposti dal meccanismo comunitario del «de minimis» relativo ai limiti degli aiuti di Stato.
Per risolvere il problema alla radice, la Commissione d’inchiesta ha allora messo a punto una specifica proposta normativa da sottoporre agli organismi della Comunità europea. La proposta è stata elaborata congiuntamente al Dipartimento delle politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri e inviata anche ai ministeri e alle commissioni parlamentari del Senato competenti per materia. Sulla scorta di analoghi provvedimenti del passato, il testo si pone come una «misura quadro» che non mira quindi a introdurre nuove agevolazioni o a mobilitare nuove risorse, ma bensì intende disegnare un regime giuridico che permetta di non considerare aiuti di Stato (e come tali soggette ai relativi limiti di utilizzo) tutte le agevolazioni finalizzate a elevare il livello di sicurezza delle macchine e delle attrezzature di lavoro, migliorandone le dotazioni e aggiornandone i requisiti rispetto all’evoluzione delle tecnologie di prevenzione e di protezione.
Le agevolazioni ammissibili sono di qualsiasi tipo, già esistenti o di futura introduzione, erogate da pubbliche amministrazioni centrali o periferiche, purché finalizzate specificamente allo scopo suddetto. Non solo quindi contributi finanziari diretti per le spese di sostituzione o adeguamento dei macchinari, ma anche sgravi fiscali, sovvenzioni per prestiti, ecc. Esse devono porsi in maniera «neutrale» nei confronti delle varie tipologie di intervento e dei vari settori economici, proprio per non introdurre distorsioni al regime delle concorrenza che contrasterebbero con le disposizioni comunitarie. Di conseguenza, la norma non avrebbe potuto essere indirizzata specificamente al settore agricolo, ma è stata studiata in modo da rivolgersi indistintamente a tutti i settori e a tutte le categorie di operatori, semplificando al massimo le procedure di concessione delle agevolazioni per escludere qualsiasi valutazione discrezionale (e quindi qualsiasi possibile discriminazione) da parte delle pubbliche amministrazioni concedenti.
Naturalmente, il progetto è ancora in una fase preliminare e si dovrà, d’accordo con le autorità comunitarie e con i ministeri competenti, precisare meglio i dettagli della misura, ad esempio le condizioni in base alle quali i richiedenti possono accedere e il meccanismo di concessione. Si tratta quindi di creare un procedimento semplice, ma rigoroso, che consenta anche di effettuare controlli atti a scoraggiare frodi o abusi. A tal fine, la proposta è già stata inviata, tramite il Dipartimento per le politiche europee, ai competenti uffici della Commissione europea per una prima istruttoria informale, anche mediante una interlocuzione diretta con la Commissione d’inchiesta, che ha già fornito una serie di chiarimenti e integrazioni.
L’obiettivo è quindi quello di arrivare in tempi rapidi a un testo consolidato che possa poi essere trasfuso in un disegno di legge formale, da sottoporre all’esame delle Commissioni parlamentari di merito. Se si riuscirà a raggiungere tale risultato, si potrà certamente facilitare l’accesso delle imprese alle risorse finanziarie disponibili per la sostituzione e la messa in sicurezza delle macchine e attrezzature da lavoro, soprattutto in settori come quello agricolo finora maggiormente penalizzati dai vincoli comunitari degli aiuti di Stato. La norma, tuttavia, ha una valenza generale e potrebbe essere ugualmente utile anche in molti altri settori produttivi che abbiano esigenze analoghe di elevare il livello di sicurezza di macchinari e attrezzature.
Naturalmente, resta il problema della limitatezza dei fondi attualmente esistenti, ma se si introdurrà questo nuovo regime, essi potranno essere utilizzati in maniera più efficiente e proficua, contribuendo per questa via a migliorare i livelli di sicurezza dei lavoratori addetti alle macchine e alle attrezzature e, quindi, a ridurre anche il numero degli infortuni. La misura quadro, del resto, è stata volutamente concepita «a costo zero», senza prevedere nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ma consente una gestione migliore più efficiente anche di risorse o agevolazioni che si dovesse, auspicabilmente, riuscire a reperire in futuro.
La Commissione continuerà a seguire in modo assiduo tale questione, per favorire una positiva conclusione dell’iter, nell’interesse generale e al fine di tutelare sempre meglio la salute e la sicurezza dei lavoratori.

3.2. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore delle attività pirotecniche
Il 12 settembre 2011 in località Carnello, una frazione di Arpino (in provincia di Frosinone), un’esplosione ha distrutto la fabbrica di fuochi artificiali Pirotecnica Arpinate s.r.l., causando la morte di sei persone. Il successivo 19 settembre una delegazione della Commissione ha svolto un sopralluogo sul posto, al fine di acquisire informazioni in merito. Delle risultanze della missione si darà conto in dettaglio più avanti, nel paragrafo 4.9: in questa sede si intendono illustrare le successive iniziative assunte dalla Commissione per approfondire in senso più generale i problemi della sicurezza sul lavoro nel settore delle attività pirotecniche.
L’incidente di Arpino, infatti, è stato solo l’ennesimo di una lunga serie, dato che le fabbriche di fuochi d’artificio sono purtroppo tra i luoghi di lavoro più pericolosi. Secondo le rilevazioni della Consulenza statistico-attuariale dell’INAIL, solo nel periodo 2007-2010 ci sono stati 66 infortuni sul lavoro – 11 dei quali mortali – verificatisi in Italia nel settore della pirotecnia (in media, dunque, ogni anno ha registrato 17 incidenti, con 3 dall’esito letale). Il comparto vede impegnate 277 aziende, per un totale di 564 addetti.
Se poi si considera che molti incidenti riguardano fabbriche abusive o semiabusive, che non rientrano nelle statistiche ufficiali, il bilancio sale drammaticamente. Ad essere colpite sono soprattutto le regioni del Centro- Sud, dove l’uso di botti e fuochi d’artificio è particolarmente diffuso.
E infatti, nel periodo 2007-2010, in queste regioni si è verificato il 70 per cento degli infortuni (45 casi) e il 90 per cento delle morti (10 episodi, a fronte di un solo caso nell’area del Nord, in particolare nel Nord-Est).
Come rileva l’INAIL, il settore è caratterizzato da una struttura molto precaria e frammentata, con una media di meno di 2 addetti per azienda, e da un tipo di lavorazione prevalentemente artigianale e manuale. Il che rende estremamente pericoloso per gli operai manipolare quelle che spesso sono vere e proprie bombe pronte a esplodere.
Nel corso del sopralluogo ad Arpino, inoltre, alla Commissione sono state segnalate da parte dei competenti organismi di controllo una serie di lacune e incongruenze di carattere normativo e amministrativo nella regolamentazione del settore, sia in relazione alle verifiche preliminari tese al rilascio della licenza di esercizio dell’attività, sia per quanto concerne le condizioni degli ambienti di lavorazione e il regime dei controlli. Per tali ragioni, la Commissione ha proceduto a una serie di approfondimenti in materia, cominciando con l’audire nella seduta del 4 ottobre 2011 il capitano Paride Minervini, un esperto di balistica che ha avuto occasione di esaminare la dinamica di alcuni degli incidenti occorsi in fabbriche di fuochi d’artificio, anche come perito della magistratura.
Il capitano Minervini ha dato anzitutto conto di alcuni risultati degli accertamenti da lui effettuati per conto della magistratura in relazione a recenti esplosioni di opifici pirotecnici che hanno portato al decesso di alcuni operatori e alla distruzione di edifici. Soffermandosi in particolare sull’incidente mortale occorso l’11 maggio 2007 nella fabbrica situata a Piane di Montegiorgio, in provincia di Fermo, ha sottolineato che, nella valutazione di tali eventi, occorre considerare anche gli elementi meno noti della loro dinamica, come ad esempio la provenienza del materiale utilizzato, nel caso di specie importato in larga misura dalla Cina.
Per quanto concerne poi la frequenza delle esplosioni, i dati statistici di fonte pubblica segnalano una notevole differenza tra gli stabilimenti militari e quelli civili. Dal dopoguerra ad oggi, si riscontra un solo caso di esplosione in uno stabilimento militare, a Baiano di Spoleto, mentre dal maggio 2000 si sono verificati ben 18 eventi di questo tipo negli stabilimenti civili, quasi tutti mortali e con numerosi feriti e danni di varia natura a persone e a cose. L’episodio di Piane di Montegiorgio, dove si sono verificati 3 decessi e sono rimaste ferite 30 persone, è emblematico di molte criticità che si riscontrano troppo spesso nel settore. Ad esempio, l’elevato numero di feriti è dovuto anche al fatto che non erano state osservate le disposizioni riguardanti le distanze di sicurezza, cosicché l’onda d’urto dell’esplosione ha raggiunto gli edifici dell’insediamento urbano vicino alla fabbrica.
L’inchiesta della magistratura ha poi messo in luce varie irregolarità amministrative, che rivelano l’esigenza di controlli più rigorosi e severi nel settore, e non semplicemente burocratico-formali. In particolare, dal 1987 al 2007 si erano verificati dei passaggi di proprietà a persone che avevano precedenti penali specifici per abusi compiuti su licenze di esercizio dell’attività di produzione di fuochi d’artificio. In alcuni casi, la licenza è stata sospesa, per essere però trasferita a parenti del precedente titolare, spesso privi delle capacità tecniche richieste. Si è anche verificato il caso di tre licenze rilasciate dalla medesima Prefettura e intestate alla stessa persona, il che non dovrebbe avvenire, considerato che il titolare della licenza stessa è obbligato ad essere presente sul luogo di lavoro e, pertanto, non può presidiare contemporaneamente tre luoghi diversi.
Altro aspetto emblematico riguarda la preparazione delle maestranze utilizzate. Nella fabbrica di Piane di Montegiorgio ad esempio risulta la presenza, al momento dell’incidente, di quattro operatori privi della capacità tecnica accertata per la fabbricazione di fuochi d’artificio e di un solo operatore con capacità tecnica accertata, ma non regolarmente assunto: si trattava infatti del precedente titolare della licenza. Era invece assente, malgrado la contraria prescrizione normativa, l’intestataria della licenza stessa, formalmente in possesso di capacità tecnica accertata per la fabbricazione.
L’audizione si è quindi incentrata sulla capacità tecnica richiesta agli operatori che, sia dalle informazioni raccolte nel sopralluogo ad Arpino che dall’esposizione del capitano Minervini, risulta essere spesso assai carente.
Il capitano Minervini ha confermato che chi lavora all’interno degli stabilimenti per la produzione di fuochi d’artificio deve essere in possesso di una capacità tecnica accertata attraverso un esame che lo autorizza al maneggio e alla gestione del materiale ivi trattato. A tal fine, presso ogni Prefettura è istituita un’apposita commissione che rilascia una certificazione all’esito di un esame.
Tuttavia, nel corso del sopralluogo ad Arpino è emerso che tale esame non offre spesso le necessarie garanzie di rigore e di approfondimento per valutare gli operatori di un settore così delicato, che dovrebbero possedere adeguate nozioni teoriche e pratiche (ad esempio di chimica e di fisica) in ordine alle sostanze che manipolano. Viceversa, il concetto di capacità tecnica è definito in maniera vaga e le commissioni prefettizie si limitano ad effettuare un esame attitudinale di carattere generico e, in assenza di specifici argomenti oggetto di esame, devono procedere ad una valutazione empirica.
La genericità e l’inadeguatezza delle modalità di accertamento delle capacità tecniche per il personale civile contrastano del resto con la complessa e specifica formazione degli artificieri delle Forze Armate che, oltre a seguire corsi di formazione di notevole durata, sono destinatari di aggiornamenti periodici, indispensabili per essere al passo con l’evoluzione tecnologica del settore, anche in relazione alle finalità di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro. Peraltro, al di là dell’aspetto specialistico, nel confronto tra la manipolazione delle polveri per il caricamento di munizioni e la lavorazione delle stesse per il confezionamento di fuochi d’artificio, la produzione di fuochi d’artificio presenta comparativamente caratteri di maggiore pericolosità.
In relazione a tali aspetti, si pone anche il problema di assicurare la competenza e la continuità delle persone chiamate a fare parte delle commissioni istituite presso le prefetture. Se l’istituzione, come avveniva un tempo, di una commissione unica a livello centrale potrebbe produrre effetti indesiderati di appesantimento burocratico delle procedure di esame e di autorizzazione all’attività, appare però importante che le commissioni locali abbiano una composizione tecnica adeguata e applichino regole di valutazione uniformi su tutto il territorio nazionale.
Nell’incidente di Arpino, come in altri casi, si è poi avuto sfortunatamente anche il decesso di un cliente presente all’interno della fabbrica al momento della deflagrazione, il che pone l’ulteriore problema della mancata osservanza delle disposizioni che vietano l’accesso ai non addetti in determinati punti dell’opificio. Inoltre, mentre per i depositi del materiale pirotecnico sono previste specifiche autorizzazioni in relazione alla capienza, si registrano lacune nella disciplina relativa alle quantità di materiale che può essere manipolato nel luogo di produzione, dovute anche al fatto che la regolazione in materia risale ormai a ottant’anni fa, essendo contenuta nel regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 («testo unico delle leggi di pubblica sicurezza» o TULPS).
Più in generale, atteso che, come precisato dal capitano Minervini alla Commissione, alcuni miscugli, per le loro caratteristiche chimiche, sono suscettibili di aumentare la propria temperatura e, con essa, il rischio di esplosione, risulta particolarmente preoccupante l’assenza di una disciplina precisa che obblighi a climatizzare i luoghi di lavoro o quanto meno a installare misuratori in grado di rilevare le condizioni microclimatiche esistenti (temperatura, umidità, ventilazione). Ciò anche in considerazione del fatto che, pur essendo nelle fabbriche pirotecniche le prescrizioni di sicurezza di base sempre le stesse, possono però essere introdotte delle varianti in relazione alle diverse di categorie di materiale esplodente lavorato.
Molti incidenti nelle fabbriche di fuochi d’artificio (tra cui forse, se verranno confermate alcune ipotesi investigative, anche quello di Arpino) sono stati causati proprio da lavorazioni effettuate in ambienti con condizioni climatiche sbagliate.
Nell’incidente di Arpino uno dei capannoni esplosi aveva la tettoia in eternit (ossia cemento amianto), che l’esplosione ha scagliato a centinaia di metri di distanza. La tettoia era incapsulata e mantenuta in buono stato di conservazione e quindi, secondo le norme vigenti (articolo 249, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 81 del 2008), poteva essere utilizzata nella fabbrica. In presenza di lavorazioni così pericolose, sembra però opportuno che manufatti di qualsiasi natura contenenti amianto vengano rimossi e bonificati, per evitare che, nel malaugurato caso di esplosioni, vi possa essere una dispersione dell’amianto stesso nell’ambiente e conseguenti rischi per la salute umana. Anche su tale aspetto è quindi necessaria una modifica legislativa.
Le numerose criticità, soprattutto di carattere normativo e amministrativo, emerse nella regolamentazione del settore pirotecnico hanno indotto la Commissione ad investire della questione, ciascuno per la propria competenza, sia il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sia quello dell’interno.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha avviato una verifica sul tema, attraverso uno dei gruppi tecnici insediati all’interno della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro.
Nel contempo, ha fornito una serie di dettagliate risposte alla Commissione d’inchiesta, chiarendo il contenuto della normativa di riferimento vigente, la cui applicazione è di competenza del Ministero dell’interno. Tale normativa. assai complessa, è costituita dal citato testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e dal relativo regolamento di attuazione, approvato con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635; accanto a tali norme, nel tempo, si sono succedute diverse disposizioni, che hanno preso in esame, di volta in volta, varie problematiche.
Nel citato regio decreto n. 773 del 1931, al Capo V, intitolato: «Della prevenzione di infortuni e disastri», dall’articolo 46 all’articolo 57, viene disciplinata l’attività di produzione, il deposito e la vendita di sostanze esplodenti. In sostanza, le disposizione vigenti vietano lo svolgimento di tali attività senza una specifica licenza del Ministro dell’interno per gli esplosivi più pericolosi (articolo 46) e senza la licenza del Prefetto per tutti gli altri (articolo 47), tra i quali i fuochi artificiali e i prodotti affini, ovvero materie e sostanze atte alla composizione o fabbricazione di prodotti esplodenti.
È previsto, inoltre, che chi fabbrica o accende fuochi artificiali deve dimostrare la propria capacità tecnica (articolo 48), attestata da un certificato di idoneità in base ad una prova di contenuto essenzialmente pratico.
Una Commissione tecnica provinciale, nominata dal prefetto, ha il compito di determinare le condizioni dei locali destinati alla fabbricazione o al deposito di materie esplodenti (articolo 49). In aggiunta, il regolamento (articoli dall’81 al 110) dispone per quale quantità dei prodotti e delle materie, indicate nell’articolo 46, le licenze di deposito e di trasporto possono essere rilasciate dal Prefetto. Sono poi previsti controlli al fine di ottenere sia le prescritte licenze da parte della citata Commissione tecnica provinciale per gli esplosivi che fa capo agli Uffici territoriali del Governo (UTG), sia il certificato di prevenzione incendi da parte del Comando provinciale dei Vigili del fuoco, il cui rilascio è propedeutico all’ottenimento della licenza da parte dell’UTG.
Per quanto riguarda la legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede numerosi obblighi a carico del datore di lavoro, alcuni dei quali sono penalmente sanciti. Ad esempio, tale provvedimento prevede (articolo 18) l’obbligo di valutare i rischi attinenti alla attività lavorativa svolta con la conseguente elaborazione del documento di valutazione del rischio (DVR) previsto dall’articolo 28; la sorveglianza sanitaria (articoli 38-42); la gestione delle emergenze (articoli 43-46); l’informazione e la formazione dei lavoratori (articoli 36 e 37); la fornitura di adeguati dispositivi di protezione individuali (DPI); in generale, l’adozione di appropriati processi lavorativi, controlli tecnici e misure organizzative e protettive per limitare i rischi (articolo 225).
In sostanza, dall’esame delle normative vigenti si ricava come negli opifici pirotecnici o esplosivi in genere alcuni aspetti dell’attività produttiva, quali la determinazione dei processi lavorativi (in particolare la miscelazione e la colorazione dei materiali esplodenti), la formazione dei lavoratori e la regolazione delle condizioni microclimatiche all’interno degli ambienti, siano rimessi essenzialmente alla valutazione e all’esperienza dei titolari degli impianti. Così, poiché la competenza principale in materia di autorizzazioni e di vigilanza su tali opifici spetta al Ministero dell’interno (sia pure congiuntamente alle ASL per quanto attiene specificamente alla materia della salute e sicurezza sul lavoro), la Commissione, in data 25 ottobre 2011 ha ritenuto opportuno audire gli esperti del competente Ufficio per gli affari della polizia amministrativa e sociale, Dipartimento della pubblica sicurezza.
In risposta ai quesiti sollevati dalla Commissione, il vice prefetto dottoressa Paola Giovanna Mureddu, direttore dell’Ufficio, ha anzitutto illustrato le già citate norme del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che regolano la materia, soffermandosi in particolare sul Capo V, intitolato alla prevenzione di infortuni e disastri, nel quale si prevede che la fabbricazione, il deposito, la vendita ed il trasporto di alcuni tipi di sostanze esplosive non possano essere effettuati senza la licenza rilasciata dal Ministro dell’interno, mentre per altre sostanze, ivi compresi i fuochi artificiali e i prodotti affini, è richiesta la licenza del prefetto.
Altri aspetti basilari della disciplina sono contenuti nelle norme del regolamento di attuazione del testo unico che provvedono alla classificazione dei prodotti esplosivi, nonché nell’allegato B di detto regolamento, contenente le prescrizioni tecniche per la costruzione degli impianti di produzione. In particolare, a fini di prevenzione, sono dettate regole specifiche per le caratteristiche degli ambienti dove viene effettuata la produzione di prodotti esplodenti, per le distanze da osservare e per i quantitativi massimi di materiale esplosivo lavorabile. Queste prescrizioni dovrebbero consentire di limitare gli effetti di eventuali esplosioni ai soli locali interessati e contenere conseguentemente il possibile danno alle persone, che devono essere distribuite nei luoghi di fabbricazione in modo tale da trovarsi quanto più possibile distanti dai punti critici, e comunque devono essere escluse da luoghi dove la lavorazione è effettuata da macchinari.
Norme specifiche sono inoltre dettate per la disciplina dei marchi e delle etichette che, recependo la normativa comunitaria, devono contenere tutti gli elementi utili a consentire la tracciabilità del materiale.
Per quanto riguarda la concessione della licenza, essa è subordinata all’accertamento del possesso di specifici requisiti di idoneità tecnica da parte del titolare dell’azienda. Tale accertamento è affidato ad una commissione di nomina prefettizia che sottopone il candidato ad un esame pratico e verifica anche il possesso dei requisiti morali indicati dalla legge. È altresì obbligo del titolare provvedere alla stipula di un’assicurazione in favore degli operai e dei guardiani che operano nello stabilimento. La licenza ha carattere permanente e comporta l’obbligo di tenere un registro giornaliero delle operazioni, sottoposto mensilmente al controllo dell’autorità di pubblica sicurezza e conservato obbligatoriamente fino a cinque anni dopo la cessazione dell’attività. La normativa vigente pone poi alcune limitazioni, tra le quali vanno ricordate quelle relative al divieto di lavoro notturno e di utilizzo di alcune tipologie di illuminazioni e fuochi, e detta norme molto stringenti relative all’obbligo di trasferimento nei depositi del materiale non manipolato.
Mentre la licenza per la gestione dei depositi è permanente, la licenza per la vendita è temporanea e, secondo la normativa vigente, scade il 31 dicembre di ogni anno. Anche la licenza per il trasporto di esplosivi è temporanea ed ha la durata massima di un anno: peraltro, è allo studio la proposta di rendere biennali tali licenze, con decorrenza dalla data di rilascio dell’autorizzazione. Specifiche normative disciplinano inoltre l’autorizzazione alla movimentazione, all’esportazione ed all’importazione degli esplosivi.
La Commissione ha osservato che, in base a quanto emerso dalle verifiche condotte, coloro i quali manipolano e confezionano le polveri esplodenti non sono attualmente soggetti ad adeguate procedure di verifica dell’idoneità tecnica, né è previsto, al di là della certificazione attitudinale, limitata peraltro al titolare dell’impresa, alcun tipo di autorizzazione amministrativa a svolgere la predetta attività.
Il dottor Gianni Giulio Vadalà, esperto di esplosivi in seno alla Commissione consultiva centrale per il controllo delle armi, ha confermato che nelle fabbriche dove sono prodotti materiali esplodenti e fuochi d’artificio, il titolare è il depositario delle modalità tecniche di fabbricazione e provvede all’addestramento dei suoi dipendenti, per i quali, in effetti, la disciplina vigente non prevede il rilascio di una specifica autorizzazione. Peraltro, attualmente anche l’esame di accertamento delle capacità tecniche del titolare ha effettivamente un carattere cartolare, il che lo rende poco idoneo a realizzare un efficace accertamento delle reali capacità tecniche.
Vi è poi l’esigenza di migliorare anche l’attività di controllo svolta dal Ministero dell’interno, essenziale se si considera il carattere ripetitivo della maggior parte degli incidenti, che riguardano fabbriche molto piccole, con pochissimi dipendenti spesso imparentati tra loro e ancora più spesso deceduti tutti nello stesso posto, tipicamente il reparto per la miscelazione e colorazione delle polveri. Purtroppo – come confermato anche da un altro degli esperti presenti all’audizione, la dottoressa Maria Filomena Martino, vice questore aggiunto della Polizia di Stato, responsabile del settore fabbriche e deposito esplosivi – attualmente le ispezioni sono svolte da personale privo delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie ad individuare correttamente le situazioni di criticità.
In merito alle licenze di esercizio, la dottoressa Maria Paravati, primo dirigente della Polizia di Stato, direttore dell’area armi ed esplosivi, ha precisato che il decreto legislativo 4 aprile 2010, n. 58, che ha recepito la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2007/23/CE relativa all’immissione sul mercato di prodotti pirotecnici, all’articolo 4 ha disciplinato il regime delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività di utilizzo, a qualsiasi titolo, degli articoli pirotecnici, precisando che esse possono essere rilasciate solo ai soggetti in possesso delle abilitazioni di cui all’articolo 101 del regio decreto n. 635 del 1940 (regolante appunto le modalità di rilascio delle suddette licenze), i quali abbiano superato corsi di formazione nelle materie del settore della pirotecnica. Poiché le modalità di attuazione di tale norma sono demandate a un decreto del Ministero dell’interno, in quest’ambito si potrebbe prevedere anche la programmazione delle attività formative, da attuare eventualmente in concorso con gli enti locali. Occorre quindi prevedere una disciplina più puntuale per l’accertamento dell’idoneità tecnica degli operatori, concentrando l’attenzione soprattutto sul contenuto e sullo svolgimento delle prove pratiche.
La Commissione ha sottolineato al riguardo che per i lavoratori del settore pirotecnico si dovrebbe pervenire ad una licenza obbligatoria, previo accertamento del possesso di idonee cognizioni teoriche e pratiche. Si tratta quindi di intervenire su una normativa inadeguata su questi profili, e di valutare la possibilità di introdurre forme obbligatorie di formazione professionale rivolte a tutti gli addetti e non solo ai titolari. La formazione dei lavoratori di un settore così delicato non può infatti essere affidata alla buona volontà dei datori di lavoro. In base a quanto emerso nell’audizione, occorre poi migliorare la qualità della attività ispettiva, rendere più rigorosa la prova per l’accertamento della sussistenza dei requisiti tecnici del titolare e più stringente l’obbligo posto a carico di quest’ultimo di essere presente sul luogo di produzione, al fine di evitare che possano riprodursi anomalie sostanziali come quelle che sono state accertate ad Arpino.
Per quanto riguarda il problema dell’assenza di obblighi di installare rilevatori di temperatura ed umidità nei locali dove si svolge la manipolazione dei materiali esplodenti e, più in generale, della climatizzazione degli ambienti di lavoro, il dottor Vadalà, richiamando anche le dinamiche di precedenti incidenti, ha evidenziato che la climatizzazione dei locali dove si effettuano le attività di miscelazione e colorazione comporta benefì ci limitati e scarsi vantaggi, mentre, sul piano della sicurezza, è preferibile compartimentare il lavoro e assicurare che le attività più pericolose siano svolte in una zona blinda, dotata cioè di aree di sfogo. Pur prendendo atto di tali precisazioni, la Commissione ha rilevato le conseguenze negative della mancanza di normative più precise circa le caratteristiche degli ambienti di lavorazione dei materiali pirotecnici, la cui regolamentazione spetta al Ministero dell’interno, che esercita funzioni essenziali in questo campo. Altro tema sensibile è quello delle ispezioni degli opifici pirotecnici, che sembrano avere un carattere troppo saltuario. In merito, la dottoressa Mureddu ha ricordato che il Dipartimento di pubblica sicurezza predispone attività di monitoraggio periodiche delle aziende produttrici di fuochi d’artificio, d’intesa con le commissioni consultive provinciali, la cui composizione, peraltro, potrebbe forse essere resa più aderente alle problematiche della prevenzione. Dopo l’incidente verificatosi ad Arpino, gli organi periferici dell’amministrazione dell’interno sono stati sollecitati a svolgere ispezioni tecniche più puntuali e, per questo aspetto, è senz’altro essenziale che esse siano effettuate da personale adeguatamente preparato.
Peraltro, occorre tenere presente che la produzione di fuochi d’artificio è esclusa dall’ambito di applicazione del citato decreto legislativo n. 58 del 2010: tale circostanza potrebbe comportare qualche problema quanto al complessivo miglioramento delle normative di sicurezza, miglioramento che, peraltro, deve essere realizzato tenendo conto anche delle esigenze dei produttori in un contesto di crisi economica. D’altra parte, proprio in sede di attuazione dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 58 del 2010 potrebbero essere introdotte disposizioni in materia di formazione professionale obbligatoria e di accertamento dell’idoneità tecnica dei lavoratori del comparto pirotecnico.
Un altro quesito sollevato dalla Commissione riguardava la regolamentazione dell’accesso degli estranei negli impianti in attività, che ad Arpino ha causato la morte di un acquirente che si trovava in una zona non consentita. Le norme di sicurezza devono invece essere applicate in modo specifico e tassativo e quelle dettate per la fabbricazione di armi ed esplosivi devono essere estese alla produzione di articoli pirotecnici, a maggior ragione in quanto essa si svolge in aziende di piccole dimensioni.
Vanno poi considerati gli effetti delle esplosioni: ad Arpino, l’uso di eternit, frantumatosi a seguito della deflagrazione, ha prodotto altri rischi connessi all’inquinamento da amianto.
Si pone quindi, in generale, l’esigenza di valutare l’estendibilità della «direttiva Seveso» sui grandi rischi alla produzione di fuochi artificiali. Si tratta infatti della normativa contenuta nel decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, che ha recepito in Italia la direttiva del Consiglio 96/82/ CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose (detta appunto «direttiva Seveso», dal tragico incidente industriale avvenuto a Seveso nel 1976). La normativa prevede una serie di prescrizioni e di controlli particolarmente severi e rafforzati per quei siti produttivi suscettibili di determinare incidenti di grandi proporzioni in relazione alla lavorazione o alla presenza di sostanze pericolose. In risposta ai suddetti quesiti, il dottor Vadalà ha precisato che la legislazione vigente vieta espressamente l’accesso di estranei negli impianti (Capo VI, allegato B, del regolamento di esecuzione del TULPS), pertanto la morte dell’acquirente recatosi presso lo stabilimento di Arpino sarebbe solo il tragico effetto di una violazione delle regole. Per quanto riguarda l’applicazione della «normativa Seveso» alle aziende che producono esplosivi, questa è legata alla quantità del materiale trattato, tanto è vero che molte aziende riducono le quantità di esplosivo proprio al fine di essere escluse da tale disciplina.
La Commissione ha obiettato che ad Arpino i depositi contenevano sette tonnellate di materiale, senza considerare la presenza di un deposito giudiziario di notevoli proporzioni. Ciò è sintomatico di una grave incongruenza, e ha richiamato l’attenzione sulla inadeguatezza dei criteri con cui viene effettuata la localizzazione dei depositi giudiziari di materiale esplosivo.
Conclusivamente, l’inchiesta della Commissione ha confermato le preoccupanti lacune esistenti nella normativa del settore delle attività pirotecniche.
Esse riguardano in particolare l’accertamento dell’idoneità tecnica degli operatori ed il relativo regime di autorizzazione; la sicurezza dei luoghi e degli ambienti di lavoro; l’iscrizione degli impianti per la produzione di fuochi d’artificio in una adeguata categoria di rischio; l’obbligatorietà della formazione e dell’aggiornamento professionale che, ovviamente, dovrebbe comunque essere svolta a cura e a spese dei titolari delle aziende senza oneri per l’amministrazione. Ancora, vi è il problema dell’osservanza del divieto di accesso agli impianti per i non addetti ai lavori; dell’obbligo di bonifica e rimozione di tutti i manufatti contenenti amianto; e dello svolgimento di controlli periodici degli stabilimenti più severi e approfonditi. Si tratta di questioni essenziali per tutelare la salute e la sicurezza delle persone, che sollecitano l’adozione di misure conseguenti, la cui compatibilità con l’esigenza di assicurare la competitività e l’efficienza delle aziende non deve essere messa in dubbio. L’inchiesta parlamentare in corso, infatti, muove dal presupposto che la sicurezza non è un costo, ma un valore da promuovere in ogni ambito produttivo.
A tal fine, la Commissione ha rivolto un forte invito agli uffici competenti del Ministero dell’interno per avere un supporto ed un’indicazione per il miglioramento della normativa di sicurezza e prevenzione in questo settore, particolarmente esposto a gravi rischi e dove il tasso di mortalità per incidenti è intollerabilmente elevato.
Raccogliendo tali sollecitazioni, gli uffici del Ministero hanno svolto un’ampia istruttoria sulle questioni segnalate, svolgendo accurati approfondimenti e consultando in proposito gli organismi competenti in materia nonché gli esperti di settore. Come comunicato alla Commissione alla fine di dicembre 2011, tale intenso lavoro ha condotto a elaborare una serie di ipotesi di modifica ed integrazione delle norme vigenti che tengono conto delle esigenze emerse e che, una volta valutate dagli organi ministeriali competenti, potranno essere trasfuse in una proposta di legge formale.
La Commissione continuerà a seguire attentamente questo processo, al fine di contribuire, nel rispetto delle reciproche competenze, a una positiva soluzione del problema.

3.3. La qualificazione dei formatori per la sicurezza sul lavoro
Il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede espressamente all’articolo 37 tra gli obblighi che competono al datore di lavoro anche quello di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché dei dirigenti e dei preposti in materia di sicurezza sul lavoro. L’articolo 34 prevede inoltre che lo stesso datore di lavoro debba ricevere una specifica formazione, qualora intenda svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Come già indicato nel paragrafo 2.3, è opportuno ricordare che finalmente, dopo un laborioso iter, sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012 gli accordi del 21 dicembre 2011 approvati dalla Conferenza Stato-Regioni che fissano le modalità e i contenuti dei due tipi di formazione.
Si tratta di un fatto molto positivo: la formazione, infatti, rappresenta uno strumento essenziale ai fini di una corretta prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, in quanto è il primo strumento attraverso il quale creare una consapevolezza sempre più diffusa sul valore della sicurezza nei luoghi di lavoro, sia da parte dei datori di lavoro (che considerano spesso la sicurezza come un costo aggiuntivo o comunque come un aggravio) che degli stessi lavoratori (che la interpretano a volte in maniera meramente formale). La formazione si pone quindi anche come veicolo di crescita e di cambiamento culturale: non a caso il testo unico all’articolo 2, con una forte innovazione rispetto al passato, la definisce esplicitamente come «processo educativo», attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili ad accrescere la sicurezza e a ridurre i rischi.
Un problema concreto che si pone nelle attività di formazione è però quello della qualificazione dei formatori, ossia degli esperti chiamati a erogare gli insegnamenti e le nozioni in materia di sicurezza sul lavoro.
I datori di lavoro che intendono realizzare interventi di formazione per il personale, specie nelle piccole o piccolissime imprese, non sono sempre in grado di valutare i contenuti e le modalità della formazione più appropriati per le loro specifiche esigenze. Essi tendono quindi ad affidarsi ad esperti e consulenti esterni, che dovrebbero possedere un’adeguata preparazione, per la cui attestazione non esiste però al momento una regolamentazione specifica. Ciò crea spesso situazioni confuse o addirittura ambigue, in cui si inseriscono a volte soggetti inadeguati e inaffidabili che offrono i loro servizi alle aziende, magari a tariffe concorrenziali, danneggiando sia i clienti che i professionisti più seri e qualificati.
Occorre dunque introdurre delle norme che, al pari di quanto già avviene per altre figure specializzate, stabiliscano i requisiti di competenza e professionalità necessari per l’esercizio dell’attività di formatori per la sicurezza, evitando di creare inutili appesantimenti burocratici e ostacoli alla libera iniziativa imprenditoriale, ma garantendo comunque la qualità di queste prestazioni, a tutela sia della professionalità dei veri formatori, sia delle aziende e dei lavoratori ai quali la formazione è rivolta.
Si tratta di una situazione che è stata più volte segnalata alla Commissione da enti istituzionali e parti sociali, anche nel corso delle numerose missioni svolte sul territorio. Per approfondire la questione e verificare gli opportuni rimedi, la Commissione ha quindi iniziato un percorso d’indagine, chiamando anzitutto a riferire sul tema, nella seduta del 15 giugno 2011, gli esperti della Consulta interassociativa italiana per la prevenzione (CIIP), un organismo che raggruppa importanti associazioni di categoria degli esperti del settore della prevenzione e che era già stata sentita più volte in passato dalla Commissione.
Il dottor Rino Pavanello, in qualità di presidente della CIIP, ha illustrato sinteticamente il quadro normativo vigente in materia di formazione per la salute e la sicurezza del lavoro, imperniato sul decreto legislativo n. 81 del 2008. Egli ha confermato come tale normativa definisca compiutamente, all’articolo 2, il concetto di «formazione», senza però specificare i requisiti professionali che devono possedere coloro che svolgono tale attività.
La definizione di questi requisiti è infatti demandata alla Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, attraverso uno dei suoi comitati tecnici.
La Commissione consultiva sta ancora lavorando sul punto, stante la complessità della materia e considerando anche il fatto che, come altri aspetti di dettaglio dell’attuazione del testo unico, la sua definizione deve essere concordata fra tre soggetti diversi (Stato, regioni e parti sociali) che non hanno spesso visioni coincidenti sulla questione. D’altra parte, quand’anche i criteri di qualificazione dei formatori della sicurezza fossero stati già definiti dalla Commissione, sarebbe comunque sempre necessario un intervento legislativo per istituire un sistema di assistenza e controllo che garantisca concretamente l’applicazione e il rispetto di tali criteri, a beneficio degli operatori e delle imprese. La mancanza di una normativa specifica ha infatti creato una situazione di grande incertezza, favorendo un mercato parallelo delle consulenze e degli attestati di sedicenti formatori della sicurezza, privi delle necessarie qualifiche e che danneggiano le aziende che si affidano a loro.
Il dottor Pavanello ha ricordato in proposito una serie di normative di rango secondario che debbono essere ancora emanate per completare l’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, soffermandosi in particolare sui criteri di qualificazione dei formatori e sul libretto formativo dei lavoratori. Vi è inoltre l’imminente scadenza del termine per i criteri di aggiornamento professionale dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) e degli addetti al servizio di prevenzione e protezione (ASPP).
In termini concreti, la CIIP ha quindi illustrato alla Commissione una serie di proposte per definire la figura del formatore professionale, sulla base dell’esperienza della propria esperienza. In primo luogo, poiché all’interno di un’azienda accanto ai lavoratori esiste una pluralità di soggetti che debbono ricevere formazione per la salute e la sicurezza sul lavoro, ciascuno con le proprie specifiche esigenze, sarebbe opportuno distinguere tra «formatori qualificati», che svolgono attività formativa in via prevalente o esclusiva, e «operatori formati», che esercitano altre mansioni ma erogano comunque formazione ad altre persone. Per ciascun tipo di formatore è possibile identificare una serie di requisiti di competenza, a seconda dell’area di specializzazione, basati su titoli di studio o su specifiche esperienze professionali e di docenza maturate.
Il sistema proposto dalla CIIP è molto articolato: ad esempio, esso individua quattro aree di specializzazione didattico-formativa (normativo- giuridica, politecnica, igienico-sanitaria e formativo-relazionale-comportamentale) e distingue tra formatori qualificati senior (più esperti) e junior (che devono maturare una specifica esperienza), nonché tra operatori formati interni all’azienda (ad esempio dirigenti o preposti chiamati ad addestrare alcuni lavoratori) ed esterni alla stessa (per esempio installatori di macchinari che forniscono anche addestramento per il loro utilizzo). Inoltre è previsto un sistema di accreditamento per la valutazione dei titoli di studio e delle esperienze professionali e didattiche, volendo consentire anche ai formatori già in attività di rientrare in questa nuova e più rigorosa impostazione, previa verifica dei requisiti posseduti.
Il punto sostanziale, sul quale i rappresentanti della Consulta hanno molto insistito, è però che la definizione dei requisiti professionali specifici è solo il primo passo per la regolamentazione dei formatori della sicurezza.
Occorre infatti anche individuare forme di pubblicità che possano dare pubblica evidenza alle persone effettivamente in possesso dei suddetti requisiti, come già previsto, del resto, per altre figure del sistema di prevenzione e protezione individuate dalle disposizioni vigenti, quali gli RSPP e gli ASPP, i medici competenti ecc. Senza entrare nel merito specifico delle modalità più corrette per realizzare questa pubblicità, la cui scelta spetta necessariamente al legislatore, la CIIP ha sottolineato con forza tale esigenza, che non vuole precostituire barriere all’entrata o altre limitazioni all’esercizio dell’attività, ma solo fornire garanzie circa la qualità delle prestazioni, a tutela degli stessi professionisti, delle imprese e dei lavoratori che riceveranno la formazione. A ciò si deve poi accompagnare un sistema premiale e di controllo (di tipo evidentemente pubblicistico) che garantisca l’effettività dei requisiti e il loro rispetto.
Un altro interessante contributo sul tema della qualificazione dei formatori della sicurezza sul lavoro è venuto poi dalla CEPAS - Certificazione delle professionalità e della formazione, un organismo specializzato nella certificazione dei formatori e che è stato audito dalla Commissione il 30 novembre 2011.
Come ha precisato il presidente, dottor Giancarlo Colferai, la CEPAS è un’associazione riconosciuta senza scopo di lucro che si occupa specificamente di verificare e certificare la qualità dell’attività svolta dai formatori che operano nei vari settori, al fine di tutelare i professionisti e i clienti, anche contro la concorrenza sleale di soggetti inadeguati e improvvisati che si offrono purtroppo sul mercato. L’attività si svolge in conformità alla norma ISO/IEC 17024, che prescrive come definire gli schemi di certificazione e di valutazione per ogni figura professionale e si configura come una «attestazione di parte terza» (cioè di un organismo indipendente e accreditato).
La CEPAS inoltre non svolge attività diretta di formazione, per evitare conflitti d’interesse. Essa verifica se i requisiti dei formatori sono conformi agli standard professionali, secondo le regole dell’EQF (European Qualifications Framework, Quadro europeo delle qualifiche). È poi accreditata dall’ente nazionale di accreditamento ACCREDIA e membro ufficiale delle principali organizzazioni internazionali di settore quali l’IPC (International personnel certification association) e l’IAF (International accreditation forum), il che favorisce importanti scambi di esperienze.
Per accedere alla certificazione, i professionisti debbono anzitutto possedere specifiche competenze tecniche, didattiche ed adeguata esperienza lavorativa e sostenere uno specifico esame. Superato l’esame, ricevono il certificato di docenti della formazione, che ha validità triennale ed è rinnovato solo se il professionista dimostra di aver curato l’aggiornamento professionale, di aver svolto in maniera corretta la sua attività e aver rispettato il codice deontologico dell’associazione.
Da molti anni la CEPAS si occupa della certificazione dei formatori della sicurezza sul lavoro, per cui ha elaborato specifici schemi con i requisiti e le competenze necessarie. Ad esempio, molti formatori aderenti all’AIFOS (Associazione italiana formatori della sicurezza sul lavoro) sono stati certificati con tale modalità10. Il sistema di certificazione illustrato può quindi dare ottimi risultati anche in questo campo, consentendo di valutare e selezionare in modo mirato diverse tipologie di formatori a seconda delle specializzazioni richieste. L’esperienza dimostra infatti che la formazione della sicurezza sul lavoro necessita di figure non generiche ma specifiche, troppo diverse essendo le esigenze di ogni settore produttivo.
Se dunque è possibile ipotizzare, sulla base di esperienze già presenti sul mercato, modalità di certificazione «privatistica» della qualità dei formatori, si tratta pur sempre di un’attestazione che interviene a posteriori, mentre resta aperto il problema di definire preliminarmente le competenze e quindi il percorso di studi e di esperienze che dovrebbero compiere i soggetti che intendono svolgere l’attività di formatori della sicurezza sul lavoro. Anche i vari corsi di specializzazione attivati ad esempio nelle università italiane – alcuni dei quali verranno illustrati nel paragrafo successivo –, pur prestigiosi non risolvono direttamente la questione, proprio perché manca attualmente una regolamentazione univoca della materia, come accade invece per altre figure professionali. La Commissione intende allora farsi parte attiva per mettere a punto una specifica proposta normativa in materia, con il concorso degli organismi di settore e previo confronto con i ministeri competenti e con la Conferenza delle regioni e delle province autonome. A tal fine, si riserva quindi di approfondire ulteriormente la questione, certamente assai complessa dal punto di vista tecnico, per poter studiare una soluzione adeguata.

3.4. La ricerca e l’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro
Nell’ambito della sua indagine, la Commissione ha voluto dedicare attenzione anche agli aspetti della ricerca scientifica e dell’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attraverso un confronto con importanti atenei universitari e associazioni professionali nell’intento di raccogliere suggerimenti e indicazioni utili a migliorare le azioni di prevenzione.
Ai suddetti temi, la Commissione ha inoltre dedicato un apposito gruppo di lavoro sulla prevenzione e sulla formazione, coordinato dalla senatrice Bugnano, che ha promosso alcuni degli approfondimenti di cui si darà conto in questo paragrafo.
Il 23 marzo 2011 la Commissione ha incontrato i rappresentanti dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e della regione Emilia-Romagna, che hanno voluto presentare un importante progetto di ricerca.
Come illustrato dal professor Francesco Saverio Violante, direttore dell’Unità operativa medicina del lavoro, che ha inteso ringraziare la Commissione per l’attenzione, il progetto è finalizzato a costruire un centro di ricerca dedicato ai temi della salute e della sicurezza sul lavoro, in collaborazione tra l’Università di Bologna e la regione Emilia-Romagna.
Oltre all’aspetto della ricerca scientifica, l’iniziativa intende individuare i fattori di maggior rischio per i lavoratori, soprattutto per quanto riguarda le malattie professionali, spesso meno considerate rispetto agli infortuni, per contribuire a delineare più efficaci strategie di prevenzione. Al riguardo, una particolare attenzione dovrà essere rivolta alle malattie muscolo- scheletriche e allo stress lavoro-correlato che, secondo i dati recentemente pubblicati nell’ultima indagine (2010) della «Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro» di Dublino, sono al primo posto tra i problemi di salute denunciati dai lavoratori europei.
Il dottor Carlo Lusenti, assessore alle politiche per la salute della regione Emilia-Romagna, ha sottolineato come il progetto in discorso costituisca un esempio di positiva sinergia tra il mondo della ricerca universitaria e quello delle istituzioni locali. L’istituendo centro di ricerca, che la regione Emilia-Romagna sosterrà attivamente, intende porsi come centro di eccellenza per sviluppare conoscenze sul tema degli infortuni e delle malattie professionali, formare gli operatori e definire strategie di intervento.
A tal fine, la delibera istitutiva del progetto ha già individuato specifici settori di approfondimento e di intervento, che fanno riferimento ai temi già citati: le condizioni di stress lavoro-correlato e le malattie muscolo- scheletriche (ovvero le condizioni più frequentemente legate all’attività lavorativa), le problematiche assicurative, connesse alla tutela dei lavoratori e concernenti la gestione amministrativa, per quanto riguarda la standardizzazione e la semplificazione delle procedure.
Il professor Stefano Mattioli, professore associato di medicina del lavoro, ha confermato il ruolo estremamente importante della Commissione d’inchiesta parlamentare nello stimolare e ispirare l’attenzione a tali problemi, incoraggiando questa iniziativa di collaborazione interistituzionale.
La Commissione ha espresso il proprio apprezzamento per l’iniziativa e confermato l’interesse a conoscere gli ulteriori sviluppi della stessa, ricordando che proprio sul tema delle malattie professionali essa ha costituito un apposito gruppo di lavoro. L’auspicio è naturalmente che il progetto possa fungere da modello per analoghe esperienze in altre parti del Paese, nel quadro della creazione di sistemi territoriali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro sempre più efficienti e avanzati.
Un altro interessante contributo sul tema delle attività di ricerca e formazione è venuto dall’audizione svolta il 4 maggio 2011 con l’Associazione nazionale formatori della sicurezza sul lavoro (ANFOS), che ha chiesto alla Commissione di poter illustrare alcune esperienze di formazione a distanza in materia di sicurezza sul lavoro, nonché alcune riflessioni sui rischi dello stress-lavoro correlato.
Il dottor Rolando Morelli, presidente dell’ANFOS, ha illustrato l’attività pluriennale svolta dall’ANFOS nel campo della formazione a distanza (FAD) sui temi della sicurezza sul lavoro, attraverso una rete di 800 soci e 300 centri convenzionati in tutta Italia. La formazione a distanza è rivolta in particolare ai lavoratori e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) avvalendosi delle moderne tecnologie informatiche, e presenta una serie di vantaggi rispetto ai tradizionali corsi di tipo frontale, potendo essere svolta direttamente presso il luogo di lavoro con orari flessibili, eliminando così gli inconvenienti, i tempi morti e i costi legati agli spostamenti dei dipendenti. Consente inoltre di instaurare un dialogo a distanza tra docenti e discenti e di realizzare corsi ad hoc in lingua per lavoratori stranieri, che sarebbero altrimenti molto difficili da fare, soprattutto prima dell’inserimento nel mondo del lavoro.
Complessivamente, la FAD ha un costo più basso rispetto ai corsi di tipo tradizionale e risulta indicata soprattutto per le piccole e piccolissime imprese (fino a dieci lavoratori). C’è da dire infatti che mentre gli obblighi formativi scaturenti dalla normativa vigente sono praticamente gli stessi sia per le piccole che per le grandi aziende, l’impegno naturalmente è diverso. Si parla però soprattutto di piccole e piccolissime aziende a basso rischio, che abbiano cicli di attività non particolarmente complessi, posto che imprese più grandi e con rischi più elevati hanno esigenze più gravose, che non possono essere soddisfatte con la formazione on line. Viceversa, la FAD potrebbe aiutare le imprese minori con esigenze meno complesse ad adempiere agli obblighi di formazione e informazione dei lavoratori previsti per legge, riducendo anche i costi degli spostamenti, visto che le persone possono fruire dei corsi direttamente dal loro posto di lavoro con un semplice computer. La FAD consente infine un approccio di tipo mirato, con programmi dedicati: i corsi possono inoltre essere rivisti più volte e strutturati in modo che ogni studente sia periodicamente seguito da un tutore, con una serie di prove alla fine del corso.
La Commissione ha confermato il proprio interesse ad approfondire l’applicazione di tale modalità di insegnamento a distanza ai temi della formazione nella sicurezza sul lavoro, sottolineando però la necessità di valutare caso per caso l’idoneità di tale soluzione, al fine di evitare semplificazioni eccessive che possano tradursi in azioni formative di scarso impatto e utilità nei confronti dei lavoratori e delle imprese.
Il dottor Morelli ha quindi colto l’occasione per denunciare l’assenza di una normativa precisa che definisca caratteristiche e requisiti professionali dei soggetti abilitati a svolgere l’attività di formatori. Il decreto legislativo n. 81 del 2008 detta infatti i criteri per l’accreditamento delle strutture che possono erogare la formazione (enti pubblici, università, enti paritetici), ma non definisce le relative figure professionali. Attualmente si sta parlando di certificazione delle professionalità secondo la norma ISO/IEC 17024, ma l’ANFOS ritiene che sia un sistema per eludere il problema, perché non si garantisce l’efficienza e l’efficacia della formazione impartita da chi ottiene questo tipo di certificazione. Bisogna prendere in considerazione anche il curriculum di studi e professionale di queste persone.
Si tratta di un’oggettiva carenza della legislazione, lamentata da molti professionisti del settore e della quale anche la Commissione si sta attivamente interessando, come documentato nel paragrafo precedente.
Per quanto riguarda lo stress-lavoro correlato, dopo aver ricordato le gravi patologie che possono derivare da tale condizione, il dottor Morelli ha illustrato una ricerca svolta nel dicembre 2010 presso 12 grandi aziende del settore informatico (settore che impiega complessivamente 1.300.000 lavoratori), immediatamente dopo l’emanazione delle linee guida per la valutazione dei relativi rischi11. Lo stress-lavoro correlato, infatti, è molto avvertito nelle attività legate all’uso delle tecnologie informatiche (cosiddetto «tecno-stress»). La ricerca ha mostrato che solo 7 aziende su 12 si erano preparate per la valutazione di questi rischi, di cui 2 già autonomamente e 5 solo in seguito all’entrata in vigore della nuova disciplina. Peraltro, i vari soggetti sembrano più preoccupati di curare gli adempimenti di tipo formale, senza avere ancora realmente elaborato un piano di intervento che, ove necessario, possa eliminare i fattori che causano l’eventuale rischio di stress.
Il dottor Morelli ha precisato poi di non avere al momento soluzioni concrete da offrire per tale problema, troppo recente essendo la nuova normativa e necessitando ancora di tempo per valutare le prime esperienze. In termini generali, il rischio di stress-lavoro correlato riguarda soprattutto le grandi realtà lavorative e certi tipi di lavoro (ad esempio quello notturno o in luoghi confinati), mentre è molto meno presente nelle piccole aziende.
Ferma restando l’attività informativa di base prevista per i lavoratori, svolta anche dall’ANFOS, gli interventi concreti dovrebbero coinvolgere i medici competenti, che però possono solo curare una eventuale patologia, mentre la rimozione delle cause, cioè dei fattori di rischio, passa necessariamente attraverso modifiche dell’organizzazione del lavoro, che in certi casi possono essere difficili da realizzare.
Nella seduta del 20 luglio 2011 la Commissione ha audito alcuni docenti universitari, cha hanno attivato nei loro Atenei dei corsi di alta formazione sui temi della salute e sicurezza sul lavoro. Le audizioni, promosse dal gruppo di lavoro sulla prevenzione e formazione coordinato dalla senatrice Bugnano, si inserivano appunto in un percorso di indagine volto a verificare l’offerta formativa in Italia di livello universitario per la preparazione di figure specializzate nel settore della prevenzione.
La prima audizione è stata quella dei docenti della facoltà d’ingegneria del Politecnico di Torino. Il professor Mario Patrucco, docente di sicurezza e igiene del lavoro, ha illustrato i corsi di formazione in materia di cultura della sicurezza occupazionale attivati presso il Politecnico di Torino, che mirano a creare analisti di rischio, ossia esperti in grado di valutare i rischi per la sicurezza presenti all’interno delle aziende. La scelta di attivare un corso di questo tipo nasce dalla constatazione che, come dimostrano i dati, all’origine della maggior parte degli infortuni vi è spesso una mancata o errata valutazione del rischio, ovvero una gestione scorretta dello stesso, sia in fase preliminare che in fase successiva (interventi di manutenzione). Troppo spesso, infatti, i documenti di valutazione privilegiano l’aspetto burocratico anziché quello sostanziale. In questo senso, assumono una valenza essenziale sia le figure di verifica interna, a cominciare dai datori di lavoro e dai responsabili del servizio di protezione e prevenzione (RSPP), sia quelle di verifica esterna, cioè i funzionari degli enti di controllo come i Servizi di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL).
Proprio per formare al meglio queste figure, insegnamenti sull’analisi dei rischi sono ricompresi in tutti i corsi d’ingegneria attivati presso il Politecnico di Torino, tanto per la laurea triennale quanto per quella magistrale, oltre che nel corso di laurea in tecniche della prevenzione. Il corso più importante è però il «master in ingegneria della sicurezza ed analisi dei rischi», ormai giunto alla sedicesima edizione, che forma personale altamente qualificato con un approccio multidisciplinare, in cui si evidenziano sia gli aspetti teorici che pratici della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, anche attraverso tirocini in azienda. Il master è articolato in sette macromoduli, per un totale di 500 ore all’anno, tre mesi di stage, corrispondenti a 70 crediti formativi e vanta importanti patrocini, tra i quali quello dell’INAIL, collaborazioni con l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA) e i Vigili del fuoco, nonché sponsorizzazioni di aziende private. L’esito del master, in termini occupazionali, è stato finora lusinghiero, in quanto quasi tutti gli studenti usciti hanno trovato lavoro.
Il professor Patrucco ha poi citato altresì i dottorati di ricerca attivati sulle medesime materie e si è soffermato infine sull’attività di studio e ricerca del Politecnico, che ha portato all’attivazione di collaborazioni con enti, istituzioni e aziende, nonché allo sviluppo di modelli per analisi avanzate di tipo preventivo e pre-normativo. Ancora, è stata creata un’applicazione informatica per l’analisi critica successiva degli eventi infortunistici, specificamente mirata all’individuazione delle cause.
Il professor Riccardo Tommasini, docente di ingegneria della sicurezza elettrica, si è quindi soffermato sulle analisi a fini pre-normativi, ossia di ausilio all’elaborazione dei testi di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che richiedono uno specifico approccio. Se infatti per elaborare un certo tipo di statistica sugli infortuni i dati dell’ISTAT e dell’INAIL sono sufficienti e utilissimi (anche per avere contezza della situazione generale), quando si deve approfondire la ricerca e fare un’analisi di rischio che serve per individuare le cause e quindi per poter organizzare dei provvedimenti da inserire nei documenti normativi, bisogna avere dei data base molto più ricchi.
Un lavoro di questo tipo è stato condotto anni fa nel campo della prevenzione dei rischi elettrici, analizzando circa un terzo degli infortuni elettrici avvenuti in Italia tra il 1960 e il 1987 (la ricerca è stata poi pubblicata nel 1988), per un totale di 5.500 eventi e oltre 200.000 dati tecnici.
Tale analisi ha consentito di mettere a punto le norme di regolamentazione del settore elettrico con assoluta cognizione di causa. Il professor Tommasini ha sottolineato come, in prospettiva, un simile approccio potrebbe essere adottato per creare un osservatorio sugli infortuni, dove anziché cercare i dati sugli infortuni passati, si registrino, attraverso un sistema di filtro, i dati sugli infortuni mano a mano che si verificano, magari per un certo periodo. Solamente attraverso uno strumento di questo genere si può poi fare della ricerca sulla sicurezza, in alternativa ad una semplice statistica sugli aspetti più generali.
La seconda audizione si è svolta con i docenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Urbino «Carlo Bo». Il professor Paolo Pascucci, ordinario di diritto di lavoro, ha illustrato il corso di laurea triennale in «Scienze giuridiche per la consulenza del lavoro e la sicurezza dei lavoratori», attivato presso la facoltà di giurisprudenza. Il corso ha un contenuto specificamente giuridico, in quanto volto a creare una specifica competenza normativa in tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Al riguardo, il professor Pascucci ha sottolineato l’importanza dell’approccio giuridico come linguaggio comune ai diversi operatori, giacché anche gli aspetti tecnici della prevenzione (medici o ingegneristici) sono alla fine introiettati in norme giuridiche, secondo l’impostazione introdotta dal decreto legislativo n. 81 del 2008, che ha per la prima volta definito con precisione istituti e figure prima solo vagamente tratteggiate.
La materia della salute e sicurezza del lavoro è d’altra parte per sua stessa natura fortemente interdisciplinare, sia all’esterno che all’interno del diritto, il che giustifica la necessità di un codice linguistico comune per interpretare e far «dialogare» le diverse scienze, giuridiche e non giuridiche.
Il corso è mirato a creare figure di consulenti qualificati, con possibilità di acquisire anche il titolo di responsabile o di addetto dei servizi di prevenzione e protezione. Inoltre, altri possibili destinatari del corso sono i datori di lavoro, nonché gli ispettori del lavoro o delle ASL, a ciascuno dei quali la legge impone un’adeguata cultura giuridica, nelle loro diverse competenze. Il corso è focalizzato sulla prevenzione, intesa, secondo il nuovo approccio introdotto dal decreto legislativo n. 81, come «prevenzione partecipata e organizzata», che coinvolge cioè tutte le figure e tutti gli aspetti dell’organizzazione aziendale.
Infine, il professor Pascucci ha illustrato il progetto «Olympus», nato in collaborazione tra l’Università «Carlo Bo», la regione Marche e la direzione regionale INAIL delle Marche. Si tratta di un sito Internet specializzato, che contiene banche dati con tutta la documentazione normativa (leggi, sentenze ecc.), italiana e internazionale, prodotta in materia di salute e sicurezza sul lavoro, liberamente consultabile da chiunque. Ci sono più di 5.100 documenti inseriti, che fanno sì che il sito abbia fino adesso raggiunto la ragguardevole cifra di 3,8 milioni di visitatori, con una media negli ultimi mesi di oltre 10.000 accessi giornalieri. L’opera è continuamente aggiornata e ospita anche numerosi articoli di dottrina nonché «I Working papers di Olympus», una rivista scientifica on-line con saggi specializzati.
La Commissione, e in particolare il gruppo di lavoro sulla prevenzione e formazione, nel ringraziare gli auditi per il loro intervento, hanno espresso la loro soddisfazione per un aspetto, ossia il fatto che si tenda a favorire la partecipazione ai vari corsi (soprattutto a quelli per l’analisi dei rischi) anche per i datori di lavoro. Infatti, come è stato rilevato, la capacità di individuare il rischio per prevenirlo è fondamentale per un datore di lavoro, ma per farlo deve possedere delle conoscenze adatte: si tratta di un aspetto particolarmente importante, emerso ed evidenziato anche in altre audizioni.
Un ulteriore approfondimento sui temi della ricerca finalizzata all’innalzamento della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è stato fornito alla Commissione dall’audizione dei rappresentanti della Fondazione nazionale C.S.R. (Centro studi nazionale per il controllo e la gestione dei rischi aziendali), svolta il 27 settembre 2011.
Il direttore generale, professor Paolo Prandi, ha illustrato brevemente l’attività della Fondazione, che è nata dalle conclusioni di una ricerca sulla gestione del rischio, avviata nel 2008 e pubblicata quest’anno, con la quale si è cercato di dare vita ad un sistema integrato nel territorio della provincia di Brescia, attraverso l’interlocuzione tra ricercatori, enti pubblici e soggetti imprenditoriali, con l’obiettivo di rilevare le principali aree dei rischi di varia natura cui sono sottoposte le aziende, identificare il loro grado di copertura, i principali presidi e le modalità di trasferimento, nonché di offrire un quadro di possibili interventi migliorativi.
Il lavoro di indagine si è sviluppato su quattro aree fondamentali: l’esame delle best practices; l’analisi delle aziende dal lato della domanda di sicurezza; il punto di vista degli stakeholders e quello delle aziende che operano sul versante della copertura del rischio, come ad esempio le società di assicurazioni. Sono state prese in considerazione anche le imprese straniere, soprattutto nell’area anglosassone, per le quali è stata constatata l’esistenza di una situazione molto più avanzata di quella esaminata, dal punto di vista dell’integrazione della gestione nel rischio nell’ambito della più complessiva pianificazione aziendale. Per quanto riguarda gli interlocutori, sono state intervistate aziende al di sopra dei 50 dipendenti, che si sono già dotate di un sistema di copertura dei rischi.
L’applicazione del modello adottato per la ricerca, che ha distinto tra rischio imprenditoriale e rischi associati di varia natura – quali ad esempio quelli ambientali, patrimoniali o finanziari –, ha consentito di verificare che gli imprenditori sono perfettamente al corrente degli aspetti della realtà industriale riguardanti più direttamente la produzione e la commercializzazione del prodotto, mentre sono meno consapevoli per quello che riguarda altre aree, come appunto quella del rischio, rese più opache anche dalla crescente complessità dell’ambiente competitivo.
La gestione globale del rischio, secondo quanto illustrato dal professor Prandi, comporta in primo luogo l’esame dell’importanza strategica dell’attività di rischio, al fine di decidere l’eliminazione o il mantenimento dell’attività stessa; in secondo luogo, l’adozione di idonee misure di sicurezza fisiche e procedurali, necessarie al contenimento dei rischio – valutando il ricorso a presidi specifici e a modalità di trasferimento – e, infine, la rivalutazione dell’esposizione aziendale al rischio residuale, contemplando un incremento dei presidi o delle modalità di trasferimento, qualora esso risultasse non tollerabile.
Passando ad esaminare le cause più frequenti di incidente, il professor Prandi ha osservato che esse sono dovute all’erroneo utilizzo dei macchinari, derivante a sua volta da scarsa perizia, imputabile ad una formazione incompleta, da disattenzione spesso frutto di un’eccessiva sicurezza nella ripetizione delle mansioni, nonché dalla ricerca di maggiore efficienza e da una sottovalutazione dell’importanza dei presidi predisposti dall’azienda. L’attività di prevenzione dovrebbe pertanto concentrarsi sulla formazione dei dipendenti nell’utilizzo dei macchinari, sull’attribuzione delle relative responsabilità e su programmi di manutenzione dei macchinari stessi.
Il dottor Antonino Girelli, consigliere della Fondazione, ha ricordato preliminarmente che nel corso della sua attività di revisore si è sovente imbattuto nella problematica della gestione del rischio, sia dal punto di vista dell’approccio scientifico, sia da quello delle concrete procedure da adottare. Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto, il risultato della ricerca illustrata dal professor Prandi ha fornito molti spunti di riflessione, inducendo i promotori a dare vita alla Fondazione C.S.R., secondo una linea di continuità con l’attività svolta e come volano per la crescita del confronto e della riflessione su argomenti di grande rilievo, con un’impostazione in grado di coniugare l’esigenza di diffondere una cultura della prevenzione con quella di assicurare l’operatività delle aziende, migliorando la loro capacità di analizzare e risolvere i propri problemi.
In assenza di rilevazioni dettagliate sui costi sostenuti dalle imprese, gli approfondimenti effettuati in occasione delle interviste hanno condotto a stimare la spesa per la gestione dei rischi tra l’1 e l’1,5 per cento del fatturato lordo aziendale, con un’incidenza simile, ad esempio, al costo degli interessi bancari in un’azienda con un indebitamento fisiologico.
Considerando che sono state prese in esame realtà caratterizzate da fatturati annuali rilevanti, si tratta di importi certamente significativi ma, al di là del dato quantitativo, la ricerca ha evidenziato una scarsa integrazione della gestione del rischio, anche perché nel sistema organizzativo aziendale la fase di controllo e valutazione del rischio medesimo non fa capo ad una funzione unitaria e chiaramente individuata.
In ogni caso, nel campione esaminato il numero medio di incidenti è pari a 3 all’anno, nessuno grave, e non si riscontrano malattie professionali.
Questo dato è in qualche modo indicativo del tipo di aziende considerato e sarebbe interessante capire meglio che cosa accade in aziende con un numero di dipendenti inferiore a 50 e con un budget per la sicurezza più limitato. Di certo, la prevenzione delle cause più frequenti di incidente sul lavoro comporta la diffusione di una cultura della sicurezza. Inoltre, se le risorse destinate dalle aziende a tale finalità venissero portate all’attenzione del management al fine di dare vita a figure specificamente preposte alla valutazione e al controllo del rischio, si arriverebbe molto probabilmente ad una significativa riduzione dei costi, e si conseguirebbe una visione più unitaria, con una migliore individuazione degli ambiti di attività bisognosi di maggiori presidi di protezione.
In merito ai criteri di composizione del campione e alla tipologia delle aziende esaminate, il professor Prandi ha poi precisato che vi è stata una preselezione per individuare le 80 aziende intervistate. L’intenzione era quella di dialogare con imprenditori già positivamente predisposti in tal senso, considerata anche l’assenza di un unico interlocutore sul tema della gestione del rischio. Questa figura potrebbe essere individuata nel responsabile dei servizi di prevenzione e sicurezza: tuttavia, anche nei casi in cui quest’ultimo è presente in azienda – e non sempre lo è – i vertici aziendali non riescono ad avere un approccio globale alle problematiche della gestione del rischio e ad essere pienamente coinvolti in esse, anche a causa di una legislazione che pone numerosi obblighi, responsabilità, doveri di natura documentale e regola le diverse situazioni in modo estremamente dettagliato. La Fondazione nazionale C.S.R. intende considerare l’azienda come un’entità unitaria, che deve gestire numerose tipologie di rischio, ma la gestione di quello specificamente riferito agli infortuni sul lavoro non è facilitata da una regolazione così complessa, e ciò rende particolarmente urgente un’opera di semplificazione legislativa, suscettibile di tradursi in un maggiore coinvolgimento degli imprenditori, come peraltro è nell’auspicio di alcuni di essi.
Il professor Prandi ha ulteriormente osservato che la quota di risorse destinate alla gestione del rischio, calcolata in percentuale sul fatturato lordo, potrebbe anche risultare sottostimata: quello che è certo è che essa è finalizzata alla gestione, mentre è assente un’analisi preventiva che consenta di individuare le maggiori criticità. In altri termini, l’insieme della spesa per la gestione del rischio, non sempre percepita con chiarezza dai vertici aziendali, non discende da un’analisi delle necessità oggettive e, inoltre, manca sovente una valutazione sui suoi effetti, in particolare per quanto attiene alla capacità di ridurre il rischio e di far decrescere il rischio residuo, capacità che dovrebbe essere assunta come obiettivo strategico dell’azienda.
Un contributo al dibattito è poi venuto dal dottor Gilberto Franchini, altro consigliere della Fondazione, che ha portato la sua esperienza di imprenditore siderurgico meccanico, sottolineando che nella sua azienda non si sono verificati infortuni sul lavoro e che la formazione per la prevenzione si svolge regolarmente, per quattro ore a settimana, mentre l’opera concreta di prevenzione poggia soprattutto sui responsabili dei reparti di produzione, la cui attività, peraltro, non è sempre adeguatamente apprezzata dai lavoratori. Come è stato accennato anche nell’introduzione del professor Prandi, l’azienda è chiamata a gestire rischi numerosi e di diversa natura, che si sommano a quelli legati agli infortuni sul lavoro: ad esempio il danno economico derivante da un errore che comporti il danneggiamento di prodotti di grande valore, o quello implicito quando si contratta con aziende multinazionali, che non considerano i costi derivanti dagli obblighi della legislazione nazionale.
Infine, il professor Prandi ha illustrato dettagliatamente l’organizzazione della Fondazione e del Centro studi nazionale per il controllo e la gestione dei rischi aziendali, soffermandosi in particolare sulla tipologia dei partecipanti, sulla forma statutaria e sulle caratteristiche della Fondazione stessa, con particolare riferimento al suo approccio aziendalistico.
Nell’immediato futuro, si intende completare l’assetto dell’ordinamento interno e sviluppare la ricerca su diverse aree, a livello orizzontale, per studiare altre regioni e superare l’attuale dimensione localistica, e a livello verticale, per approfondire il risk management in altri settori e su altre problematiche. Un oggetto specifico di ricerca dovrebbe essere quello relativo alla semplificazione normativa e al cover risk rating.
La Commissione ha espresso apprezzamento per il contributo della Fondazione C.S.R., il cui approccio correttamente considera essenziale la problematica delle funzioni e della responsabilità imprenditoriale e, nel rilevare l’importanza della quota di fatturato lordo destinata dalle aziende considerate alla gestione del rischio, sottolinea la centralità di una cultura della prevenzione, per la creazione e diffusione, della quale, peraltro, la legislazione vigente offre importanti indicazioni. L’aspetto pregevole e originale della ricerca sta proprio nell’offrire un criterio atto a realizzare una migliore comprensione della dimensione aziendale e una visione globale della problematica relativa agli infortuni sul lavoro. Dagli interventi svolti nell’incontro è emerso altresì un quadro interessante della mentalità imprenditoriale e la Commissione ha pertanto auspicato che la Fondazione prosegua nel programma da ultimo illustrato dal professor Prandi, offrendo ulteriori approfondimenti sulle problematiche oggetto dell’inchiesta parlamentare in corso.
Infine, l’11 ottobre 2011 la Commissione ha svolto un’audizione dell’Association for the Advancement of Radical Behavior Analysis (AARBA), incentrata sull’applicazione delle metodologie dell’analisi comportamentale ai fini dell’individuazione e della prevenzione dei fattori di rischio per la sicurezza dei lavoratori.
Il presidente, professor Fabio Tosolin, ha fornito preliminarmente alcune informazioni sull’AARBA, illustrandone l’attività scientifica, didattica e di ricerca, il collegamento con alcuni atenei italiani e con le omologhe associazioni internazionali e la collaborazione con enti pubblici e privati, tra cui l’INAIL e, in precedenza, con l’ISPESL. Dopo aver ricordato che il Capo dello Stato ha insignito l’AARBA di importanti riconoscimenti per l’attività svolta, il professor Tosolin ha precisato che la metodologia del Behavior Based Safety (BBS), che trae le sue origini remote dalla psicologia dell’apprendimento, intende costruire comportamenti finalizzati ad ottenere risultati misurabili oggettivamente nel campo della sicurezza sul lavoro. L’applicazione di tale metodo si basa infatti sulla constatazione che circa il 96 per cento degli infortuni che avvengono su base annua sono riconducibili a comportamenti insicuri. L’intervento di BBS richiede ovviamente la presenza di esperti in possesso di una solida preparazione teorica e pratica, quale può derivare dal possesso di una laurea specialistica e da un ulteriore percorso formativo nell’ambito di un dottorato in Behavior Analisys, nonché dal possesso di esperienze specifiche nel campo della ricerca applicata.
È quindi intervenuto il professor Adriano Paolo Bacchetta, direttore area Health & Safety dell’associazione, il quale, nell’esaminare il rapporto tra il BBS e la normativa vigente, ha osservato che nel corso degli anni la legislazione italiana in materia di sicurezza e prevenzione sul lavoro ha fatto registrare notevoli miglioramenti dal punto di vista della definizione di standard di sicurezza e del coinvolgimento dei principali attori nell’attuazione delle politiche prevenzionistiche. Già in passato, in sede di monitoraggio degli effetti del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, si convenne che la diffusione di una cultura della sicurezza tra le figure chiave dell’organizzazione produttiva era suscettibile di produrre risultati più proficui di una impostazione delle problematiche prevenzionistiche basata in prevalenza sull’azione autoritativa della pubblica amministrazione.
Una tale constatazione riconduce direttamente a considerare la rilevanza del comportamento umano che, più della violazione delle prescrizioni legislative, può incidere sul numero e sulla frequenza degli infortuni sul lavoro.
Senza sottovalutare gli effetti positivi che possono derivare dalle misure volte al miglioramento degli impianti e degli ambienti di lavoro, occorre tenere presente che gli interventi in grado di ridurre comportamenti non conformi alle norme di sicurezza possono produrre risultati di grande rilievo, soprattutto nel sistema attuale, nel quale i lavoratori e i datori di lavoro sono destinatari finali di una serie di obblighi legislativi, ma hanno una scarsa abitudine alla cooperazione, al confronto ed alla reciproca assistenza, che il BBS si propone invece di promuovere ed attuare. Esso infatti consente di adottare modalità più efficienti per individuare comportamenti non sicuri e per incentivare la motivazione individuale e collettiva alla sicurezza: in sostanza, l’obiettivo di un processo di sicurezza basato su comportamenti e integrato nel sistema di prevenzione e protezione aziendale, consiste nell’implementazione di un processo di cambiamento culturale che elevi la sicurezza a valore fondamentale per tutti gli attori del processo produttivo. In tal modo, inoltre, si dà specifica attuazione all’articolo 20 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che disciplina l’obbligo dei lavoratori a cooperare nella creazione di un sistema di sicurezza.
Il professor Tosolin ha quindi precisato meglio il significato del BBS ricordando in primo luogo che esso può essere definito come un metodo scientifico, cioè un metodo la cui efficacia è sperimentalmente dimostrata, che ha per oggetto l’ambito della sicurezza comportamentale. Infatti, se si considerano anche le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione economica e produttiva, si può constatare che il comportamento è oggi un contenuto essenziale del processo lavorativo, suscettibile anche di modificare le condizioni della sicurezza. Di qui, l’esigenza di individuare un metodo scientificamente fondato ed i cui risultati possano essere misurati, in base a parametri certi. Una recente ricerca ha individuato circa 300 metodologie finalizzate ad ottenere comportamenti di sicurezza: la maggioranza di esse – molte delle quali sono in realtà soltanto marchi commerciali – presenta caratteristiche diagnostiche, finalizzate all’individuazione delle criticità, e solo 84 forniscono prescrizioni e indicazioni di condotta agli operatori economici. In questo più ristretto gruppo, poi, solo 9 metodologie sono in grado di presentare pubblicazioni scientifiche a sostegno della loro efficacia e solo una, ovvero il BBS, è in grado di fornire nelle proprie pubblicazioni prove cosiddette di terzo livello, ovvero basate sulla sperimentazione scientifica attuata con un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo. Queste prove consentono di affermare che l’applicazione del BBS può portare ad una riduzione degli infortuni nella misura del 65 per cento e, a parità di numero, anche ad una non trascurabile riduzione della gravità degli incidenti medesimi.
Proseguendo nella sua esposizione, il professor Tosolin ha fornito chiarimenti sulle tecniche di misurazione dei comportamenti adottate per i casi specifici, sottolineando come la riduzione dei comportamenti pericolosi conduca costantemente ad una proporzionale riduzione del numero degli infortuni.
Se si esaminano poi le cause di infortunio, la comunità scientifica internazionale è concorde sul fatto che oltre l’80 per cento degli incidenti è determinato da comportamenti insicuri, piuttosto che da fattori tecnici. Basta, a tale proposito, considerare gli incidenti stradali, al 99 per cento causati da comportamento umano. Occorre altresì tenere presente che il comportamento sicuro non è innato: al contrario, esso è condizionato dalle circostanze e dagli stimoli esterni e, per quel che concerne gli ambienti di lavoro, dipende in larga misura da difetti di informazione – e giustamente la legislazione vigente affronta con ampiezza le problematiche dell’informazione e della formazione dei lavoratori – e da difetti di motivazione.
Sin dal secolo scorso, la Behavior Analysis (o analisi comportamentale), che costituisce la base del BBS, ha cercato di definire le numerose variabili di cui il comportamento umano è funzione. Per quanto riguarda i comportamenti di sicurezza, esse sono riconducibili a due grandi categorie: gli stimoli antecedenti, che precedono immediatamente il comportamento, e gli stimoli conseguenti, che altrettanto immediatamente li seguono.
Sono le concrete circostanze che determinano la scelta individuale a favore di un comportamento più o meno sicuro e la base di qualunque intervento di BBS è costituita dall’intervento sugli stimoli antecedenti e su quelli conseguenti, con lo sviluppo di paradigmi e tecniche volti a incentivare una condotta coerente con gli obiettivi di sicurezza.
In particolare, la ricerca ha dimostrato che la frequenza, la resistenza all’estinzione e la qualità dei comportamenti sono funzione del numero di conseguenze positive che il lavoratore riceve nell’unità di tempo in occasione dei comportamenti sicuri: il perseguimento degli obiettivi di sicurezza fondato sui comportamenti contempla la sostituzione del sistema di verifiche ispettive e di sanzioni con un sistema opposto, di misurazione continua e di riconoscimenti o di feedback giornalieri e settimanali contingenti ai comportamenti di sicurezza di ciascun lavoratore. L’esperienza del BBS dimostra che la punizione può inibire il comportamento umano, ma ha carattere effimero, nel senso che la sua irrogazione non può impedire che, in circostanze date, il comportamento sanzionato si riproduca. Solo l’adozione di conseguenze positive, gratificanti per il soggetto, può invece instaurare e stabilizzare nel tempo un comportamento virtuoso. La procedura attraverso la quale si perviene all’aumento della probabilità di ricomparsa del comportamento prende il nome di rinforzo positivo, e costituisce il cuore del BBS, che punta ad agire sulla motivazione del lavoratore per ottenere più sicurezza e, al tempo stesso, a rimuovere gli stimoli a comportamenti insicuri.
Il professor Tosolin ha quindi richiamato l’esigenza di assicurare una formazione adeguata sulla sicurezza, rilevando come attualmente essa venga erogata con modalità scientificamente incerte, nella quasi totale assenza di programmazione didattica, di metodologie di insegnamento e di requisiti e parametri di apprendimento idonei a conseguire i risultati attesi, per cui in molti casi questi ultimi sono molto al di sotto dell’impegno profuso e delle esigenze dei lavoratori e dell’azienda, con conseguenze negative sulla sicurezza.
Il contributo dell’AARBA, che la Commissione ha particolarmente apprezzato, offre l’occasione per alcune considerazioni più ampie. In questo approccio, infatti, si riporta al centro delle politiche di prevenzione e di formazione il ruolo dell’individuo e del contesto ambientale. Ne deriva da un lato l’esigenza di una formazione che sia svolta da professionisti preparati, sia negli aspetti tecnici che in quelli didattici (e ritorna qui il discorso della regolamentazione della figura del formatore), e che sia il più possibile mirata alle specifiche esigenze dell’impresa e dei destinatari, in particolare dei lavoratori. Dall’altro lato, emerge anche l’importanza di un approccio alle regole della sicurezza che non sia meramente prescrittivo o peggio punitivo, ma che sappia motivare adeguatamente gli individui (anche con sistemi di premialità) a valutare i rischi e ad assumere spontaneamente i comportamenti più sicuri.
Volendo estendere la riflessione, anche alla luce di altre indicazioni emerse dall’inchiesta, si può dire che questa impostazione (che è poi quella della «cultura della sicurezza») chiama in causa non solo la capacità dei formatori e la consapevolezza dei lavoratori, ma anche la capacità gestionale e organizzativa dei datori di lavoro. Si tratta in primo luogo di un obbligo giuridico: il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede espressamente all’articolo 37, tra gli obblighi che competono al datore di lavoro, anche quello di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché dei dirigenti e dei preposti. L’articolo 34 prevede inoltre che lo stesso datore di lavoro debba ricevere una specifica formazione, qualora intenda svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
Entrambe le norme demandano poi ad accordi stipulati in sede di Conferenza Stato-Regioni la definizione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione. Per quanto riguarda tali accordi, vi sono stati purtroppo molti ritardi, per la complessità della materia e per la necessità, secondo le procedure stabilite dal testo unico, di concordare i testi fra tre soggetti distinti, Stato, regioni e parti sociali. Come ricordato nel paragrafo 2.3, gli accordi sono stati finalmente approvati nella Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012.
A prescindere dagli obblighi di legge, però, la formazione sui temi della salute e della sicurezza dovrebbe comunque rappresentare per il datore di lavoro un passaggio «naturale», un investimento rivolto a migliorare la qualità e l’efficienza della sua azienda. Se un’impresa riduce al minimo i suoi rischi, significa infatti che è in grado di organizzare e controllare in modo corretto l’intero processo produttivo e gestionale, dato che quest’ultimo – come insegna la scienza manageriale – non può essere considerato in modo frammentario e parcellizzato, ma deve essere inserito in una visione d’insieme che abbraccia tutte le sue componenti.
L’inchiesta della Commissione, del resto, muove dal presupposto che la sicurezza non sia un costo, ma un valore da promuovere in ogni ambito produttivo. Il sistema di tutela dei lavoratori disegnato dal decreto legislativo n. 81 del 2008 ha inteso porre le basi giuridico-istituzionali per tradurre tale approccio in azioni concrete, e certamente molto è stato fatto, ma molto rimane ancora da fare. Le attività di prevenzione e in particolare, al loro interno, quelle di formazione, svolgono un ruolo essenziale a tal fine: le varie carenze (normative, regolamentari o di risorse) che ancora esistono in questo campo devono quindi stimolare tutti gli attori del sistema a uno sforzo maggiore, al quale anche la Commissione d’inchiesta intende offrire il proprio contributo.

3.5. Le malattie professionali legate all’esposizione da amianto
Nel corso della sua inchiesta, la Commissione si è occupata anche del fenomeno delle malattie professionali, con particolare riguardo a quelle derivanti dall’esposizione all’amianto. Sebbene l’uso di tale materiale sia ormai bandito da qualsiasi produzione e da qualsiasi luogo di lavoro o abitazione, tuttavia il massiccio utilizzo fatto nei decenni passati ha fatto sì che moltissime persone che erano esposte abbiano contratto gravi e spesso letali patologie le quali, avendo tempi di latenza molto lunghi, anche di vent’anni, si manifestano ancora oggi e continueranno a manifestarsi anche negli anni avvenire. Com’è noto inoltre, le malattie spesso non hanno colpito solo i lavoratori direttamente esposti all’amianto, ma anche i loro familiari o gli abitanti delle zone immediatamente circostanti ai siti in cui si lavorava o si stoccava il materiale.
Si tratta perciò di una vera emergenza sociale, che porta con sé varie conseguenze, dai processi civili e penali contro le ditte che facevano uso di amianto, alla richiesta di norme e procedure più celeri per l’accesso delle vittime o dei loro familiari a indennizzi e benefici vari (soprattutto previdenziali), alla necessità di cure adeguate per i malati e di idonei protocolli di sorveglianza sanitaria per le categorie a rischio degli ex esposti, oltre naturalmente al problema della bonifica e dello smaltimento dei manufatti contenenti amianto, ancora presenti in alcune realtà.
La situazione è stata resa più complessa anche dal ritardo con il quale è stato attivato il Fondo per le vittime dell’amianto, che nell’attuale sistema normativo si configura come la principale fonte dei benefici economici aggiuntivi riconosciuti ai lavoratori ex esposti. Il Fondo, istituito presso l’INAIL con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) (articolo 1, commi 241-246), è divenuto infatti pienamente operativo solo il 13 aprile 2011 con l’approvazione del relativo regolamento e solo dal settembre 2011 l’INAIL ha potuto cominciare a liquidare le somme agli aventi diritto, a partire da quelle relative agli anni 2008-2009.
Di questi problemi la Commissione si è interessata attivamente in passato, anche nel corso di alcune missioni sul territorio, in particolare in Piemonte, dove si sono concentrate la maggior parte delle vittime dell’amianto (si veda in proposito la precedente relazione intermedia). In questo terzo anno di attività, l’approfondimento è proseguito anche attraverso le audizioni di due associazioni nazionali che da tempo si occupano della tutela delle vittime dell’amianto e che hanno riportato la loro esperienza.
La prima di tali audizioni si è svolta il 20 aprile 2011 con i rappresentanti dell’Associazione italiana esposti amianto (AIEA), sezione Val Basento. Il signor Mario Murgia, presidente dell’Associazione, ha richiamato la vicenda dei lavoratori dell’ex stabilimento EniChem di Pisticci, in provincia di Matera, che sono stati esposti ad amianto e ad altre sostanze tossiche, sviluppando in molti casi patologie tumorali, spesso anche mortali. Nel ripercorrere la dolorosa vicenda, il signor Murgia ha evidenziato come l’accertamento della presenza di amianto nello stabilimento (dove si producevano fibre tessili sintetiche) e della conseguente esposizione dei lavoratori abbia subito negli anni pesanti ritardi. Inoltre, anche una volta accertati i fatti, i lavoratori di Pisticci non sono stati però ricompresi nello specifico atto di indirizzo ministeriale del 2002, diversamente da altri casi analoghi, con la conseguenza di essere stati esclusi dai benefici previdenziali e dai protocolli di sorveglianza sanitaria riservati agli ex esposti.
Dei circa 5.000 dipendenti interessati dal problema, solo 1.850 hanno inoltrato in tempo utile la domanda per il riconoscimento dei benefici previdenziali entro il 15 giugno 2005: 660 di questi lavoratori hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti a seguito di trattative successive con le organizzazioni sindacali e con le forze sociali, facendo riferimento ad un protocollo simile a quello dello stabilimento di Brindisi. Questi 660 lavoratori sono stati avviati a sorveglianza sanitaria a partire dal 2006. Successivamente l’Associazione e le organizzazioni sindacali, in virtù delle disposizioni del decreto legislativo n. 277 del 1991, hanno fatto in modo, attraverso protocolli d’intesa con la regione Basilicata, che la sorveglianza sanitaria venisse estesa ad altri lavoratori ex esposti, non solo per l’amianto, ma anche per tutte altre sostanze tossiche e nocive.
Ad oggi sono circa 1.700 su 5.000 i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. Tra questi, 230 casi sono stati segnalati dalla medicina del lavoro all’INAIL in quanto portatori di patologie sospette da approfondire. Molti casi gravi, in cui sono state riscontrate patologie maligne, vengono segnalati direttamente al centro oncologico di Rionero in Vulture, realizzando così una sorveglianza oncologica preventiva. A questi 230 casi sono da aggiungere i numerosissimi casi che in questi anni l’Associazione ha ricostruito attraverso un proprio lavoro, posto che molte famiglie non avevano ancora coscienza di quello che poteva essere accaduto ai loro familiari.
L’Associazione ha registrato ad oggi, su un totale di 260 casi di patologie tumorali, oltre 160 casi di decesso. La maggior parte delle famiglie dei deceduti non ha ricevuto alcun genere di aiuto, né da parte delle organizzazioni sindacali, né da parte delle istituzioni provinciali e regionali. La vicenda è poi resa ancora più penosa dal fatto che ora si stanno registrando casi di malattie asbesto-correlate anche tra i familiari, in particolare tra le vedove degli ex lavoratori.
Secondo l’AIEA tale situazione deriva anche dalle negligenze e inadempienze degli enti locali preposti, tra cui la Direzione regionale INAIL della Basilicata, che a suo avviso avrebbero adottato interpretazioni errate delle norme e delle procedure, a volte addirittura in contrasto con orientamenti consolidati a livello nazionale, escludendo parte delle vittime e dei loro familiari da benefici loro dovuti. L’Associazione ha quindi illustrato le specifiche situazioni oggetto di tale discriminazione, legata essenzialmente al ritardo con il quale sono state denunciate le patologie o avanzate le domande di beneficio, ritardo dovuto alla cattiva informazione fornita ai lavoratori e alle loro famiglie, nonché alla negligenza di molti medici che non hanno diagnosticato per tempo le patologie.
L’AIEA ha sollecitato al riguardo un intervento d’ufficio delle autorità per risolvere tali situazioni, riconoscendo a tutti i lavoratori e alle loro famiglie l’accesso ai benefici previdenziali ed economici e alla sorveglianza sanitaria, tenendo conto che molti soggetti sono nel frattempo deceduti e che molti altri casi stanno emergendo solo ora, per l’interessamento dell’AIEA. Infine è stato ricordato che la situazione di Pisticci è purtroppo molto simile a quella che si registra per gli ex lavoratori di altri stabilimenti dove si lavoravano le fibre di amianto, tra i quali in particolare quello EniChem di Ottana (in provincia di Nuoro) e quelli Montefibre di Acerra e Casoria (in provincia di Napoli).
Rispondendo a un quesito della Commissione, che chiedeva se a fronte dei ritardi e delle negligenze richiamati vi fossero state denunce, anche in sede giudiziaria, considerando che molti di questi casi, anche mortali, risalivano ormai a parecchi anni fa, il signor Murgia ha precisato che l’AIEA ha presentato un esposto-denuncia nel giugno 2010 alla magistratura, del quale – al momento dell’audizione – non erano ancora noti gli esiti. In precedenza, i lavoratori e le loro famiglie erano stati restii a denunciare il problema: inoltre, l’AIEA Val Basento si è costituita solo nel 2009 e ha potuto portare avanti azioni legali solo dopo che uno studio epidemiologico delle Autorità sanitarie le ha consentito di produrre al riguardo documentazione tecnico-legale e sanitaria.
Gli stabilimenti presso i quali lavoravano gli addetti colpiti dalle patologie legate all’amianto sono stati chiusi una decina di anni fa, per motivi industriali. Tuttavia, le società proprietarie sono ancora attive. Occorre però uno studio epidemiologico sulla popolazione degli ex esposti per rilevare le eventuali patologie ancora latenti. Il signor Rocco Regina, segretario dell’Associazione, ha confermato poi che fino a poco tempo fa molti lavoratori e i loro familiari non avevano voluto avanzare denunce per ignoranza, per pressioni ricevute o anche per timore di affrontare lunghe e costose vertenze giudiziarie. D’altra parte, tale resistenza esiste ancora in altri territori interessati dal problema, come in quello dello stabilimento di Ottana in Sardegna.
Infine, la dottoressa Anna Maria Virgili, presidente dell’AIEA del Lazio, ha riportato l’esperienza della sezione laziale dell’Associazione, costituita da pochi mesi, segnalando come anche nel Lazio esista una situazione grave in relazione alle patologie da amianto, anche per la mancanza di un protocollo di sorveglianza sanitaria, alla quale si sta cercando di ovviare promuovendo una specifica legge regionale.
La Commissione ha espresso il proprio sostegno e apprezzamento per l’attività portata avanti dall’AIEA Val Basento, auspicando un intervento legislativo che elimini le discriminazioni tra le diverse categorie di lavoratori interessati dall’esposizione all’amianto e consenta a loro e ai loro familiari di accedere pienamente ai benefici previdenziali ed economici.
Al tempo stesso, nel corso della visita a Potenza dell’11 e 12 settembre 2011 (si veda in proposito il paragrafo 4.8), la Commissione ha affrontato le problematiche e i ritardi segnalati dall’AIEA con le Autorità locali preposte, che hanno assicurato un intervento sollecito per la loro risoluzione.
La seconda audizione sul tema delle patologie da amianto si è svolta il 20 luglio 2011 con i rappresentanti dell’AVANI (Associazione vittime amianto nazionale italiana), su sollecitazione anche del gruppo di lavoro sui temi della formazione e prevenzione, coordinato dalla senatrice Bugnano.
Il presidente, signor Silvio Mingrino, ha illustrato l’attività dell’Associazione, nata per sensibilizzare contro i pericoli dell’esposizione all’amianto e tutelare le vittime, tra le quali ha ricordato i suoi stessi genitori. In particolare, l’Associazione è nata per far fronte al problema delle patologie asbesto correlate sorte nel territorio dell’Oltrepò Pavese in relazione all’attività dell’ex stabilimento Fibronit (dove appunto si lavoravano fibre di amianto) e che dal 1978 ad oggi hanno causato oltre 1.000 morti, sia tra i lavoratori che tra i loro familiari, in particolare nel paese di Broni, che detiene al riguardo un sinistro primato.
Tale situazione è nata dall’incuria e dalla negligenza dell’azienda e delle stesse Autorità che non hanno informato per tempo i soggetti esposti al rischio: per tale ragione, l’AVANI ha assunto varie iniziative per sensibilizzare sul problema e promuovere il miglioramento della legislazione degli indennizzi a favore delle vittime, sollecitando in particolare la piena attivazione del Fondo per le vittime dell’amianto, che ha subito in questi anni forti ritardi con il colpevole disinteresse delle istituzioni.
Sono state altresì richiamate le indagini in corso per accertare le responsabilità per le vittime legate all’attività dell’ex stabilimento Fibronit, lamentando come, a distanza di anni dall’inizio, non sia stata ancora raggiunta alcuna conclusione. L’AVANI sta portando inoltre avanti un progetto sperimentale di sorveglianza sanitaria sui rischi delle patologie legate all’amianto insieme all’ospedale di Pavia, che si vorrebbe estendere quanto più possibile. In particolare, l’attenzione si concentra sul mesotelioma pleurico, la più grave delle suddette patologie.
Il dottor Giovanni Belloni, in qualità di consigliere dell’AVANI e di presidente dell’ordine dei medici della provincia di Pavia, ha poi illustrato il problema delle patologie asbesto correlate della zona dell’Oltrepò pavese, in particolare nel distretto di Broni-Stradella e specificamente nel comune di Broni, dove è ubicato lo stabilimento Fibronit. È un distretto che rappresenta 29 comuni per un totale di 42.000 abitanti, con più di 12.000 abitanti con età maggiore di 65 anni. In questa zona si registra un’altissima incidenza del mesotelioma pleurico, pari a quattro ogni 100.000 abitanti, contro una media di tre ogni 100.000 abitanti negli altri distretti della Lombardia e della provincia di Pavia e di due ogni 100.000 abitanti a livello nazionale.
L’età varia e l’incidenza è intorno ai 65-70 anni perché questa malattia ha una fase di latenza assai lunga, dai 15 ai 30-35 anni. Pertanto, si prevede che vi sarà un picco nel numero delle vittime tra 12-15 anni: purtroppo, questa forma di tumore è incurabile e la sopravvivenza è solo di 4- 12 mesi. L’AVANI quindi, in collaborazione con l’Università di Pavia, sta cercando di promuovere la creazione di una rete di sorveglianza sanitaria a favore della popolazione locale, ai fini di una diagnosi precoce delle malattie.
Purtroppo mancano anche strutture di hospice e di cure palliative in grado di alleviare la sofferenza dei malati.
L’avvocato Ezio Bonanni, quale consulente legale dell’AVANI, ha ripercorso la storia degli studi sugli effetti nefasti dell’amianto, i primi dei quali risalgono addirittura alla fine dell’Ottocento. Ciononostante, il suo utilizzo è stato bandito solo con la legge 27 marzo 1992, n. 257: un colpevole ritardo, dovuto anche alle pressioni di gruppi di interesse economico, come ormai dimostrato anche in sede processuale.
L’avvocato si è quindi soffermato su alcune vicende giudiziarie che sta seguendo per conto dell’AVANI, relative a vittime dell’amianto legate all’ex stabilimento Fibronit, tra le quali quella dei genitori del presidente Mingrino. A suo avviso le procure competenti inspiegabilmente, malgrado la denuncia e le indagini su queste vicende siano partite già da anni, non sono ancora arrivate ad una conclusione, ma anzi in alcuni casi hanno chiesto perfino l’archiviazione (fortunatamente rigettata dal GIP) con la motivazione che non era possibile identificare i responsabili. Sulla questione sono state presentate alcune interrogazioni parlamentari.
L’avvocato Bonanni ha poi ricordato la richiesta dell’AVANI per la verifica e la bonifica del sito dell’ex Fibronit a Broni, ancora a rischio, nonché quella di azzerare la soglia di tolleranza prevista per la presenza delle fibre di amianto (attualmente di 100 fibre/litro, secondo il testo unico), essendo anche una quantità minima potenzialmente cancerogena.
Ciò porterebbe a notevole risparmio in termini di prestazioni previdenziali, di prestazioni mediche e a vantaggi anche per gli stessi imprenditori, che spesso si ritrovano ad essere processati e a dover rispondere di questi decessi.
Infine ha richiamato una recente decisione del Tribunale di Paola che, in un processo relativo al decesso di soggetti esposti all’amianto, ha autorizzato la citazione in giudizio anche dello Stato, per inadempienza rispetto ai doveri di tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini. Si tratta di un importante precedente, che ribadisce l’obbligo dello Stato di rispettare prima di tutto esso stesso le norme di tutela della salute dei lavoratori, che esistono addirittura dall’inizio del secolo scorso, assumendosi la conseguente responsabilità qualora ciò non accada.
La Commissione ha confermato la propria attenzione nei confronti del problema delle patologie dell’amianto che, anche se ormai bandito dai luoghi di lavoro, continua a fare vittime non solo tra gli ex lavoratori esposti, ma anche tra i loro familiari o conviventi. La Commissione ha altresì ribadito il suo impegno per contrastare questa vera e propria malattia sociale, ricordando che presso le Commissioni parlamentari di merito sono stati presentati vari disegni di legge che mirano ad estendere anche alle vittime delle patologie diverse dagli ex lavoratori esposti (ad esempio i familiari o conviventi prima ricordati) le tutele e i risarcimenti previsti per questi ultimi.

3.6. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti e la qualificazione delle imprese del settore edile
Uno dei temi ricorrenti dell’inchiesta della Commissione è quello della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti. La questione è ormai nota ed è stata già affrontata negli anni passati12: sebbene le disposizioni vigenti proibiscano espressamente di effettuare ribassi sui costi per la sicurezza nelle gare d’appalto, proprio al fine di garantire le massime tutele per i lavoratori, nella pratica questo divieto viene spesso aggirato, soprattutto attraverso la catena dei subappalti, che quanto più si allunga tanto più rende difficili i controlli. Il problema si pone soprattutto negli appalti dell’edilizia privata, dove non esistono procedure di gara o meccanismi di selezione degli appaltatori imposti per legge, essendo tutto rimesso alla libera contrattazione delle parti, per cui in genere i committenti tendono a privilegiare le imprese appaltatrici che offrono i prezzi più competitivi, magari a scapito della qualità o di altri aspetti come le tutele della sicurezza sul lavoro.
Purtroppo, però, l’esperienza ha dimostrato che anche nel settore pubblico, malgrado le procedure e i controlli più severi, le norme sono spesso disattese, con il risultato che per offrire prezzi più bassi nelle gare d’appalto, molte ditte cercano di risparmiare proprio sui costi per la sicurezza, accrescendo i rischi per i lavoratori. Uno dei fattori che alimentano questo meccanismo è il fatto che molte amministrazioni appaltanti utilizzano come criterio di valutazione delle offerte quasi esclusivamente il massimo ribasso d’asta: si tratta ovviamente di una scelta legittima, prevista dalla normativa vigente (che è poi quella comunitaria) e che dovrebbe aiutare le pubbliche amministrazioni a contenere i costi a parità di prestazioni.
Come la stessa Commissione d’inchiesta ha potuto verificare, tuttavia, nella realtà questo si traduce in molti casi in una fortissima compressione dei costi, con ribassi anche superiori al 50 per cento sia nella fase di progettazione che in quella di esecuzione. È chiaro che situazioni di questo tipo compromettono inevitabilmente non solo la qualità del lavoro appaltato, ma anche il rispetto di tutte le procedure e le garanzie, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. Ciò è testimoniato drammaticamente dall’alto numero di infortuni, anche mortali, che funestano tale settore e che riguardano più spesso ditte subappaltatrici di piccole o piccolissime dimensioni, che hanno omesso in tutto o in parte le prescritte tutele dei lavoratori per poter risparmiare e spuntare offerte più competitive, in un tragico scambio tra lavoro e sicurezza che non dovrebbe mai verificarsi.
Si tratta di una questione che vari soggetti istituzionali e sociali, in diverse parti del Paese, hanno più volte posto alla Commissione, chiedendo in particolare, nel settore dei contratti pubblici, una modifica delle disposizioni vigenti per abrogare o quanto meno limitare il ricorso al massimo ribasso come criterio di valutazione delle offerte. La Commissione si è impegnata a fondo per approfondire il tema, molto complesso anche dal punto di vista tecnico, interpellando vari esperti e istituzioni. Nel suo terzo anno di attività, essa ha acquisito importanti indicazioni anche dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), nel corso dell’audizione del suo presidente, professor Giuseppe Brienza, tenutasi il 15 dicembre 2011, che ha purtroppo confermato molte delle criticità degli appalti pubblici emerse nell’inchiesta e appena ricordate.
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sta infatti da tempo seguendo tali problematiche, anche con specifiche indagini svolte nel 2008 e nel 2009. Sono stati così riscontrati casi di infortuni sul lavoro in appalti dove c’erano stati ribassi superiori anche al 50 per cento: formalmente era tutto in regola, ma nella realtà il ribasso finiva per incidere anche sui costi per la sicurezza, oltre a mettere in dubbio la stessa qualità del progetto o del lavoro.
L’aspetto critico è nel rapporto tra appaltatore e subappaltatori: mentre il contratto di appalto tra il committente e l’appaltatore è di solito ben articolato e prevede l’appostamento di somme per la sicurezza con adeguati controlli da parte del committente, i contratti tra l’appaltatore e i successivi affidatari sono spesso meno rigorosi e non prevedono analoghi obblighi e controlli. Vi è quindi un problema di vigilanza: l’80 per cento degli incidenti avviene in cantieri dove mancano spesso i responsabili della sicurezza, ma a ciò va ad aggiungersi la carenza di controlli da parte degli ispettori del lavoro.
Su tali questioni l’AVCP sta lavorando di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed è previsto l’avvio di uno specifico tavolo tecnico. Sui controlli, vi è un numero di ispettori troppo basso nel Nord Italia rispetto al Sud, tenuto conto della maggiore presenza di imprese e di cantieri. Questo dato mette in evidenza come, al di là dell’elemento contrattuale, manchi da parte della pubblica amministrazione un controllo concreto sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro. Inoltre, occorrerebbe un adeguato aggiornamento dei tecnici delle pubbliche amministrazioni (in particolare dei piccoli Comuni), che non sempre hanno la preparazione necessaria per seguire le procedure di gara e per effettuare i controlli, specie nel caso del subappalto, dove ad esempio spesso ci si dimentica di chiedere il DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi interferenziali).
In base alle rilevazioni dell’Autorità, i rischi e gli incidenti sul lavoro più gravi si verificano soprattutto negli appalti di servizi: il codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, detta una disciplina dettagliata per i controlli nei lavori, ma non altrettanto fa purtroppo per i servizi. L’Autorità vigila sulla regolarità dei contratti, cercando di applicare in via analogica i controlli previsti per le opere anche alle forniture e ai servizi e contestando le eventuali infrazioni: tali contestazioni sono però sempre impugnabili in via amministrativa e risolvono solo in parte il problema, mentre sarebbe necessaria una espressa previsione normativa. È necessario intervenire sui contratti di subappalto, per consentire un effettivo controllo anche dei subappaltatori, da parte del committente o di un organismo terzo che potrebbe essere la stessa Autorità ovvero un altro soggetto.
Le pubbliche amministrazioni appaltanti spesso non riescono a gestire l’intera filiera e, anche a causa di una insufficiente capacità progettuale, non intervengono per timore di ritardi nell’esecuzione o di contestazioni delle ditte, che riescono spesso a imporre una serie di modifiche che fanno lievitare il costo finale dell’appalto, il che si ripercuote proprio sui costi della sicurezza. Tali problemi sono ancora più gravi nel settore privato, dove di fatto non esistono regole né controlli. In definitiva, la relazione del professor Brienza ha ribadito la necessità di controlli più stringenti per gli appalti di servizi, dove ultimamente si stanno profilando anche casi di inserimenti di imprese straniere non qualificate, con aumento dei rischi per la sicurezza. Analogamente, occorre intervenire nel settore dei subappalti, dove i controlli sono meno rigorosi e più facilmente vengono aggirate le norme vigenti che prevedono l’incomprimibilità dei costi per la sicurezza.
Un altro contributo sul tema, stavolta dalla parte degli operatori economici del settore, è venuto dall’audizione dei rappresentanti della Federazione industrie prodotti impianti e servizi per le costruzioni (FINCO), svolta il 18 gennaio 2011.
La dottoressa Gabriella Gherardi, presidente di AISES (Associazione italiana segnaletica e sicurezza) e consigliere incaricato di FINCO, ha evidenziato come anche i migliori controlli nei luoghi di lavoro non riescano sempre a garantire adeguati livelli di sicurezza, atteso che ormai molte fasi delle attività vengono esternalizzate con varie formule, in maniera a volte eccessiva e abusata. L’esempio classico è quello del subappalto: spesso i lavoratori delle ditte subappaltatrici hanno minori controlli e garanzie rispetto agli altri. Inoltre, con l’affermarsi dei grandi lavori accentrati secondo il modello del general contractor, anche le attività specialistiche delle costruzioni (di cui si occupano le aziende aderenti alla FINCO) finiscono in subappalto. Quest’ultimo va stretto all’azienda specialistica, la quale, per sua natura e per le attrezzature sofisticate di cui dispone, assomma in sé una maggiore pericolosità e quindi va maggiormente controllata, anche sotto il profilo dei lavoratori (ma non solo).
Questo fenomeno di massificazione, che nei lavori pubblici si è assommato negli ultimi sei o sette anni sul general contractor e sulle grandi opere, ha ridotto la qualità e la sicurezza delle opere specialistiche in subappalto, con conseguenti ricadute sulla qualità dei lavori e sulla sicurezza dei lavoratori, degli utenti e di tutti i cittadini. Le imprese più serie spesso hanno difficoltà a partecipare alle gare ovvero non hanno rapporti diretti con il contraente generale ma solo con i subappaltatori. Servono regole precise e una conoscenza più analitica del fenomeno: ad esempio mancano dati INAIL sugli infortuni che indichino se l’azienda coinvolta lavorava o meno in regime di subappalto e che tipo di esternalizzazione hanno avuto determinati dipendenti. Al riguardo la FINCO ha proposto l’inserimento nelle denunce a stampa di un link ove si facesse riferimento alla tipologia del contratto o del subcontratto sotto cui si opera. Basterebbe questo per fornire, in pochi anni, la disponibilità di una prima banca dati su questo aspetto.
Altro problema è quello degli infortuni sul lavoro nella circolazione stradale, sia durante l’attività lavorativa che in itinere. Gli infortuni mortali sul lavoro sono più numerosi sulla strada che non nei luoghi di lavoro: la mortalità è del 52 per cento contro il 50 per cento. Per gli infortuni non mortali le percentuali sono diverse, tuttavia si aggirano intorno al 24-25 per cento. È quindi una questione gravissima, che è stata affrontata appieno per la prima volta solo con la recente riforma del codice della strada, operata dalla legge 29 luglio 2010, n. 120, della quale però – al momento dell’audizione – non erano ancora stati emanati i relativi decreti ministeriali. Una proposta della FINCO è di destinare alla sicurezza sul lavoro nel settore stradale i relativi avanzi di gestione dell’INAIL.
Il dottor Angelo Artale, direttore generale di FINCO, ha poi ricordato che la federazione raggruppa tutte le principali associazioni che si occupano di opere specializzate per le costruzioni: in tale settore, infatti, non opera solo la pur fondamentale componente edile, ma anche numerose altre aziende specialiste, che però spesso non sono adeguatamente coinvolte nelle decisioni anche normative del settore al pari delle aziende generaliste.
Nel settore degli appalti, oltre al problema legato al massimo ribasso, c’è quello della qualificazione delle imprese. A suo avviso il nuovo regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, pur valido e per molti versi apprezzabile, all’articolo 85 estende pericolosamente il subappalto nella realizzazione delle opere specialistiche, eliminando altresì l’obbligo di specifici e rigorosi requisiti di qualificazione per i subappaltatori. Ciò, unitamente all’uso eccessivo dell’istituto dell’avvalimento, consentirebbe l’ingresso di aziende non preparate negli appalti, abbassando quindi la qualità del lavoro e le stesse garanzie di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La dottoressa Anna Danzi, vice direttore di FINCO, ha analizzato i problemi posti dal nuovo regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici richiamato dal dottor Artale. Anzitutto, alcune lavorazioni specialistiche, riclassificate come generiche, possono ora essere appaltate o subappaltate anche ad imprese non qualificate. Mancano inoltre adeguati controlli sul rispetto delle percentuali dei ribassi nei subappalti, che secondo l’articolo 118 del codice non potrebbero essere superiori al 20 per cento del prezzo di aggiudicazione. Nella realtà, spesso si verifica che tale percentuale non sia rispettata, arrivando talvolta a ribassi enormi con prezzi finali assai inferiori al costo del lavoro, ciò che ne pregiudica la qualità. Infine, spesso manca la certezza dei pagamenti tra appaltatore principale e subappaltatori, rendendo difficile per le aziende lavorare in maniera trasparente.
Secondo la FINCO, ciò danneggia soprattutto le imprese specializzate, che sono dotate di maggiore esperienza, struttura ed organizzazione, e quindi anche dei più alti livelli di sicurezza sul lavoro, come testimonia il ridotto numero di infortuni. L’articolo 85 del nuovo regolamento di attuazione consente all’impresa appaltatrice di acquisire di volta in volta una qualificazione per una quota pari al 10 per cento dei lavori svolti dalle imprese subappaltatrici, così che dopo un certo numero di contratti quell’impresa appaltatrice avrà raggiunto il 100 per cento e potrà chiedere la qualificazione a una SOA (società organismo di attestazione) per determinate lavorazioni. Si tratta di un’attestazione che le consentirà di concorrere anche ad appalti per i quali non possiede direttamente le necessarie competenze.
Il timore è che è che questo tipo di appaltatori, proprio per ovviare alla mancanza di competenze, tendano a subappaltare (o comunque ad esternalizzare) ad altre aziende, magari non qualificate, ciò che andrebbe a scapito della qualità dell’opera e della sicurezza sul lavoro. Infine, un’altra lamentela della FINCO ha riguardato l’eliminazione dell’Allegato A1, previsto nelle prime bozze del regolamento, che eliminando altresì l’elenco dei requisiti che devono avere le imprese per qualificarsi come specialistiche, avrebbe consentito anche ad aziende non qualificate di svolgere questo tipo di lavorazioni.
Il dottor Sergio Pontalto, membro della Giunta di FINCO e presidente di ANNA (Associazione nazionale noleggio autogru e trasporti eccezionali), si è infine soffermato sul settore delle macchine di movimentazione, sollevamento e posa in opera. Anche in questo caso sarebbe auspicabile che le aziende avessero ordini d’appalto diretti da parte del contraente principale e non dei subappaltatori. Inoltre, è essenziale introdurre appositi attestati di qualificazione per gli operatori di queste macchine, spesso molto complesse. Un caso esemplare è quello del patentino per i gruisti, non previsto in Italia, al contrario di altri Paesi europei. Infine, gli organismi di controllo preposti dovrebbero fare in modo puntuale le verifiche periodiche sulle macchine, che non possono altrimenti essere utilizzate nei cantieri.
L’ingegner Paolo Cortesi, vice presidente di AIPAA (Associazione italiana per l’anticaduta e l’infortunistica) ha a sua richiamato il problema delle aziende che lavorano in quota, ad esempio nell’installazione dei dispositivi anticaduta, sottolineando come anche qui occorra introdurre l’obbligo della qualificazione specifica, e una semplificazione delle procedure, laddove attualmente chiunque può svolgere questi lavori, che sono invece assai specializzati.
Sia l’audizione dell’AVCP che quella FINCO hanno quindi riconfermato l’esistenza dei problemi della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti che si sono richiamati all’inizio di questo paragrafo e che sono emersi spesso durante l’inchiesta, sia nelle audizioni svolte in Senato che nelle missioni sul territorio. Il punto di maggiore criticità resta, come più volte ricordato, quello del criterio del massimo ribasso per la valutazione delle offerte nelle gare ad evidenza pubblica. Come illustrato nella precedente relazione intermedia, la Commissione ha interpellato più volte anche il Governo per verificare la possibilità di una modifica normativa in merito, che quanto meno riducesse o scoraggiasse presso le pubbliche amministrazioni appaltanti l’adozione sistematica (e talvolta acritica) di tale criterio, a favore di metodologie di valutazione delle offerte di gara più articolate. A tal fine, del resto, il Parlamento ha approvato anche vari atti di indirizzo al Governo, che quest’ultimo ha accolto: da ultimo, la risoluzione approvata il 12 gennaio 2011 dall’Assemblea del Senato dopo il dibattito sulla seconda relazione intermedia della Commissione d’inchiesta.
Si tratta di trovare sistemi (ad esempio il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che la legge già consente in alternativa a quello del massimo ribasso), che valutino l’offerta non solo sulla base di elementi meramente economici, ma anche qualitativi, assicurando quindi pure una selezione delle imprese più qualificate e capaci, che sono in genere anche quelle che rispettano maggiormente le regole, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. Tale operazione tuttavia non è facile, per motivi normativi e contingenti: anzitutto, il criterio del massimo ribasso, come tutta l’attuale disciplina in materia di contratti pubblici, è di derivazione comunitaria e non può dunque essere derogata, se non in misura molto limitata. Il criterio del massimo ribasso ha inoltre una serie di indubbi vantaggi, configurandosi come un parametro di valutazione oggettivo, immediatamente misurabile e di facile utilizzo per le gare ad evidenza pubblica: oltre ad essere (in linea di principio) più trasparente, esso consente maggiori risparmi per le pubbliche amministrazioni. L’aspetto negativo sta nella sua applicazione pratica che, in assenza di controlli e di una adeguata selezione delle offerte, porta alle degenerazioni di cui si è parlato, con ribassi abnormi che compromettono la qualità della prestazione e la sicurezza sul lavoro.
D’altra parte, altri criteri di valutazione più articolati che incorporino elementi di tipo qualitativo, se possono consentire una migliore selezione delle imprese appaltatrici, presentano anche una serie di inconvenienti, in quanto rendono più complessa e onerosa da gestire la procedura di gara, accrescono i margini di discrezionalità delle stazioni appaltanti (e dunque il rischio di irregolarità o illeciti) e riducono i margini di risparmio per le stesse. In proposito, occorre considerare le croniche ristrettezze di bilancio di molte pubbliche amministrazioni, che incoraggiano certamente il ricorso a cercare il più alto risparmio possibile e quindi, in definitiva, al criterio del massimo ribasso. Come è emerso nelle due audizioni di cui si è dato conto, inoltre, le stesse amministrazioni spesso non hanno la capacità tecnica per gestire procedure di gara più sofisticate, né per effettuare i controlli che pure sarebbero necessari e affrontare l’eventuale contenzioso con le ditte che partecipano agli appalti (si pensi ad esempio ai piccoli Comuni).
Stante allora la difficoltà di realizzare modifiche normative dirette nei criteri di aggiudicazione dei contratti pubblici previsti dalle attuali disposizioni, si impone in ogni caso la necessità di rafforzare il regime dei controlli da parte delle pubbliche amministrazioni appaltanti, soprattutto nella fase preliminare di valutazione delle eventuali anomalie di offerta. Questo richiede un potenziamento delle strutture amministrative e una maggiore capacità tecnica del personale preposto alla gestione delle gare, che dovrebbe essere adeguatamente formato, ma anche meglio tutelato, per evitare (come accade ora) di essere eccessivamente esposto alle pressioni delle aziende che partecipano alle gare. Il problema si pone soprattutto in quelle decisioni, come l’esclusione per anomalie, che possono dare adito a contenzioso: molti funzionari amministrativi sono restii a fare passi in questo senso anche quando ce ne sarebbero i presupposti, perché non hanno una preparazione idonea o temono di essere poi lasciati soli a fronteggiare certe responsabilità.
Una possibile soluzione potrebbe essere quella di creare stazioni appaltanti uniche per varie amministrazioni pubbliche, ad esempio per i comuni di una stessa provincia, così da poter avere una «massa critica» maggiore e realizzare una gestione centralizzata e più efficiente degli appalti, anche a livello di controlli. Tale modalità operativa è già stata sperimentata con successo in diverse realtà italiane, spesso sotto la gestione delle prefetture, anche per contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata13. Naturalmente si tratta di un modello che non è sempre generalizzabile, ma l’idea di associare più enti nella gestione degli appalti è sicuramente valida, non soltanto nelle gare che hanno per oggetto lavori o forniture ma anche in quelle dei servizi, un settore in cui l’esternalizzazione è sempre più diffusa e dove i problemi della qualità della prestazione e della tutela della sicurezza sul lavoro sono ormai molto sentiti, visto anche l’alto numero di infortuni.
L’altro aspetto è quello del rafforzamento dei poteri di controllo da parte delle stazioni appaltanti nei confronti non solo dell’appaltatore principale, ma anche e soprattutto dei subappaltatori. Non ci si stancherà mai di sottolineare che è proprio nell’allungamento della catena degli affidamenti all’interno dell’appalto che si vengono a creare le maggiori violazioni della sicurezza sul lavoro e i più gravi incidenti, spesso mortali.
La Commissione, nella sua inchiesta, ha avuto indicazione di subappalti stratificati su più livelli, in senso verticale, ma anche orizzontale con i raggruppamenti o i consorzi di imprese.
La perdita di controllo e di coordinamento sulle varie ditte che partecipano al progetto in queste situazioni è molto frequente e sempre foriera di gravi problemi. Infatti, mentre il rapporto tra committente e contraente principale è più controllato e tutelato, quello con i subappaltatori diventa molto più sfumato o a volte perfino inesistente, dato che molte amministrazioni non si pongono l’esigenza di controllare i successivi livelli della lavorazione (gli ultimi anelli della catena, per così dire) e anzi evitano volutamente di farlo, per non avere complicazioni. In molti casi, tuttavia, sono le stesse norme del bando di gara che limitano la capacità di intervento della stazione appaltante nei confronti delle imprese subappaltatrici: a tale situazione occorre dunque porre rimedio, mediante una stesura più attenta dei bandi.
Un ulteriore elemento è quello dell’anomalia di gara, un meccanismo fondamentale per selezionare le offerte e che, se ben applicato, potrebbe evitare anche molte distorsioni del sistema del massimo ribasso. Anche in questo caso, però, occorre una più solida organizzazione da parte delle pubbliche amministrazioni per gestire questi aspetti, che potrebbe essere ottenuta proprio con i meccanismi associativi prima richiamati.
Nell’indicare dunque alcune possibili linee di intervento, la Commissione intende continuare attivamente nella ricerca di una idonea soluzione legislativa e amministrativa, che consenta di ovviare agli inconvenienti e alle distorsioni determinati dall’attuale disciplina dei contratti pubblici in materia di sicurezza e salute sul lavoro, in particolare per quanto riguarda il criterio del massimo ribasso. Pur rispettando le normative comunitarie e tenendo conto delle esigenze generali del sistema, si ritiene infatti che esista comunque lo spazio per azioni migliorative, tese a salvaguardare il bene primario della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Una disamina del problema della sicurezza del lavoro negli appalti non sarebbe completa senza un cenno anche al settore privato. Come si è detto, l’assenza delle procedure e dei controlli più severi previsti per il settore pubblico fa sì che negli appalti privati la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sia molto più frequente e difficile da arginare. Il problema riguarda soprattutto l’edilizia e si lega strettamente al tema della regolamentazione della professione di imprenditore edile. Le organizzazioni di categoria (a cominciare dall’Associazione nazionale costruttori edili) hanno infatti più volte segnalato come, attualmente, per l’accesso a tale professione non siano previsti idonei requisiti di esperienza, preparazione tecnica e struttura organizzativa, essendo sufficiente, nella maggior parte dei casi, una semplice iscrizione alla Camera di commercio.
Un fenomeno sempre più diffuso è quello di lavoratori autonomi che si iscrivono come imprenditori edili senza avere intorno a sé alcuna struttura organizzativa stabile e, una volta preso un appalto, eseguono il lavoro avvalendosi di altri lavoratori autonomi reclutati per l’occasione con il meccanismo del subappalto. Spesso sono ex titolari di imprese edili che utilizzano surrettiziamente i loro ex dipendenti (diventati a loro volta liberi professionisti) con una nuova formula organizzativa che consente loro di pagare meno tasse e contributi, ma altre volte si tratta di persone senza esperienza specifica che mettono insieme squadre di lavoranti più o meno raccogliticce.
Il rischio oggettivo è che, in assenza di una regolamentazione specifica, anche imprese o lavoratori autonomi privi di adeguata formazione e organizzazione possano svolgere determinati lavori edili, anche di notevole rilievo, a prezzi assai più bassi delle imprese meglio organizzate, nei cui confronti praticano in taluni casi una concorrenza sleale. Al di là di altre considerazioni, questi soggetti purtroppo in molti casi offrono prestazioni di qualità inferiore e, soprattutto, non adottano tutte le necessarie cautele per garantire la sicurezza dei loro lavoratori, sia perché hanno una formazione inadeguata, sia perché, al fine di spuntare prezzi più bassi, tendono spesso a tagliare proprio le spese per la sicurezza.
D’altra parte, se il problema si pone soprattutto nel settore dell’edilizia privata, come si è visto anche nei contratti pubblici, attraverso il sistema dei subappalti, possono crearsi spazi in cui si inseriscono imprese poco serie e meno qualificate. A ciò si aggiunge la crisi economica che sta attanagliando anche il settore edile e che induce molte imprese a operare con margini economici ridottissimi o addirittura in maniera irregolare o sommersa, azzerando i costi e le tutele per la sicurezza dei lavoratori.
Giova ricordare che, in relazione all’edilizia, l’articolo 27 del decreto legislativo n. 81 del 2008 stabilisce, al comma 1-bis, che il sistema della qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi si realizzi attraverso uno strumento, individuato da uno specifico regolamento, che prevede sostanzialmente l’attribuzione di un punteggio che misura l’idoneità degli operatori sotto il profilo della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, rispetto ad una serie di parametri (livello di formazione, assenza di violazioni di legge, ecc.).
Tale sistema di valutazione è quello della cosiddetta «patente a punti» in edilizia, ed è contenuto in uno schema di decreto del Presidente della Repubblica attualmente in corso di elaborazione nell’ambito di un apposito comitato istituito presso la Commissione consultiva permanente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Al riguardo, come si è detto nel paragrafo 2.3, il dibattito è ancora aperto e non è facile prevedere quando il relativo iter potrà concludersi: si tratta infatti di una materia complessa e sulla cui regolamentazione esistono opinioni diverse, anche tra le associazioni di categoria.
Contemporaneamente, è da segnalare che sul tema è stato presentato anche un disegno di legge di iniziativa parlamentare, approvato dalla Camera dei deputati e attualmente giacente in Senato (Atto Senato n. 2663, intitolato «Disciplina dell’attività professionale di costruttore edile e delle attività professionali di completamento e finitura edilizia»). Al di là del merito e dell’esito che avrà l’iniziativa, occorre però garantire un adeguato coordinamento, per i profili relativi alla salute e sicurezza sul lavoro, tra le disposizioni che potrebbero essere elaborate dal gruppo di lavoro della Commissione consultiva permanente e quelle che potrebbero invece trovare posto nel disegno di legge, una volta eventualmente approvato.
Quel che è certo è che è quanto mai urgente definire una regolamentazione della figura dell’imprenditore edile: senza voler limitare la libertà d’iniziativa privata o la concorrenza del settore, è comunque necessario assicurare una maggiore qualificazione degli operatori e quindi un maggiore rispetto delle regole e delle procedure della sicurezza sul lavoro.
Malgrado gli innegabili progressi degli ultimi anni, quello edile resta il settore con il più alto numero di incidenti, sia in generale (71.421 nel 2010, 9,2 per cento del totale) sia mortali (115 nel 2010, 11,7 per cento del totale), e con il più alto livello di rischiosità: si consideri, ad esempio, che nel 2010 la frequenza degli infortuni più gravi (quelli che hanno prodotto inabilità permanente) era pari a 4,76 ogni 1.000 occupati, contro una media del comparto industria e servizi pari a 1,78. Ancora, quello edile è anche uno dei settori dove si concentrano le maggiori quote di lavoro irregolare o sommerso.
Serve dunque uno sforzo maggiore per migliorare la regolamentazione del settore: la Commissione d’inchiesta intende naturalmente offrire il suo contributo in questo senso, stimolando il dialogo fra tutti i soggetti istituzionali e sociali competenti e approfondendo ulteriormente gli aspetti tecnici della questione, al fine di addivenire a una proposta normativa che possa contemperare le diverse esigenze e favorire condizioni di lavoro sempre più sicure e dignitose.


4. I sopralluoghi della Commissione: gli infortuni ed il sistema di prevenzione sul territorio

Come già accennato, anche durante il suo terzo anno di attività la Commissione ha svolto numerosi sopralluoghi in Italia, dei quali si darà ora conto in dettaglio.

4.1. Sopralluogo a Bologna (31 gennaio-1º febbraio 2011)
Il 31 gennaio e il 1º febbraio 2011, la Commissione ha effettuato una missione a Bologna, mediante l’invio di una delegazione formata dal presidente Tofani e dai senatori Colli, Maraventano e Nerozzi, allo scopo di acquisire informazioni su alcuni gravi infortuni sul lavoro (7 in tutto) verificatisi in quella provincia a partire dal 2 dicembre 2010 e nei quali avevano perso la vita sette lavoratori. Il sopralluogo ha consentito altresì di approfondire l’organizzazione del locale sistema di tutela della salute e sicurezza del lavoro.
La regione Emilia-Romagna e la provincia di Bologna in particolare hanno da tempo attivato una serie di iniziative per favorire la prevenzione e il contrasto al fenomeno degli incidenti e delle malattie professionali.
Tali azioni sono state armonizzate dall’apposito comitato regionale di coordinamento, istituito ai sensi dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che ha operato per assicurare il coordinamento, a livello regionale e provinciale, tra le iniziative adottate dalle varie istituzioni.
Nel triennio precedente le iniziative sono state accompagnate da un aumento del personale dedicato alla prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro e da investimenti (pari 8 milioni di euro) nella formazione dei lavoratori e del personale ispettivo. Ciò ha consentito una riduzione significativa del numero degli incidenti sul lavoro nel 2009 (-12 per cento rispetto all’anno precedente) e nel nuovo Piano regionale della prevenzione, relativo al triennio 2010-2012, si prevedono obiettivi ambiziosi, quali l’ulteriore riduzione del 15 per cento degli infortuni ed un incremento aggiuntivo dell’attività di vigilanza.
L’assessore regionale alla salute ha sottolineato la necessità, per garantire una più efficace azione di prevenzione e di contrasto degli infortuni, di una maggiore disponibilità di risorse umane per le attività di vigilanza e di una particolare attenzione alle nuove forme di lavoro precario, posto che i rapporti di lavoro discontinuo non consentono di formare adeguatamente i lavoratori per accrescere le loro competenze sulla protezione contro i rischi.
Anche la presidente della provincia di Bologna ha illustrato le iniziative messe in campo a favore della prevenzione e della sicurezza dei lavoratori, segnalando tra gli altri alcuni progetti di formazione/informazione a favore dei lavoratori e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
Una menzione particolare merita inoltre il progetto «Cantiere vigile», destinato a sviluppare azioni congiunte per migliorare le condizioni di sicurezza e di regolarità lavorativa dei cantieri della provincia mediante un’intesa tra le ASL, la Direzione provinciale del lavoro, l’INPS, l’INAIL e molti comuni del territorio (circa 40) e che vede la partecipazione anche di circa 130 addetti di polizia municipale.
Il progetto ha dato importanti risultati: ad esempio, a Bologna, come testimoniato dal commissario straordinario del comune, il coinvolgimento dei vigili urbani ha consentito di effettuare nel 2010 150 ispezioni dei cantieri e si conta di arrivare a 250 nel 2011. Anche in questo caso si è ribadita l’importanza della formazione degli operatori e della collaborazione tra le varie istituzioni per l’individuazione preventiva dei cantieri irregolari o a rischio, attraverso la condivisione e la messa a sistema delle informazioni.
Al progetto «Cantiere vigile» hanno fatto riferimento anche i sindaci dei comuni della provincia di Bologna interessati dagli incidenti sul lavoro che hanno richiamato la Commissione. I sindaci hanno concordato sulla validità del progetto «Cantiere vigile», che consente di esercitare una buona prevenzione nel settore edilizio, mentre hanno evidenziato maggiori difficoltà per la prevenzione in altri settori, quali l’intenso traffico veicolare che interessa la provincia di Bologna, e le numerose piccole e piccolissime aziende che ne costituiscono il principale tessuto produttivo. A differenza delle grandi imprese, più dotate di mezzi e meglio organizzate, nelle imprese minori è più difficile entrare per fare prevenzione: servono quindi anche qui maggiori controlli e maggiori risorse, con investimenti mirati a favore delle piccole e piccolissime imprese. Altro tema sollevato è stato poi quello del massimo ribasso quale criterio di aggiudicazione degli appalti, ritenuto fonte di gravi anomalie, in quanto induce le imprese che concorrono alle gare a contrarre al massimo i costi, tagliando spesso proprio a partire dalle spese sulla sicurezza. Per questo, alcuni comuni della provincia hanno adottato il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ad esempio consorziandosi come stazione appaltante unica per rafforzare la capacità di controllo. Tuttavia, i sindaci hanno anche messo in evidenza che, in un momento in cui anche i comuni sono chiamati a contenere le spese e a rispettare i vincoli del patto di stabilità, quello del ribasso è un elemento che viene fortemente preso in considerazione.
Infine, in un territorio a forte vocazione agricola, molto sentito è anche il problema degli infortuni in agricoltura, legati soprattutto all’uso delle macchine, come nel caso del ribaltamento dei trattori. In un settore con moltissimi piccoli operatori e scarsa redditività, è difficile pensare a investimenti per acquistare nuovi macchinari, mentre sarebbe più utile incentivarne l’adeguamento o la messa in sicurezza; inoltre, occorrerebbe prevedere requisiti più stringenti per i conducenti dei mezzi, spesso usati anche da persone molto anziane.
La Commissione ha ribadito la propria attenzione per le problematiche segnalate, evidenziando a sua volta la necessità di una maggiore cooperazione tra Stato ed enti territoriali, specialmente le Regioni, che hanno ora importanti competenze per la programmazione e il coordinamento sul territorio delle attività di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.
Nell’audizione con i rappresentanti della magistratura, è stata anzitutto descritta l’organizzazione della Procura di Bologna per quanto concerne le indagini sulle violazioni in materia di prevenzione e infortuni sul lavoro, coordinate da un apposito gruppo di magistrati denominato LPI, che ha consentito una migliore specializzazione e un accorciamento dei tempi d’indagine sui vari infortuni. Così, nell’anno giudiziario che va da luglio 2009 a giugno 2010 vi sono stati 1.186 procedimenti iscritti contro indagati noti (per un totale di 1.273 indagati), e 126 contro ignoti. Si tratta per lo più di contravvenzioni; per i reati più gravi, in particolare per l’omicidio colposo ex articolo 589 del codice penale, nel 2008, vi sono stati 16 casi di procedimenti di indagine contro noti ed 1 contro ignoti; nel 2009, 6 contro noti e 10 contro ignoti; nel 2010, 10 contro noti e 16 contro ignoti.
Un aspetto interessante di questa organizzazione d’indagine è la collaborazione tra i magistrati della Procura di Bologna e i funzionari dei servizi PSAL (prevenzione, sicurezza, ambiente e lavoro): delle due ASL che coprono la provincia, quella di Imola e quella di Bologna, la prima ha stipulato un’intesa per assicurare la reperibilità di esperti PSAL 24 ore su 24, in modo da garantire la presenza pressoché immediata di questi tecnici sulla scena di un infortunio insieme al magistrato di turno ed effettuare in modo tempestivo gli accertamenti più urgenti e le acquisizioni di prove e documenti senza il rischio di contaminazioni o alterazioni. Al momento del sopralluogo, si stava cercando di definire un’analoga intesa anche con la ASL di Bologna, più grande e complessa.
Si è poi richiamata l’organizzazione per la tutela della sicurezza adottata per le grandi opere, che costituisce un modello forse da esportare: l’Emilia- Romagna, insieme alla Toscana, da diversi anni è interessata da macrolavori come la TAV (treni ad alta velocità) e la VAV (variante di valico).
Negli anni passati, con una importante innovazione, Emilia-Romagna e Toscana costituirono un gruppo di lavoro interregionale allo scopo di sottoscrivere delle indicazioni tecnico-operative che elevassero la soglia della prevenzione e della sicurezza rispetto alla normativa vigente. È stato poi previsto che queste note interregionali, che hanno alzato la soglia della sicurezza, vengano recepite dai committenti (società Autostrade per l’Italia e RFI) nei documenti contrattuali, che devono rientrare nei piani operativi di sicurezza (POS), a pena di sanzione per le aziende inadempienti.
Infine, i magistrati hanno richiamato sinteticamente i vari infortuni verificatisi negli ultimi due mesi in provincia di Bologna, con particolare riguardo a quello avvenuto a Granarolo Emilia il 2 dicembre 2010 presso l’impianto di incenerimento rifiuti del Frullo, costato la vita all’operaio Marco Tarabusi della FEA, società che fa capo al gruppo Hera che gestisce l’impianto. Stando alle prime ricostruzioni, il signor Tarabusi sarebbe caduto all’interno della tramoggia numero 21, dove si era introdotto per effettuare dei lavori di ispezione e manutenzione. Durante i lavori, l’operaio è stato colpito alla testa dal pistone della pompa idraulica che permette il movimento della griglia, rimanendo schiacciato. Al momento del sopralluogo della Commissione, le indagini erano in fase preliminare e quindi non vi erano ancora elementi precisi.
Nel corso dell’audizione con le forze dell’ordine, è stato evidenziato come, nei 7 incidenti accaduti negli ultimi due mesi, non vi fossero gli elementi per poter dire che esistesse una causa specifica comune, essendosi gli eventi verificati in situazioni molto diverse fra loro, talvolta per motivazioni che se non si stesse parlando di tragedie si potrebbero definire «banali» o frutto di leggerezze. Tali episodi sono avvenuti in contesti diversificati, non soltanto in cantieri edili, ma spesso in ditte di trasporti, ovvero in magazzini. Volendo trovare un comune denominatore, secondo i rappresentanti delle forze dell’ordine alcuni di questi incidenti appaiono caratterizzati da una minore attenzione degli operatori, probabilmente dovuta anche ad una minore preparazione specifica. Infine, circa il tema, sollevato dalla Commissione, di possibili abbassamenti del livello di sicurezza dovuti all’infiltrazione di aziende legate alla criminalità organizzata in alcuni settori economici della provincia, soprattutto nel circuito degli appalti e subappalti, le forze dell’ordine hanno escluso connessioni tra questi fenomeni e gli incidenti in questione, avvenuti tutti presso ditte locali.
Pur essendovi certamente fenomeni di infiltrazione di questo tipo, essi sono comunque circoscritti e attentamente monitorati. Anche i controlli sui lavoratori in nero o irregolari sono elevati: ad esempio nel 2010 la Guardia di finanza ha trovato circa il doppio di lavoratori in nero rispetto all’anno precedente.
I rappresentanti dei Vigili del fuoco hanno riepilogato l’attività svolta in provincia nel corso del 2010, con 2.600 sopralluoghi di cui 2.280 per prevenzione incendi in centrali termiche, stabilimenti industriali, alberghi, ospedali ecc., 86 a campione dietro richiesta ministeriale su scuole, ospedali e centri commerciali, e ulteriori 208 su esposti di cittadini. Hanno anch’essi riscontrato in molti casi una mancanza di preparazione sui temi della sicurezza, che andrebbe potenziata con adeguate attività di formazione e accrescendo la presenza all’interno dei luoghi di lavoro rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, che possono segnalare direttamente situazioni di irregolarità o di rischio.
I rappresentanti della Direzione provinciale del lavoro di Bologna hanno poi ricordato l’intensa azione di vigilanza svolta nel 2010, che ha portato a 133 provvedimenti di sospensione delle attività, contro i 52 casi del 2009, di cui il 18 per cento ha riguardato il terziario (logistica, autotrasporto, ecc.) e solo il 9 per cento l’edilizia, dove prevalgono le microimprese, verso le quali esistono ora limitazioni per i provvedimenti di sospensione. Anche la DPL ha infine concordato sull’aumento dei rischi per la sicurezza legato al proliferare delle catene di appalti e subappalti e delle esternalizzazioni in genere.
Dal canto suo, l’INAIL si è soffermata sui dati (all’epoca ancora provvisori) degli infortuni sul lavoro avvenuti nel 2010: in particolare, quelli mortali sono stati 26 (di cui 21 riconosciuti e il resto ancora sub iudice) rispetto ai 16 del 2008 e ai 17 del 2009. Dei 21 incidenti riconosciuti 3 sono avvenuti in agricoltura e 18 nell’industria, metà dei quali sulla strada (sia in itinere che in occasione di lavoro), fenomeno in crescita preoccupante. Tale dato è stato integrato dai rappresentanti delle ASL e dei servizi PSAL, che hanno evidenziato come a Bologna i 9 infortuni più recenti dell’ultimo trimestre fossero comunque eventi verificatisi in grande prevalenza all’aperto, non tutti sulla strada. Si è trattato di incidenti legati prevalentemente ad attività di manutenzione effettuate da soggetti interni o esterni, o che hanno a che fare (in 4 casi su 9) con lavoratori autonomi che facevano parte della proprietà stessa dell’impresa. 3 casi su 9 riguardavano stranieri. Negli ultimi cinque anni nella provincia vi sono stati 49 infortuni mortali: da un’analisi basata su un periodo di sei anni risulta che le morti nel settore edilizio sono pari al 44 per cento ed al 16 per cento nel settore agricolo. Ad Imola i morti sul lavoro dal 1985 a oggi sono stati 68, di cui 26 in edilizia, 26 in agricoltura, 9 nell’artigianato e 7 nel terziario: dunque edilizia e agricoltura, in un territorio meno cittadino di Bologna, competono in questo triste primato. I morti nel 2010 sono stati invece solo 6, certamente un numero elevato negli ultimi cinque anni, ma assai inferiore al numero di morti dei periodi precedenti.
Confrontando il dato con il numero di occupati, se nel 2000 c’erano 10,4 infortuni ogni cento lavoratori, nel 2008 – l’ultimo dato disponibile – ce ne sono stati 6,3. Si tratta quindi di elementi che sembrano escludere una vera recrudescenza del fenomeno infortunistico.
Peraltro, tra il 2009 e il 2010 a Bologna l’attività di vigilanza, specialmente nei cantieri edili, è salita dal 4,5 al 9 per cento, con un aumento addirittura del 30 per cento rispetto al 2008. Ciò ha però portato ad un aumento delle notizie di reato pari solo al 10 per cento, a testimonianza di una qualità del lavoro meno negativa del previsto. L’incremento complessivo di infrazioni sembra sia da ascrivere a fenomeni legati ad alcune parti del ciclo lavorativo, ad esempio alla manutenzione (è una novità che tali infortuni si collochino in questa fase del ciclo lavorativo), e abbia a che fare con lavoratori che hanno rapporti di dipendenza diversi. Anche la ASL di Imola ha accresciuto la sua attività, svolgendo ispezioni in 500 imprese, di cui 219 nell’edilizia, con numerose prescrizioni e disposizioni.
Sono stati poi richiamati i positivi risultati conseguiti in relazione alla vigilanza per i cantieri dell’alta velocità sotto gli Appennini e della variante di valico, mediante il coinvolgimento di altri organi per incrementare la capacità di vigilanza, a cominciare dai vigili urbani per i cantieri edili, che ha consentito di effettuare controlli su ulteriori 250 cantieri, oltre ai 1.000 visitati dai servizi ispettivi. Per quanto riguarda poi i rappresentanti dell’ARPA, essi hanno segnalato come ultimi dieci anni in provincia, tranne un caso, non ci siano stati fortunatamente infortuni nelle aziende a rischio rilevante da loro vigilate, anche perché queste sono soggette a controlli continui e debbono avere un sistema di gestione della sicurezza molto severo.
In generale, rispetto alla sequenza impressionante di incidenti a cavallo tra il 2010 e il 2011, l’analisi dei dati e dei singoli incidenti prospettata dagli organi di vigilanza ha teso a escludere nuove, particolari cause di peggioramento del fenomeno infortunistico, rispetto al trend consolidato degli ultimi anni. Esistono però elementi di preoccupazione legati a specifici settori, ad esempio agli appalti e ai subappalti, nei quali a volte si ritrovano forme non chiare di rapporti di lavoro tra appaltatore e ditte appaltatrici.
Più in generale, malgrado l’elevato grado di attenzione e l’intensa attività degli organi di vigilanza, vi è la consapevolezza che ci sono ancora realtà nelle quali occorre intensificare i controlli e la sensibilizzazione di datori di lavoro e lavoratori, specialmente nelle piccole imprese.
Tali indicazioni sono state confermate anche negli incontri con i rappresentanti delle parti sociali: I sindacati hanno evidenziato come un incremento così rilevante, soprattutto degli infortuni mortali, non si verificava da molti anni, considerando che il trend complessivo rimane in diminuzione.
Il fatto che gli infortuni siano accaduti in diversi settori, in particolare nell’edilizia, ma anche nei trasporti, rende però difficile stabilire se siano collegati a un cambiamento dell’organizzazione del lavoro e della sicurezza, oppure ad altre cause. Esistono comunque alcuni fenomeni e tendenze recenti che, ad avviso dei sindacati, stanno producendo effetti negativi sul fronte della sicurezza del lavoro: in primo luogo la crisi economica, che nell’anno e mezzo precedente alla visita della Commissione ha inciso pesantemente in tutti i settori produttivi, modificando anche l’organizzazione del mercato del lavoro e quella delle aziende. Si è quindi espresso il timore che ciò possa condizionare nelle imprese più colpite il rispetto delle normative contrattuali e legislative, sia per quanto riguarda l’aspetto della prevenzione che quello dei carichi di lavoro.
Altri fattori di allarme, anche con riferimento agli incidenti più recenti, sono stati individuati nella parcellizzazione e frammentazione dei cicli di lavoro, che si traduce in una lunga concatenazione di appalti, dei quali si fatica a rintracciare l’origine. Ciò sta producendo molti problemi e un allentamento degli aspetti più legati alla sicurezza, anche per il prevalere del fenomeno delle gare con il criterio del massimo ribasso.
Tali elementi si intrecciano poi con l’aumento del numero dei lavoratori stranieri e precari, che sono sempre più diffusi nel territorio bolognese e che non a caso sono in cima alle classifiche degli incidenti. In entrambi i casi si tratta infatti di persone che fanno grande fatica ad acquisire dimestichezza con le misure di sicurezza, gli stranieri per difficoltà culturali e linguistiche, i precari per la permanenza troppo breve nei vari luoghi di lavoro.
In effetti, la situazione rimane allarmante soprattutto per i settori dell’agricoltura e dell’edilizia, malgrado l’intenso lavoro svolto in quest’ultimo caso dagli enti bilaterali e dai servizi ispettivi: ad esempio negli appalti sono state assunte una serie di misure, con una legge regionale e protocolli che aumentano la trasparenza e le azioni di prevenzione, anche con il coinvolgimento delle parti sociali. Si è chiesto quindi un aumento delle risorse dei servizi ispettivi per potenziare i controlli, ancora troppo pochi rispetto al numero delle imprese, e si è altresì segnalato, a fronte della riduzione degli infortuni, il preoccupante aumento delle malattie professionali.
In generale, la preoccupazione rimane alta per gli effetti della crisi, che potrebbe spingere a un abbassamento dei livelli di tutela e alla diffusione del lavoro nero o grigio. Qui si possono altresì insinuare aziende più spregiudicate e poco serie che agiscono al limite della legalità, ad esempio nel settore del lavoro cooperativo, dove i sindacati di settore chiedono una vigilanza maggiore.
Per quanto riguarda i rappresentanti delle organizzazioni datoriali, essi hanno confermato come, malgrado la recente, tragica sequenza di infortuni mortali, il trend complessivo degli incidenti rimanga nella provincia rimanga in diminuzione rispetto agli ultimi anni. A ciò hanno contribuito certamente anche gli sforzi di formazione e di investimento fatti in molti settori, da quello industriale a quello edile e artigianale. Naturalmente, non mancano gli elementi di preoccupazione, tra i quali anche le associazioni di categoria hanno denunciato la diffusione sempre più ampia degli appalti e dei subappalti, anche nel settore dei servizi, oltre che in quello tradizionale dell’edilizia. In quest’ultimo, del resto, atteso che le aziende edili agiscono ormai quasi sempre in veste di contraente generale, il ricorso al subappalto è inevitabile per poter lavorare in modo competitivo.
Ma l’uso sempre più ampio del criterio del massimo ribasso determina storture, che favoriscono la penetrazione di aziende spregiudicate, penalizzando quelle sane e abbassando i livelli di tutela dei lavoratori. Altri aspetti da tenere presenti sono quello della forte presenza nella provincia di lavoratori stranieri, i quali, in mancanza di un’adeguata formazione, sono decisamente più esposti al rischio degli italiani, come dimostra il fatto che l’incidenza degli infortuni sul personale di lingua italiana è del 3,1 per cento, mentre quella sul personale di lingua straniera del 4,5 per cento. In questo senso, si è insistito molto sull’importanza della formazione e dei controlli sulla regolarità delle aziende, spesso alle prese con una imposizione e una serie di adempimenti burocratici a loro avviso troppo gravosi.
Da parte del mondo cooperativo c’è stata poi una forte denuncia contro il fenomeno delle cooperative spurie, specie nel comparto del trasporto, che sfuggono a ogni controllo e registrano ampie forme di lavoro irregolare. Ciò crea, ad esempio negli appalti, una concorrenza sleale nei confronti delle cooperative oneste difficile sostenere. D’altra parte, come la Commissione d’inchiesta ha ricordato, uno degli incidenti più recenti è avvenuto in una cooperativa regolare, e la vittima era un lavoratore egiziano assunto a tempo indeterminato, a dimostrazione che i rischi sono comunque presenti in tutti i contesti.
Infine, la Commissione ha audito i rappresentanti del gruppo Hera S.p.A., che attraverso la società FEA gestisce l’impianto di termovalorizzazione del Frullo, presso il quale il 2 dicembre 2011 si era verificato l’incidente già ricordato del signor Marco Tarabusi. I rappresentanti della società hanno giudicato sorprendente l’incidente, posto che l’operaio deceduto era assai esperto e lavorava stabilmente per la FEA da 19 anni. Inoltre, al momento dell’incidente, era in squadra con un altro lavoratore altrettanto esperto e formato, in azienda da 13 anni. Si trattava di una manutenzione ordinaria, periodica, che sarebbe avvenuta in condizioni di assoluta sicurezza. L’impianto inoltre è di recente e moderna costruzione, avviato nel 2004-2005, e rispetta tutti i requisiti di sicurezza.
In generale, al momento del sopralluogo le indagini sull’incidente in questione (come su tutti gli altri sei verificatisi nei due mesi precedenti) erano ancora in corso, e quindi appariva prematura qualsiasi conclusione.
Se risulta quindi difficile rintracciare un denominatore comune dei vari infortuni, questa tragica sequenza è comunque un segnale preoccupante di allarme, che evidenzia il permanere di rischi elevati per la sicurezza. L’aspetto positivo è che la provincia di Bologna è un territorio caratterizzato da un tessuto socio-economico e produttivo molto vivace e avanzato, con un grande livello di attenzione sia da parte delle istituzioni che delle componenti sociali. Proprio tale presenza consapevole e attiva rappresenta l’arma migliore per affrontare e risolvere i problemi vecchi e nuovi della sicurezza sul lavoro, legati anche a modelli di organizzazione produttiva messi sempre più a dura prova dalla recente crisi economica.

4.2. Sopralluogo a Firenze (27-28 marzo 2011)
Il 27 e 28 marzo 2011 una delegazione della Commissione, composta dal presidente Tofani e dai senatori Maraventano e Nerozzi, ha effettuato una missione a Firenze. Si tratta del primo dei sopralluoghi decisi dalla Commissione per verificare, nelle diverse regioni italiane, lo stato di avanzamento e gli aspetti critici legati al processo di attuazione del testo unico, anche in ragione delle importanti competenze di programmazione, coordinamento e controllo che esso attribuisce proprio alle autorità regionali in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro sul territorio.
I rappresentanti della Regione e in particolare l’assessore alla sanità, hanno anzitutto ricordato come, secondo gli ultimi dati INAIL disponibili al momento dell’audizione, nel 2009 si sono registrati 39.000 infortuni, contro gli oltre 44.000 del 2008 (ovvero l’11,3 per cento circa in meno), di cui 67 mortali, a fronte di 80 nel 2008 (con un calo, quindi, del 16,3 per cento), e circa 6.600 in itinere. Negli anni 2004-2009 si rileva poi un calo costante, che si attesta per l’intero periodo intorno al 17 per cento. Gli infortuni mortali in occasione di lavoro presentano lo stesso andamento in diminuzione dell’insieme degli infortuni. Per contro, in linea con l’aumento generalizzato nel resto del Paese, anche in Toscana sono aumentati i casi di malattie professionali, passando da circa 1.400 denunce nel 2008 ad oltre 1.900 nel 2009. Complessivamente, nel corso degli anni 2000-2007 in Toscana sono stati denunciati all’INAIL poco più di 19.000 casi di sospette malattie professionali, delle quali sono state riconosciute ed indennizzate circa 4.900. Come si è spiegato ampiamente nel paragrafo 2.7.1, piuttosto che a un peggioramento delle condizioni di salubrità negli ambienti di lavoro, questa impennata nelle denunce di malattie professionali è dovuta a serie di fattori che, da alcuni anni ormai, stanno contribuendo all’emersione di quelle che gli esperti definiscono malattie «nascoste» o «perdute», cioè non denunciate, a cominciare dalla maggiore consapevolezza dei lavoratori e degli operatori preposti.
Sono state quindi richiamate le iniziative assunte dalla Regione in materia di prevenzione, in particolare due importanti leggi regionali, la legge 23 dicembre 2003, n. 64, sulla prevenzione delle cadute dall’alto, e la legge 13 luglio 2007, n. 38, sugli appalti pubblici, la quale ha peraltro introdotto istituti innovativi, quali il tutor di cantiere, e anticipato molte misure di tutela della sicurezza e regolarità del lavoro (ad esempio, la verifica di idoneità tecnico-professionale, l’obbligo di cartellino di riconoscimento per gli operatori, le riunioni periodiche di coordinamento tra la stazione appaltante e le ditte impegnate nel cantiere), poi recepite dalla normativa nazionale.
La Toscana è stata tra le prime regioni ad istituire il comitato regionale di coordinamento. Esso era al momento dell’audizione in fase di ricostituzione in quanto a suo tempo configurato come organismo che giunge a scadenza con la legislatura. Tuttavia, nel frattempo si è continuato ad operare attraverso l’ufficio operativo allargato alle parti sociali, così da poter condividere le progettualità e soprattutto pianificare l’attività di prevenzione e di vigilanza, anche in maniera integrata, tra le ASL, l’INAIL, l’INPS e le Direzioni provinciali del lavoro, creando tra le organizzazioni delle interrelazioni positive ed evitando sovrapposizioni e duplicazioni.
Punto qualificante della strategia esposta dalla Regione è proprio la cooperazione rafforzata tra i diversi attori istituzionali e sociali, sia in fase di vigilanza che di prevenzione.
Sono stati poi richiamati i dati salienti dell’attività di prevenzione. In Toscana, a fronte di una popolazione occupata di 1.427.402 unità e di un tessuto produttivo caratterizzato nella stragrande maggioranza da piccole e piccolissime imprese, operavano nel 2008 453 unità di personale qualificato, salite a 479 nel 2009. I servizi di prevenzione, igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro nel 2010 hanno effettuato 28.000 sopralluoghi, controllando circa 20.000 soggetti tra società e lavoratori autonomi, e hanno effettuato oltre 1.600 campionamenti e misurazioni, rilevando oltre 5.000 violazioni della normativa sulla sicurezza. I cantieri controllati sono stati 4.447, a fronte dei 4.000 cantieri assegnati dal Piano nazionale di prevenzione in edilizia, e le aziende agricole 1.051, a fronte di 700 previste dal Piano nazionale di prevenzione agricoltura e selvicoltura. Sono stati effettuati oltre 4.700 visite, 527 interventi di informazione e comunicazione per gruppi di lavoratori esposti a specifici rischi, 1.657 iniziative di confronto con le figure aziendali per la prevenzione e sono state erogate 6.781 ore di formazione per quasi 14.000 utenti.
Nel 2010 i servizi di prevenzione della Toscana hanno concluso 1.698 inchieste di infortuni e 407 inchieste di malattie professionali, contro rispettivamente 1.958 e 342 dell’anno precedente. C’è stato quindi uno spostamento delle inchieste sul fronte delle malattie professionali, anche per affrontare un problema che sta chiaramente emergendo. Al riguardo, peraltro, in Toscana si sta lavorando a un protocollo operativo tra ASL e magistratura finalizzato alla definizione di procedure d’indagine più efficienti, che veda coinvolti anche l’Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica (ISPO), designato quale centro operativo regionale per la gestione del registro mesoteliomi e del registro tumori del naso, e l’INAIL.
In definitiva, la Toscana, da anni, si caratterizza per un deciso intervento in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro, potendo contare su risorse dedicate a livello regionale: circa 4 milioni di euro l’anno, oltre al fondo sanzioni ex articolo 13, comma, 6 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che ogni ammonta mediamente a 5 milioni di euro; inoltre, ai sensi della legge regionale 27 ottobre 2008, n. 57, alle famiglie delle vittime di infortuni mortali avvenuti in Toscana – con esclusione degli infortuni in itinere – viene erogato, a valere su un fondo che annualmente arriva a circa un milione di euro, un contributo che va da 20.000 a 25.000 euro, a seconda del numero di figli della vittima. Punti cardine di tali interventi sono la promozione della cultura della sicurezza, il rafforzamento delle attività di vigilanza, la valorizzazione della formazione e il coinvolgimento di tutti gli attori pubblici e privati del sistema. L’assessore alla sanità si è soffermato in particolare sugli strumenti della programmazione di medio-lungo termine, che si declina poi operativamente nei piani mirati di prevenzione, che molto spesso vedono coinvolte, oltre alle ASL, le università, le parti sociali, gli ordini professionali, i centri di ricerca e gli altri attori istituzionali della prevenzione, in primis l’INAIL. Con quest’ultimo la regione Toscana condivide numerosi progetti, tra cui l’osservatorio congiunto INAIL-CeRIMP e il protocollo di intesa per la prevenzione in ottica di genere, finalizzato all’individuazione e alla riduzione dei rischi per la sicurezza specifici per lavoratori e lavoratrici. Ancora, vi è il progetto per il «Safety Manager», realizzato in collaborazione con le università toscane e le forze sociali, per l’erogazione di borse di studio finalizzate alla formazione di ingegneri esperti in sicurezza da inserire nelle aziende, e numerosi altri interventi di carattere settoriale e territoriale.
Con riferimento specifico alle attività del comitato regionale di coordinamento, i rappresentanti regionali hanno ribadito che, andando lo stesso per legge a scadenza con la legislatura, la regione Toscana, nelle more della sua ricostituzione nella nuova legislatura regionale, ha operato con un escamotage come ufficio operativo allargato alle parti sociali, riunendosi assai frequentemente. La Commissione ha fatto presente, tuttavia, che anche in Toscana non erano ancora state inviate le previste relazioni annuali ai ministeri competenti: su questo punto, d’altra parte, era in corso un confronto nell’ambito della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Si è comunque ribadita l’importanza e il valore di questo strumento, ai fini del coordinamento tra i vari attori istituzionali, citando come esempio un importante progetto di ricerca attiva sulle malattie professionali, argomento quanto mai urgente. Altri temi affrontati con successo nel comitato regionale sono poi la programmazione delle attività di vigilanza (specie nella lotta al lavoro nero e irregolare) e i progetti per il coinvolgimento delle microimprese nella prevenzione, essenziale in un tessuto produttivo come quello toscano caratterizzato, al pari di altre Regioni italiane, da una presenza fortissima di imprese di piccolissime dimensioni che sono le più deboli sotto il profilo della sicurezza.
Anche i comitati provinciali di coordinamento, emanazione diretta del comitato regionale, sono attivi in Toscana, sviluppando importanti progetti a livello locale. Essi anzi hanno continuato a riunirsi anche nelle more della ricostituzione del comitato regionale, non essendo legati come questo alla scadenza della legislatura. Altro positivo esempio di cooperazione interistituzionale, anche se non strettamente correlato al comitato regionale di coordinamento, concerne un protocollo d’intesa per la sicurezza stradale che coinvolge la Prefettura, la Polizia stradale e la Società autostrade.
La Commissione ha naturalmente valutato assai positivamente le azioni messe in campo dalla regione Toscana, auspicando la diffusione anche in altre Regioni di tale modello, nonché un rafforzamento sempre maggiore della cooperazione tra il livello statale e quello regionale, anche attraverso la formalizzazione delle previste relazioni sull’attività dei comitati regionali di coordinamento, purtroppo ancora non attuata.
Ulteriori importanti elementi informativi sono poi stati forniti dall’audizione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, che era stato peraltro già ascoltato in passato dalla Commissione.
Il magistrato ha richiamato l’attenzione sui problemi di gestione delle indagini sui reati di infortunio e malattia professionale in Toscana, che la scarsità delle risorse di personale tecnico-amministrativo non consente di svolgere in maniera adeguata. È emerso che gli infortuni nella regione Toscana sono circa 66.000, un decimo dei quali, circa 6.000-7.000, perseguibili d’ufficio (in quanto generano morte o lesioni con postumi invalidanti che superano i 40 giorni di malattia e quindi obbligano il procuratore della Repubblica a procedere d’ufficio). Ebbene, di questi 7.000 reati la magistratura in Toscana riesce a perseguirne purtroppo meno di 1.000: praticamente un reato su sette non arriva all’attenzione del procuratore della Repubblica. Il primo problema concerne il governo dei flussi delle notizie di reato per far sì che le stesse, a cominciare dai referti di pronto soccorso, arrivino alle procure. Molti medici infatti sono poco sensibilizzati e, per un malinteso senso del segreto professionale, stentano a inviare i referti alla magistratura. A ciò si aggiunge il fatto che, quand’anche si riuscissero a ricevere tutte le notizie di reato, o almeno la gran parte, la capacità di intervento degli organi di polizia giudiziaria dei servizi di prevenzione delle ASL, deputati per legge a svolgere le indagini, sarebbe comunque limitata in quanto le risorse di personale di cui dispongono le ASL non consentirebbero di svolgere 7.000 processi all’anno. Per riuscirci, gli addetti oggi presenti dovrebbero seguire ciascuno almeno 200 casi all’anno, laddove un bravo funzionario ne riesce a curare appena 30.
Al riguardo il Procuratore generale ha precisato di aver sollecitato un intervento della Regione, da cui dipende il coordinamento delle ASL territoriali, per integrare gli organici dei servizi di prevenzione con ufficiali di polizia giudiziaria in grado di affrontare un numero ingente di reati, stante l’obbligatorietà dell’azione penale nel nostro ordinamento. La richiesta non è facile, perché si scontra con l’oggettiva scarsità di risorse economiche in cui versano i vari enti territoriali. Per le malattie professionali poi la situazione è ancora più grave, data la nota sottovalutazione del fenomeno nelle statistiche INAIL. Per esempio in Toscana si è accertato che per il 2010 risultano 463 morti, ma questo dato rappresenta certamente una stima per difetto: le malattie attese, infatti, sono migliaia ed è evidente la sfasatura rispetto alla realtà. In questo caso le procure sono in forte difficoltà: delle 4.900 malattie denunciate dall’INAIL in Toscana se ne riescono a seguire appena 300 o 400, con differenze da circondario a circondario a volte inspiegabili: il distretto di Prato, per esempio, che ha un forte tessuto produttivo, denuncia 147 malattie professionali, mentre quello di Lucca, dove la presenza delle imprese è assai inferiore, ne denuncia 1.300.
La successiva audizione della Direzione regionale dell’INAIL ha confermato che il comitato regionale di coordinamento era, in quel momento, in fase di ricostituzione, anche se la ripresa delle attività era prevista a breve. Tra i temi sui quali si riteneva opportuno concentrare le future attività di prevenzione, sono stati segnalati alla Commissione in particolare gli infortuni in edilizia, che è ancora il settore leader nel 2010 quanto a numero di incidenti, con 10 infortuni mortali, mentre nel settore dell’agricoltura se ne registrano 9. La Provincia con più infortuni mortali nel 2010 è stata Arezzo con 13 decessi. Su questa base, come indicato dal Direttore provinciale del lavoro, si era deciso in sede di coordinamento di ispezionare nel 2011 almeno 800 cantieri, di cui 400 affidati agli ispettori delle ASL, coadiuvati da personale amministrativo degli enti previdenziali e dagli ispettori del lavoro di vigilanza ordinaria, mentre i restanti 400 sarebbero stati seguiti dai pochi ispettori tecnici. Si è poi denunciato come anche in Toscana esista un problema di carenza del personale ispettivo, almeno per quanto riguarda il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La Toscana è la regione più grande d’Italia, con dieci province, e conta poco più di 200 ispettori: per la precisione, 230 ispettori di vigilanza ordinaria (ruoli amministrativi) e 15 di vigilanza tecnica (ingegneri e architetti).
Nei fatti però disponibili sono rispettivamente 137 e 11, perché molti funzionari svolgono anche altri compiti per sopperire alla carenza di personale amministrativo. Malgrado le assunzioni degli anni passati, a fronte dei pensionamenti e della rinuncia al posto da parte di alcuni dei nuovi assunti che hanno superato altri concorsi, il numero del personale ispettivo si riduce così sempre di più, specie per i ruoli tecnici.
In questo contesto è fondamentale la collaborazione con gli altri enti, con le forze dell’ordine e l’attività d’intelligence volta ad effettuare delle verifiche prima di entrare in azienda, ad esempio con il recente accesso alla banca dati dell’INPS, che consente agli ispettori di verificare prima di andare in azienda quanti soggetti risultano ufficialmente assunti. Positivi risultati in termini di deterrenza e di contrasto soprattutto al lavoro nero sono venuti anche dai nuovi strumenti sanzionatori messi a disposizione dalla legge 4 novembre 2010, n. 183 (il cosiddetto «collegato lavoro»), quali la maxisanzione e la sospensione dell’attività lavorativa. In Toscana comunque il lavoro nero resta alto, anche a causa della forte immigrazione: ci sono lavoratori provenienti dall’estero che si offrono sul mercato a tariffe bassissime e tanti datori di lavoro poco scrupolosi che, pur di guadagnare, ricorrono al lavoro nero, tagliando sui diritti e sulla sicurezza.
Altro fenomeno riscontrato negli ultimi due anni è l’aumento delle richieste di rateazione del premio da parte di molte aziende, anche se per importi in assoluto non significativi: un ulteriore effetto della crisi economica.
Anche l’audizione del comandante regionale dei Vigili del fuoco ha fornito interessanti spunti: in primo luogo è stata riepilogata l’attività svolta dal Corpo nel settore della prevenzione incendi, che si articola in due grandi filoni. Il primo ha natura autorizzativa e fa riferimento al certificato di prevenzione incendi; il secondo investe tutte le attività, rientrando quindi nel campo d’applicazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, in cui sono impiegati lavoratori dipendenti. Sostanzialmente il procedimento autorizzativo consta di tre momenti: approvazione del progetto, primo controllo e rinnovi periodici. C’è, inoltre, un’attività ispettiva che si svolge sia sulle attività per le quali è necessaria l’autorizzazione sia sulle attività che interessano solo lavoratori dipendenti. L’attività ispettiva, in particolare, è di due tipi: una è stabilita dal centro sulla base dell’individuazione di alcune tipologie di attività (per esempio, per il 2011, è stata effettuata su scuole, ospedali e attività commerciali). Vi è poi un’attività ispettiva effettuata sulla base di segnalazioni o esposti di cittadini.
La Commissione, nel confermare il proprio apprezzamento per la meritoria e complessa azione svolta dal Corpo dei vigili del fuoco, ha però osservato come l’attività ispettiva, svolta con le modalità descritte, sia talvolta limitata rispetto alle effettive esigenze di prevenzione, anche per quanto concerne i profili della tutela della sicurezza sul lavoro, come insegnano ad esempio drammi come quello di Paderno Dugnano, in provincia di Milano14, dove, prima del tragico incendio del 4 novembre 2010, costato la vita a quattro operai, si erano verificati ad agosto altri due incendi minori che, se adeguatamente investigati, avrebbero forse messo in luce per tempo irregolarità e carenze nelle misure di sicurezza aiutando a prevenire la tragedia. Si tratta naturalmente di un problema normativo, oltre che di risorse di personale, sul quale la Commissione si sta da tempo interrogando.
I rappresentanti del Nucleo tutela del lavoro dei Carabinieri hanno quindi tracciato il quadro delle attività svolte nella regione Toscana, che si è incentrata soprattutto nella lotta al lavoro sommerso e irregolare, che va di pari passo con la carenza della sicurezza sul lavoro. In questa azione si punta soprattutto sulla cooperazione tra i vari enti, INPS, INAIL, Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, Agenzia delle entrate, sviluppando il progetto SISLAV (Servizio informativo per la tutela del lavoro).
Si tratta di una sorta di banca dati, alimentata da tutti questi enti, che consente di effettuare uno scambio di dati in tempo reale e quindi di predisporre un fascicolo aziendale da cui partire per sviluppare le indagini del Nucleo tutela del lavoro sia sulla sicurezza che sul lavoro sommerso.
Una interessante segnalazione è poi venuta dai rappresentanti del Nucleo in merito al fenomeno, sempre più diffuso in edilizia, dei cosiddetti imprenditori improvvisati, ovvero coloro che vanno alla Camera di commercio, aprono la partita IVA e costituiscono una ditta a sé. Questi lavoratori autonomi non adottano alcuna misura di sicurezza e anche quando prendono i lavori dalla committenza sviano i parametri sulla idoneità tecnico- professionale, cosa che invece non possono eludere le ditte che hanno lavoratori dipendenti. Di questo fenomeno si è già detto nel paragrafo 3.6, a proposito delle esigenze di qualificazione degli imprenditori edili: infatti, negli appalti e subappalti, specialmente nel settore privato, a volte le opere vengono assegnate direttamente ad un soggetto autonomo; perlopiù si tratta di una ditta autonoma (anche di soggetti extracomunitari) in cui soltanto il titolare firmatario risulta far parte della ditta, che formalmente non ha dipendenti. Risultano però come affidatari tre, quattro o cinque lavoratori autonomi, che in realtà non operano in piena autonomia agendo di fatto come dipendenti della stessa ditta affidataria. In questo modo si realizza un’evasione sia dal punto di vista contributivo che dal punto di vista della sicurezza, posto che il lavoratore autonomo non ha gli stessi obblighi di sicurezza, informazione, sorveglianza sanitaria e valutazione dei rischi di una ditta edile con dipendenti. Spesso poi è proprio il titolare della ditta a incoraggiare i lavoratori a prendere la partita IVA, perché in tal modo si risparmia sui versamenti contributivi.
Per quanto riguarda l’audizione dei rappresentanti sindacali, questi hanno innanzitutto lamentato i ritardi nella ricostituzione del comitato regionale di coordinamento della Toscana, che aveva dato ottimi risultati nella precedente legislatura. Hanno quindi segnalato come gli effetti della crisi economica si stiano facendo sentire anche in Toscana, il che porta con sé anche un calo di attenzione agli aspetti della sicurezza. Si è poi molto insistito sul tema della formazione, sulla quale occorrerebbe investire di più, a cominciare dalle scuole professionali e non solo, per creare una vera cultura della sicurezza.
In generale, pur riconoscendo un elevato livello di attenzione in Toscana, i rappresentanti sindacali hanno denunciato un certo scarto tra quanto previsto della norme e la loro applicazione concreta nelle aziende, esprimendo preoccupazione per i tagli nel settore, che incidono direttamente anche sul livello dei controlli sulla sicurezza, in particolare delle ASL. Fortunatamente in Toscana esiste un elevato livello di cooperazione tra tutti i soggetti addetti sia nel settore della vigilanza che della prevenzione.
A fronte delle numerose intese realizzate anche con le parti sociali sui temi della formazione e della prevenzione (come nell’artigianato), occorre però continuare a verificarne la concreta attuazione. Ad esempio nel settore degli appalti la Toscana si è dotata di una legge regionale molto severa e ha sottoscritto un patto per la sicurezza di grande rilievo. Tuttavia nella Regione solo l’8 per cento degli appalti viene assegnato con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa, mentre per il 92 per cento si ricorre ancora al massimo ribasso, con tutti i problemi che esso comporta. Serve quindi un vero cambiamento culturale e un’attenzione maggiore delle istituzioni. Un aiuto importante, ad avviso dei sindacati, può venire dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), che hanno individuato nella loro piattaforma tra gli altri il tema degli indici di congruità del costo del lavoro, utile sia in sede contrattuale che nell’ambito degli appalti.
Si è poi sottolineato il valore degli enti bilaterali come strumento per la sicurezza, illustrando un progetto per la creazione di un fondo per cercare di andare incontro alle esigenze delle aziende e dei piccoli datori di lavori che aderiscono a tali enti, segnalando come ciò denoti un cambiamento molto importante nell’approccio culturale al sistema della sicurezza, anche se in molte occasioni alcuni datori di lavoro incontrano ancora degli ostacoli. In quest’ottica, è essenziale rafforzare il coordinamento delle attività di vigilanza, in modo tale che l’azienda riceva una sola visita, senza inutili duplicazioni e sovrapposizioni tra gli enti ispettivi che si risolvono in meri adempimenti burocratici. Inoltre, occorre che gli RLS e i rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza territoriali (RLST) possano operare insieme per migliorare la sicurezza, anche nelle piccole imprese dove ancora incontrano difficoltà ad agire. Sarebbe altresì utile, in campo edilizio, che vi fossero sopralluoghi preventivi all’apertura dei cantieri. Infine, si è richiamata l’esigenza di tutelare la sicurezza anche nella pubblica amministrazione, dove si hanno problemi come il mobbing e lo stress-lavoro correlato, spesso molto sottovalutati.
Nel successivo incontro con i rappresentanti delle organizzazioni datoriali, si è anzitutto sottolineata l’esigenza di completare quanto prima l’attuazione del testo unico a livello regionale, sia attraverso la rapida ricostituzione del comitato regionale di coordinamento, sia con l’emanazione dei vari decreti secondari. Si è quindi ricordato che la regione Toscana è caratterizzata essenzialmente da un tessuto economico composto da piccole e medie imprese, dove le microimprese da uno a dieci addetti sono la parte predominante (oltre il 95 per cento). In queste condizioni anche la problematica della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro e il coordinamento diventano aspetti importanti. Al riguardo, specie nel settore dell’artigianato e dell’edilizia, grazie all’intensa attività degli enti bilaterali, si sono fatti molti sforzi da parte delle associazioni di categoria per una formazione ampia non solo dei dipendenti, ma anche degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. Pur rispettando le regole, nel contempo, le imprese chiedono però una semplificazione di una serie di adempimenti a loro avviso inutilmente burocratici che ancora gravano su di esse e che in taluni casi potrebbero riempire un vero e proprio manifesto.
La Commissione d’inchiesta, dal canto suo, ha ribadito la propria disponibilità a valutare, per quanto di propria competenza, qualsiasi proposta di semplificazione che possa ridurre la burocrazia, a patto però che questo non si traduca in un indebolimento delle regole poste a tutela della sicurezza dei lavoratori e degli stessi imprenditori.
Anche da parte delle organizzazioni imprenditoriali si è poi chiesto un rafforzamento dei controlli in tutti i siti produttivi e non solo in quelli di maggiori dimensioni. Inoltre, si è richiamato il problema del massimo ribasso nelle gare d’appalto pubbliche, che anche in Toscana supera talvolta il 50 per cento del prezzo d’asta, incoraggiando l’infiltrazione delle aziende più spregiudicate e irregolari a danno di quelle più serie. Occorrerebbe maggiore attenzione e coraggio da parte delle stazioni appaltanti pubbliche.
Da parte dei rappresentanti delle imprese industriali si è sottolineata l’importanza di una formazione sulla sicurezza ad hoc, che tenga conto delle esigenze specifiche dei vari comparti, spesso molto diverse tra loro. In questo senso essi hanno espresso la loro preferenza per RLS interni, che conoscono meglio le problematiche delle varie realtà, rispetto a consulenti esterni che intervengono saltuariamente e che sono certo meno efficaci. Aspetti particolari sono stati poi messi in evidenza dai rappresentanti dei settori dei servizi, in particolare del commercio, che hanno fortunatamente un’incidenza infortunistica più contenuta. Viceversa, nel settore agricolo, pur riscontrandosi un calo nel numero degli incidenti, resta necessario attuare interventi di prevenzione e formazione. Alcuni aspetti rimangono critici: la conformazione prevalentemente collinare e montuosa del territorio toscano causa spesso incidenti con il ribaltamento dei mezzi, che andrebbero adeguati o sostituiti, ma la scarsa redditività del settore limita la possibilità di tali investimenti. C’è poi il numero assai limitato di addetti che operano nelle imprese, molti dei quali sono stagionali, il che rende problematica una gestione continuativa dei rapporti. Anche da questo settore, infine, è giunta una richiesta forte di semplificazione burocratica dei vari adempimenti, oltre che una interpretazione più uniforme delle regole e dei controlli, dato che a loro avviso molte disposizioni dell’attuale normativa, spesso studiate per attività complesse, se calate nel mondo agricolo rischiano di creare notevoli difficoltà. D’altra parte, occorre che ci siano risorse più adeguate per il settore e che gli organi di vigilanza siano più attivi nei confronti delle imprese irregolari e non registrate, dove si annida anche il lavoro sommerso, piuttosto che concentrarsi solo sulle imprese già conosciute che rispettano le regole.
La Commissione, nel sottolineare la propria attenzione per le problematiche del mondo agricolo, anche attraverso le iniziative già assunte per favorire l’adeguamento e la messa in sicurezza dei macchinari e delle attrezzature, ha comunque ribadito l’esigenza di rispettare le regole e le procedure poste a tutela della sicurezza del lavoro, ricordando che quello agricolo resta uno dei settori con il più alto numero di infortuni, che coinvolgono spesso proprio i titolari delle aziende.

4.3. Sopralluogo a Rocca Cencia (29 marzo 2011)
Il 29 marzo 2011 una delegazione della Commissione formata dal presidente Tofani e dal senatore Nerozzi si è recata per un sopralluogo presso lo stabilimento di smaltimento e trattamento rifiuti dell’AMA S.p.A., situato a Roma, in località Rocca Cencia. La missione aveva lo scopo di verificare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori addetti, a seguito di alcune segnalazioni fatte alla Commissione dalle organizzazioni sindacali del settore della raccolta, smaltimento e trattamento dei rifiuti del Lazio.
Tali organizzazioni avevano infatti appositamente richiesto un’audizione alla Commissione, che si è tenuta nella seduta del 2 marzo 2011.
Durante l’incontro, le organizzazioni sindacali hanno evidenziato i problemi del ciclo dei rifiuti nel Lazio, legati soprattutto all’adeguatezza degli impianti di raccolta e smaltimento. Hanno quindi espressamente citato il caso dell’AMA S.p.A., l’azienda ambiente del comune di Roma: pur essendo in generale il servizio di protezione e prevenzione molto attivo e registrandosi un basso numero di incidenti, esisteva tuttavia a loro avviso un problema di formazione dei lavoratori a causa dell’avanzamento tecnologico degli impianti e delle accresciute esigenze della raccolta differenziata, per cui necessiterebbero investimenti adeguati e costanti.
Altri problemi segnalati sono stati quelli della formazione e informazione costante dei lavoratori e responsabili delle aziende, per i quali occorrono investimenti idonei, a partire dalla standardizzazione delle dotazioni di sicurezza dei mezzi di raccolta. C’è poi la questione della sorveglianza sanitaria, essenziale per l’elevato rischio di malattie professionali del settore: al riguardo, si sono evidenziate anche talune carenze nei controlli da parte degli enti sanitari competenti, ad esempio contro l’abuso di alcol e stupefacenti.
In merito al problema dell’adeguatezza degli impianti, si è poi richiamato il caso del polo impiantistico di Rocca Cencia, che dovrebbe affiancare nei prossimi anni quello di Malagrotta, ormai saturo. I sindacati hanno evidenziato che l’impianto di Rocca Cencia era ancora inadeguato, perché non si erano fatte tutte le ristrutturazioni necessarie e, in particolare, non si era ancora sostituita la cabina di comando della linea di selezione multimateriale danneggiata lo scorso anno. Inoltre, molti rifiuti erano stoccati a poca distanza dagli spogliatoi dei lavoratori e vi erano dubbi sulle procedure di trasferimento dei rifiuti dall’impianto ad altre province.
Tra gli impianti del Lazio e della zona di Roma in particolare, Rocca Cencia era, secondo i sindacati, in situazione critica, per quanto concerneva ad esempio l’ubicazione degli spogliatoi degli addetti vicino allo stoccaggio dei rifiuti. Occorrono quindi maggiori investimenti nella formazione degli addetti e nella prevenzione, anche alla luce dei cronici problemi che affliggono l’organizzazione del settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti. Ad esempio, nell’audizione si è ricordato il caso degli impianti del Consorzio Gaia, al centro di tormentate vicende gestionali: pur essendo gli impianti stessi adeguati, non era idonea la qualità dei rifiuti conferiti.
Ad una richiesta della Commissione, i sindacati hanno infine precisato di non essere a conoscenza di specifiche segnalazioni fatte dai sindacati agli organismi di controllo (ASL) circa problemi di sicurezza sul lavoro.
La Commissione allora, pur confermando il suo interessamento dinanzi ai problemi denunciati, ha però sollecitato i sindacati a denunciare ai competenti enti di controllo le situazioni più carenti come quella di Rocca Cencia, sia perché la segnalazione consentirebbe agli enti di intervenire in maniera tempestiva, sia perché sulla tutela della sicurezza dei lavoratori tutti devono fare la loro parte, a cominciare dai sindacati.
I rappresentanti sindacali hanno peraltro evidenziato come problemi sotto i profili della sicurezza sul lavoro si riscontrino in molti impianti di trattamento dei rifiuti del Lazio gestiti dall’AMA. Ad esempio, nell’impianto di Laurentina-Pomezia si erano avuti vari incidenti dei mezzi di trasporto, per l’intenso traffico dei camion che trasportano a impianti privati i rifiuti che l’impianto non riesce a smaltire. In merito a Rocca Cencia, purtroppo i problemi erano, a loro avviso, destinati a protrarsi a lungo: per riparare la linea di selezione multimateriale, danneggiata dallo scorso giugno, sarebbe occorso infatti procedere a una complessa gara europea ad evidenza pubblica. Circa la mancata denuncia alle ASL di talune situazioni, c’era stata certamente una sottovalutazione. D’altra parte l’AMA, che ha in genere un corretto rapporto con i sindacati, aveva sempre fornito assicurazioni di interventi solleciti. La mancata soluzione dei problemi aveva però spinto a chiedere l’interessamento della Commissione.
Per dare seguito alla segnalazione delle organizzazioni sindacali, la Commissione ha dunque svolto (alla presenza dei vertici dell’azienda AMA S.p.A.) il sopralluogo nell’impianto di Rocca Cencia, nel corso del quale sono emerse una serie di situazioni problematiche ritenute meritevoli di approfondimento. Anzitutto, si è verificato che gli spogliatoi dei dipendenti, in attesa del completamento di nuovi locali in muratura, si trovavano all’interno di una struttura prefabbricata, a distanza ravvicinata rispetto alle due linee di attività dell’impianto.
Il polo impiantistico di Rocca Cencia, avviato nel 2006, comprende infatti due linee di lavorazione: la prima è quella di selezione e trattamento dei rifiuti indifferenziati, che consente la separazione della frazione secca a elevato potere calorifico, che viene trasformata in combustibile da rifiuti (CDR), destinato al recupero energetico, in impianti di termovalorizzazione (in particolare quello di Colleferro). La rimanente frazione umida viene trattata per la produzione della frazione organica stabilizzata (FOS), utilizzabile per la ricopertura delle discariche. Questa linea è in grado di trattare fino a 750 tonnellate al giorno di rifiuti. La seconda linea di lavorazione è quella di selezione multimateriale della raccolta differenziata, che consente la separazione delle frazioni presenti nel multimateriale raccolto in forma differenziata (imballaggi in plastica, vetro, alluminio e banda stagnata), che vengono selezionate per essere avviate alle piattaforme dei consorzi di filiera per il riciclo. La capacità complessiva di trattamento arriva fino a 100 tonnellate al giorno di materiali15. Purtroppo, come era stato già segnalato dai sindacati, al momento della visita della Commissione questa seconda linea era ferma, a causa di un guasto alla cabina di controllo. Di conseguenza, i materiali della raccolta differenziata conferiti a Rocca Cencia (provenienti essenzialmente dal quadrante nord-est di Roma) non venivano lavorati presso l’impianto, ma permanevano solo per breve tempo per essere successivamente avviati a impianti secondari.
La Commissione ha riscontrato che la struttura prefabbricata degli spogliatoi era ad una distanza troppo ravvicinata rispetto alle linee di lavorazione: specie quando l’impianto lavorava a pieno regime, si potevano creare rischi concreti per la salute dei lavoratori, anche in relazione alle emissioni nocive che necessariamente si determinano in questi ambienti.
Inoltre, ad un primo esame i locali del prefabbricato non sono parsi dotati di adeguati sistemi di filtraggio e di ventilazione, il che certamente poneva ulteriori problemi. Peraltro, occorre dire che la superficie dello stabilimento di Rocca Cencia è molto ampia, e quindi è stata evidenziata ai rappresentanti dell’azienda l’opportunità di valutare un possibile spostamento degli spogliatoi in un’altra posizione più idonea.
L’altro aspetto che ha richiamato l’attenzione della delegazione è stata poi la struttura dei portelloni attraverso i quali i camion della nettezza urbana scaricano i rifiuti indifferenziati nella zona di lavorazione.
I portelli sono situati su banchine esterne in posizione rialzata di diversi metri rispetto al piano interno dove sono scaricati i rifiuti. I camion arrivano sulle banchine e, manovrando a marcia indietro, si affacciano dai portelloni sversando poi i rifiuti nel deposito sottostante. Il problema rilevato era il fatto che sul ciglio dei portelloni vi fossero dei semplici cordoli in cemento molto bassi a fungere da battiruota per i camion e quindi il timore che potessero costituire una barriera insufficiente per impedire eventuali slittamenti dei mezzi verso il dislivello sottostante. Anche su questo aspetto la Commissione ha naturalmente richiamato l’attenzione dei vertici dell’AMA, che hanno assicurato la loro collaborazione.
Contemporaneamente, la Commissione ha riferito le segnalazioni delle organizzazioni sindacali al Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL) dell’Azienda ASL Roma B, competente per territorio, che ha proceduto a un primo sopralluogo in data 1º aprile 2011. Nella seduta del 5 aprile 2011, la Commissione ha quindi audito i funzionari dello SPRESAL in merito ai risultati dei primi accertamenti effettuati.
La direttrice del Servizio, dottoressa Giuseppina Bosco, ha anzitutto illustrato sinteticamente i controlli effettuati in passato nello stabilimento di Rocca Cencia, evidenziando come le ormai croniche carenze di personale ispettivo condizionino molto l’attività ispettiva. Un altro funzionario dello SPRESAL, il dottor Fabio Pagani, ha precisato al riguardo che erano in corso di acquisizione i documenti relativi ai precedenti controlli, dei quali pertanto ancora non conoscevano i dettagli. In merito al sopralluogo del 1º aprile, ha quindi riferito sullo stato dei luoghi visitati, con particolare riguardo agli spogliatoi dei dipendenti e alle strutture della banchina di scarico dei camion che conferiscono i rifiuti, che erano due degli aspetti critici segnalati e per i quali erano in corso ulteriori approfondimenti.
Peraltro, la Commissione ha dovuto rilevare che, in base alla descrizione effettuata, gli spogliatoi visitati dai tecnici dello SPRESAL non sembravano essere gli stessi per i quali erano stati rilevati dei problemi di salubrità da parte dei sindacati e che la Commissione aveva visto nel suo sopralluogo. Tale circostanza è stata confermata dall’altro tecnico dello SPRESAL che aveva partecipato al sopralluogo, il dottor Gianfranco Rischia, che ha comunque evidenziato che la visita del 1º aprile aveva carattere solo preliminare e sarebbe stata a breve seguita da altri controlli, nei quali si sarebbe fatta una verifica completa, tenendo conto anche delle indicazioni della Commissione.
La dottoressa Bosco ha fatto poi presente che il territorio di competenza della ASL RM B è particolarmente esteso e comprende oltre 20.000 aziende. Pur nel rispetto degli obiettivi annuali di controllo, riesce difficile effettuare un monitoraggio costante di tutte queste realtà produttive, per le già ricordate carenze di personale e di risorse finanziarie. Inoltre, l’impianto dell’AMA di Rocca Cencia si è molto sviluppato negli ultimi anni e avrebbe richiesto una verifica complessa.
Infine, è intervenuto il dottor Marco di Basilio, esperto in tecnologia e smaltimento rifiuti del Dipartimento tecnologie di sicurezza dell’INAIL (ex ISPESL), che ha fornito chiarimenti sulle norme tecniche vigenti per gli impianti di smaltimento rifiuti, in relazione alle criticità segnalate dalla Commissione.
La Commissione ha sollecitato quindi i funzionari auditi a fornire quanto prima, ciascuno per la propria competenza, notizie sui risultati delle verifiche condotte e sugli eventuali provvedimenti adottati per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori addetti all’impianto di Rocca Cencia. I funzionari hanno successivamente provveduto, una volta espletate le necessarie verifiche: in particolare, per quanto riguarda il problema dei cordoli battiruota posti allo sbocco dei portelloni di scarico, è stato precisato che gli stessi non hanno tanto una funzione di trattenuta fisica dei mezzi, quanto piuttosto di avviso per indicare il raggiungimento della posizione finale per lo scarico mentre procedono a marcia indietro. I camion, infatti, sono provvisti di propri sistemi di sicurezza per l’ancoraggio e il blocco ruote mentre effettuano lo scarico. Il movimento di avvicinamento ai portelloni, inoltre, deve avvenire a velocità ridotta e rispettando le apposite sagome d’ingombro indicate sul terreno.
Più complesso invece il discorso degli spogliatoi dei dipendenti: lo SPRESAL ha effettivamente riscontrato una serie di carenze, anche sul fronte dei sistemi di filtraggio dell’aria e delle relative emissioni, per le quali ha comminato le relative sanzioni e imposto l’adozione di provvedimenti specifici atti a rimuovere il problema, sistemando gli spogliatoi in locali più idonei.
Gli ulteriori sviluppi della vicenda esulano naturalmente dall’inchiesta della Commissione e rientrano nella competenza degli organi di vigilanza preposti. Il caso è comunque emblematico dei problemi che possono determinarsi nel comparto della raccolta e smaltimento dei rifiuti e della necessità, ai fini della loro risoluzione, di una concreta cooperazione fra tutte le istituzioni e le parti sociali coinvolte.

4.4. Sopralluogo a Trento (17-18-19 aprile 2011)
Dal 17 al 19 aprile 2011, una delegazione della Commissione composta dal presidente Tofani e dai senatori Maraventano e Nerozzi ha svolto un sopralluogo a Trento, sempre nel quadro del percorso di approfondimento sul processo di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 nelle Regioni italiane. La missione rivestiva in questo caso particolare interesse anche in considerazione dello speciale regime di autonomia che contraddistingue la regione Trentino-Alto Adige e, segnatamente, le province autonome di Trento e di Bolzano, cui spettano, nei rispettivi territori, molte delle attribuzioni riservate altrove alla competenza statale e regionale, comprese naturalmente quelle in materia di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali.
Tale aspetto crea un particolare livello di complessità, posto che le due Province sono sostanzialmente indipendenti l’una dall’altra anche per quanto concerne le politiche della sicurezza sul lavoro: ciò da un lato fa sì che vi sia uno scarso coordinamento tra le due realtà, dall’altro ha portato anche a scelte organizzative in parte diverse nei modelli di gestione.
A ciò si aggiungono poi nella provincia di Bolzano le esigenze legate al bilinguismo, che impongono una ulteriore serie di complessità.
I primi incontri sono stati quelli con i prefetti di Trento e Bolzano. Il prefetto di Trento ha anzitutto messo in evidenza che, nel Trentino, la legislazione provinciale è stata rinnovata negli anni ed è stata integrata con una serie di norme, che mostrano un’attenzione sempre più spinta verso la tutela della salute dei lavoratori. In particolare, un ruolo fondamentale in questa materia viene svolto dall’assessorato alla sanità, con i suoi uffici e le sue branche. L’attenzione è molto alta e le politiche di prevenzione molto attive. Chiaramente, gli organi che nelle altre realtà regionali sono statali nelle due Province autonome sono quasi tutti provinciali:
Ad esempio, nelle altre regioni l’Ispettorato del lavoro opera con l’ausilio di un nucleo di Carabinieri, mentre in Trentino-Alto Adige ciò non accade: i Carabinieri vengono chiamati di volta in volta, quando si tratta di fare delle ispezioni, ma senza la consuetudine organica prevista a livello nazionale.
Negli ultimi anni gli infortuni sul lavoro in provincia di Trento sono decisamente in calo, anche se ci sono ancora dei settori esposti, in particolare il mondo dell’agricoltura. Anzitutto per la configurazione montuosa del territorio, che pone ovviamente rischi assai maggiori rispetto a quelli presenti nei territori in cui l’attività agricola si effettua prevalentemente in pianura. C’è poi il fenomeno della presenza di motrici agricole, carrozzate come furgoni, che sono spesso molto vecchie e che la normativa attuale non è riuscita ancora a regolarizzare, anche perché, in certi casi, l’adozione dei dispositivi rollbar e delle altre misure di sicurezza non è praticabile, perché tali dispositivi non riescono a coprire la sagoma del mezzo.
Inoltre l’età media degli agricoltori, soprattutto di quelli indipendenti e dei cosiddetti hobbisti, è molto alta e ciò, unito alla difficoltà dei luoghi, porta purtroppo ad un alto numero di incidenti che accadono in montagna. A parte il settore agricolo, gli infortuni si verificano soprattutto nel comparto dell’edilizia e nelle aziende artigiane, che costituiscono la struttura portante del tessuto economico della provincia, mentre sono molto inferiori nelle aziende industriali, che non hanno grandissime dimensioni. Gli infortuni sono più numerosi nelle aziende piccole che in quelle più grandi, con un maggior numero di dipendenti.
Il prefetto di Bolzano ha precisato poi che, a fronte della legislazione nazionale, la provincia di Bolzano interviene, considerate le specificità locali, con finanziamenti e programmi ad hoc, nonché regolando l’attività degli addetti ai lavori, ovvero gli uffici provinciali competenti e gli esperti privati. Base dell’attività di prevenzione degli incidenti sul lavoro è la deliberazione della Giunta provinciale n. 1111 dell’8 aprile 2002, intitolata «Piano provinciale sicurezza, salute ed igiene nei luoghi di lavoro». Il Piano riguarda la tutela sociale del lavoro e l’emersione del lavoro sommerso.
Esso contiene i dati statistici raffrontati ai dati delle altre Regioni e degli altri Paesi europei e prevede la definizione delle attività nel settore, al fine di favorire la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la tutela sociale del lavoro e l’emersione del lavoro nero. Vengono così definite priorità, obiettivi, azioni, vigilanza e monitoraggio.
Il piano stabilisce anche i relativi campi di azione nonché i soggetti competenti, pubblici e privati, e le loro sedi di raccordo: Comitato provinciale di coordinamento in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, Commissione provinciale impiego e Osservatorio INPS sul lavoro irregolare.
Tra i temi specifici segnalati dal prefetto di Bolzano, vi è il fatto che in molti settori economici, ad esempio, risulta ancora insufficiente l’operato dei comitati paritetici tra le parti sociali: quello che effettivamente funziona meglio è, per adesso, il Comitato paritetico edile che, utilizzando una possibilità prevista dal testo unico, intenderebbe proporsi come partner dell’assessorato al lavoro della provincia per effettuare i controlli preventivi sulla sicurezza nei cantieri. Si tratterebbe di suddividere le visite tra i 13 ispettori provinciali e gli esperti del Comitato (fra i 10 e i 15), per accrescere il numero dei controlli, attualmente del tutto insufficienti.
Inoltre, i sindacati lamentano l’inerzia del Comitato di coordinamento, la ridotta capacità di coercizione della provincia in materia, rispetto agli standard nazionali, la mancanza di formazione del personale nelle aziende e la necessità di sinergia tra istituzioni e parti sociali. Anche il direttore dell’INAIL concorda sulla rilevanza della possibilità di riconoscere e catalogare le malattie professionali, nonché del settore della prevenzione, della formazione e della gestione della sicurezza, attuando importanti iniziative ad esempio in agricoltura e nel commercio con le rispettive associazioni.
Per quel che riguarda le forze dell’ordine, posto che né in provincia di Bolzano né in provincia di Trento esiste il Nucleo dei Carabinieri per la tutela del lavoro, il Comando provinciale dell’Arma svolge comunque un’attività sussidiaria agli ispettori provinciali. Gli incidenti avvengono prevalentemente in agricoltura, a causa come già detto dell’utilizzo di trattori privi di rollbar su pendii scoscesi: l’agricoltura registra la metà degli infortuni mortali e tra il 2010 e il 2011 ha avuto purtroppo un incremento.
Si verificano incidenti anche nel settore dell’edilizia, derivanti da caduta dall’alto, dallo schiacciamento da carichi sospesi o da folgorazione. Nel settore dell’industria e dell’artigianato sono più frequenti gli infortuni provocati da caduta dall’alto per la mancanza di imbracature, per l’impiego non idoneo di mezzi di sollevamento o per attrezzature non adeguate.
Una specifica casistica deriva dall’utilizzo non corretto di macchine, quali seghe circolari e fresatrici. Sia a Trento sia a Bolzano è infatti molto presente l’industria del legno: si tratta generalmente di medie industrie e, purtroppo, incidenti di questo tipo non sono rari
Il prefetto di Bolzano ha poi citato un recente sondaggio dell’ASTAT, l’Istituto provinciale di statistica, da cui emerge come, col trascorrere del tempo, alcuni dei principali istituti introdotti dalla normativa per la sicurezza sui luoghi di lavoro vengano sempre meno percepiti come indispensabili: tra il 2000 e il 2004, infatti, si è ridotto il numero delle aziende (dall’80 per cento al 55 per cento) che dispongono di un servizio di prevenzione e protezione aziendale e che effettuano una valutazione dei rischi. È cioè subentrata una sorta di assuefazione rispetto alla normativa, con una tendenza a ignorare i vari obblighi. Per quanto concerne il lavoro in nero, secondo i dati della Guardia di finanza in provincia di Bolzano nel 2008 risultavano 241 casi, nel 2009 330 e nel 2010 773, con un aumento percentuale del 134 per cento. I lavoratori irregolari scoperti erano 382 nel 2008, 530 nel 2009 e 340 nel 2010. Il totale delle posizioni non in regola, come dato complessivo, è nettamente in crescita: 623 nel 2008, 860 nel 2009, con un aumento pari al 38 per cento, e 1.113 nel 2010, con un aumento pari al 30 per cento. Si tratta per lo più di lavoratori stranieri, mentre non sono stati segnalati casi di minori.
Nell’audizione con i rappresentanti della magistratura, sono state segnalate delle criticità legate all’applicazione della normativa del testo unico in relazione al mondo agricolo. Il primo problema riguarda la Procura di Trento ma è stato condiviso anche da quella di Bolzano: gli uffici ispettivi dell’azienda sanitaria di Trento, con una particolare interpretazione del testo unico, hanno ritenuto che la normativa di cui all’articolo 21 non risulti applicabile alla categoria dei coltivatori diretti (il mondo agricolo trentino è composto di numerose aziende unifamiliari). Tale lettura, secondo i magistrati del tutto impropria, si rifà a una interpretazione del concetto di coltivatore diretto derivata dal codice civile e da altre normative che, a tutt’altri fini, distinguono l’imprenditore agricolo dal piccolo coltivatore. È un contenzioso di rilievo, anzitutto poiché nelle statistiche provinciali gli incidenti (anche gravissimi o mortali) che coinvolgono i piccoli coltivatori e i coltivatori diretti non sarebbero conteggiati come infortuni sul lavoro. Inoltre, da questa lettura si vorrebbero far derivare conseguenze anche sulla normativa prevenzionistica, che non si applicherebbe ai coltivatori agricoli. L’altra criticità segnalata riguarda le difficoltà che si incontrano nell’applicare alle fattispecie colpose tipiche dell’infortunistica sul lavoro una normativa pensata in origine per una serie di fattispecie dolose, con particolare riferimento alle norme parzialmente ricollegate al testo unico, che a sua volta richiama esplicitamente il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa degli enti.
Per quanto riguarda l’attività di vigilanza essa è piuttosto intensa nel Trentino, dove le procure di Trento e di Rovereto riescono a monitorare quasi tutti gli infortuni sul lavoro che si verificano in quella realtà, anche grazie alla piena collaborazione da parte dell’INAIL, delle strutture ospedaliere e dei medici competenti, che hanno dato una buona risposta da questo punto di vista.
Sotto il profilo organizzativo, mentre la procura di Trento ha un unico servizio che si occupa sia degli infortuni sul lavoro che dell’attività di prevenzione degli stessi e delle malattie professionali, la procura di Bolzano ha invece tre uffici distinti, per la medicina sul lavoro, la vigilanza sui luoghi di lavoro e la ricostruzione degli infortuni sul lavoro. Il sostituto procuratore di Bolzano ha evidenziato una certa carenza di personale per il settore della ricostruzione degli infortuni e per quello della vigilanza, dove vi sono solo sei ispettori che devono occuparsi di controllare tutta la provincia. A ciò si è ovviato coinvolgendo a partire dal 2004 l’Arma dei Carabinieri, capillarmente diffusa sul territorio, richiamando l’attenzione soprattutto sui rischi legati al settore della cantieristica, che è quello nel quale in provincia di Bolzano si registra il maggior numero di morti sul lavoro, perlopiù a seguito di cadute dall’alto. Lo stesso tipo di problema si registra nel settore dell’agricoltura, dove occorrono strategie mirate, se si considera che nel 2010 si sono verificati almeno quattro incidenti mortali che hanno visto coinvolti degli agricoltori schiacciati dai trattori.
Anche la procura di Bolzano ha confermato il problema dell’applicabilità del decreto legislativo n. 231 del 2001, laddove, a fronte di una scelta organizzativa del datore di lavoro, solo qualora si possa effettivamente ravvisare un vantaggio oggettivo (ad esempio un risparmio) e quindi la decisione consapevole di privilegiare gli interessi dell’impresa rispetto alle necessità della prevenzione degli infortuni, è possibile esercitare l’azione penale anche nei confronti dell’ente. Il decreto legislativo n. 231 del 2001, si rivela quindi essere abbastanza limitativo o limitato nella sua applicabilità. Ancora, è stata evidenziata la necessità di una modifica dell’articolo 19, che disciplina le responsabilità del preposto: poiché l’attuale formulazione della norma, rispetto al vecchio decreto legislativo n. 626 del 1994, non lascia alcuno spazio organizzativo al preposto, anche ove l’infortunio sul lavoro fosse da ricondurre a scelte sbagliate di costui, in mancanza di una disposizione ad hoc diventerebbe difficile contestargli uno specifico reato di tipo prevenzionale.
La Direzione provinciale dell’INAIL di Trento ha poi confermato che anche in quella provincia si registra una decrescita degli infortuni, così come avviene a livello nazionale. C’è poi una componente di infortuni legata all’agricoltura, così come in tutto il territorio regionale. I dati relativi agli infortuni mortali hanno un andamento altalenante: negli ultimi cinque anni si sono avute anche punte di 17 infortuni mortali. Nel 2010 il dato è stato fortunatamente più basso, con 10 infortuni mortali. Per quanto riguarda gli infortuni in agricoltura non c’è stato un aumento nel 2010, mentre nel 2009 si sono verificati dei casi mortali legati al ribaltamento dei trattori, specie per i cosiddetti agricoltori di seconda, ovvero coloro la cui attività lavorativa principale è differente da quella agricola e che coltivano terreni di proprietà. Da quando è operativo il Fondo di sostegno per i familiari delle vittime di gravi infortuni sul lavoro (che viene gestito dall’INAIL per conto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a partire dal decreto legislativo n. 81 del 2008) vengono peraltro censiti anche i soggetti non tutelati assicurativamente dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124.
Per gli infortuni in agricoltura c’è una differenza tra la provincia di Bolzano e quella di Trento, perché la quota degli occupati in agricoltura in Alto Adige (dipendenti e autonomi) è molto più alta che in Trentino, aggirandosi intorno al 7 per cento, con un aumento rilevante negli ultimi anni. Contestualmente in provincia di Bolzano, pur mantenendosi molto alto il tasso di incidenza degli infortuni in agricoltura, non c’è una correlazione strettissima, mentre per gli infortuni mortali ci sono punte più elevate.
Ad esempio, nel 2010 si sono avuti 13 morti solo nel settore dell’agricoltura. Erano tutti lavoratori autonomi (quindi non lavoratori dipendenti) e gli incidenti sono stati connessi a lavori di deforestazione, cioè al taglio della legna, o all’utilizzo di macchine agricole su terreni scoscesi.
L’INAIL ha quindi illustrato tutte le varie iniziative di prevenzione dedicate a questo grave fenomeno, come una serie di filmati didattici, realizzate d’intesa con tutti i soggetti pubblici e privati interessati. È stato inoltre confermato l’effetto penalizzante del vincolo del «de minimis» in agricoltura, laddove impedisce alle imprese agricole di accedere ai (pur limitati) fondi per investimenti in sicurezza messi a disposizione dall’Istituto.
Gli uffici del lavoro a Bolzano rientrano nella Ripartizione 19 lavoro della provincia autonoma e, ad eccezione della medicina del lavoro, assorbono anche la competenza per la sicurezza sul lavoro e la tutela tecnica, che altrove (inclusa la provincia autonoma di Trento) spetta alle aziende sanitarie locali. L’attività si è incentrata soprattutto sui controlli e sulle ispezioni sul lavoro, nonché su quattro rischi fondamentali (cadute dall’alto, seppellimento, elettrocuzione e movimentazione meccanica dei carichi).
Nel 2010, superando di gran lunga gli obiettivi fissati a livello nazionale (632 ispezioni, sia per Trento che per Bolzano), sono stati controllati 1.182 cantieri edili, 152 aziende fisse e 1.334 luoghi di lavoro. Le penalità comminate e le comunicazioni di notizie di reato alla Procura della Repubblica sono state 563, quindi circa la metà. Al riguardo, il Direttore dell’ufficio provinciale di Bolzano ha ravvisato la necessità di una forte semplificazione degli adempimenti burocratici fissati dalle norme vigenti, talvolta eccessivi, in favore di un approccio più sostanziale alla sicurezza, anche attraverso l’informazione e la consulenza diretta ai lavoratori e ai datori di lavoro. Sono inoltre operati controlli congiunti con l’Arma dei Carabinieri, i cui comandanti di stazione sono periodicamente formati.
Per l’agricoltura si è poi parlato del sistema «Sentinel», un piccolo dispositivo montato sulla macchina agricola, che fa scattare l’allarme quando la situazione diventa pericolosa. Occorre però un contributo pubblico per aiutare gli agricoltori ad acquistarlo.
Sono state poi formulate una serie di proposte specifiche per la semplificazione degli adempimenti, ad esempio per quanto riguarda la documentazione attestante la formazione dei lavoratori, che secondo l’ufficio del lavoro di Bolzano potrebbe essere tenuta in azienda anziché presso il cantiere edile. Si è altresì suggerito di limitare l’obbligo del DURC (documento unico di regolarità contributiva) solo a partire da lavori di una certa entità (ad esempio, dai 10.000 euro in su) e si è sollecitata l’elaborazione, da parte della Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro, della procedura standardizzata per la valutazione dei rischi, per semplificare l’adempimento per le imprese fino a 50 dipendenti.
Al riguardo la Commissione, nel recepire le indicazioni e le proposte avanzate dalla Ripartizione 19 lavoro di Bolzano, ha però sottolineato l’esigenza che l’attività di informazione e consulenza alle imprese non si sovrapponga a quella ispettiva e di controllo, trattandosi di funzioni ben distinte e per certi aspetti confliggenti che non possono essere svolte dai medesimi organi. Viceversa, è senz’altro auspicabile che tale ruolo di consulenza possa essere svolto da altri organismi, quali i comitati paritetici territoriali.
Il direttore dell’Unità operativa prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro dell’Azienda sanitaria provinciale di Trento ha a sua volta chiarito come all’azienda sanitaria provinciale siano assegnati gli aspetti relativi alla sicurezza e all’igiene sul lavoro, mentre le altre competenze spettano al Servizio lavoro della provincia autonoma di Trento, ad eccezione di quelle della normativa antincendio e delle cave e del settore estrattivo.
Trento si sta progressivamente avvicinando all’obiettivo dei 630 cantieri: nel 2010 ne sono stati ispezionati 529. Per quanto riguarda specificamente l’attività di vigilanza, sono stati redatti più di 600 verbali nel corso di oltre 500 ispezioni: le violazioni più frequenti sono relative alla documentazione, mentre le più gravi sono riconducibili alle tre priorità del minimo etico di sicurezza (numerose sono, ad esempio, le cadute dall’alto). C’è dunque ancora la necessità di migliorare le condizioni di sicurezza nei cantieri. Accanto al piano edilizia, c’è poi il piano dei controlli: nel 2010 sono state ispezionate circa 1.100 aziende, avvicinandosi così all’obiettivo fissato di 1.200. Sono infine stati ricordati i programmi di prevenzione svolti in agricoltura, a favore degli agricoltori e della messa in sicurezza delle macchine agricole, nonché gli interventi per la sicurezza e l’igiene del lavoro nell’ambito delle cave e delle miniere, che abbraccia circa 200 attività in provincia di Trento e che nel periodo 1994-2010 ha visto fortunatamente un netto calo degli infortuni (da 139 a 18), superiore in proporzione anche alla riduzione degli occupati (passata da 1.433 a 937).
Per quanto riguarda il Servizio lavoro della provincia di Trento, esso corrisponde alla Ripartizione lavoro della provincia di Bolzano, con la differenza che quest’ultima assorbe anche le competenze della gestione della sicurezza sul lavoro, mentre nel Servizio lavoro di Trento vi sono solo quelle relative alla vigilanza sui rapporti di lavoro, spettando le competenze in materia di salute e sicurezza in gran parte all’azienda sanitaria, con le eccezioni già viste per l’antincendio e il settore minerario. In relazione dunque alle funzioni specifiche del Servizio lavoro di Trento, il direttore si è soffermato sul fenomeno del lavoro sommerso: grazie anche a una banca dati sulle attività di vigilanza (caso forse unico a livello nazionale), si è visto come nel corso del 2010 sul totale delle aziende ispezionate in circa il 12 per cento sia stato riscontrato personale non in regola.
Nell’ambito della vigilanza programmata, particolare attenzione nell’ultimo decennio è stata dedicata ai settori dell’edilizia e del turismo, i più esposti in Trentino al fenomeno del lavoro irregolare. Altri settori vigilati sono poi quelli dell’industria e dei servizi, con particolare riguardo alle attività esternalizzate come la logistica. Anche l’industria del legno e l’agricoltura sono stati oggetto, nei decenni passati, di grande attenzione. Il settore agricolo ha visto un progressivo aumento della regolarizzazione della manodopera stagionale, formata per lo più di stranieri, anche grazie al fatto che il rilascio dei nulla osta all’ingresso è ugualmente di competenza della provincia.
Il Servizio lavoro di Trento ha altresì segnalato un fenomeno correlato al lavoro nero al quale si sta assistendo negli ultimi anni, a livello provinciale e nazionale: la dissociazione progressiva tra titolarità dei rapporti di lavoro e utilizzazione delle prestazioni, attraverso l’esplosione di schemi contrattuali (legali e illegali) che consentono di avere collaboratori senza che questi siano dipendenti dell’azienda. Soprattutto in edilizia, il fenomeno del prestito della manodopera tende ad essere molto diffuso; anche nel settore terziario, però, vi è un ricorso sempre più importante al lavoro somministrato di lavoratori stranieri, soprattutto nel comparto turistico e alberghiero, dove agiscono agenzie estere. La crescente diffusione di questo schema di dissociazione porta ad un minore investimento delle aziende anche sul versante della sicurezza.
Per quanto l’attività di coordinamento tra le province autonome, i rappresentanti degli uffici intervenuti hanno sottolineato che i due enti sono autonomi e pertanto agiscono in maniera indipendente, anche se vi sono comunque incontri durante l’anno, per scambiarsi idee e concordare insieme qualche intervento. In merito al comitato di coordinamento, istituito in entrambe le province, si è evidenziato che la cadenza trimestrale delle riunioni prevista dalla legge nazionale non è obbligatoria, né per la provincia autonoma di Bolzano né per quella di Trento, rientrando nel potere ordinamentale delle due province. D’altra parte, soprattutto i rappresentanti della provincia di Bolzano hanno attribuito un’importanza relativa al comitato di coordinamento, considerando l’esistenza di vari gruppi di lavoro settoriali che si occupano dei temi della sicurezza e il fatto che nella provincia autonoma di Bolzano la maggioranza degli uffici è già coordinata dalla Ripartizione lavoro.
Il comandante dei Vigili del fuoco di Trento, nella sua esposizione, ha segnalato le limitate competenze in materia di sicurezza sul lavoro, soffermandosi poi sull’attività svolta dalla scuola provinciale antincendi che fa capo al Comando provinciale dei Vigili del fuoco. La scuola mira a formare Vigili del fuoco permanenti e (in misura minore) volontari, impiegando docenti per lo più esterni e Vigili del fuoco volontari, e a svolgere i concorsi previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Nel solo 2010 la scuola ha svolto circa 112 corsi contro il rischio incendio di tipo basso, medio ed elevato, per circa 2.800 discenti, e ha tenuto 23 corsi per accertamenti di unità tecnica addetti antincendi, per un totale di 1.000 addetti.
A partire dal 2008, inoltre, come risposta contro l’alto numero di infortuni in agricoltura, attraverso la scuola si è dato avvio ai corsi per la guida in sicurezza dei mezzi agricoli. Si è partiti con circa 100 discenti e il numero andrà in seguito ad aumentare. Altri corsi riguardano poi l’uso di macchinari e attrezzi da lavoro particolari, come motoslitte, motoseghe, ecc.
Per la provincia di Bolzano, il comandante dei Vigili del fuoco ha evidenziato che la prevenzione incendi ha una regolamentazione differente rispetto al resto del territorio nazionale, perché il servizio antincendio vede una forte partecipazione di volontari che porta ad avere una presenza capillare di Vigili del fuoco su tutto il territorio (in tutta la provincia, su 480.000 abitanti, vi sono ben 13.000 Vigili del fuoco tra permanenti e volontari).
Ciò comporta innanzitutto una notevole riduzione dei tempi di intervento: non appena un incidente si verifica, infatti, i Vigili del fuoco intervengono in tempi davvero rapidissimi, nell’ordine di 8-10 minuti, anche nelle frazioni più distanti dai maggiori centri abitati. Vi sono circa 14.000 interventi, cioè più o meno un intervento ogni 34 abitanti.
Con riferimento al discorso della prevenzione degli incendi, a differenza di quanto accade nel resto d’Italia, la competenza in materia di controlli non è demandata ai Vigili del fuoco (per cui il comandante provinciale rilascia il certificato di prevenzione incendi), ma a dei liberi professionisti che sono delegati sia al progetto antincendio, che al successivo collaudo, analogamente a quanto accade nel settore della statica o in altri ambienti in cui vengono progettate delle opere. La provincia stessa effettua poi dei controlli a campione, sia sui progetti che sui collaudi, per verificare l’operato dei professionisti. Un ulteriore cenno si è fatto infine alle attività a rischio di incidente rilevante, segnalando che per quelle più rischiose i piani di emergenza esterni sono già stati predisposti alcuni anni fa, mentre per quelle meno pericolose si procederà nel 2011.
Il comandante della Legione dei Carabinieri del Trentino Alto-Adige, dopo aver ricordato la capillare presenza sul territorio, con 156 stazioni e 15 comandi di compagnia, ha precisato che, pur non essendovi nella Regione un Nucleo tutela del lavoro come nel resto d’Italia, i Carabinieri sono però ugualmente attivi in questo settore. Quando interviene su segnalazione o di sua iniziativa, per violazioni di carattere penale, l’Arma rapporta all’Autorità giudiziaria, che demanda per le relative contestazioni agli ispettori provinciali. Per quanto concerne invece le violazioni amministrative, l’Arma riferisce direttamente agli ispettori provinciali (per la provincia di Bolzano la Ripartizione 19 lavoro e per quella di Trento l’Unità operativa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro). Nel 2010 a livello regionale i Carabinieri hanno svolto 520 controlli, di cui 426 in provincia di Bolzano e 94 in provincia di Trento; hanno effettuato 225 interventi per infortuni sul lavoro (139 in provincia di Bolzano e 86 in quella di Trento), con 199 feriti, tra cui 18 decessi. Sono inoltre state deferite all’autorità giudiziaria 162 persone, per violazioni varie, quelle preminenti hanno riguardato il mancato utilizzo di protezioni individuali, ponteggi ed opere provvisionali, nonché la mancata verifica delle disposizioni del coordinatore della sicurezza. Molto forte è comunque la collaborazione sia con la magistratura che con gli ispettorati provinciali.
Nel corso dell’audizione dei sindacati, i rappresentanti delle organizzazioni dell’Alto Adige hanno lamentato come la competenza su tutte le questioni attinenti alla sicurezza delegata dalle norme di attuazione dello Statuto alla provincia autonoma di Bolzano non abbia prodotto i risultati attesi. Ogni anno si registrano in provincia circa 17.000 infortuni, alcuni molto gravi o mortali, che sono cresciuti nonostante la diminuzione degli occupati. I sindacati hanno quindi chiesto il potenziamento delle attività di prevenzione, posto l’insufficiente numero di ispettori, soltanto 13 rispetto a una provincia che ha una struttura produttiva molto parcellizzata, con una media di 3,3 dipendenti per impresa. Particolare preoccupazione si è espressa per gli infortuni in agricoltura, in particolare quelli mortali, causati dai mezzi agricoli. Ancora, si è accusata la provincia di aver sostanzialmente ostacolato il comitato provinciale di coordinamento previsto dal testo unico: costituito solo alla fine del 2008, tra il 2009 e il 2011 si è riunito solo tre volte, pur essendo uno strumento fondamentale per l’indirizzo e il coordinamento in materia di prevenzione.
Altri temi sollevati sono stati quello della formazione e della prevenzione, a favore dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Ancora, i sindacati hanno sottolineato con forza il problema delle malattie professionali, che ritengono sottovalutato nella loro provincia. I casi denunciati ogni anno sono circa 200: dunque, sia da parte dell’INAIL sia nel rapporto con i patronati sindacali, serve un maggiore coordinamento. Lo stesso discorso va fatto rispetto al medico di fiducia e al medico competente. Ciò si lega al tema dei lavoratori esposti all’amianto, molti dei quali per questioni burocratiche non sono stati ammessi ai benefici di legge e alla sorveglianza sanitaria. D’altra parte, manca ancora nella regione Trentino-Alto Adige un censimento sulla presenza di amianto e le operazioni di bonifica e smaltimento sono molto limitate. Infine, si è lamentata la difficoltà di dialogare con le piccole imprese (la maggior parte di quello operanti in provincia) sui temi della sicurezza, chiedendo una maggiore diffusione a tal fine della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST) di cui all’articolo 48 del testo unico, che potrebbe aiutare molto in tal senso. Ancora, posto che i datori di lavoro in queste piccole o piccolissime realtà aziendali assommano molti dei ruoli previsti dal testo unico in tema di sicurezza, essi dovrebbero essere adeguatamente formati e magari iscritti a tal fine in un apposito registro tenuto dall’INAIL.
Occorrerebbe in definitiva un’unica regia delle competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attualmente ripartite su tre diversi assessorati provinciali: lavoro, ambiente e sanità. Ciò rende difficile anche il coordinamento delle attività di formazione, ostacolate anche dalla polverizzazione dei soggetti imprenditoriali, molti dei quali lavoratori autonomi.
Altri elementi di ostacolo sono poi la forte presenza di lavoratori stranieri e il fenomeno del bilinguismo, che impone una duplicazione di molti interventi.
In risposta a un quesito della Commissione, i rappresentanti sindacali della provincia di Bolzano hanno inoltre espresso la loro contrarietà all’ipotesi, avanzata dai vertici provinciali, di escludere o limitare l’uso del DURC per i lavori al di sotto di determinate soglie di valore, trattandosi di uno strumento fondamentale per il controllo della legalità.
Considerazioni analoghe a quelle dei sindacati della provincia di Bolzano sono state espresse dai loro colleghi della provincia di Trento. Anche il Trentino, come l’Alto Adige, è caratterizzato da un tessuto produttivo costituito da piccole aziende, con un peso importante del settore pubblico, mentre, all’interno del settore privato, un comparto molto significativo è quello delle costruzioni, notoriamente uno dei settori più esposti rispetto agli infortuni. Nel corso degli ultimi anni, nel territorio altoatesino c’è stato un notevole abbassamento del numero degli infortuni, compresi quelli mortali, anche se resta ancora sopra la soglia dei 10.000 infortuni all’anno, su una popolazione di circa mezzo milione di abitanti e con un numero di lavoratori, fra dipendenti ed autonomi, di circa 225.000 unità. Tenendo conto della struttura produttiva assai polverizzata, è comunque importante la significativa riduzione degli infortuni, passati dai 11.427 del 2008 ai 10.130 del 2009 (-11,4 per cento), sebbene una certa quota sia sicuramente dovuta anche al rallentamento dell’economia.
Gli infortuni più frequenti si concentrano in particolare nel settore delle costruzioni, dell’agricoltura, dei lavori forestali e del trasporto.
Un’attenzione particolare è riservata agli infortuni che avvengono nelle attività agricole, di silvicoltura o di piccole costruzioni, per persone non assicurate all’INAIL o assimilate ai lavoratori: si tratta perlopiù di pensionati o lavoratori in attività propria o per autoconsumo. Proprio sul settore delle costruzioni e su quello dell’agricoltura c’è stata una richiesta forte delle organizzazioni sindacali per interventi mirati, soprattutto in termini di formazione e di sensibilizzazione degli addetti.
Anche a Trento è operativo il comitato provinciale di coordinamento, che però, secondo i sindacati, nella scorsa legislatura funzionava meglio: le organizzazioni sindacali del Trentino hanno più volte dovuto intervenire presso la provincia, per sollecitarne la convocazione. Il sindacato collabora comunque attivamente con le strutture provinciali come l’UOPSAL (Unità operativa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro), incardinata presso l’assessorato alla sanità e costituita da una sessantina di persone (38 tecnici della prevenzione, 11 impiegati amministrativi, cinque medici del lavoro, quattro ingegneri e quattro assistenti sanitari), sui temi della formazione e dell’informazione. Altra forma importante di collaborazione è quella degli enti bilaterali, soprattutto quello dell’edilizia, il CENTROFOR, nel quale sono rappresentati sia il sindacato che gli imprenditori, e l’ente bilaterale dell’artigianato, che svolgono un prezioso ruolo di consulenza e formazione alle loro imprese associate.
Tra le proposte avanzate c’è quella di adottare misure atte a selezionare le imprese più virtuose in tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, ad esempio tra quelle che si aggiudicano appalti pubblici o fruiscono comunque di contributi pubblici, magari istituendo una sorta di marchio delle imprese sicure ed escludendo dall’organizzazione imprenditoriale di categoria le aziende che non ottemperano al rispetto delle norme e degli obblighi sulla sicurezza. Anche i rappresentanti sindacali trentini hanno quindi richiamato l’importanza della diffusione della figura del rappresentante territoriale alla sicurezza, in un territorio il cui tessuto produttivo è costituito per lo più da piccole aziende, nonché di una formazione sulla sicurezza che parta fin dalle scuole. Su quest’ultimo aspetto non c’è infatti ancora un intervento capillare, come invece auspicato; va detto però che nell’ambito dei corsi di riqualificazione attivati per i lavoratori colpiti dalla crisi sono stati realizzati dei moduli per la sicurezza, che sono stati molto apprezzati, a dimostrare un’attenzione sul tema.
Nel prosieguo dei lavori, la Commissione ha altresì incontrato i rappresentanti dello organizzazioni imprenditoriali e datoriali. Quelli trentini hanno segnalato anzitutto la forte riduzione degli infortuni occorsa negli ultimi anni, soprattutto nel settore manifatturiero, incentrato su produzioni di eccellenza e di qualità, in cui si dà molta attenzione alla qualificazione delle risorse umane, tanto che anche durante la crisi ci sono stati pochi licenziamenti. Restano naturalmente alcune criticità, soprattutto in certi settori. I rappresentanti del comparto edile di Bolzano (in particolare le due Casse edili) hanno segnalato il problema del lavoro nero (peraltro limitato in questa provincia), sollecitando il mantenimento del DURC come fondamentale strumento di controllo per prevenire la diffusione delle imprese irregolari. Altro tema connesso al precedente è quello del ricorso al criterio del massimo ribasso nell’aggiudicazione degli appalti, di cui anche le organizzazioni edili trentine hanno fortemente stigmatizzato le storture, chiedendo oltre a una riforma normativa anche una diffusione di strumenti di controllo come gli indici di congruità del costo del lavoro, che hanno dato buona prova. Ancora, si è posto il problema di non colpevolizzare eccessivamente il datore di lavoro laddove vi siano evidenti responsabilità dei dipendenti o di altri soggetti.
I rappresentanti del Comitato paritetico territoriale della provincia di Bolzano hanno quindi evidenziato come il numero di ispettori provinciali sia attualmente insufficiente, rispetto al numero di imprese da controllare sul territorio, avanzando una proposta per creare delle sinergie, al fine di accrescere il numero dei controlli nei cantieri edili. Poiché tra i loro compiti istituzionali c’è anche quello di svolgere visite consultive, essi propongono, previa intesa con l’assessorato competente, che tali controlli possano integrare quelli degli ispettori, dando la possibilità alle imprese in buona fede di sanare le situazioni che non vanno bene, realizzando i necessari interventi di prevenzione. Hanno inoltre rivendicato la possibilità di partecipare, come comitato paritetico, ai lavori previsti dalla Commissione consultiva permanente indicata dall’articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che prevede infatti la presenza delle parti sociali nelle varie forme, ma non in quella del comitato paritetico.
La federazione delle associazioni imprenditoriali dell’Alto Adige di madrelingua tedesca, dal canto suo, ha chiesto una decisa semplificazione degli adempimenti burocratici, ritenuti eccessivamente onerosi. È stato altresì proposto un potenziamento delle attività di formazione, un approccio più collaborativo e non esclusivamente repressivo nei controlli, e una serie di agevolazioni ed esenzioni dal campo dell’applicazione del testo unico per le imprese minori (in particolare le microimprese fino a tre persone), per quelle che impiegano lavoratori stagionali e per quelle di nuova costituzione.
Anche le associazioni degli artigiani altoatesini hanno chiesto una riduzione della burocrazia, esaltando il ruolo della bilateralità e auspicando una riduzione dei premi assicurativi INAIL in funzione dell’effettivo livello di rischio, per stabilire una maggiore proporzionalità. Indicazioni analoghe sono venute dai loro colleghi della provincia di Trento, che hanno evidenziato il forte calo degli infortuni avvenuti nel loro settore nel corso degli ultimi anni. Parte di questo calo è dovuta anche all’azione degli enti bilaterali di settore, che hanno svolto tra l’altro un’intensa attività di formazione a favore dei loro associati. Gli artigiani trentini hanno quindi sottolineato l’opportunità, per quanto riguarda il loro comparto, di spostare l’attenzione dal tema degli infortuni mortali, pressoché inesistenti, a quello più pericoloso delle malattie professionali, senza per questo voler abbassare la guardia rispetto ai problemi ancora esistenti.
Nel confronto con le organizzazioni del comparto agricolo si è poi riproposto il tema degli incidenti legati al ribaltamento dei mezzi, in particolare dei trattori. Le organizzazioni trentine ad esempio hanno fatto presente di aver iniziato un’attività già quattro anni fa, in accordo con l’azienda sanitaria, per cercare di mettere a norma tutte le macchine, a cominciare dai circa 28.000 trattori. Sono stati svolti quasi 100 incontri tra i rivenditori delle macchine agricole, le officine meccaniche e i funzionari dell’ex ISPESL, in cui venivano spiegate le linee guida per la messa in sicurezza delle trattrici. Tutti gli agricoltori hanno sistemato le loro macchine, ma restano ancora alcuni problemi: per alcune macchine l’ex ISPESL non ha ancora approntato le linee guida, tanto è vero che la provincia di Trento ha stanziato 100.000 euro per elaborarle autonomamente, specie per le cosiddette moto agricole, e ha avviato dei corsi di guida presso la scuola antincendi dei Vigili del fuoco. Talora sono gli stessi costruttori delle macchine che non prevedono tutti i necessari dispositivi.
Inoltre, in casi come le aziende viticole, le trattrici sono sempre senza cabina, visto che un trattore con la cabina non può passare sotto la cosiddetta pergola trentina. Occorre allora studiare sistemi automatici per alzare il rollbar, ovvero il dispositivo antiribaltamento del trattore. È stata poi sottolineata la difficoltà di applicazione integrale del decreto legislativo n. 81 del 2008 all’attività agricola, per la sua caratteristica di svolgersi completamente a cielo aperto, difficoltà che in Trentino è accresciuta dalla varietà morfologica del territorio, che rende complesso applicare la normativa nella stessa maniera alla miriade di aziende esistenti presenti in quel territorio. Anche nella stesura del documento di valutazione dei rischi, non tutti i rischi possono essere considerati, essendo assai diversi e non facilmente prevedibili.
Altre considerazioni sono state svolte dai rappresentanti del mondo cooperativo altoatesino, che hanno insistito molto sul tema della responsabilizzazione del titolare dell’azienda, specie con riferimento al settore degli appalti, e sul potenziamento della funzione ispettiva, criticando invece le nuove norme dello stress-lavoro correlato, che rischiano di tradursi in un appesantimento meramente burocratico. Più in generale si è chiesta una semplificazione delle regole, anche sull’esempio delle cooperative professionali tedesche (Berufsgenossenschaften), vere e proprie istituzioni bilaterali alle quali la mano pubblica delega la definizione delle norme tecniche in materia di sicurezza sul lavoro, di vigilanza, di prevenzione e di educazione dei lavoratori. Anche i rappresentanti delle aziende di logistica hanno chiesto una maggiore semplificazione e la realizzazione di interventi concreti e non meramente burocratici. Le organizzazioni del turismo del Trentino hanno chiesto un’applicazione più uniforme della normativa e una semplificazione della stessa, anche nel confronto con le Province limitrofe o gli Stati confinanti, che sembrano improntati a un approccio meno formale e burocratico. D’altra parte, è stata ribadita l’importanza della formazione individuale del lavoratore, che dovrebbe essere comprovata da un apposito documento. Ciò richiederebbe anche la possibilità del datore di lavoro di controllare il lavoratore che non rispetta le regole o adotta comportamenti pericolosi come l’abuso di alcol, pure al fine di escludere proprie responsabilità in caso di incidenti, ma questa possibilità sembra oggi esclusa per una malintesa interpretazione del concetto di privacy.
La Commissione, pur accogliendo gli inviti e le proposte in tema di semplificazione avanzate dalle varie organizzazioni imprenditoriali, ha però ribadito l’importanza di garantire comunque il rispetto delle regole essenziali a favore della sicurezza sul lavoro, ricordando come in certi settori, soprattutto quelli con imprese di minori dimensioni, siano gli stessi titolari a essere tra le prime vittime degli infortuni, anche mortali. Di conseguenza, si è chiesto alle associazioni di categoria un maggiore sforzo nella direzione della sensibilizzazione e della tutela dei loro associati. In merito alle possibili differenze di interpretazione normativa tra una Regione e l’altra, la Commissione ha ribadito l’importanza di un’applicazione uniforme delle regole, evidenziando la necessità di prevenire rischi di questo tipo, anche attraverso interpretazioni troppo estensive della potestà legislativa concorrente delle regioni.
La missione in Trentino-Alto Adige si è infine conclusa con l’incontro con i rappresentanti politici delle due province autonome di Trento e di Bolzano. L’assessore al lavoro di Bolzano ha precisato come la politica della sicurezza sul lavoro nel territorio altoatesino si sia negli ultimi anni incentrata sui due settori più a rischio, ossia l’edilizia e l’agricoltura. Nell’ambito dell’edilizia si è fatto molto, in particolare applicando i concetti legati alla formazione in cantiere, con alcuni esperimenti pilota realizzati in provincia di Bolzano (le cosiddette cittadelle della sicurezza). In tal modo il livello di educazione alla sicurezza, sia per quanto riguarda i lavoratori sia per quanto riguarda gli imprenditori, ha compiuto un salto di qualità. Un margine di miglioramento ulteriore si potrebbe però – ad avviso dell’assessore – ottenere dando maggiori competenze e funzioni di controllo, nonché responsabilità penali, alle varie figure dei responsabili tecnici del processo edilizio, dalla fase di progettazione a quella di esecuzione e di cantiere.
Il settore dell’agricoltura, invece, rappresenta un comparto atipico, dove vi è la presenza di una microimprenditorialità diffusa, perché il lavoratore agricolo è, in genere, anche imprenditore. Ciò rende difficile fare formazione nel senso tradizionale del termine: una funzione importante deve allora essere svolta dalla scuola, contribuendo a creare una specifica cultura della sicurezza. In aggiunta a ciò, il comparto agricolo della provincia di Bolzano risente anche del fattore orografico, che rappresenta una criticità aggiuntiva in tema di sicurezza: non a caso, in Trentino-Alto Adige la maggior parte degli incidenti, anche gravi, sono legati all’impiego di mezzi agricoli su forti pendenze o, comunque, in situazioni di criticità.
Per questo la provincia di Bolzano sta spingendo istituti di ricerca, anche locali, a studiare sistemi meccanici e idromeccanici, per dotare i mezzi agricoli di dispositivi di sicurezza attivi e passivi.
A sua volta, l’assessore alla sanità della provincia di Trento ha anzitutto richiamato i dati dell’Osservatorio provinciale sugli infortuni, che mostrano un andamento grosso modo coincidente con quello nazionale, tendenzialmente decrescente a partire dal 2000, pur con alcuni aumenti (soprattutto nel 2005 e nel 2006) degli infortuni di una certa gravità, anche mortali, che peraltro hanno un andamento non sempre lineare, essendo fortunatamente molto bassi. In questi anni la provincia di Trento ha lavorato soprattutto sul versante del coinvolgimento della parti sociali, cercando di costruire (al di là delle normali attività ispettive, che pure hanno una importanza fondamentale) un rapporto con le imprese improntato alla condivisione di un percorso di formazione e di educazione alla sicurezza.
Tale approccio ha portato, ben prima della legislazione nazionale, alla formazione del comitato di coordinamento, nel quale sono appunto coinvolti tutti i soggetti partecipanti: enti pubblici, imprenditori, sindacati, ma anche le stesse associazioni degli invalidi sul lavoro. Il comitato, in relazione alle previsioni del decreto legislativo n. 81 del 2008, ha trovato la sua organizzazione nella legge di riforma del sistema sanitario locale, che è stata licenziata dal Consiglio provinciale nel luglio 2010. Il comitato ha lavorato essenzialmente lungo tre linee direttrici: la definizione di un piano operativo per la prevenzione e la sicurezza sui luoghi di lavoro, con un accordo quadro tra i soggetti coinvolti; il rafforzamento delle attività di vigilanza e di ispezione; l’intervento di tipo educativo, con una presenza quindi nelle scuole, nonché sulla formazione dei lavoratori, sull’informazione e sulla comunicazione agli stessi. Un elemento innovativo introdotto è stato quello degli incentivi alle imprese che fanno investimenti nel settore della sicurezza.
Questo piano, ribattezzato «pacchetto sicurezza», ha previsto, oltre al proseguimento delle attività in essere, anche un’iniziativa di impatto simbolico per cui, in qualsiasi luogo di lavoro della provincia, il primo giorno di lavoro deve essere dedicato ad una serie di attività di sensibilizzazione e di formazione in tema di sicurezza. Vi sono poi le iniziative dedicate a settori particolari, rivolte soprattutto ai lavoratori «non professionisti», o comunque ai lavoratori che sono imprenditori in proprio, o addirittura neanche imprenditori. In particolare, tutte le lavorazioni boschive e agricole che sono le più colpite da infortuni di una certa gravità, per le quali sono stati sviluppati programmi di informazione e formazione dei lavoratori, prevedendo, per il settore agricolo, uno specifico progetto finalizzato anche all’educazione alla guida e all’utilizzo delle macchine agricole nei campi.
La Commissione ha condiviso l’importanza di avviare l’educazione alla cultura della sicurezza fin dalle scuole, chiedendo se le province di Trento e Bolzano, anche in virtù della loro ampia autonomia, avessero intrapreso iniziative specifiche al riguardo. Per quanto riguarda i comitati di coordinamento, nel riportare la sollecitazione, lanciata con forza soprattutto dai sindacati, di una maggiore frequenza nella cadenza degli incontri, si sono chiesti altresì chiarimenti sul ruolo del comitato e delle relative attività di coordinamento nel contesto dell’autonomia provinciale, anche per quanto concerne la relazione annuale da inviare ai Ministri della sanità e del lavoro e delle politiche sociali.
La Commissione ha poi richiamato la questione del massimo ribasso negli appalti, domandando come le province autonome abbiano affrontato il problema. Nel condividere i problemi emersi in merito agli infortuni nel settore agricolo, sono poi stati chiesti chiarimenti in merito alla segnalazione avanzata dalla magistratura, circa un’interpretazione dell’articolo 21 del testo unico da parte degli uffici provinciali del lavoro di Trento, che tenderebbe ad escludere i coltivatori diretti dalle statistiche sugli infortuni nonché dagli obblighi di natura prevenzionistica.
In merito al problema degli appalti, l’assessore al lavoro della provincia di Trento ha specificato che il Governo aveva impugnato la normativa provinciale in materia, che cercava di affrontare anche il tema sollevato. A seguito dell’impugnazione, la legge è stata riformulata ed è stata licenziata dal Consiglio regionale. Dunque ora è in vigore la nuova normativa, secondo cui l’offerta economicamente più vantaggiosa diventa lo strumento attraverso il quale si può effettuare un controllo molto più stringente, ad ampio spettro. Per quanto riguarda la questione dell’articolo 21 del testo unico, la provincia di Trento ha effettivamente valutato un’interpretazione secondo cui gli agricoltori cosiddetti privati, che coltivano il proprio fondo, potrebbero essere esclusi dalle norme dello stesso testo unico.
L’Osservatorio provinciale degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali rileva però tutti gli infortuni, indipendentemente dal fatto che siano indennizzabili dall’INAIL o meno. Nel piano di prevenzione per l’agricoltura, inoltre, le iniziative di prevenzione riguardano sia gli agricoltori soggetti al decreto legislativo n. 81 del 2008 (le imprese e i lavoratori autonomi ai sensi dell’articolo 21), sia i privati che ne sono esclusi. Nel territorio trentino quella dei coltivatori privati che coltivano il proprio fondo, o conferiscono ogni anno l’eccesso del proprio prodotto alle aziende ortofrutticole o vitivinicole, senza configurarsi come imprenditori in senso proprio, è infatti una realtà molto presente.
L’assessore alla sanità della provincia di Bolzano, infine, per quanto riguarda le riunioni del comitato di coordinamento, ha confermato l’impegno di svolgerne almeno quattro all’anno come previsto dalla legge. D’altro canto, essendo gran parte degli uffici gerarchicamente all’interno dello stesso dipartimento non esistono nei fatti grandi esigenze di coordinamento, visto che ci si incontra quasi tutti i giorni per le varie attività.
Sulla questione degli appalti, occorre far sì che la sicurezza diventi un meccanismo di valutazione della qualità in sede di appalto; nel processo edilizio, infatti, la parte dei lavoratori incide sui costi per l’80 per cento del totale, mentre i materiali per il 20 per cento, per cui quando si fa il ribasso oltre una certa soglia è inevitabile che questo incida sul costo del lavoro. Si deve perciò appaltare a un ribasso equo che tenga conto della qualità della sicurezza, della formazione dei lavori e della spesa. L’assessore ha in proposito richiamato una specifica esperienza del comune di Bolzano: attraverso un accordo con le forze sindacali e datoriali, si era elaborato un sistema di riscontro, per i vari tipi di lavorazioni, tra le ore di manodopera dichiarate dall’impresa alla cassa edile e le ore effettivamente lavorate in base agli stati di avanzamento lavori.
Con questo sistema, si riusciva a controllare se i contributi pagati corrispondevano alle ore dichiarate, individuando così eventuali fenomeni di lavoro nero (strettamente legato ai rischi per la sicurezza) e sanzionando le imprese irregolari con l’esclusione automatica dagli appalti per i cinque anni successivi. Si trattava di un sistema che, mediante un accordo pattizio tra sindacati, imprenditori e comune, inseriva un’apposita clausola nei capitolati d’appalto, e che ha permesso ad esempio di escludere dagli appalti imprese che avevano rapporti anomali e contratti stipulati in altri Paesi europei.
Dopo aver richiamato i problemi del settore dell’autotrasporto, dove vi sono autisti assunti all’estero, con contratto estero e con condizioni assolutamente subumane di trattamento economico e di obblighi contrattuali, l’assessore si è infine soffermato sul tema dell’agricoltura. In proposito, il Trentino e l’Alto Adige, seppure legati da evidenti similitudini presentano alcune differenze, perlomeno con riguardo al numero assoluto di addetti.
In Alto Adige vi sono all’incirca 200.000 lavoratori, e gli addetti all’agricoltura sono circa 20.000; il numero delle imprese, invece, è pari a 18.501, con 20.093 occupati nel settore, quindi con un rapporto quasi di uno a uno. Ciò rende difficile ipotizzare una formazione diretta, personalizzata e richiama ancora una volta l’importanza di un’educazione alla sicurezza che parta dalle scuole, ad esempio da quelle professionali, fortemente radicate in Alto Adige. Al riguardo, non sono state dettate norme specifiche, ma, tra il 2005 e il 2007, si è svolta un’azione mirata rivolta alle scuole elementari e medie e, sulla base di tale esperienza, l’Azienda sanitaria locale sta studiando delle modalità di comunicazione agili e immediate, dirette a tutte quelle categorie di persone che sul tema della sicurezza hanno poche informazioni perché non sono lavoratori dipendenti, come ad esempio le casalinghe, coinvolte nel problema, altrettanto importante, degli infortuni domestici.

4.5. Sopralluogo a Bari (29-30 maggio 2011)
Il 29 e il 30 maggio 2011, la Commissione si è recata in missione a Bari, con una delegazione composta dal presidente Tofani e dai senatori Maraventano, Nerozzi e Morra. Anche questa missione mirava a verificare lo stato di avanzamento del processo di attuazione del testo unico e, più in generale, le questioni legate all’organizzazione del sistema di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro sul territorio della regione Puglia.
Il vice prefetto vicario di Bari ha sottolineato la forte riduzione nel numero degli infortuni, frutto anche di una maggiore sensibilità e attività di prevenzione e controllo, giudicando buono l’impatto della normativa del testo unico. Ha quindi citato la recente attuazione (gennaio 2010) della direttiva nazionale decisa dal Governo dopo i fatti di Rosarno in Calabria per un più approfondito contrasto al lavoro nero, anche in funzione di rintracciare i lavoratori extracomunitari irregolari. In Puglia ci si è concentrati in particolare nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura: la percentuale di imprese irregolari risulta più alta in agricoltura anche se i casi di lavoratori extracomunitari emersi sono stati modesti e non significativi.
In risposta a un quesito della Commissione, il vice prefetto ha fatto presente che prima del decreto legislativo n. 81 del 2008 la Prefettura aveva un ruolo più incisivo in materia di sicurezza del lavoro. Prima del 2007 infatti, un protocollo d’intesa con l’ASL, l’ispettorato del lavoro e l’INAIL stipulato in Prefettura consentiva alle forze di polizia di affiancare le ispezioni sul lavoro. Tale protocollo con la nascita del Comitato regionale di coordinamento ha perso di significato in quanto la competenza in materia di sicurezza sul lavoro appartiene al comitato. L’unico punto di raccordo consiste nella eventuale richiesta partecipazione di un funzionario della Prefettura al momento della convocazione. In altre parole attualmente tra prefetto e Comitato regionale di coordinamento i rapporti sono di collaborazione ma in autonomia. Per quanto attiene alle forze di polizia, hanno stipulato invece autonomi protocolli con la Regione o con la ASL.
Il comandante regionale dell’Arma dei Carabinieri ha sottolineato la presenza capillare sul territorio, che consente un monitoraggio costante, anche nel contrasto della criminalità organizzata e della delinquenza in genere. Tali fenomeni infatti in Puglia si legano spesso al lavoro nero, al caporalato e allo sfruttamento dei lavoratori immigrati, che incidono direttamente sui temi della sicurezza del lavoro. Ha quindi sottolineato la diminuzione del numero degli infortuni nell’ultimo anno, che risulta anche dal campione più ridotto dei casi di cui si è occupata l’Arma, pari a 830 incidenti nel 2010, di cui 31 mortali.
Nel 2010 i Nuclei ispettorato del lavoro e l’Arma territoriale hanno effettuato 437 ispezioni i cui esiti sono stati: 239 prescrizioni, 620 ammende, 258 deferimenti all’autorità giudiziaria; sono state contestate inoltre 635 violazioni che in 250 casi sono state pertinenti ad omissioni delle regole di prevenzione per i lavori relativi a costruzioni in quota, in 164 all’omessa osservanza dell’igiene e salubrità dei luoghi di lavoro, in 144 all’omessa formazione e informazione dei lavoratori. Sono state rilevate 58 violazioni per omissione dei dispositivi di protezione individuale. Si tratta in tutto di 79 sospensioni di attività perché in seguito ai controlli sulla sicurezza sul lavoro sono stati individuati circa 300 lavoratori in nero. Le criticità emerse da tali controlli sono: carenza di misure tecniche e procedurali, impianti elettrici non conformi, uso scorretto di attrezzature tale da sovraesporre operai a pericoli (cadute dall’alto). Uno dei problemi rilevati in quasi tutti i settori è poi il fatto che, nel corso dei lavori, vengono spesso eseguite simultaneamente molte attività non compatibili tra loro, il che aumenta considerevolmente i rischi di infortunio.
Per quanto riguarda i Vigili del fuoco, il comandante regionale si è soffermato sulle competenze del Corpo, in particolare quelle riguardanti il rilascio della certificazione per la prevenzione incendi legata all’inizio di attività di vario genere e la formazione del personale, che in Puglia nell’ultimo anno e mezzo ha subito un notevole incremento. La prevenzione incendi comporta sopralluoghi presso i siti produttivi all’atto del collaudo per il rilascio o il rinnovo del certificato di prevenzione incendi, nonché a campione per determinati tipi di attività segnalati anno per anno dall’amministrazione centrale (per il 2011, ad esempio, scuole e ospedali). In proposito, la Commissione ha rilevato la necessità di approfondire la presenza di un vuoto nella normativa vigente legato alla mancata previsione della obbligatorietà di controlli. L’attività ispettiva in tale settore, infatti, è prevista soltanto come mera eventualità, al di fuori della procedura standardizzata stabilita dalla normativa. Tale problematica, a quanto chiarito dal comandante regionale, risulta legata anche alle limitate risorse di personale e, in parte, alla scarsa funzionalità del comitato regionale di coordinamento, la cui convocazione è prevista ogni tre mesi e che in Puglia risulta essersi riunito una sola volta dal 2008. Solo in alcune province, infatti, su iniziativa delle prefetture, l’attività di controllo dei Vigili del fuoco si è coordinata con quella degli altri organi ispettivi.
Nell’audizione della magistratura, è stata anzitutto espressa una valutazione positiva sui risultati dell’applicazione del testo unico, che ha consentito una certa riduzione nel numero degli incidenti sul lavoro, anche se i problemi restano. Ad esempio, sono stati segnalati due episodi molto rilevanti di lavoro nero in provincia di Lecce nel settore degli impianti fotovoltaici. In tale ambito, infatti, recenti acquisizioni della Procura hanno evidenziato realtà piuttosto cospicue dal punto di vista numerico di lavoratori immigrati impiegati in gravi condizioni sia sotto il profilo della qualità della prestazione che della mancanza di qualsiasi prevenzione antinfortunistica.
I magistrati hanno inoltre sottolineato in modo positivo l’alta quantità di contravvenzioni (e quindi di controlli) ex direttiva CE del 1994 e decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 108, nel territorio del Salento, pari a 1.365 nel 2007 e a 848 nel 2011 (a fronte di un leggero calo degli episodi di lesioni gravi ed infortuni mortali sul lavoro). Tali norme, infatti, riferendosi a fattispecie non delittuose privilegiano l’attività di prevenzione e controllo messa in atto dai servizi ispettivi della ASL e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (il coordinamento tra magistratura ed enti locali è stato definito forte e continuo). Il segnale positivo consiste nel fatto che l’80-85 per cento di tali reati non giungono ad una sanzione penale ma vengono archiviati dalla Procura. Ciò implica che al pagamento della sanzione amministrativa segue l’adempimento della prescrizione normativa e, di conseguenza, viene raggiunto l’effetto sostanziale di prevenzione dell’infortunio. Un espresso apprezzamento è stato riservato al salvataggio del sistema sanzionatorio disposto dal decreto legislativo n. 106 del 2009 e per la sua estensione alle contravvenzioni e alle sanzioni amministrative, mentre sono state sottolineate perplessità sulla riduzione delle pene detentive e pecuniarie a carico di datori di lavoro, dirigenti e preposti per la loro efficacia deterrente e sull’introduzione dell’esimente della responsabilità amministrativa per le persone giuridiche e penale in caso di delega di funzioni, introdotta dall’articolo 30 del decreto legislativo n. 81 del 2008.
La magistratura ha auspicato inoltre una maggiore attenzione alla formazione e alla cultura della sicurezza ancora carenti nel territorio, al piano di sicurezza, al documento di valutazione dei rischi (che in quanto tale dovrebbe essere studiato caso per caso per ogni impresa e non standardizzato, al fine di rendere effettiva la valutazione dei rischi) e, infine, una particolare attenzione alle strutture di protezione soprattutto nei cantieri fissi e mobili (diffusi in special modo nel Salento), la cui inadeguatezza è responsabile della maggior parte delle morti in tale settore. Sul tema dei subappalti in ribasso, è stato sottolineato, anche in base a dati dell’ANCE in provincia di Lecce, la necessità di una soglia limite al fine di garantire la sicurezza.
Il direttore dell’ufficio regionale dell’INAIL, in risposta ad una richiesta di chiarimenti della Commissione sui dati infortunistici per il 2010, ha precisato che per quell’anno i casi di infortuni mortali sul lavoro accertati, riconducibili senza incertezze alla normativa contro gli infortuni, sono 59 su un totale di 91 denunce. La Commissione ha osservato che, pur essendovi altre 32 morti di dubbia attribuzione, poiché nel 2009 il dato era di 49 decessi, si registra comunque un peggioramento di circa 10 unità, pur essendo i dati (all’epoca del sopralluogo) ancora provvisori. Il peggioramento si è registrato in particolare nella provincia di Foggia. È stato inoltre evidenziato che circa il 50 per cento di tali infortuni è avvenuto sulle strade (per il 2010, 35 su 59), comprendendo in tale casistica non soltanto la categoria degli infortuni in occasione di lavoro (ad esempio gli autotrasportatori) ma anche gli infortuni in itinere, cioè quelli che hanno luogo negli spostamenti da o per il lavoro.
Facendo un raffronto dei dati negli ultimi tre anni risultano quindi 66 infortuni mortali nel 2008, 49 nel 2009 più 13 irregolari e 59 nel 2010 più 13 irregolari (intendendosi per «irregolari» quelli per i quali l’infortunio è ancora sotto valutazione). A costoro si aggiungono però anche dei casi non conteggiati perché «non di competenza» dell’INAIL come ad esempio il caso degli artigiani non titolari dell’impresa, non previsti nel testo unico. Il 2010 si pone quindi come un anno molto pesante per quanto concerne i morti per infortunio, specie nella provincia di Foggia che, in una Regione a forte vocazione agricola, ospita il 50 per cento dell’intera attività di questo settore.
La Commissione ha poi domandato chiarimenti in ordine alla asserita scarsa attività del comitato regionale di coordinamento (previsto dal decreto legislativo n. 81 del 2008), anche per gli effetti relativi al coordinamento dell’attività dei vari enti, posto che lo stesso sembrerebbe essere stato attivato nel 2009, essere stato convocato appena due volte ed essersi riunito una sola. Il direttore regionale dell’INAIL e il direttore dell’ufficio regionale del lavoro hanno confermato la circostanza, segnalando altresì la mancata costituzione dell’ufficio operativo, previsto dalla norma e al quale dovrebbe essere demandato lo specifico compito della vigilanza al fine della prevenzione. Pur essendovi una comunicazione tra i vari enti, la mancanza del comitato regionale impedisce un raccordo preventivo e una sinergia organica.
Nella successiva audizione, in risposta alle richieste di chiarimento della Commissione in merito all’effettivo funzionamento del comitato regionale di coordinamento, il dirigente del Servizio programmazione e assistenza territoriale sanitaria alle politiche della salute ha affermato che il comitato, da lui stesso presieduto in alcune occasioni, era stato istituito già nel 2008 e che era pienamente operante, avendo già svolto diverse riunioni in cui sono stati prodotti anche importanti atti di indirizzo. Sono inoltre stati costituiti l’ufficio operativo e gli organismi provinciali, previsti dalla normativa, come dimostrano i documenti ufficiali. La Commissione ha però osservato che tali informazioni non collimavano con le indicazioni fornite dalla Direzione regionale dell’INAIL e dall’Ufficio regionale del lavoro, che sono membri di diritto del comitato di coordinamento e che ne avevano entrambi segnalato la scarsa attività. Altro punto da chiarire era il fatto che la presidenza del comitato, affidata per legge al presidente della regione o a un assessore da lui delegato, potesse essere esercitata da un ulteriore soggetto.
Il dirigente del Servizio programmazione e assistenza territoriale ha ribadito che il comitato era perfettamente operante, precisando che, in base alla prassi prevista a livello regionale, il presidente della Regione ha delegato a presiedere il comitato l’assessore alla sanità che, quando non può essere presente, delega a sua volta il dirigente competente. Ha quindi illustrato le attività svolte finora dal comitato, richiamando in particolare il Piano di prevenzione avviato nel 2005 con due linee di intervento: sul sistema informativo e sulle politiche di sostegno alla vigilanza, in particolare nel settore dell’edilizia. Tale attività ha incrementato il numero di sopralluoghi effettuati sui luoghi di lavoro passando da 2.228 per l’anno 2005 a 9.287 nel 2009. Ciò è stato reso possibile anche dal rimpinguamento di risorse umane operanti nei servizi di protezione e sicurezza negli ambienti di lavoro: nel periodo 2005-2009 le unità equivalenti di personale medico sono passate da 36 a 48, mentre vi è stato quasi un raddoppio per i tecnici della prevenzione, le cui unità equivalenti sono passate da 57,6 a 108,8. Il rappresentante del Servizio programmazione e assistenza territoriale ha inoltre richiamato l’approvazione (anni 2008-2010) del Piano straordinario sulla sicurezza sul lavoro. Tale iniziativa ha ulteriormente finanziato l’attività di sostegno sul territorio con l’approvazione di un piano di indirizzo con una copertura economica di 2.200.000 euro.
In tal modo è stato possibile sostenere le principali linee di intervento nei campi dell’edilizia e dell’agricoltura. Ha inoltre fatto presente l’approvazione, nel dicembre 2010, del nuovo Piano di prevenzione regionale, che ha stanziato finanziamenti relativi in particolare ad attività di informazione e formazione al fine di favorire la prevenzione del fenomeno infortunistico, soprattutto nell’edilizia e dell’agricoltura. Infine, in ottemperanza alle previsioni del testo unico, la legge regionale 25 febbraio 2010, n. 4, ha previsto, all’articolo 38, il riuso delle risorse introitate attraverso il sistema delle contravvenzioni. Si tratta di circa 1,5 milioni di euro l’anno da destinare al sostegno dei Dipartimenti di prevenzione; al momento dell’audizione era in via di predisposizione l’atto deliberativo per consentire l’utilizzo di tali risorse per le suddette finalità.
I rappresentanti sindacali nella loro audizione hanno espresso preoccupazioni per le possibili ricadute della crisi produttiva sulle condizioni di sicurezza delle imprese, proponendo un potenziamento delle iniziative sulla prevenzione, in modo particolare programmi di iniziativa istituzionale mirati iniziando dalle scuole. Hanno evidenziato la problematica del lavoro sommerso e irregolare che desta preoccupazioni per la prevenzione e la sicurezza, in particolare nel settore edile dove è stato sottolineato anche il fenomeno dei subappalti e delle gare al massimo ribasso.
Al riguardo, sono stati chiesti richiesti maggiori controlli sulla sicurezza da parte degli enti appaltanti pubblici e sono state segnalate iniziative sindacali di approfondimento sulla normativa nazionale e regionale degli appalti in cui saranno coinvolti tecnici, professionalità del mondo accademico, enti pubblici appaltanti e parti sociali.
I sindacati hanno successivamente segnalato la loro partecipazione a un comitato sui temi della sicurezza che coinvolge la regione Puglia, tutti i prefetti, gli SPESAL e le parti sociali: dalle informazioni acquisite dalla Commissione questo comitato, costituito con legge regionale del 2007, è però distinto dal comitato regionale di coordinamento ex articolo 7 del testo unico. Potrebbe allora essersi ingenerata una confusione tra i due organismi che spiegherebbe forse alcune incongruenze emerse circa l’effettiva operatività del comitato regionale di coordinamento. Una serie di preoccupazioni sono state quindi espresse dai sindacati per i tagli alla sanità regionale e per le conseguenti ricadute sugli investimenti per la sicurezza sul lavoro. Sul piano operativo, è stata segnalata la necessità di maggiori controlli per i piccoli cantieri nel settore dell’edilizia e la necessità di una migliore regolamentazione legislativa per quanto riguarda i lavoratori notturni, in particolare gli autotrasportatori, in considerazione del fatto che nella fascia oraria che va dalle 23 alle 6 del mattino in base ai dati INAIL emerge una maggiore incidenza infortunistica.
È stata inoltre lamentata la difficoltà di istituire in Puglia la rappresentanza territoriale per la sicurezza prevista dalla legge, che sarebbe di grande utilità in una regione con una forte presenza di aziende di piccole dimensioni, con meno di 15 addetti. Ciò vale soprattutto per i settori dell’edilizia e dell’agricoltura, e mette in luce – ad avviso dei sindacati – una lacuna legislativa data dal fatto che il decreto legislativo n. 81 del 2008 non ha previsto la creazione di albi provinciali per i rappresentanti territoriali per la sicurezza. Una ulteriore preoccupazione è stata espressa relativamente alla eventuale mancata conferma del contratto per circa 77 unità di ispettori del lavoro e personale sanitario, assunti a tempo determinato, con il compito di controllo e vigilanza. Cenni sono stati fatti anche sulla forte presenza del lavoro nero nel territorio pugliese e sulla tendenza alla denuncia dell’infortunio sul lavoro come malattia. Tali fenomeni rendono meno attendibili i dati ufficiali e testimoniano anche la necessità di una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori. In merito è stata citata una indagine svolta dal coordinamento femminile della CISL sia nel settore pubblico che privato, che testimonia la bassa percezione del rischio da parte delle lavoratrici pugliesi, elemento di notevole preoccupazione.
Nel successivo incontro con l’assessore regionale al lavoro, la Commissione ha affrontato la questione dell’attività del comitato regionale di coordinamento previsto dalla legge n. 123 del 2007 e dal decreto legislativo n. 81 del 2008 e della eventuale confusione con un altro organismo previsto con legge regionale. In proposito, la Commissione ha sollecitato con forza la ripresa di una piena operatività del comitato regionale di coordinamento, sottolineandone il carattere essenziale per il corretto funzionamento del sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro disegnato dal testo unico, anche alla luce della competenza concorrente tra Stato e regioni.
Nell’ultimo incontro, le organizzazioni datoriali hanno rimarcato in prima battuta la loro avversione nei riguardi del sistema degli appalti al massimo ribasso per le sue conseguenze negative anche in materia di sicurezza sul lavoro. In alternativa, sempre in tale materia, è stato fatto un breve cenno sulla possibilità di utilizzare sistemi premiali (ad es. per le imprese che nel tempo abbiano ottenuto una certificazione che attesti al loro attivo una minore incidenza di infortuni sul lavoro) e la qualificazione in materia di appalti da parte delle pubbliche amministrazioni, piuttosto che puntare sul sistema sanzionatorio.
È stato inoltre affrontato il problema degli infortuni legati alle macchine agricole. In Puglia il numero di incidenti conseguenti al ribaltamento è meno incisivo data la natura pianeggiante del terreno; ciononostante il parco macchine utilizzato è obsoleto: i trattori italiani hanno in media 30 anni di vita, quelli utilizzati sono in media operativi da 50. A ciò si aggiunge il fatto – sottolineato dalla Commissione – che i mezzi sono talvolta guidati anche da persone anziane o da minori. Di conseguenza, è stata condivisa la necessità di un adeguamento dei mezzi e di un intervento legislativo in tal senso. Le organizzazioni agricole hanno altresì osservato che nel territorio pugliese e, più in particolare nel settore agricolo, le tipologie di aziende sono spesso costituite da poche unità, ragione per la quale l’applicazione di alcune norme è più complessa. Per tale motivo hanno auspicato una semplificazione delle stesse, come previsto peraltro dallo stesso testo unico per le piccole aziende agricole. In relazione alle aziende in prima apertura o all’attività di insediamento anche del singolo nel settore agricolo, è stata inoltre proposta una proroga fino a 18 mesi per consentire l’adeguamento alle norme sugli incendi, sul primo soccorso e sugli infortuni.
La Commissione ha positivamente sottolineato che in Puglia i dati sugli incidenti nel settore agricolo relativi ai primi mesi del 2011 sono in diminuzione, in controtendenza rispetto al resto del Paese. Le organizzazioni agricole hanno poi evidenziato l’esigenza di un piano regionale di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali nel settore, al fine di porre l’accento innanzitutto sulla prevenzione e, in seconda battuta, su vigilanza e sanzioni. È stata inoltre ribadita la necessità di investimenti sulla sicurezza, anche sotto forma di agevolazioni fiscali e di interventi per favorire il rinnovo del parco macchine agricole, assicurando risorse adeguate e stabili.
Dal canto loro le associazioni dell’artigianato hanno evidenziato i positivi risultati ottenuti nel comparto in tema di sicurezza attraverso il sistema della bilateralità, grazie all’adozione del nuovo modello contrattuale il cui utilizzo è in espansione. Hanno poi auspicato un allontanamento della responsabilità diretta dell’artigiano rispetto all’assolvimento delle prescrizioni e una semplificazione delle stesse, superando l’aspetto meramente formale e burocratico, a favore di un approccio sostanziale alla sicurezza.
In proposito la Commissione ha sottolineato che le richieste di semplificazione, certamente condivisibili in linea di principio, non devono però tradursi in un allentamento delle regole poste a presidio della sicurezza, considerato anche che, nelle piccole aziende, le prime vittime degli incidenti sono spesso proprio i titolari.

4.6. Sopralluogo a Napoli (26-27 giugno 2011)
Il 26 e 27 giugno 2011, la Commissione ha effettuato una missione a Napoli, con una delegazione composta dal presidente Tofani e dai senatori De Luca, Maraventano e Paravia, allo scopo di verificare lo stato di avanzamento del processo di attuazione del testo unico, nonché l’organizzazione del sistema di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro all’interno della regione Campania.
Nella prima audizione il prefetto di Napoli ha ricordato i dati sugli infortuni, che con riferimento al triennio 2008-2010 registrano in Campania una diminuzione del 10,45 per cento a livello regionale e del 9,82 per cento nella provincia di Napoli. I decessi diminuiscono a livello regionale da 101 a 92, mentre a livello provinciale nel 2010, rispetto al 2008, salgono da 50 a 57. Ciò significa che le dimensioni del fenomeno appaiono quindi ancora allarmanti e impongono interventi decisi, anche il prefetto ha sottolineato che tale esigenza si scontra purtroppo con due difficoltà: da un lato la scarsità di risorse a disposizione (gli organici delle ASL e delle Direzioni provinciali del lavoro registrano da tempo carenze di personale con funzioni ispettive) e dall’altro la complessità del sistema istituzionale di riferimento, articolato a livello centrale e periferico su una pluralità di livelli di competenza e di centri decisionali.
Il prefetto ha quindi ricordato la costituzione del comitato regionale di coordinamento, istituito in Campania nel settembre 2008 dalla Giunta precedentemente in carica e che ha svolto un’importante funzione programmatoria soprattutto in materia di bonifica dell’amianto. La sola ASL Napoli 1 Centro nel triennio 2008-2010 ha effettuato ispezioni in 2.202 cantieri e in 4.736 aziende elevando un totale di 3.000 verbali di contestazione e prescrizione e ha predisposto oltre 1.250 piani di bonifica per l’amianto. Gli organi periferici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sempre nel triennio 2008-2010, hanno accertato complessivamente nella Regione 10.760 violazioni nei cantieri edili ed oltre 400 irregolarità nella materia delle radiazioni ionizzanti. Per quanto riguarda invece le attività della Prefettura, esse sono si sono sviluppate anzitutto sotto il profilo ispettivo, con l’istituzione di una task force e di un piano straordinario (sottoscrizione di protocolli per la sicurezza in area portuale e ferroviaria e istituzione di stazioni uniche appaltanti). I controlli ispettivi hanno riguardato in particolare i settori dell’edilizia e dell’agricoltura, nonché quello degli appalti pubblici. Uniti ai controlli del Nucleo ispettorato del lavoro dei Carabinieri e delle Direzioni provinciali del lavoro si raggiunge un totale di 7.290 controlli nel solo anno 2011.
Da segnalare anche il protocollo per la sicurezza in area portuale e ferroviaria, che ha puntato al coinvolgimento diretto delle imprese e dei rappresentanti dei lavoratori della sicurezza attraverso gruppi di lavoro integrati coordinati dalla ASL Napoli 1 Centro per il porto e dalla Direzione regionale per le ferrovie, arrivando a un abbattimento pari a quasi il 24 per cento della percentuale del rischio. Di conseguenza, scaduto il triennio di efficacia, la Prefettura si è impegnata per la stipula di una nuova intesa che estenda l’ambito oggettivo dei controlli anche alla cantieristica.
Un cenno particolare merita l’istituzione della stazione unica appaltante per vigilare sul corretto svolgimento degli appalti, anche ai fini del rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro. Nata inizialmente con finalità antimafia, la stazione unica assicura un efficace controllo sull’intera procedura di gara, compresa la fase di aggiudicazione dell’appalto, nella quale rientra l’esame delle giustificazioni sull’offerta anomala da effettuarsi a cura della stazione appaltante. Tale strumento, attivato dalla Prefettura nel 2009, ha attualmente circa 20 adesioni tra i comuni della provincia, alcuni anche di notevoli dimensioni. La convenzione che gli enti sottoscrivono in Prefettura affida al Provveditorato interregionale alle opere pubbliche di Campania e Molise la funzione di centrale unica di committenza per gli appalti superiori ad una certa soglia, pari a 250.000 euro (200.000 euro per servizi e forniture), nonché, su richiesta dell’amministrazione aderente, anche eventuali ulteriori competenze per il coordinamento degli aspetti concernenti la sicurezza, sia in fase di progettazione che in fase di esecuzione. La Commissione ha espresso particolare apprezzamento per questa iniziativa, auspicando un’adesione sempre più ampia alla stazione unica da parte delle pubbliche amministrazioni interessate al sistema degli appalti.
L’altro filone di attività della Prefettura riguarda il supporto ai familiari delle vittime di incidenti sul lavoro. Nel 2009 è stato elaborato un atto di impegno che coinvolge istituzioni ed enti locali nella costruzione di una rete di solidarietà per aiutarli ad accedere a tutte le prestazioni previdenziali ed assistenziali. Sono state inoltre predisposte iniziative per diffondere le informazioni sulle prestazioni assistenziali e previdenziali disponibili e per costruire un percorso semplificato per l’accesso ai benefici di legge e per il sostegno, anche psicologico, dei familiari.
Un’ulteriore linea d’azione è costituita dal contrasto al fenomeno dell’imprenditoria illegale (concorrenza sleale, marchi contraffatti e quant’altro).
A tale riguardo, la Prefettura di Napoli ha impostato un’attività di intelligence preventiva, in collaborazione con l’Agenzia delle entrate, la Camera di commercio e gli enti locali, per costituire, attraverso il confronto incrociato dei dati in possesso di ciascun ente, una piattaforma informativa che consenta di individuare le imprese che gestiscono attività illegali sulle quali convogliare gli accertamenti ispettivi. Nei mesi di marzo e aprile 2011, tale azione si è concentrata sulle imprese nella titolarità dei cittadini stranieri (prevalentemente cinesi), ubicate in alcuni Comuni dell’hinterland vesuviano ed afferenti al settore della produzione e del commercio di abbigliamento, per un totale di 46 aziende controllate.
Nel corso dell’audizione dell’assessore regionale al lavoro, sono state illustrate le iniziative della regione Campania in materia di sicurezza sul lavoro, che rientrano nel tema più ampio delle politiche del lavoro. Si è quindi richiamato il piano di azione per il lavoro di prossima attuazione, con misure specifiche a tutela della sicurezza, mediante il sostegno alle imprese che realizzano politiche attive di formazione in questo campo. Si è poi sottolineata l’attuazione del comitato regionale di coordinamento previsto dal decreto legislativo n. 81 del 2008 e dalla legge regionale 18 novembre 2009, n. 14, che è stato costituito a metà maggio 2011. La Regione ha inoltre avviato una serie di politiche di confronto con il sistema produttivo, in particolare con le reti e le organizzazioni sindacali e datoriali per affrontare i temi relativi alle politiche sulla sicurezza del lavoro, e progettato un’intesa da realizzare con l’INAIL regionale per misure coordinate, senza sovrapposizioni con gli strumenti già esistenti.
La Commissione ha raccomandato vivamente un’attivazione sempre più ampia del comitato regionale di coordinamento, strumento essenziale per il governo delle strategie di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali a livello territoriale e per il raccordo tra Stato e regioni. Si sono quindi chieste informazioni sull’utilizzo a livello regionale, ai fini soprattutto delle attività di formazione, dei fondi europei e delle risorse messe a disposizione delle imprese, sotto forma di premialità, da una legge regionale del 2007, nonché sul coinvolgimento delle parti sociali, in particolare del mondo agricolo, nelle iniziative di prevenzione messe in campo dalla Regione. L’assessore al lavoro ha confermato il pieno funzionamento del comitato regionale di coordinamento, con la partecipazione di tutti i soggetti istituzionali previsti e delle parti sociali. Ha poi illustrato il graduale cambiamento dell’indirizzo della formazione attuato in tempi recenti dalla Regione, riprogettando i contenuti nel senso di un maggiore allineamento ed integrazione con le esigenze del sistema produttivo. È stato infine avviato un confronto con la commissione regionale sull’agricoltura in collaborazione con l’INPS, nonché con l’assessore all’agricoltura per individuare strumenti di contrasto al lavoro irregolare e di sostegno alla qualità del lavoro agricolo, ad esempio mediante il sistema dei voucher.
Nel corso della successiva audizione con i rappresentanti della magistratura, si è anzitutto illustrata l’azione della procura generale di Napoli in materia antinfortunistica, che si è svolta lungo due filoni: il monitoraggio delle attività e dello svolgimento delle inchieste, anche attraverso il momento del dibattimento, per assicurare una conclusione regolare del procedimento; la stipulazione di un protocollo d’intesa tra la procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere (che ha una specifica competenza su questo tema), la ASL di Caserta e il Servizio di emergenza sanitaria (118) sulla gestione delle emergenze in materia di infortuni sul lavoro, per garantire una tempestiva presenza sul luogo dell’incidente ai fini delle indagini. Altre attività riguardano la stipulazione, a seguito di un convegno nel 2009 su sicurezza e sinergia istituzionale, di un protocollo d’intesa tra la Procura generale di Napoli e l’Assessorato alla sanità della regione Campania per la formazione dei funzionari ispettivi (INAIL e ASL) e la realizzazione degli scopi connessi alla loro attività. Altra iniziativa in corso è un progetto per la creazione di un software e di una banca dati per raccogliere in tempo quasi reale tutti gli incidenti in materia di infortuni sul lavoro nel distretto di Napoli (i fondi saranno messi a disposizione dalla Regione).
La Procura generale di Salerno ha confermato a sua volta la grande attenzione alla prevenzione in materia di infortuni sul lavoro e, contemporaneamente, alla velocizzazione delle eventuali procedure in caso di violazioni di carattere penale. Si è quindi richiamato il dato positivo della flessione, ancorché lieve, del complesso degli infortuni in provincia di Salerno, dovuta all’azione intensa degli enti preposti, in termini di formazione e sensibilizzazione delle imprese e delle scuole. Il 29 settembre 2010 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali stipulato una convenzione con il Ministero della difesa per la cooperazione tra i Comandi provinciali dell’Arma dei Carabinieri e le Direzioni provinciali del lavoro ai fini del contrasto della criminalità legata allo sfruttamento del lavoro e all’occupazione illegale. I Carabinieri, a loro volta, hanno formato delle squadre miste con la Polizia di Stato e con la Guardia di finanza, ed hanno proceduto, insieme alla Direzione provinciale del lavoro, a circa 400 ispezioni nei vari settori produttivi nel solo periodo che va da settembre 2010 a giugno 2011: sono state controllate 280 aziende, di cui 13 ditte si sono rivelate irregolari; su 797 lavoratori italiani controllati, 27 sono risultati irregolari. L’attenzione ha riguardato tutti i settori, ma in particolare quelli che producono il maggior numero di incidenti, che sono l’edilizia e l’agricoltura: su 252 opifici e cantieri controllati sono risultate 140 violazioni, 59 cittadini extracomunitari irregolari, 76 datori di lavoro denunciati, 89 ammende (per un totale di 176.082 euro), anche se l’andamento decresce a partire dal 2002.
Sono stati poi illustrati i dati relativi agli omicidi colposi da infortuni sul lavoro: nell’ambito della Procura della Repubblica di Salerno nel periodo che va dal 1º gennaio 2007 al 30 giugno 2008 se ne è verificato solo 1; nel periodo 2008-2009 5; nel periodo 2009-2010 2; da giugno 2010 a giugno 2011, 2. In sostanza, dal totale dei dati confrontati con quelli dell’INAIL, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e delle Direzioni provinciali del lavoro nel distretto giudiziario di Salerno risultano pochi fatti costituenti reato. D’altra parte, mentre gli omicidi colposi sono facilmente riscontrabili, più difficile è ricostruire il dato relativo alle lesioni, dove l’eventuale violazione di norme antinfortunistiche viene accertata solo a posteriori, come pure gli incidenti legati al lavoro nero, che non vengono denunciati.
La Commissione ha segnalato che, pur riscontrandosi in provincia di Salerno una riduzione degli infortuni nel loro complesso, vi è però una crescita di quelli mortali. Più precisamente: 21 nel 2010, 18 nel 2009, 19 nel 2008, 20 nel 2007 e 18 nel 2006 (dati INAIL). In pratica il dato di Avellino si mantiene più o meno costante, a Benevento c’è stata una significativa diminuzione, pari al 50 per cento (anche se i numeri sono piccoli e ogni piccola variazione ha una incidenza notevole sulle percentuali).
A Caserta i dati si mantengono costanti, a Napoli c’è una significativa riduzione dei decessi (34 nel 2008, 31 nel 2009, e 23 nel 2010), mentre a Salerno sono aumentati del 16,7 per cento negli ultimi cinque anni.
Sono state quindi chieste informazioni sul lavoro minorile, in merito al quale i magistrati hanno sottolineato la scarsità di dati attendibili, anche per la difficoltà di documentare le attività svolte illegalmente, tra i cittadini extracomunitari, auspicando un lavoro di comparazione tra evasione scolastica e lavoro minorile.
Nel successivo incontro, il Direttore dell’ufficio regionale del lavoro, dopo aver richiamato gli ambiti di competenza specifica dell’ente (settore delle costruzioni edili e vigilanza in materia di radiazioni ionizzanti), ha sottolineato i progressi compiuti negli anni passati negli accertamenti delle violazioni in materia di sicurezza, specie nell’edilizia. Attualmente, la priorità si concentra nella lotta al lavoro sommerso (in particolare nei settori del turismo, del commercio e dell’agricoltura), mentre la vigilanza riguarda solo la materia di competenza (l’edilizia), in quanto negli altri settori, che sono di competenza di altri enti, avviene solo su specifica richiesta.
La Direzione regionale dell’INAIL ha sottolineato, dal canto suo, una tendenza costante alla diminuzione del fenomeno infortunistico negli ultimi cinque anni, a fronte però di un aumento delle malattie professionali che per la loro natura si possono manifestare anche decine di anni dopo il momento in cui sono state contratte. Particolarmente rilevante è naturalmente la questione delle patologie legate all’amianto. L’INAIL ha poi fatto presente di aver messo a disposizione 1,2 milioni di euro per l’anno della prevenzione, che saranno impiegati soprattutto per la cultura e l’informazione a partire dalle scuole elementari, attraverso varie iniziative. In aggiunta a tali attività sono stati attivati dei master sui sistemi di gestione per la sicurezza dei luoghi di lavoro e sulla sicurezza stradale e una serie di iniziative tendenti a creare una sinergia con gli altri enti e organizzazioni che operano in materia di prevenzione e sicurezza, anche in un rapporto di sussidiarietà con la regione Campania.
In risposta ad alcuni specifici quesiti posti dalla Commissione, è stato confermato un certo ritardo nelle attività del comitato regionale di coordinamento, che avrebbe dovuto avere maggiore impulso da parte delle autorità regionali. Si è poi richiamata l’esperienza dell’osservatorio «Napoli città sicura», che ha costituito un importante momento di incontro tra gli enti del territorio preposti alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sviluppando tra l’altro azioni mirate verso le scuole. Si sono inoltre confermati i costanti progressi nell’integrazione, a livello locale, tra l’INAIL, l’ISPESL e l’IPSEMA. Fermo restando che gli enti già collaborano in piena sinergia, il processo di integrazione istituzionale richiede naturalmente una certa gradualità, per tenere conto della diversa organizzazione di partenza.
Successivamente, sono stati auditi i rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri.
In Campania il Comando per la tutela del lavoro si articola in cinque nuclei provinciali, strettamente integrati con l’Arma territoriale che conta una capillare e diffusa presenza nella Regione. Richiamando l’organizzazione del Comando per la tutela del lavoro a livello nazionale, si è inoltre ricordato che a Napoli ha sede anche uno dei nuclei operativi con competenza interregionale. I Carabinieri hanno quindi riepilogato l’attività sia di vigilanza che di prevenzione relativamente agli infortuni sul lavoro svolta tra il 2010 e il 2011 nella regione Campania. In questo ambito, è stata richiamata la convenzione stipulata tra Ministero della difesa e Ministero del lavoro e delle politiche sociali per evidenziare il rapporto operativo esistente tra i Carabinieri della componente territoriale e la Direzione provinciale del lavoro, che si affianca a quello dei Nuclei della tutela del lavoro. I rappresentanti dell’Arma hanno inoltre ritenuto utile consegnare alla Commissione una serie di proposte elaborate dal Comando tutela del lavoro, tese a migliorare le azioni di prevenzione contro gli infortuni, sia pure tenendo conto che la loro competenza è esclusiva nel settore edilizio e solo residuale negli altri settori.
In particolare, riguardo all’obbligo di trasmissione preventiva dei piani di sicurezza e coordinamento, specialmente di quelli relativi ad opere che impegnano oltre 1.000 uomini al giorno, è stato proposto l’obbligo di trasmissione obbligatoria almeno 30 giorni prima della data di inizio dei lavori indicata nella notifica preliminare. Si è poi richiamato anche il tema della responsabilizzazione dei datori di lavoro, attraverso una maggiore qualificazione e ulteriori strumenti di incentivo economico per chi cura la formazione, sulla stessa linea della riduzione dei premi INAIL disposta dal testo unico per chi è in regola con la dichiarazione unica di regolarità contributiva. Si è inoltre proposta la creazione di una sorta di patente a punti del datore di lavoro per gli infortuni e le malattie sul proprio cantiere. Per i datori di lavoro più volte risultati inadempienti, invece, i Carabinieri hanno suggerito la non applicazione dei benefici di cui al decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 (riduzione ad un quarto dell’importo dell’ammenda). Infine si è proposto di introdurre una certificazione della qualifica dei lavoratori ed un inasprimento delle pene a carico del committente e/o del responsabile del lavoro.
Per quanto riguarda i dati operativi relativi agli incidenti sul lavoro della Regione Campania dei quali si è occupata l’Arma, è stato fatto il raffronto tra i vari settori (edilizia, industria e commercio) negli anni 2010-2011. Limitandosi alle attività dell’Arma territoriale (ed escludendo quindi quelle del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro), nel 2010 sono stati rilevati 47 infortuni, di cui 26 mortali, mentre nel 2011 si registra un calo, con 7 morti e 39 feriti. È stata inoltre evidenziata un’ottima collaborazione con gli altri enti del settore, dalle forze di polizia ai comparti speciali quale la sanità e, non ultimo, un ottimo coordinamento con i comitati provinciali che i prefetti seguono in maniera attenta e puntuale.
Il direttore regionale dei Vigili del fuoco della Campania, su richiesta della Commissione, ha confermato la difficoltà al decollo dell’attività del comitato di coordinamento regionale, riunitosi nell’ultimo anno una sola volta, auspicando un potenziamento dell’attività, posto che tale difficoltà si ripercuote anche sui coordinamenti provinciali. Ha poi fornito alcuni dati sull’attività di controllo svolta dai Vigili del fuoco, suddivisa tra i cosiddetti controlli obbligatori, relativi alle attività a maggior rischio di incendio che necessitano di un parere preventivo; il sopralluogo per il rilascio del certificato di prevenzione; e i cosiddetti controlli a campione o di settore. In questo caso specifico, le istruzioni impartite dall’amministrazione centrale negli ultimi anni hanno riguardato settori specifici: attività commerciali, strutture alberghiere, ospedali, scuole. In Campania, nel 2010, sono stati eseguiti 317 controlli a campione che hanno portato all’avvio dell’iter previsto dal decreto legislativo n. 758 del 1994 in 29 casi. Negli altri 11.000 controlli, quelli cosiddetti obbligatori, in cui è il richiedente a chiedere il parere di conformità, i casi di avvio dell’iter suddetto sono stati 115. Il dato significativo è che in Italia nelle aziende il numero degli incendi è uno tra i più bassi del mondo. A testimonianza del fatto che il modello basato sui controlli obbligatori, con l’individuazione di una serie di casistiche, ha funzionato in Italia.
È stato poi ricordato che, al momento della missione, era in corso una riforma della regolamentazione tendente a semplificare l’attività dei controlli obbligatori, introducendo per alcuni casi l’autocertificazione, perché con l’avvio dello sportello unico per le attività produttive e con l’attivazione della certificazione di inizio attività si tende alla responsabilizzazione dei liberi professionisti per quanto riguarda le attività a rischio minore. In tal senso la riforma proponeva la suddivisione delle varie attività e soggette alla prevenzione antincendi in tre fasce diverse, a seconda del grado di pericolosità e di complessità. Nella fascia intermedia, che includerà il 50 per cento delle attività, attualmente di competenza dei Vigili del fuoco, saranno professionisti esterni a certificare il rispetto di alcune regole tecniche16. È stata quindi sottoposta all’attenzione della Commissione l’attivazione di protocolli d’intesa con alcune associazioni di categoria, a partire dall’Unione degli industriali, per favorire la diffusione della cultura della sicurezza, responsabilizzando gli imprenditori e dando loro il segno di una maggiore vicinanza del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco.
Un discorso analogo è previsto con le strutture sanitarie e con gli ordini professionali per incentivare una migliore formazione degli iscritti agli ordini al fine di migliorare il rispetto delle regole tecniche nelle certificazioni riguardanti la sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro di loro competenza.
Infine, si è sottolineato come in Campania il numero degli interventi di soccorso a seguito di infortuni o di incendio sia abbastanza limitato, in parte anche a seguito della crisi economica che ha portato alla riduzione delle attività. In ogni caso si è rilevato che la prevenzione degli incendi ha dato risultati abbastanza positivi. I controlli per la prevenzione degli incendi svolti ogni anno dal Corpo dei Vigili del fuoco in Campania sono 11.000 tra pareri di conformità, sopralluoghi e rilascio del certificato prevenzione incendi.
I rappresentanti delle organizzazioni sindacali hanno osservato preliminarmente che la diminuzione degli infortuni sul lavoro rilevata dai dati INAIL in Campania, certamente positiva, per una lettura corretta deve però essere valutata anche alla luce di fenomeni come il calo dell’occupazione a seguito della crisi, l’aumento del lavoro nero e, di conseguenza il verificarsi di infortuni sul lavoro, anche gravi, che non vengono denunciati.
Le fasce di lavoratori più colpite da tali incidenti sono le donne e i giovani. In tale contesto è stata contestata la disposizione del decreto legislativo n. 81 del 2008 che restringe gli ambiti della denuncia: i tempi per effettuarla sono stati ridotti e ora non è più obbligatorio compiere determinati atti presso gli organi preposti.
I sindacati hanno poi fatto presente la richiesta effettuata all’INAIL, di avere una comparazione tra i dati relativi al livello dell’attività produttiva e alla forza lavoro impegnata e i dati degli incidenti mortali registrati.
L’INAIL si è impegnata a fornire tale dato nel prossimo rapporto. Si è infatti osservato che, se da un lato viene registrato un numero più basso di incidenti sul lavoro, dall’altro vi è stato anche un aumento degli infortuni in generale e delle malattie professionali. Si è quindi fatta presente la necessità di maggiori controlli nelle aziende con più 15 dipendenti e di un sistema informativo regionale in condizione di interloquire con quello nazionale.
I settori cui ci si riferisce sono in particolare quello edilizio e agricolo. Nel settore agricolo si è rilevato come i lavori vengano effettuati con le stesse modalità degli anni cinquanta e sessanta, senza protezioni o utilizzando in modo irregolare i trattamenti antiparassitari. Senza contare che in agricoltura l’80 per cento della forza lavoro è composta da immigrati, spesso clandestini, di conseguenza i dati risultano difficili da commentare.
In risposta anche a una sollecitazione della Commissione, le organizzazioni sindacali hanno richiamato l’attenzione sul problema dei lavori di appalto e subappalto, non soltanto nel settore dell’edilizia ma anche in altri settori di servizi quali, ad esempio, gli appalti per le pulizie. In proposito si sono sollecitati maggiori controlli da parte degli enti preposti alla sicurezza per quanto riguarda le offerte al massimo ribasso, in particolare da parte dei Comuni che per legge sono responsabili dell’appalto, anche per quanto riguarda la sicurezza.
Si è poi chiesta la disponibilità di incentivi per le aziende virtuose che non facciano registrare incidenti mortali e malattie professionali, quali ad esempio un abbattimento dell’imposta IRAP, nonché una maggiore presenza degli RLS e RSU sui luoghi di lavoro e una loro più specifica formazione in materia di sicurezza. Infine, si è sollecitato un maggiore confronto con le istituzioni anche su eventuali modifiche legislative, segnalando la difficoltà, a livello locale, di interloquire su alcuni temi.
Alla richiesta di chiarimenti della Commissione, circa l’applicazione dei fondi stanziati da una legge del 2007 sulla sicurezza del lavoro, che mette a disposizione della Regione, in accordo con imprenditori e Confindustria, 10 milioni di euro, è stato risposto che, in tutta probabilità, la regione Campania non ne ha usufruito. Per quanto riguarda il decreto legislativo n. 81 del 2008 è stata inoltre illustrata una proposta di legge regionale che tiene conto di alcune specificità del territorio campano. Tale proposta legislativa riguarderebbe il lavoratore al primo impatto con il luogo di lavoro e consisterebbe in una settimana di formazione dedicata alla conoscenza dei luoghi di lavoro e alla sicurezza allo scopo di evitare il rischio della non conoscenza del luogo di lavoro. A tale riguardo esiste una intesa preliminare tra le associazioni e le organizzazioni datoriali, che si concretizzerebbe in una suddivisione del carico organizzativo: tre giorni a carico delle imprese e tre a carico della Regione.
Per le piccole imprese è stata auspicata una maggiore attenzione da parte delle istituzioni per la realizzazione di un sistema di RLST sul territorio che possa operare anche nei loro confronti ai fini della sicurezza sul lavoro, auspicando che la Regione riprenda una specifica proposta di legge sul tema, già presentata lo scorso anno. Ulteriori cenni sono stati fatti sul tema della formazione a partire dagli istituti scolastici di primo grado fino all’università, al fine di garantire un percorso in tema di salute e sicurezza sul lavoro in particolare agli ingegneri. Infine, da più parti è stata sottolineata la necessità viva ed attuale di promuovere le attività di coordinamento previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008, non ancora abbastanza sviluppate.
Le associazioni datoriali e imprenditoriali, nel corso della loro audizione, hanno lamentato una particolare pressione dei controlli ispettivi, auspicando una maggiore uniformità e univocità degli stessi, in particolare per quanto riguarda il lavoro sommerso, fenomeno molto diffuso nel territorio e per la cui individuazione non si procede però in maniera abbastanza intensa. I rappresentanti datoriali hanno poi osservato problematiche sulla gestione dei tempi relativi ai bandi di gara, in particolare nel settore edile. L’eccessiva burocratizzazione ha spesso causato rallentamenti delle lavorazioni a causa di problemi di natura amministrativa o finanziaria. Tali rallentamenti, seguiti da accelerazioni improvvise per rispettare le scadenze ed evitare di incorrere nell’applicazione di penali, hanno come prima conseguenza un aumento del rischio nel settore della sicurezza. In questo contesto è stato inoltre richiesto anche un maggiore controllo sui ribassi anomali nella piccola industria, spesso conseguenza di attività illecite o di tagli ai costi operati da aziende in crisi, che vanno sovente ad incidere sulla sicurezza. Infine, è stata ribadita la richiesta di una semplificazione dei controlli. Relativamente al settore agricolo è stata illustrata una iniziativa sperimentale di indagine in corso sull’uso delle sostanze e sui rischi impattanti, legati soprattutto al rischio chimico, per la quale si auspica coordinamento e sinergia da parte di tutti i soggetti attori della sicurezza. In termini generali, sono stati lamentati da tutti i settori i maggiori costi per l’esercizio delle imprese al Sud, che incidono del 20-25 per cento in più rispetto ad altre aree del Paese. A tale difficoltà si aggiungono i ritardi nei pagamenti, anche da parte delle amministrazioni pubbliche. Il tutto, causando problemi di tipo economico, inciderebbe in parte anche sugli investimenti riguardanti la sicurezza. È stata poi proposta la possibilità di utilizzare il comitato consultivo INAIL per verificare i rischi all’interno delle aziende e dei cantieri al fine di promuovere l’adozione delle procedure di sicurezza corrispondenti ai reali fabbisogni delle singole attività. Tale strategia dovrebbe collaborare con le imprese attraverso il sistema delle associazioni per consentire una adeguata valutazione dei rischi caso per caso e fare in modo che, internamente alle aziende, si svolga un processo di informazione sui rischi in cui possono incorrere i dipendenti, anche al fine di consentirne una adeguata conoscenza da parte di questi ultimi.
Per quanto riguarda il decreto legislativo n. 81 del 2008 è stato osservato che, rispetto al territorio campano, le norme in questione risultano poco efficaci, in quanto privilegiano più la repressione che la prevenzione, consentendo il superamento di illeciti più dal punto di vista formale che sostanziale. Soprattutto per quanto riguarda le piccole imprese agricole, infatti, si riscontrano molti casi di furto di mezzi ed attrezzature agricole, estorsioni e ricatti, anche sotto forma di imposizione di manodopera extracomunitaria e trasporti. È stata proposta una maggiore diffusione della cultura della sicurezza, già peraltro avviata in ambito sindacale con percorsi di formazione e informazione ai lavoratori e ai datori di lavoro in sinergia con società esperte nel settore nonché con consulenze e supporto operativo per la fase di start up e consolidamento aziendale. Le organizzazioni dell’artigianato hanno inoltre proposto una semplificazione dei controlli, in particolare da parte dai Comitati paritetici territoriali (CPT) le cui ispezioni spesso si sovrappongono a quelle delle ASL e dell’Ispettorato del lavoro presso le stesse aziende.
Sempre riguardo al decreto legislativo n. 81 del 2008, è stato poi osservato che per quanto concerne gli appalti sarebbe necessario prevedere, anche in corso d’opera, su segnalazione delle imprese o del direttore dei lavori, la possibilità di modificare i costi della sicurezza. Questo in quanto gli oneri della sicurezza sul lavoro sono previsti in percentuale fissa prescindendo dalla possibilità che vengano effettuate lavorazioni particolari. I rappresentanti della Camera di commercio hanno quindi richiamato i positivi risultati derivanti da un protocollo d’intesa stipulato con il Comune di Napoli ed altri soggetti pubblici, che ha portato alla costituzione dell’osservatorio permanente «Napoli città sicura» sulla sicurezza nella provincia di Napoli. In aggiunta sono state attuate una serie di attività in cui sono state coinvolte le università, i sindacati e tutte le rappresentanze che hanno sottoscritto tale protocollo. È stato quindi auspicato che tale iniziativa venga allargata con un coordinamento regionale.

4.7. Sopralluogo a Cagliari (10-11 luglio 2011)
Il 10 e 11 luglio 2011 una delegazione della Commissione, con il presidente Tofani e i senatori Maraventano e Nerozzi, ha svolto un sopralluogo a Cagliari. Anche in questo caso la missione era volta ad acquisire informazioni sull’andamento del processo di attuazione del citato testo unico e sulle varie questioni legate alle attività di prevenzione e tutela a favore della salute e della sicurezza sul lavoro nel territorio regionale. Il sopralluogo rivestiva particolare interesse anche in rapporto al regime di autonomia speciale riconosciuto alla regione Sardegna e al conseguente assetto organizzativo disegnato in questo settore.
Nel corso della prima audizione, il vice prefetto vicario di Cagliari ha ricordato come la Sardegna sia una regione non molto popolata, che ha solamente 1,6 milioni di abitanti, con due grossi bacini demografici (Cagliari e Sassari) e tre importanti agglomerati industriali, Sarroch, Assemini e Porto Torres, intorno a cui gravita il fragile tessuto economico regionale.
Tale struttura ha risentito pesantemente della crisi degli ultimi anni: basti pensare che nell’ultimo quinquennio vi è stato quasi il 252 per cento di aumento nel ricorso agli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. Ciò ha determinato un drastico calo dell’occupazione, che ha inciso anche sugli infortuni, scesi tra il 2009 e il 2010 del 4,3 per cento nel complesso e del 34,1 per cento per quanto riguarda i casi mortali.
Tale riduzione è comunque dovuta anche alle numerose attività di prevenzione messe in campo negli ultimi tempi dalla Regione e dai vari organi competenti.
In particolare nel 2010, tra ottobre e novembre, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha stipulato due convenzioni, una con il Nucleo tutela del lavoro del Comando regionale dei Carabinieri, una con il Comando regionale della Guardia di finanza per incrementare i controlli all’interno delle aziende, sia nel settore industriale (di prima generazione, quindi non molto avanzato e che ha bisogno di un ammodernamento anche dal punto di vista strutturale), sia nei settori classici dell’economia sarda, che sono la pastorizia e l’agricoltura, dove è impiegato ancora il maggior numero degli addetti. In tal modo nel 2010 le forze dell’ordine hanno visitato oltre 6.800 aziende e hanno elevato contravvenzioni in circa il 27 per cento dei casi, il che testimonia una situazione abbastanza regolare anche sotto il profilo dell’attuazione del nuovo decreto legislativo n. 81 del 2008. Dal canto suo, la Regione ha riattivato, all’inizio del 2011, il comitato regionale di coordinamento, con i vari soggetti del sistema della prevenzione, mentre le ASL operano in maniera interdisciplinare, di concerto con le Direzioni provinciali del lavoro e con il Nucleo di tutela dei Carabinieri. A quest’attività si affianca l’azione del prefetto a livello periferico, anche nel campo specifico del coordinamento tra le forze di polizia.
Il coordinamento prefettizio assume poi una valenza particolare per quanto riguarda l’attività dei gruppi interforze che operano nell’ambito della legge obiettivo per il contrasto alla criminalità organizzata nelle grandi opere infrastrutturali e che coinvolgono tutti i corpi ispettivi. In tal modo i controlli nei luoghi di lavoro coprono ogni aspetto, anche ai fini della regolarità del lavoro, strettamente connessa alla prevenzione infortunistica.
Sebbene non esistano al momento grandi opere infrastrutturali in essere in Sardegna, la recente legislazione ha consentito ai prefetti di estendere questi controlli al di là della lotta contro la mafia, sviluppando controlli mirati anche nei cantieri edili.
Infine, il vice prefetto vicario ha richiamato due gravi incidenti verificatisi presso la raffineria Saras di Sarroch, in entrambi i quali sono deceduti operai rimasti intossicati all’interno di una cisterna: il primo avvenuto il 26 maggio 2009, nel quale morirono tre operai17 e il secondo l’11 aprile 2010, in cui due operai sono rimasti intossicati ed un terzo è purtroppo deceduto.
Nel successivo incontro, l’assessore al lavoro della regione Sardegna ha illustrato l’attività di prevenzione messa in campo dalla Regione, incentrata sulla formazione e sulla promozione della cultura della sicurezza.
L’assessore alla sanità ha a sua volta confermato l’attivazione del comitato regionale di coordinamento, che in Sardegna vede la partecipazione di ben 60 componenti, un numero fin troppo elevato. Costituito nel 2009, il comitato nella nuova legislatura è stato convocato per la prima volta nel gennaio 2011, ma per una serie di difficoltà la riunione non si è tenuta ed è stata rinviata al mese di luglio.
Alla richiesta della Commissione di chiarire la composizione del comitato, posto che la stessa appare diversa e assai più numerosa rispetto a quanto previsto dalla normativa (il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 5 del 7 gennaio 2008)18, l’assessore alla sanità ha precisato che il comitato è stato integrato con la legge regionale costitutiva, prevedendo la partecipazione di molti altri soggetti. Questo ha reso molto più complessa la gestione, spiegando in parte anche il ritardo nella convocazione dell’organismo, dovendosi garantire la presenza di tutti i componenti per potersi riunire. A ciò si è aggiunta una certa confusione nella stesura iniziale della legge regionale, poi corretta.
Malgrado queste difficoltà, la regione Sardegna ha attuato vari interventi: ad esempio nel 2009 ha stanziato 4 milioni di euro per incrementare le professionalità presenti nei Servizi di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL) della Regione, assumendo personale che è stato poi distribuito tra le varie ASL. Circa 100.000 euro sono poi stati destinati a un piano di formazione regionale, suddiviso tra i vari settori: pesca, agricoltura, edilizia, con un’attenzione speciale per l’amianto, dove peraltro la Sardegna già vanta una legge regionale apposita per la sua eliminazione, tra le poche in Italia. Un’iniziativa molto importante è poi la sottoscrizione di un’intesa con l’INAIL regionale per lo stanziamento di circa 4 milioni di euro per la copertura assicurativa dei trattori, anche in Sardegna tra le principali cause di infortuni nel mondo agricolo.
Ancora, è stata richiamata la legge regionale n. 8 del 2008, che elargisce provvidenze a favore dei familiari delle vittime degli incidenti sul lavoro in Sardegna, ricomprendendo anche i lavoratori sardi che hanno incidenti sul lavoro al di fuori della Regione, un tema molto sentito.
La Commissione ha evidenziato le proprie perplessità rispetto alla composizione del comitato regionale di coordinamento, in quanto il numero di 60 membri sembra eccessivo e addirittura pletorico, ponendo chiare difficoltà di ordine gestionale, anche per gli interessi talora confliggenti che si possono creare. Gli assessori alla sanità e al lavoro, pur riconoscendo il numero sicuramente eccessivo dei componenti del comitato, hanno chiarito che il lavoro del comitato è comunque affiancato da una serie di sedi tecniche più ristrette, che consentono una migliore gestione.
Inoltre, il tessuto economico sardo è estremamente variegato: a parte i grandi poli industriali e il settore turistico, che contano un maggior numero di occupati, il 95 per cento delle attività sono esercitare da piccolissime imprese con meno di cinque dipendenti, anche se il settore più importante per l’occupazione resta la pubblica amministrazione. Ciò comporta esigenze della sicurezza molto eterogenee nei vari settori e giustifica la necessità di prevedere nel comitato una rappresentanza più ampia dei vari settori, sia sotto il profilo istituzionale che sociale.
Il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Cagliari ha quindi riferito sull’attività in campo antinfortunistico della magistratura locale, richiamando un protocollo d’intesa recentemente stilato che prevede incontri periodici (cadenzati almeno semestralmente) con gli enti competenti in materia, in particolare con la Regione, le ASL, l’INAIL, per fare il punto della situazione e monitorare l’andamento degli infortuni sul lavoro, che restano abbastanza frequenti, ad esempio nel settore stradale. I fenomeni sono seguiti con attenzione, anche se solo nel caso della procura di Cagliari, che è abbastanza grande, è possibile creare un pool specializzato di magistrati, essendo le procure di Oristano e Nuoro molto più piccole.
Il direttore regionale dell’INAIL ha illustrato un progetto dell’Istituto, già richiamato dai rappresentanti della Regione, per il finanziamento della messa in sicurezza dei trattori agricoli, al fine di contrastare i frequenti incidenti legati al ribaltamento di tali mezzi. Tale finanziamento si avvale di fondi specifici per la prevenzione, messi a disposizione dall’INAIL su base regionale. Sono stati poi richiamati una serie di iniziative e di progetti per la prevenzione degli infortuni proposti dalle parti sociali, in genere dal Comitato paritetico territoriale (CPT), e anche da province, regioni e scuole che fanno iniziative particolari o da associazioni che organizzano iniziative nelle scuole. Un’altra iniziativa molto interessante, finanziata con 200.000 euro, riguarda il polo industriale di Sarroch, dove si sta cercando di realizzare gruppi di lavoro comuni tra le strutture della Saras, la grande impresa che gestisce la raffineria, e quelle delle piccole imprese appaltatrici che lavorano nel sito, per creare una cultura comune che faciliti gli scambi, la formazione e gli interventi in materia di sicurezza.
Il direttore dell’Ufficio regionale del lavoro, dopo aver ricordato l’esiguità del personale ispettivo (173 funzionari amministrativi e solo 15 tecnici), ha lamentato la difficoltà di realizzare una collaborazione istituzionale con la regione Sardegna, sia in passato sia successivamente, dopo la creazione del comitato regionale di coordinamento. Questo si è riunito una sola volta nella passata legislatura e, dopo essere stato recentemente ricostituito, ha avuto una riunione di insediamento a gennaio 2011, peraltro rinviata a luglio perché mancavano alcuni dei componenti.
Per quanto riguarda l’attività ispettiva, dai dati si evince che nell’edilizia si riscontrano le punte massime di irregolarità dei rapporti di lavoro: il 79,82 per cento delle aziende ispezionate nel corso del 2010, leggermente diminuite nel 2011 al 76 per cento. Proprio nelle attività di vigilanza si riverberano gli effetti negativi della mancanza di sinergia con la Regione, dove permangono duplicazioni e sovrapposizioni, soprattutto nel rapporto con le ASL. Vi è stata quindi da parte dei rappresentanti dell’Ufficio regionale del lavoro la richiesta forte di poter avere un maggiore coordinamento fra tutti gli organi ispettivi e di disporre di un unico modello di verbalizzazione. Ancora, si è criticato il ricorso al massimo ribasso nell’aggiudicazione degli appalti, dato che ciò conduce, per esperienza, quasi sempre al taglio delle spese per la sicurezza per vincere la gara, specie da parte delle aziende meno serie. Infine, con riferimento alle lavorazioni negli spazi confinati, spesso fonte di tragici incidenti sul lavoro che hanno funestato anche la regione Sardegna, è stato illustrato uno specifico progetto condotto dall’Ufficio regionale del lavoro, che ha verificato nei poli industriali più importanti della provincia di Cagliari (Sarroch e Portovesme), come erano gestiti in questo settore gli aspetti della sicurezza, dalla formazione e informazione del personale delle ditte appaltatrici, alle misure di protezione e prevenzione, alla gestione dell’emergenza.
Un aspetto apparso carente è la verifica della idoneità sanitaria specifica dei soggetti che operano in spazi confinati. Le esperienze maturate saranno poi estese ad aziende più piccole operanti presso committenti meno strutturati e meno organizzati rispetto a quelli dei poli industriali.
Il comandante della Legione Carabinieri della Sardegna ha evidenziato la costante sinergia tra i Nuclei tutela del lavoro e l’Arma territoriale, che si giova della capillare presenza nella Regione, anche in comuni di 100 o 200 abitanti. Sul fronte delle attività investigative, particolare attenzione viene posta nella lotta al lavoro sommerso, molto diffuso in Sardegna soprattutto tra le piccole imprese e spesso legato ad altri fenomeni di illegalità. Ci sono stati importanti successi anche nel contrasto al fenomeno del caporalato, peraltro molto limitato in Sardegna, mentre maggiore preoccupazione desta il settore agropastorale, attività tradizionale della Regione, che è predominante in molte zone dell’interno e ha dinamiche e problematiche del tutto peculiari. Ad esempio il libero pascolo degli animali nella zona dell’Ogliastra e della Barbagia ha creato casi di malattie che hanno colpito soprattutto i suini, compromettendo la salubrità di alcuni prodotti derivati. Purtroppo molte di queste attività sfuggono ai controlli e sono quindi esposte a certi rischi. Diverso è tutto ciò che si svolge sulla costa, nei territori della Gallura, nel Campidano, dove vi sono attività di carattere più industriale.
Per quanto riguarda il Corpo dei Vigili del fuoco, il direttore regionale ha evidenziato 37 interventi per infortuni nel corso del 2010, in genere per casi non gravi. Peraltro, le attività dei Vigili del fuoco in questo campo sono più limitate, essendo la loro attività orientata prevalentemente alla prevenzione antincendi ai fini del rilascio o rinnovo del relativo certificato.
Il tema è sensibile posto che, in Sardegna come altrove, da un lato il Corpo non riesce a completare sempre le richieste nei tempi previsti dalla legge (un anno), dall’altro i titolari delle imprese tardano ad adeguarsi alle prescrizioni imposte, con tempi medi di quattro anni. Altro aspetto è quello dei controlli successivi a campione, che in Sardegna arrivano a 300-400 all’anno: anche in questo caso si tratta però di una quota minima rispetto al numero delle attività esistenti.
I rappresentanti sindacali, dal canto loro, hanno confermato la forte riduzione del numero degli infortuni in Sardegna negli ultimi anni, che sconta però l’effetto della crisi e del drastico calo delle ore lavorate, che in questa Regione sono stati particolarmente pesanti: la disoccupazione è al 13,5 per cento e quella giovanile sfiora il 48 per cento, inoltre vi è stato un ricorso enorme agli ammortizzatori sociali, che nel 2010 hanno riguardato 97.000 lavoratori. Data la struttura produttiva sarda, formata prevalentemente da piccolissime imprese, dove è molto più difficile fare attività di prevenzione e di informazione-formazione, i sindacati hanno evidenziato i pericoli per la sicurezza dei lavoratori insiti nelle attuali difficoltà economiche, che possono incentivare la diffusione del sommerso tra le aziende. In questo senso essi hanno denunciato i ritardi nell’attuazione del testo unico e nella costituzione del comitato regionale di coordinamento, mettendo sotto accusa l’inerzia della Regione. Al riguardo, è stata quindi sottolineata con grande forza la necessità di rilanciare quanto prima l’azione del comitato, soprattutto sul fronte del coordinamento tra gli enti ispettivi, che in Sardegna registra gravissime carenze, indebolendo l’azione di prevenzione e di contrasto. Legato a tale aspetto è, secondo i sindacati, l’insufficiente potenziamento degli organici ispettivi, per il quale si è anche proceduto male, considerato che molti degli ispettori assunti recentemente non avrebbero il profilo tecnico più idoneo per l’attività di controllo. Si è altresì lamentata la difficoltà (talora insormontabile) per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza aziendali e territoriali di entrare nelle piccole imprese, che sono la stragrande maggioranza del tessuto produttivo regionale, chiedendo un rafforzamento di queste figure. Altri temi toccati sono stati infine la diffusione del lavoro nero, che è totalmente sommerso, e le gravi storture derivanti dal ricorso al massimo ribasso negli appalti e subappalti.
Sul tema degli infortuni, mentre negli ultimi anni risultano in diminuzione quelli in ambiente di lavoro (da 14.728 nel 2009 a 13.007 nel 2010, -11,7 per cento), restano invece quasi costanti quelli su strada, in particolare quelli in itinere (da 1.974 nel 2008 a 1.946 nel 2010, -1,4 per cento).
A livello settoriale, il settore più preoccupante è l’agricoltura, che occupa solo il 5,8 per cento della forza lavoro, ma registra il 16 per cento del totale degli infortuni in Sardegna, ossia più del doppio del dato nazionale, pari al 6 per cento. Diminuiscono invece gli incidenti nell’industria manifatturiera, nonché nell’edilizia e nei servizi, mentre preoccupa l’alto numero di infortuni negli uffici pubblici (1.714 nel 2010): segno che le regole della prevenzione dovrebbero essere applicate proprio a cominciare dalla pubblica amministrazione. Altrettanto preoccupante il fatto che gli incidenti non si concentrino nei territori della Regione a più alta vocazione industriale come il Sulcis-Iglesiente, ma in quello di Cagliari (5.800), cui seguono Sassari e Olbia-Tempio.
I rappresentanti delle organizzazioni datoriali hanno, da parte loro, sottolineato il dato positivo della diminuzione degli infortuni in Sardegna confermatasi nel 2010 e che è frutto anche degli sforzi compiuti in questi anni, sulla base di una maggiore consapevolezza culturale, dal sistema delle imprese sul versante della prevenzione e della formazione, in collaborazione con le parti sociali e gli enti istituzionali, a cominciare dall’INAIL.
Al riguardo sono stati citati una serie di progetti, tra i quali quello sviluppato nell’area di Sarroch su tre grandi imprese committenti e sulle relative aziende appaltatrici, per un totale di 500 lavoratori. Anche nel mondo delle cooperative è stata sottolineata questa attenzione, denunciando nel contempo il problema delle cooperative non associate alle centrali che non svolgono attività di prevenzione o di formazione. Ancora, si è chiesta l’introduzione della «patente a punti» in edilizia al fine di tutelare le imprese più attente nei confronti della sicurezza dei lavoratori, riconoscendo magari delle agevolazioni sotto forma di riduzioni dei premi assicurativi INAIL.
Sempre in merito al settore edile, è stata segnalata l’intensa attività di prevenzione svolta dal Comitato paritetico territoriale, ad esempio attraverso un progetto realizzato con l’INAIL della regione Sardegna, denominato «Cantieri e salute», che coinvolge circa 1.000 operai, con visite mediche specifiche sull’alcolismo e sull’apparato muscolo-scheletrico. Per quanto concerne il settore agricolo, si è ricordato che in Sardegna operano circa 22.000 aziende assicurate presso l’INPS, che nel 2010 hanno subito 2.247 infortuni, una quota ancora molto alta, per fronteggiare la quale le associazioni di categoria stanno cercando di fare una continua attività di formazione. I rappresentanti del settore dell’artigianato hanno chiesto poi una riduzione degli adempimenti burocratici, di per sé assai gravosi per le piccole imprese del comparto, e una maggiore attenzione agli aspetti sostanziali della sicurezza, ricordando l’intensa attività di formazione svolta verso i loro associati, attraverso i comitati paritetici territoriali e in collaborazione con i sindacati. Infine, anche essi hanno sollecitato un maggiore coordinamento tra gli enti preposti alla sicurezza, coordinamento che finora è mancato.

4.8. Sopralluogo a Potenza (11-12 settembre 2011)
L’11 e 12 settembre 2011 una delegazione della Commissione, composta dal presidente Tofani e dai senatori Antezza e De Luca ha compiuto un sopralluogo a Potenza, per verificare lo stato di attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 nonché l’organizzazione del sistema di prevenzione e contrasto degli infortuni e delle malattie professionali nel territorio della regione Basilicata.
Nel corso della prima audizione, il presidente della regione Basilicata ha sottolineato in prima battuta come, già prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2008, con l’adozione della legge regionale 18 dicembre 2007, n. 27, si erano avviate alcune iniziative sia sul versante della prevenzione, che sul piano della formazione e del coordinamento nel settore degli infortuni sul lavoro. Tra le disposizioni contenute nella legge ha ricordato in particolare quelle relative all’istituzione del comitato regionale di coordinamento nonché l’istituzione di un osservatorio dedicato al comparto dell’edilizia e dei lavori pubblici, incardinato in capo al Dipartimento infrastrutture. La regione Basilicata ha inoltre messo in atto importanti attività di formazione, con il contributo e la collaborazione di sindacati e datori di lavoro, oltre ad avere istituito un apposito fondo, già peraltro utilizzato in 18 casi, per l’erogazione di un contributo una tantum a favore delle famiglie dei lavoratori coinvolti in incidenti mortali.
Si tratta purtroppo di un fondo non particolarmente cospicuo date le difficoltà economiche che attraversano tutti gli enti pubblici.
Il presidente della Regione ha fatto inoltre presente che, accanto alla costituzione del comitato regionale di coordinamento, sono stati individuati una serie di obiettivi nell’ambito degli accordi tra Stato e Regione, riguardanti specificamente la salute sui luoghi di lavoro, tra i quali spicca il tema della prevenzione degli infortuni. A tal fine il competente Dipartimento impartisce annualmente direttive vincolanti alle aziende sanitarie per la realizzazione di iniziative specifiche. Per quanto riguarda l’attività di verifica ispettiva, è stato specificato che il numero delle aziende sottoposte ai controlli nella regione Basilicata ha superato la soglia minima del 5 per cento annuo individuata nel Patto nazionale per la salute mentre, per quanto attiene alla formazione e all’educazione, queste ultime sono state perseguite in particolare attraverso una importante azione di coordinamento sia con l’INAIL che con le organizzazioni sindacali e datoriali che è sfociata in diverse iniziative sul territorio regionale. Particolare preoccupazione è stata infine espressa per il blocco del turn over e per la riduzione delle risorse finanziarie, soprattutto nel settore della sanità, che potrebbero compromettere alcuni servizi, tra cui in modo particolare quelli legati alla prevenzione e alla salute nei luoghi di lavoro.
A sua volta l’assessore regionale alla salute ha sottolineato come la regione Basilicata abbia sempre soddisfatto tutti gli obiettivi definiti a livello nazionale per i livelli essenziali di assistenza (LEA), tra cui anche quelli legati alla prevenzione nei luoghi di lavoro, a cominciare dal superamento della soglia del 5 per cento delle aziende sottoposte a controllo, raggiunto grazie a forme di vigilanza congiunta in collaborazione con l’INAIL, l’ISPESL e con l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA). Ha aggiunto poi che il Dipartimento della salute ha proposto nel 2008 un programma di informazione, formazione e assistenza che nel 2011 è stato adottato con una delibera della giunta regionale, al quale fanno riferimento anche i programmi del piano di prevenzione per il periodo 2010-2012. Ha inoltre specificato che presso il Dipartimento della salute viene svolta anche una attività di sorveglianza epidemiologica. È stato creato un registro dei mesoteliomi, attraverso il quale viene effettuato un monitoraggio di tutte le attività a rischio in ambito regionale, in relazione all’insorgenza di patologie legate alla presenza di amianto o di sostanze chimiche cancerogene. I soggetti che per ragioni professionali sono esposti alle suddette sostanze, vengono quindi sottoposti ad uno screening annuale al fine di consentire di monitorarne lo stato di salute ed eventualmente l’insorgere, anche in fase precoce, di patologie oncologiche.
La regione Basilicata ha inoltre inserito tra gli obiettivi che pone alle ASL l’attività di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, individuando dei parametri in tal senso per valutare l’attività gestionale delle aziende.
La regione Basilicata ha inoltre realizzato l’insediamento del comitato regionale di coordinamento all’interno del Dipartimento della salute, cui partecipano tutte le organizzazioni datoriali, sindacali e le diverse autorità competenti per materia. Tale comitato, coordinato dal Dipartimento, si è dato una sua organizzazione e, con l’insediamento della nuova Giunta, è stato aggiornato nella sua composizione. Per quanto riguarda più in dettaglio le attività di prevenzione svolte in Basilicata, gli ambiti individuati come particolarmente esposti al rischio di infortunio sono l’edilizia e l’agricoltura. Nel 2009 si è partiti con l’edilizia, prevedendo l’ispezione congiunta di 100 cantieri. Le indicazioni relative a tali controlli e quelle elaborate per il Piano nazionale di prevenzione in agricoltura e in selvicoltura sono state successivamente riprese dal Piano regionale della prevenzione 2010-2012. Nell’anno 2009 su 2.541 cantieri notificati, ne sono stati controllati dalle ASL 1.322, pari al 52 per cento e, di questi, 105 (quindi circa l’8 per cento) in maniera congiunta da ASL e altre autorità. Tale attività, in particolar modo da parte dell’ISPESL di Matera, è stata poi opportunamente richiamata in uno studio statistico che dà evidenza del monitoraggio effettuato.
Al momento del sopralluogo della Commissione, i dati riferiti al 2010 erano ancora in corso di elaborazione; in ogni caso era già possibile affermare che le attività di controllo delle ASL nel 2010 erano risultate almeno pari al 50 per cento dei cantieri notificati. Inoltre, sono state organizzate specifiche attività di coordinamento riguardanti cantieri di particolare importanza, come ad esempio il cantiere riguardante la realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sul quale sono state svolte attività di monitoraggio e di coordinamento interistituzionale per poter garantire la massima sicurezza. Nel mese di luglio del 2009 sono stati insediati gli organismi provinciali ed è stata implementata, sia in provincia di Potenza che in provincia di Matera, la vigilanza congiunta, che ha visto impegnate in particolare ASL e Direzione provinciale del lavoro (DPL). Nel corso del 2010 si è proceduto alla richiesta di conferma o di sostituzione dei componenti del comitato regionale di coordinamento e successivamente alla sua ricostituzione. Riguardo l’attività di quest’ultimo è stata riscontrata una certa difficoltà per quanto riguarda l’alimentazione delle informazioni destinate al Sistema informativo nazionale della prevenzione.
Tale problematica è stata attribuita in parte alle carenze di organico già segnalate dal presidente della Regione.
Anche per l’attività di vigilanza congiunta – utile anche al datore di lavoro in quanto consente di poter avere in un unico momento dai diversi organismi una lettura comune sulle problematiche relative alla sicurezza e sugli adempimenti da porre in essere –, pur essendo la stessa abbastanza sviluppata, è stato espresso un auspicio affinché possa trovare ulteriori momenti di rafforzamento. A tal fine è stata svolta un’ampia campagna informativa, ci sono stati ben due expo dedicati alla sicurezza, cui hanno preso parte la Regione, le ASL, l’INAIL e tutte le autorità competenti in materia. In conclusione, per quanto riguarda i dati statistici relativi agli infortuni, si è evidenziato che da un raffronto tra il 2007 e il 2009 si evince un calo degli infortuni del 4,4 per cento, dato che sale ulteriormente al -6,8 per cento nel confronto tra 2009 e 2010. Per gli infortuni mortali, invece, sono stati registrati 13 casi nel 2009 a fronte di 10 nel 2010, pari ad un calo di circa il 23 per cento.
L’assessore regionale al lavoro, dal canto suo, ha illustrato l’attività svolta in materia di formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro dal Dipartimento formazione, lavoro, cultura e sport. A tal fine è stato costituito un gruppo di lavoro interdipartimentale, avente lo scopo di mettere a punto un quadro complessivo di riferimento coordinato e promuovere la cultura della sicurezza e della prevenzione, nonché per gestire attivamente la funzione. Il gruppo di lavoro, insediatosi nel mese di ottobre 2010, è attualmente operativo con una serie di corsi realizzati dai soggetti formatori individuati dalla normativa nazionale.
L’assessore ha ricordato inoltre una serie di attività del Dipartimento in materia di formazione sulla sicurezza, come ad esempio un avviso pubblico denominato «Piani formativi territoriali per la sicurezza sul lavoro», che è stato finanziato con i fondi rivenienti dalla legge 19 luglio 1993, n. 236. L’attuazione è stata affidata alle province di Matera e di Potenza, per quest’ultima sono stati realizzati 215 piani formativi cui hanno partecipato 438 imprese, con il coinvolgimento di 1.813 lavoratori. È stato poi emanato con una delibera di Giunta nel 2008 un secondo avviso, «Formazione e competitività d’impresa», che è stato finanziato nell’ambito dell’asse 1 dell’adattabilità del Fondo sociale europeo (FSE) e attuato nel 2009. Quest’ultimo ha visto il coinvolgimento di 243 imprese e di oltre 4.000 lavoratori. Infine, al momento dell’incontro era in corso un terzo avviso pubblico, «Un ponte per l’occupazione», cui hanno preso parte circa 800 corsisti, che comprende anche corsi miranti a fornire la competenza professionale per garantire la sicurezza e la protezione sui luoghi di lavoro.
Questi corsi sono stati delegati alle agenzie provinciali così come da normativa ed hanno una durata di 40 ore. In conclusione, l’assessore regionale al lavoro ha citato un ulteriore impegno del Dipartimento di formazione, relativo alla progettazione di interventi di formazione per la promozione della cultura e delle azioni di prevenzione per la salute e per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Tali interventi sono rivolti a target di destinatari individuati da specifici decreti ministeriali e anche da accordi intercorsi ad hoc, coerentemente con quanto indicato dal comitato regionale di coordinamento. È stato poi ricordato l’impegno della regione Basilicata nella prevenzione degli incidenti domestici, che risultano essere di numero piuttosto elevato sul territorio.
A tale riguardo la Regione ha concepito diverse iniziative legislative, che intende proseguire cercando di abbracciare una fascia sempre più ampia di soggetti a rischio, tra i quali non rientrano solo le donne.
La Commissione, nel manifestare il proprio apprezzamento per l’attenzione con cui la regione Basilicata ha organizzato le attività di prevenzione e contrasto contro gli infortuni e le malattie professionali, ha chiesto di valutare la possibilità di istituire, con una norma regionale, forme di premialità o di incentivi a favore delle imprese «virtuose» che investono in sicurezza (ad esempio per l’adeguamento dei macchinari) nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura, che sono i più colpiti dagli infortuni e che la stessa regione Basilicata ha posto al centro delle proprie attività di prevenzione. Sono stati poi formulati una serie di quesiti in ordine all’adozione di eventuali iniziative per la formazione sulla sicurezza del lavoro nelle scuole e per la messa in sicurezza degli edifici scolastici.
In merito alla tutela sanitaria contro le patologie da amianto richiamate in precedenza, si è chiesto quali siano i soggetti sottoposti alla sorveglianza sanitaria gratuita, se vi siano ex esposti all’amianto e per quali territori e siti essa avvenga. Si sono inoltre domandate notizie circa i quantitativi di amianto ancora presenti sul territorio regionale e sui relativi piani di bonifica, essendo la Basilicata una delle cinque regioni italiane che si sono dotate di strumenti normativi a tal fine. Da ultimo, sono state chieste notizie più dettagliate sull’attività del comitato regionale di coordinamento e se questo abbia provveduto o meno all’invio delle prescritte relazioni annuali ai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute.
In merito alla proposta degli incentivi a favore della sicurezza per le imprese dei settori dell’edilizia e dell’agricoltura, il Presidente della Regione Basilicata ha fatto riferimento alla citata legge regionale n. 27 del 2007, nella quale è stato inserito un articolo che punta a costituire un fondo di accantonamento, alimentato dallo 0,50 per cento degli oneri di sicurezza (che nelle gare d’appalto non sono soggetti a ribasso) al fine di alimentare un fondo speciale per la sicurezza nei cantieri. Per evitare difficoltà, il suddetto fondo viene alimentato soprattutto con interventi finanziati da risorse pubbliche con un costo superiore a 250.000 euro. Il presidente della Regione ha comunque accolto il suggerimento della Commissione, riservandosi di approfondire le forme migliori per una sua attuazione.
In ordine agli altri quesiti posti dalla Commissione, ha poi richiamato la realizzazione di un’iniziativa, derivante dalla normativa regionale, per uno specifico intervento di formazione nel mondo della scuola. Si tratta di un piano d’azione, approvato dall’osservatorio regionale, che prevede una serie di iniziative formative organizzate dalla Regione e dall’INAIL, riguardanti le scuole di ogni ordine e grado.
Per quanto concerne la bonifica dell’amianto, tema particolarmente sentito in Basilicata, il presidente della Regione ha ricordato che nella precedente programmazione nazionale era previsto un piano per l’attività di bonifica, finanziato con 3 miliardi di euro, che puntava a dare un sostegno alle imprese in questo settore. Si prevedeva dunque la realizzazione di un investimento consistente per la bonifica di almeno un sito d’interesse nazionale in ogni regione. Purtroppo però, per le successive difficoltà della finanza pubblica, questo piano è stato messo da parte. La Regione sta svolgendo un lavoro di rilevazione sui siti più delicati della Basilicata, cioè quelli di Tito Scalo e della Val Basento, attraverso le risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e ha un quadro abbastanza chiaro e allarmante della situazione. Per la bonifica servono risorse: sono riprese iniziative a livello nazionale con il Ministero dello sviluppo economico, per capire se ci sono possibilità su questo fronte, ma ancora non si vedono grandi novità.
L’assessore regionale alla salute ha poi fornito ulteriori elementi riguardo al monitoraggio effettuato sui lavoratori ex esposti all’amianto.
Si tratta sostanzialmente dei lavoratori che furono occupati nel polo chimico della Val Basento, dove si svolgevano diverse attività risultate del tutto incompatibili con la salute degli addetti. Costoro sono quasi tutti organizzati e coordinati anche da associazioni di volontariato che detengono informazioni e segnalano costantemente al Dipartimento le diverse problematiche.
L’assessore ha ricordato in particolare l’incontro svolto nel mese di luglio 2011 con l’Associazione italiana esposti amianto (AIEA), che segue la predetta questione e ha segnalato alcune criticità legate all’attesa e al sistema di prenotazione per poter usufruire del servizio sanitario per quanto riguarda lo screening19. In proposito l’assessore ha assicurato che la Regione sta lavorando per costruire delle liste d’attesa dedicate a questi lavoratori e non trattarli alla stregua di qualsiasi altra richiesta di indagini specialistiche, così da poter garantire una cadenza sistematica delle indagini diagnostiche. C’è tutta un’attività di monitoraggio, ma questi soggetti fanno parte di un registro e i loro nominativi sono trattati in maniera differente per quanto riguarda l’accesso alle prestazioni.
Circa i quesiti sulle attività del comitato regionale di coordinamento, esso si è insediato il 22 settembre 2008, individuando anche una suddivisione dei ruoli operativi tra i vari componenti. Successivamente, nel 2009, si sono insediati gli organismi provinciali ed è stata implementata, sia in provincia di Potenza che di Matera, l’attività di vigilanza congiunta, che ha visto impegnate in particolare le ASL. A seguito delle elezioni regionali del 2010, vi è stato poi un avvicendamento e il 15 giugno 2011 il comitato è stato infine ricostituito, alla luce degli aggiornamenti delle nomine e delle designazioni da parte dei vari organismi. Il comitato trasmette annualmente la relazione sulla propria attività al Coordinamento tecnico interregionale della Conferenza delle regioni e delle province autonome che poi, a sua volta, la trasmette al Ministero.
L’assessore regionale al lavoro è ulteriormente intervenuto sulla questione della formazione alla sicurezza, segnalando che la regione Basilicata, al fine di rafforzare l’offerta formativa e sostenere gli operatori della scuola, già da due anni sta offrendo ai singoli istituti la possibilità di programmare degli interventi extracurriculari. Nel corso dell’ultimo biennio sono stati stanziati oltre 300.000 euro per corsi attivati presso le scuole medie superiori aventi ad oggetto la sicurezza e la prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, coinvolgendo oltre 2.000 studenti. Sono inoltre in corso contatti con i rappresentanti locali del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per concertare anche altri tipi di percorsi.
La Commissione, nel prendere atto dei chiarimenti forniti dai rappresentanti della Regione, ha sottolineato che le normative vigenti prevedono che le relazioni dei comitati regionali di coordinamento siano trasmesse direttamente ai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute: il passaggio attraverso il Coordinamento interregionale rischia quindi di far perdere l’informazione. Per quanto riguarda le attività di formazione per la sicurezza sul lavoro rivolte alle scuole, è stato infine ricordato che il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca attraverso l’ANSAS (Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica), ha bandito concorsi rivolti a tutte le scuole italiane, l’ultimo dei quali è scaduto nell’aprile 2011, per l’accesso a finanziamenti fino a 110.000 euro, e, poiché proprio da parte della Basilicata ci sono state poche richieste (in tutto 13, di cui solo 8 andate a buon fine), la Commissione ha auspicato in futuro una maggiore adesione a queste iniziative, che consentono di mettere in comune importanti risorse e competenze.
Nella successiva audizione, il prefetto di Potenza ha evidenziato l’alto livello di attenzione dedicato dal suo ufficio alla questione della sicurezza sul lavoro, richiamando un’indagine avviata nel settembre 2008 con tutti i soggetti istituzionali e le organizzazioni datoriali e sindacali della provincia di Potenza, sui problemi della salute e della sicurezza del lavoro. I risultati dell’indagine sono stati successivamente discussi il 31 marzo 2009 in una Conferenza permanente, un organismo che coadiuva il prefetto nell’espletamento delle sue funzioni e ha una composizione piuttosto ampia, dove partecipano anche le parti datoriali e le organizzazioni sindacali. In tale seduta, è emerso che il livello di sicurezza sui luoghi di lavoro era abbastanza soddisfacente in provincia di Potenza nell’ambito degli uffici statali e delle associazioni operanti sul territorio, mentre la situazione appariva più critica nei comuni della provincia di Matera presso i quali, anche a causa delle più limitate risorse umane e finanziarie, non erano stati adottati a pieno – o talvolta per nulla – gli standard minimi di sicurezza previsti dalla normativa. Il fenomeno esiste naturalmente anche in provincia di Potenza, sia pure per fortuna in forma non emergenziale.
Nell’ambito di quella stessa riunione della Conferenza sono stati istituiti due tavoli di lavoro permanenti: al primo, coordinato dal direttore regionale dell’INAIL della Basilicata, è stato assegnato il compito di occuparsi della prevenzione degli infortuni, mentre all’altro, coordinato dal direttore regionale del lavoro, sono stati affidati gli interventi di controllo e di contrasto alla violazione delle norme antinfortunistiche. I due gruppi hanno lavorato in maniera sinergica, sviluppando una serie di proposte concertate, in vista di un ulteriore incontro tenutosi nell’ambito della Conferenza permanente del 18 maggio 2010. In tale occasione, i dati relativi agli infortuni sul lavoro verificatisi nel primo trimestre degli anni 2008, 2009 e 2010, hanno evidenziato un trend decrescente degli stessi, soprattutto nei settori della media e grande industria e dell’edilizia, sia per una più attenta gestione dei sistemi di sicurezza da parte degli imprenditori, sia per la contrazione del numero di lavoratori occupati, legata ovviamente alla crisi economica in atto.
Il prefetto ha sottolineato come tale andamento positivo tuttavia non appaia esteso ad altri settori, come nelle piccole imprese e nelle aziende artigiane ed agricole, dove si è manifestato un aumento degli infortuni, in crescita anche nell’ambito degli uffici della pubblica amministrazione.
Proprio per questo motivo, in sede di Conferenza permanente sono state programmate delle specifiche iniziative di formazione e di prevenzione destinate sia alle associazioni datoriali di categoria che alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, per incentivare sempre più l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza nei diversi ambienti lavorativi, sia da parte degli imprenditori, sia da parte degli stessi operai. Inoltre, è stata decisa l’attuazione di un modulo formativo destinato ai dirigenti e al personale degli uffici pubblici della provincia responsabili e addetti dei rispettivi servizi di prevenzione e di protezione. Questo coordinamento interistituzionale, avviato in sede di Conferenza permanente, ha dato ottimi risultati nella provincia di Potenza. Sono stati svolti controlli ispettivi congiunti alle imprese con personale della Direzione provinciale del lavoro e dell’Azienda sanitaria locale di Potenza, che hanno avuto esiti rilevanti sia in termini di individuazione dei profili di criticità, sia in sede di conseguenti azioni da adottare.
Un ulteriore elemento riportato riguarda la collaborazione fra il personale del Corpo forestale dello Stato e quello della Direzione provinciale del lavoro nel realizzare i controlli per la sicurezza sul lavoro nelle aziende agricole boschive, risultate purtroppo irregolari in circa il 50 per cento dei casi, nonché dotate per la maggior parte di mezzi ed attrezzature non conformi alle più recenti norme di sicurezza. Il prefetto ha altresì riferito che la Direzione provinciale del lavoro, che funge da raccordo tra la Conferenza permanente e il comitato regionale di coordinamento, ha promosso un programma congiunto di ispezioni ad imprese e cantieri nel settore edile, attraverso cui sono state evidenziate irregolarità in numero inferiore nel 2010 rispetto ai precedenti periodi del 2008 e del 2009, ma più gravi, mentre maggiore è stato il numero dei lavoratori in nero riscontrati.
Il prefetto di Potenza ha poi segnalato che il comitato regionale di coordinamento, insediatosi nel settembre 2008, ha tenuto circa 13 riunioni, curando tra l’altro interessanti indagini presso i cantieri edili: sono state effettuate 1.322 ispezioni, di cui 105 congiunte tra l’ASL e la DPL. Nel 2010 il comitato ha coordinato, in tutte le attività produttive, 5.650 controlli espletati congiuntamente da ASL, DPL, INAIL, INPS e Vigili del fuoco. Tra le varie iniziative, da segnalare una giornata formativa concernente i decreti legislativi n. 81 del 2008 e n. 106 del 2009, decisa nella Conferenza permanente del 9 novembre 2010 e realizzata dalla Direzione regionale dell’INAIL della Basilicata d’intesa con la Prefettura e con la Direzione regionale del lavoro. Tale iniziativa, rivolta ai dirigenti degli enti periferici statali della Regione, ai coordinatori dei servizi di prevenzione e protezione dei suddetti uffici, nonché ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in servizio negli stessi, ha riscosso grande successo e sarà riproposta anche per i dirigenti degli enti locali, al fine di ampliarne la partecipazione anche ad altri settori d’attività.
Il prefetto ha quindi rimarcato che i due tavoli di approfondimento istituiti nel 2009 all’interno della Conferenza permanente sono tuttora in attività. Ha ricordato alcune iniziative adottate in tale ambito dalla Direzione regionale dell’INAIL per il miglioramento delle condizioni di lavoro, come l’istituzione di fondi destinati alle imprese per adeguare macchine, mezzi e strutture alla normativa in materia di sicurezza e la riduzione fino al 10 per cento del premio di assicurazione per le aziende più virtuose, che hanno posto in essere le disposizioni previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Degni di nota sono anche gli interventi nel settore dell’edilizia scolastica per aumentare la sicurezza degli edifici e attività, presso imprese, enti pubblici e privati, rivolte alla formazione prevenzione e diffusione della cultura della legalità. Riguardo invece all’attività della Direzione lavoro, ha osservato che in ambito regionale si è registrata una diminuzione del numero di aziende ispezionate. Tale fenomeno sembra dovuto da un lato al calo generalizzato di attività lavorativa nel settore delle costruzioni e dall’altro alla nota e ripetuta carenza di fondi che, unita alla notevole estensione del territorio, ha determinato una vigilanza maggiore nel capoluogo e nei comuni limitrofi e una diminuzione della stessa negli altri comuni della provincia.
Nell’incontro con il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Potenza, in prima battuta è stato sottolineato come la materia degli infortuni sul lavoro e delle violazioni alle normative in questione sia di difficile monitoraggio in Basilicata per via della diffusa presenza sul territorio del cosiddetto lavoro in nero, riguardante in particolare l’impiego di lavoratori non cittadini italiani. Tale fenomeno comporta diverse problematiche tra cui l’elusione delle norme a tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il procuratore generale ha inoltre osservato come la normativa antinfortunistica sia reiteratamente disattesa soprattutto nell’ambito dell’edilizia, settore predominante e trainante dell’economia locale. Una riflessione importante riguarda la difficoltà al contrasto delle violazioni in materia di sicurezza dal momento che il lavoro in nero, per ovvie ragioni, si coniuga con l’atteggiamento omertoso degli stessi lavoratori, che sono condizionati in modo assoluto dai loro datori di lavoro, sia per un fatto culturale che per le scarse alternative occupazionali che il mercato del lavoro offre in queste zone.
Da un’analisi dei procedimenti per infortuni sul lavoro (mortali o lesivi) e per violazioni della normativa antinfortunistica, nel Vulture melfese, dove insiste l’area territoriale più industrializzata della Regione, gli infortuni sul lavoro e le predette violazioni nell’ultimo quinquennio risultano molto contenuti rispetto a quelli dell’area del Potentino e del Materano.
Il fenomeno è altresì circoscritto nel Lagonegrese, ma per mancanza di opifici di considerevole rilevanza. Tenendo quindi conto che la Basilicata contiene all’interno del suo territorio aree ad alto tasso d’industrializzazione e altre decisamente depresse, il procuratore generale ha sottolineato il rapporto inversamente proporzionale sussistente tra carente grado di applicazione della normativa antinfortunistica e struttura imprenditoriale altamente organizzata.
Il magistrato ha illustrato i dati complessivi del distretto sui procedimenti dell’ultimo quinquennio: 37 infortuni mortali sul lavoro, di cui 15 nel circondario di Potenza, 18 in quello di Matera, 4 in quello di Melfi e 0 in quello di Lagonegro. Le lesioni da infortuni sul lavoro sono risultate essere 915 di cui: 452 nel circondario di Potenza, 19 in quello di Matera (dato non del tutto attendibile), 375 a Melfi, 69 in quello di Lagonegro. Le violazioni della normativa antinfortunistica sono state 3.573: 1.286 nel circondario di Potenza, 1.315 in quello di Matera, 276 in quello di Melfi e 696 in quello di Lagonegro.
Il direttore regionale dell’INAIL della Basilicata ha esordito ricordando come nel periodo 2006-2011 gli incidenti sul lavoro siano diminuiti, per via del calo occupazionale causato dalla crisi, ma anche grazie a una forte azione dell’INAIL, della Direzione regionale del lavoro e della Prefettura di Potenza, nell’ambito della formazione e dell’informazione per la sicurezza sul lavoro, sia nel settore privato che in quello pubblico.
A tal proposito ha segnalato che, benché gli infortuni siano in diminuzione nel loro insieme, sono però in aumento nella pubblica amministrazione; pertanto, insieme al prefetto l’INAIL ha svolto un seminario di formazione e informazione rivolto a tutti i dirigenti degli enti pubblici della Regione.
L’INAIL collabora inoltre con varie associazioni di settore private, soprattutto nel settore edile, dove gli infortuni restano piuttosto gravi. Sono state quindi richiamate varie iniziative volte alla prevenzione, tra cui una serie di attività di collaborazione con le scuole di ogni ordine e grado, tese a coinvolgere gli studenti e le loro famiglie. Il problema in ambito territoriale è particolarmente sentito nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura che sono quelli più interessati dalle problematiche della sicurezza sul lavoro.
Il direttore regionale ha poi evidenziato l’inserimento all’interno dei POF (Piani di offerta formativa) finanziati dall’INAIL di una serie di istituti scolastici che si occupano di fare sicurezza sul lavoro e la creazione in alcune scuole di gruppi di studio sullo stress lavoro-correlato.
Per quanto attiene alla formazione della parte istituzionale, l’INAIL ha avviato delle iniziative di formazione per Polizia, Carabinieri e per tutti i dipendenti delle prefetture nelle zone di Potenza e Matera allo scopo di affrontare su tutto il territorio regionale i temi della sicurezza e della prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro. Analoghe iniziative sono state rivolte anche ai dipendenti della provincia di Matera. Ancora, in collaborazione con il TG regionale e con l’ex ISPESL è stata realizzata una serie di trasmissioni televisive per la prevenzione contro gli incidenti domestici. Infine il direttore regionale dell’INAIL ha fatto un cenno sul recente incremento delle malattie professionali, da ricondurre in primo luogo all’inserimento nel 2008 di molte malattie professionali all’interno dell’elenco di quelle tabellate e, non ultimo anche al miglioramento delle competenze tecniche necessarie per riconoscere l’eziologia professionale delle malattie in questione.
Il vice direttore regionale dell’INAIL in prima battuta ha fatto presente l’avviamento di una vasta opera di sensibilizzazione in collaborazione con i Comitati paritetici. Ha quindi evidenziato il carattere sostanzialmente rurale dell’economia lucana e le problematiche in tal senso legate ai lavoratori in nero e all’attività dei piccoli coltivatori diretti – categorie entrambe con scarsissima dimestichezza sui temi della sicurezza e salute sul lavoro – specificando che l’INAIL sta studiando alcuni interventi in agricoltura, d’intesa con le associazioni datoriali di categoria. L’INAIL, inoltre, all’interno del comitato regionale di coordinamento previsto dal decreto legislativo n. 81 del 2008, ha posto in essere una serie di iniziative, di concerto con i comitati operativi, aventi lo scopo di coordinare e semplificare l’attività di sorveglianza, promuovendo la prevenzione piuttosto che la sanzione.
In risposta a un quesito posto dalla Commissione, il direttore regionale dell’INAIL ha poi confermato la piena integrazione, sotto l’aspetto istituzionale e operativo, esistente in Basilicata tra l’INAIL e l’ISPESL, che collaborano con grande sinergia. Collaborazione altrettanto stretta esiste con la Direzione regionale del lavoro per l’attività di vigilanza. A proposito di quest’ultima, ha fatto presente una difficoltà crescente da parte degli organi ispettivi a causa della contrazione degli organici e delle risorse, specie in un territorio impervio come quello lucano che presenta oggettivi problemi di spostamento. Per gli stessi motivi, riesce a volte difficile anche inviare i tecnici della formazione nelle varie zone.
La Commissione ha sottolineato come l’attività di controllo presso le aziende, pur dovendo certamente mirare più alla prevenzione che alla repressione, non possa però trasformarsi in una sorta di consulenza alle aziende stesse, né evitare di sanzionare le eventuali violazioni delle norme che si dovessero riscontrare. L’attività di sensibilizzazione preventiva nei confronti delle imprese può essere svolta più opportunamente all’interno del comitato regionale di coordinamento, nel quale sono rappresentati sia gli enti istituzionali che le organizzazioni datoriali e sindacali e le cui decisioni si riversano poi sui comitati provinciali: si tratta di un organismo il cui ruolo deve perciò essere maggiormente valorizzato. Circa le difficoltà nell’espletamento delle attività di formazione connesse gli spostamenti sul territorio, esse in parte potrebbero essere ovviate con l’uso delle moderne tecnologie di comunicazione a distanza, oppure, nel caso delle scuole, coinvolgendo di più i coordinatori scolastici regionali in progetti comuni. Ad esempio, la Basilicata ha inviato poche richieste di partecipazione al recente concorso per i progetti sulla sicurezza sul lavoro bandito dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca attraverso l’ANSAS.
Il direttore regionale del lavoro della Basilicata ha confermato che, come risulta dal confronto tra i dati riguardanti le ispezioni effettuate nel primo semestre 2011 e quelli del primo semestre del 2010, si è avuta nell’ultimo anno una diminuzione dell’attività ispettiva, dovuta in primo luogo alla contrazione delle attività economiche che ha colpito anche la Basilicata. In aggiunta, la Direzione regionale ha subito restrizioni di natura finanziaria, in particolare rispetto alle risorse da destinare alle missioni.
Ciò ha determinato la necessità di concentrare i controlli nella provincia di Potenza dove sono a disposizione, compreso il Nucleo dei Carabinieri, circa 50 unità ispettive: il risultato è che in questa zona i controlli sono aumentati in numero forse perfino eccessivo (nel senso che tendono inevitabilmente a riproporsi sulle stesse imprese), mentre sono fortemente calati nel resto della regione.
Il direttore regionale del lavoro ha inoltre sottolineato come il dato della diminuzione degli infortuni, soprattutto mortali, registrato anche in Basilicata, in sé certamente positivo, vada però rapportato anche ad una diminuzione di attività, che ha visto pure un calo nel numero degli occupati.
Egli ha quindi espresso perplessità e preoccupazione per quanto riguarda l’attività del comitato regionale di coordinamento previsto dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Tale attività ha funzionato bene all’avvio del comitato nel 2008, ma ha poi incontrato una serie di difficoltà che per un periodo hanno di fatto paralizzato l’organismo. Finalmente si è potuta fare una programmazione per l’anno 2010 che è stata in parte attuata. Per il 2011 non si è riusciti a stilare tale programmazione e si è continuato a lavorare su quella del 2010, che era concentrata sull’agricoltura e sull’edilizia, i due settori con gli infortuni più numerosi e più gravi. Questo modello però ha funzionato, anche per il coordinamento tra i corpi ispettivi, solo nella provincia di Potenza, dove tra l’altro l’agricoltura è un’attività più marginale, mentre nella provincia di Matera permangono ancora una serie di difficoltà.
Ha poi osservato che il problema principale del comitato regionale di coordinamento è la mancanza di un soggetto dotato del potere di sanzionare eventuali comportamenti omissivi dei vari enti, che appartenendo ad amministrazioni diverse non rispondono direttamente al comitato. Sarebbe invece opportuno che il comitato potesse analizzare i risultati dell’attività imponendo le correzioni eventualmente necessarie. Infine, ha sottolineato l’importanza di diffondere gli insegnamenti sulla sicurezza sul lavoro nella scuola, richiamando i positivi risultati ottenuti nelle attività di formazione svolte dalla Direzione regionale del lavoro: tali attività non dovrebbero però essere estemporanee, ma incluse a pieno titolo nei programmi scolastici.
La Commissione ha osservato che la struttura organizzativa del comitato regionale di coordinamento prevede responsabilità precise e, ove ben applicata, potrebbe risolvere anche i problemi prima evidenziati. Infine, in merito all’aumento delle malattie professionali nel territorio lucano e con riferimento anche ad alcune questioni segnalate dall’Associazione italiana esposti amianto (AIEA) Val Basento, la Commissione ha chiesto di conoscere la tipologia di queste malattie e, per i lavoratori ed ex lavoratori colpiti dalle patologie legate all’amianto, quali istanze siano pervenute all’INAIL per il rilascio delle certificazioni per l’accesso ai benefici previdenziali e alle prestazioni sanitarie previste dalla legge vigente, quali siano state evase positivamente o negativamente e per quali ragioni vi sia eventualmente stato il diniego. Inoltre, sono stati domandate informazioni rispetto a una circolare dell’INAIL del 2005 concernente le morti premature per esposizione all’amianto; alla Commissione era stata infatti segnalata un’applicazione non omogenea sull’intero territorio nazionale per quanto riguarda il periodo stabilito di tre anni e 150 giorni dal verificarsi dell’evento, decorso il quale l’Istituto può eccepire l’avvenuta prescrizione.
Dopo che il direttore regionale dell’INAIL ha ricordato che su tali quesiti l’Istituto aveva già risposto in più occasioni, anche ad alcune interrogazioni parlamentari, il vice direttore regionale ha sottolineato la correttezza delle procedure adottate dall’INAIL in questa vicenda, la cui attività relativamente all’esposizione all’amianto deve tenere conto delle indicazioni di legge. Poiché il problema dell’amianto è molto ampio, nel caso in questione l’INAIL della Basilicata, secondo le indicazioni della Direzione generale, ha proceduto a valutare la presenza di amianto sul posto di lavoro e ha dato un riconoscimento alle persone che erano effettivamente esposte rispetto a quelle che non lo erano o quantomeno non al di sopra della soglia stabilita dalla legge (pari a 100 fibre al litro). Su questo ha comunque confermato la disponibilità dell’Istituto a fornire tutti i chiarimenti.
Nella successiva audizione il comandante della Legione dei Carabinieri della Basilicata ha osservato preliminarmente come il problema della sicurezza sul lavoro non possa essere risolto solo dalle attività di controllo e di repressione, essendo soprattutto una questione culturale: il testo unico ha dato un notevole contributo elevando il livello di attenzione sui temi della sicurezza, che deve però concentrarsi non sugli aspetti burocratici e formali ma su quelli sostanziali, come nel caso dei piani per la sicurezza.
Anche l’attività ispettiva e di controllo dovrebbe perciò verificare l’aderenza del piano di sicurezza alla situazione reale, comminando ove necessario eventuali sanzioni, per introdurre un effettivo deterrente rispetto alla mancata applicazione delle misure di sicurezza.
A tale proposito il comandante dell’Arma ha suggerito un più ampio ricorso alla sospensione dell’attività dell’impresa ex articolo 14 del decreto legislativo n. 81 del 2008, con un ampliamento dei casi previsti all’Allegato I del medesimo decreto, come già avviene nel caso di impiego di lavoratori extracomunitari. Altro punto sensibile è la formazione dei lavoratori, che molto spesso avviene soltanto sulla carta, specie in quei settori come l’edilizia e l’agricoltura dove maggiore è il ricorso a lavoratori occasionali o in nero.
Per quanto riguarda nello specifico la situazione della Basilicata, nella Regione si è registrato un calo degli infortuni sul lavoro. L’Arma dei Carabinieri ha incrementato recentemente i controlli nelle aziende, parte dei quali svolti in collaborazione con l’Ispettorato del lavoro. Si è così passati da 76 ispezioni effettuate nell’anno 2010 a 73 effettuate soltanto nel primo semestre del 2011. È risultato invece ridotto il numero delle infrazioni accertate, anche per la sostanziale diminuzione dell’attività lavorativa nella Regione. Sono altresì diminuiti gli incidenti rilevati: 103 nel 2010 e 38 nel primo semestre del 2011, con un aumento però nello stesso periodo di quelli mortali, da 6 a 10.
Il comandante ha poi espresso soddisfazione per la costante sinergia con cui l’Arma dei Carabinieri collabora con l’Ispettorato del lavoro e ha sottolineato il recente avvio da parte del Comando dell’Arma di un progetto informatico per la messa in rete di tutte le attività di controllo poste in essere al fine di renderle sempre più agevoli ed efficaci. Le ispezioni si sono indirizzate prevalentemente ai settori dell’agricoltura e dell’edilizia: in particolare, per quanto riguarda il territorio del Materano, il problema degli infortuni interessa soprattutto il settore dell’agricoltura, mentre si sta registrando una minore incidenza nell’ambito dell’edilizia, anche in conseguenza della crisi economica, tenuto conto che quello edile è uno dei settori con il maggior numero di occupati nella Regione. Infine, è stato precisato che i Nuclei tutela del lavoro della Basilicata contano in tutto sei uomini, tre presso l’ufficio provinciale di Potenza e tre presso quello di Matera.
Il direttore regionale dei Vigili del fuoco della Basilicata, dopo aver illustrato le competenze istituzionali dei Vigili del fuoco in materia infortunistica, suddivise tra soccorso pubblico, prevenzione ed estinzione degli incendi, ha confermato anch’egli il trend decrescente degli infortuni sul lavoro nella regione Basilicata, che, secondo i dati INAIL, nell’ultimo quinquennio risultano in calo del 9,1 per cento.
Per quanto riguarda più nello specifico l’attività svolta dai Vigili del fuoco, sono risultate 10.271 pratiche attive di prevenzione incendi nella provincia di Potenza a fronte di 3.215 nella provincia di Matera. Non risultano arretrati per quanto riguarda i sopralluoghi legati alla prevenzione incendi, eccezion fatta per 15 pratiche nella provincia di Potenza ancora da definire per mancanza di alcuni documenti da allegare agli atti. In riferimento ad un’osservazione della Commissione, ha concordato sulla necessità di controllare le attività soggette alla prevenzione incendi anche dopo la fase iniziale legata alle procedure per il rilascio del certificato.
Fortunatamente in Basilicata la situazione in questo senso è migliore che altrove, perché gli organici, sia pure limitati, consentono di coprire abbastanza bene tutte le attività di competenza, spostandosi anche sul territorio. Infine ha concluso illustrando il numero totale delle aziende a rischio di incidente rilevante: nella provincia di Potenza sono risultati tre stabilimenti soggetti all’articolo 8 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (cosiddetta «direttiva Seveso»), nei quali è previsto che il gestore rediga il rapporto di sicurezza, e 4 stabilimenti soggetti all’articolo 6 del medesimo decreto legislativo non soggetti alle stesse incombenze dei primi. Nella provincia di Matera sono invece risultate due aziende soggette all’articolo 8 ed una soggetta all’articolo 6, quindi anche a rischio di incidenti rilevanti.
Nel successivo incontro è stato il turno delle organizzazioni sindacali, che hanno segnalato come i maggiori problemi della sicurezza sul lavoro, anche in Basilicata, si registrino nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia.
In edilizia, fondamentale è stato il coinvolgimento degli enti bilaterali per la diffusione di una maggiore sicurezza. Purtroppo le imprese di questo comparto per la maggior parte sono piccole o piccolissime e quindi sfuggono a un controllo di tipo sociale dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, oltre che a quelli di natura istituzionale operati dagli enti preposti.
I sindacati hanno chiesto pertanto un rafforzamento del ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali, per aiutare ad accrescere i livelli di sicurezza anche nelle imprese di minori dimensioni.
Sempre in ordine al settore edile, si è sottolineata la necessità di intervenire nella questione degli appalti ed in particolare di quelli al massimo ribasso, che è uno dei fattori che incide direttamente sul costo del lavoro e induce le imprese a risparmiare sui costi della sicurezza. In proposito nel 2007 i sindacati della Basilicata hanno sottoscritto un protocollo d’intesa delle parti sociali da cui è scaturita anche una legge regionale sulla sicurezza. Mentre però nei grandi appalti si riesce a esercitare un certo controllo (ad esempio nei cantieri del tratto lucano della Salerno-Reggio Calabria, dove sono stati stipulati una serie di protocolli d’intesa anche per apprestare presidi sanitari), il problema è con gli appalti più piccoli, anche perché molte amministrazioni pubbliche appaltanti hanno spesso anche il problema dei costi, per cui tendono a risparmiare sui singoli progetti.
Al riguardo le organizzazioni sindacali hanno sottolineato con forza l’esigenza di maggiori controlli da parte delle stazioni appaltanti, sia nella fase di gara che in quella di esecuzione. Uno strumento potrebbe essere l’unificazione delle stazioni appaltanti, o quantomeno un coordinamento, per garantire l’uniformità delle procedure, oggi ad avviso dei sindacati troppo diversificate nei vari appalti. Inoltre occorre distinguere in maniera più chiara all’interno dell’appalto fra i costi dell’opera, della manodopera e della sicurezza, per evitare gli effetti negativi del massimo ribasso, specie nella catena dei subappalti. Legati all’attività dei cantieri sono anche una serie di incidenti stradali che hanno coinvolto molti lavoratori, soprattutto in itinere, anche a causa delle difficoltà di spostamento all’interno della Basilicata. Infine, è stata richiamata la necessità di intervenire anche nel settore degli appalti dell’edilizia privata, dove non ci sono regole sufficienti.
Un altro punto di preoccupazione per i sindacati è il collegamento tra la tutela e la sicurezza sui luoghi di lavoro e il lavoro nero. In questa fase di crisi, infatti, anche il lavoro irregolare e sommerso è aumentato, specie in agricoltura e in edilizia, aumentando le situazioni di rischio sui luoghi di lavoro. In Basilicata da qualche anno è diminuito un certo tipo di incidenti, soprattutto mortale, anche se ciò sembra legato in particolare alla riduzione dell’attività economica e dell’occupazione. Ad esempio, nell’anno 2007 ci sono stati 14 morti, mentre nel primo semestre 2010 i casi mortali sono stati 6 (1 a Potenza e 5 a Matera) e nel primo semestre 2011 solo 5 (tutti a Matera). Le vittime si sono concentrate in edilizia e soprattutto in agricoltura, prevalentemente per il ribaltamento dei mezzi. In quest’ultimo settore esiste infatti il problema dei mezzi che non sono adeguati dal punto di vista della sicurezza: poiché in genere si tratta di piccole o piccolissime imprese di tipo familiare con bassi redditi, servirebbero incentivi per favorire il rinnovo delle macchine e interventi sulle case costruttrici perché aumentino i dispositivi di sicurezza dei mezzi stessi.
Il controllo dei servizi ispettivi è stato definito generalmente buono, anche se ancora insufficiente perché non riesce a coprire tutto il territorio, data la forte dispersione delle attività produttive e la dimensione ridotta delle imprese. Oltre ai maggiori controlli per i cantieri edili degli appalti, si è chiesto una particolare attenzione per il documento unico di regolarità contributiva (DURC), che ad avviso dei sindacati sarebbe spesso rilasciato senza le dovute verifiche.
Si è poi affrontato il tema delle malattie professionali, che in Basilicata hanno un’alta incidenza. Si tratta anzitutto di patologie legate al lavoro in fabbrica, di tipo pesante e ripetitivo, quali le malattie dell’apparato muscolo-scheletrico (circa il 30 per cento dei casi). Situazioni di questo tipo si concentrano soprattutto nell’area industriale dello stabilimento FIAT SATA di Melfi, dove si alternano 10.000 lavoratori nell’arco della giornata. Le organizzazioni sindacali hanno in proposito sollecitato il rispetto degli impegni assunti alcuni anni fa dai datori di lavoro e dalle autorità regionali per mettere a disposizione dei defibrillatori nella fabbrica e un’autoambulanza medicalizzata nell’area, per gli interventi sanitari urgenti. Problemi esistono anche nel polo industriale del Centro Oli di Viggiano, dove si concentra la produzione e la lavorazione del petrolio e di tutta la sua filiera: in quella zona i rischi per la salute riguardano non solo i lavoratori direttamente esposti (i dipendenti del Centro Oli e delle ditte appaltatrici) ma anche quelli dell’indotto, come testimoniano casi recenti di intossicazione da idrogeno solforato che hanno colpito i lavoratori di un’azienda metalmeccanica. Si tratta quindi di un’area industriale ad alto rischio che, anche per disposizione di legge, dovrebbe garantire ai lavoratori e ai cittadini maggiori controlli e tutele sia dal punto di vista della sicurezza interna che da quello ambientale.
Un altro problema è quello dell’amianto che ancora interessa la Basilicata e in particolare alcune zone industriali, come quella della Val Basento, dove alcuni lavoratori hanno subito danni irreparabili dall’esposizione alle fibre di questo materiale, e quelle di Potenza e di Tito: occorrerebbe intervenire, soprattutto per verificare la possibilità di far rientrare nelle condizioni di legge anche quei lavoratori che non hanno mai presentato domanda e che, pur colpiti, sono però esclusi dai benefici previdenziali previsti per l’esposizione alle fibre d’amianto. Sempre in tema di amianto, si è citato il caso della casa circondariale di Potenza, dove, sebbene a distanza di anni l’amianto sia stato rimosso, purtroppo i dipendenti non hanno diritto ad alcun riconoscimento perché la legge non lo prevede, trattandosi di casi di inalazione e non di manipolazione dell’amianto, per cui i sindacati hanno chiesto una modifica della disciplina normativa.
Sono state altresì ricordate le patologie che colpiscono i lavoratori impiegati nelle gallerie stradali della Regione: si tratta in particolare di asbestosi, silicosi, oltre alle malattie che coinvolgono l’apparato muscolo-scheletrico, tipiche del settore dell’edilizia. Infine, sono stati segnalati alcuni problemi nelle condizioni di sicurezza riguardanti il servizio di trasporto pubblico urbano nel comune di Potenza, con particolare riguardo alla manutenzione dei mezzi, sollecitando un intervento per garantire l’incolumità degli autisti e dei viaggiatori.
La Commissione, in merito al problema della sicurezza negli appalti, ha sottolineato ancora una volta l’esigenza di rafforzare le stazioni appaltanti, soprattutto attraverso l’unificazione delle stesse in ambito territoriale.
Ha quindi confermato la propria attenzione in merito alle altre questioni sollevate, con particolare riguardo al tema delle malattie professionali legate all’amianto in Val Basento, ricordando di aver già svolto in merito un’audizione ad hoc con l’associazione AIEA.
Nella successiva audizione con i rappresentanti delle organizzazioni datoriali, le associazioni del comparto industriale hanno ricordato l’intenso lavoro svolto sul versante della formazione, dedicata per circa il 50 per cento al tema della sicurezza, realizzando un’azione rivolta non soltanto agli imprenditori, ma anche ai dirigenti e ai coordinatori d’impresa. Sempre sul fronte della formazione per la sicurezza, nel 2011 sono stati organizzati diversi convegni, uno dei quali molto rilevante, insieme all’INAIL.
Altre iniziative sono state poi sviluppate sul fronte della prevenzione attiva: la più rilevante è stata quella condotta con le prefetture di Potenza e di Matera, che ha come finalità anche la prevenzione dei fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata nella regione Basilicata e l’adozione di un codice etico per rafforzare le misure di sicurezza. Si sono inoltre creati tavoli congiunti con le forze dell’ordine e le istituzioni del territorio.
Le organizzazioni del comparto edile hanno sottolineato il ruolo del sistema della bilateralità, anche ai fini della formazione e della sicurezza.
Hanno quindi segnalato la difficoltà di applicazione di una norma contenuta nel recente «decreto sviluppo» (decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106) che aveva vietato il ribasso sul costo della manodopera nelle opere pubbliche.
La norma, in sé apprezzabile e innovativa, secondo le associazioni edili creava però problemi interpretativi in quanto non indicava le modalità di attuazione, né i soggetti chiamati ad attuarla e non prevedeva un regime transitorio per le gare già bandite20.
L’Associazione delle piccole e medie imprese a sua volta ha sottolineato l’alto numero di attività formative sulla sicurezza svolte in tutti i settori. Negli ultimi cinque anni, in particolare, sono stati rilasciati ben 2.071 attestati; di questi, nel 2011 circa la metà è stata finanziata attraverso fondi interprofessionali e finanziamenti regionali e provinciali; l’altra metà mediante corsi a pagamento per gli associati. A ciò si aggiungono più di 300 corsi gratuiti, soprattutto nel settore edile, organizzati nella provincia di Potenza. Anche per il 2012 si prevede un impegno forte soprattutto nell’edilizia: si farà ad esempio una nuova campagna di sensibilizzazione, mettendo a disposizione delle imprese alcuni professionisti che vadano direttamente sul cantiere, per aiutarle a capire che cosa non funziona.
I rappresentanti dell’artigianato hanno posto in rilievo la grande attenzione dedicata ai temi della sicurezza sul lavoro e i numerosi corsi di formazione realizzati. In provincia di Potenza vi sono 7.946 imprese artigiane che danno occupazione a 16.342 addetti, di cui 792 collaboratori familiari, 732 donne titolari di impresa, 684 apprendisti. Nel 2010 vi è stata una riduzione media delle aziende del settore di circa il 2,4 per cento, quindi il 40 per cento dei lavoratori dell’artigianato è rappresentato da dipendenti. Nello stesso anno si è avuto un calo degli infortuni del 6,8 per cento, grazie all’attività di prevenzione svolta, che nell’azienda artigiana riguarda tanto i datori di lavoro quanto i dipendenti, che corrono gli stessi rischi. I risultati positivi fin qui ottenuti fanno ben sperare per il futuro. Un punto essenziale è fare la prevenzione a monte, cioè quando l’azienda inizia la sua attività, attraverso una solida formazione di base: per questo servono maggiori risorse da parte degli enti preposti, a cominciare dall’INAIL, che ha un forte avanzo per il settore, che potrebbe in parte essere reso disponibile per promuovere la formazione e la sicurezza.
I rappresentanti del settore del commercio, a loro volta, hanno osservato come il dato sulla recente riduzione degli infortuni sul lavoro in Basilicata, sia in generale (-6,8 per cento tra 2009 e 2010) che per i casi mortali (scesi da 13 a 10 tra 2009 e 2010), debba essere valutato alla luce della riduzione dell’attività economica e del calo occupazionale indotti dalla crisi. Per quanto riguarda specificamente il settore del commercio, essendo questo perlopiù formato da piccole imprese a gestione familiare, vi è una minore attenzione alla sicurezza, in particolare quando il datore di lavoro ha come dipendenti i propri congiunti, per cui riesce più difficile far passare certi messaggi. Un altro dato preoccupante è la condizione del lavoro femminile nel settore: secondo un apposito studio del «Gruppo Terziario Donna», nell’ambito della componente femminile impiegata nelle aziende (spesso la moglie o la figlia del datore di lavoro), si è molto abbassata l’età media degli infortuni lievi, soprattutto nelle piccole aziende. Si è notato soprattutto che, là dove esisteva un contratto di lavoro a tempo determinato di breve durata, gli infortuni hanno riguardato perlopiù lavoratrici di età compresa tra i 20 e i 24 anni, come se il mancato investimento in formazione fosse direttamente proporzionale alla durata del contratto. Occorre pertanto favorire una migliore formazione di tipo mirato e senza inutili complicazioni, tenendo conto che si tratta di solito di piccole imprese, con pochissimi addetti, in cui molte volte gli infortuni dipendono più dal calo di attenzione che dagli effettivi rischi legati al lavoro e al relativo ambiente, in questo comparto più bassi che altrove.
I rappresentanti del settore agricolo hanno confermato che tale settore è purtroppo quello dove, in Basilicata, si verifica la maggior parte degli incidenti sul lavoro, anche mortali. Le motivazioni sono varie: la tipologia del lavoro, privo di una sede fissa, la frammentazione della proprietà, la necessità di recarsi in più luoghi diversi, con le difficoltà che implicano le strade e la morfologia del terreno montuoso in Basilicata. A ciò si aggiunge l’invecchiamento della popolazione agricola, con scarsissimo ricambio.
Le associazioni agricole in Basilicata si sono impegnate molto sul fronte della formazione, ma la scarsa disponibilità di risorse limita le iniziative: tra quelle attuate, da ricordare il progetto AGRIPREV (il manuale delle buone pratiche per la prevenzione dei rischi nelle imprese agricole) e la misura comunitaria 114 sulla consulenza aziendale. Occorre quindi un sostegno forte delle istituzioni pubbliche, ad esempio con i fondi INAIL, per accompagnare la modernizzazione del comparto, anche in termini di sicurezza sul lavoro.
La Commissione, in relazione alla formazione per la sicurezza, ha ricordato la necessità di fissare dei requisiti che possano garantire la qualificazione professionale dei formatori, a tutela delle stesse aziende che si rivolgono a tali soggetti. In merito poi al calo degli infortuni, ha precisato che, stando ai dati INAIL, nel periodo 2006-2010 si è avuta una riduzione del 19,2 per cento, a fronte di una riduzione del 6 per cento del numero degli occupati. Tale discorso non vale per i casi di infortunio mortale che, scesi da 13 nel 2009 a 10 nel 2010, sono tuttavia risaliti negli ultimi tempi, dato che nel primo semestre del 2011 c’è stato un morto in più rispetto alle stesso periodo dell’anno precedente. Vi è poi una differenza a livello territoriale: alla diminuzione del fenomeno degli infortuni nel Potentino, corrisponde infatti un aumento degli stessi nell’area del Materano, che sono legati in molti casi allo svolgimento dell’attività agricola e sono da ricondurre principalmente al ribaltamento di trattori. Su tale aspetto la Commissione si sta impegnando anche per favorire un più ampio accesso alle risorse per l’adeguamento delle macchine, attraverso un confronto con l’Unione europea che porti a superare i vincoli imposti all’uso dei fondi agricoli dal meccanismo del «de minimis». Occorre però anche promuovere una maggiore sensibilità degli operatori, posto che talvolta anche forme di incentivazione o di premialità previste a favore della sicurezza – e la regione Basilicata si è detta disponibile a valutarle per i settori dell’agricoltura e dell’edilizia – non vengono adeguatamente sfruttate dalle imprese e non sortiscono gli effetti sperati.

4.9. Sopralluogo ad Arpino (19 settembre 2011)
Il 19 settembre una delegazione della Commissione, formata dal presidente Tofani e dai senatori Gramazio, Maraventano e Nerozzi, si è recata in missione ad Arpino, in provincia di Frosinone, per acquisire informazioni in merito al grave incidente verificatosi la settimana prima presso una fabbrica di fuochi d’artificio, la Pirotecnica Arpinate S.r.l., sita in località Carnello. Il 12 settembre, infatti, una violentissima esplosione aveva completamente distrutto la fabbrica, causando la morte di sei persone: il titolare Claudio Cancelli, i figli Giuseppe e Giovanni, anch’essi impiegati nella ditta, i due operai Francesco Lorini ed Enrico Battista, e Giulio Campoli, probabilmente un cliente che si trovava in quel momento nella fabbrica per acquistare materiale pirotecnico.
Nel corso della sua audizione, il sindaco del comune di Arpino ha spiegato che l’esplosione si era verificata intorno alle ore 14,50 e che il boato era stato avvertito anche a grande distanza. I soccorsi sono arrivati immediatamente e hanno subito lavorato per mettere in sicurezza la zona, avvolta da una densa nube di fumo. La ditta era molto conosciuta e, per quanto risultava all’amministrazione comunale, era tutto in regola dal punto di vista urbanistico: negli anni erano stati realizzati degli ampliamenti nello stabilimento, ma sempre con le prescritte autorizzazioni.
Il comandante provinciale dei Carabinieri ha a sua volta riferito sull’incidente, confermando che i soccorsi sono arrivati tempestivamente e hanno anzitutto circoscritto la zona, mentre i Vigili del fuoco spegnevano i numerosi incendi che si erano sviluppati. Anche alcune ore dopo l’incidente hanno continuato ad esservi delle esplosioni, anche se i danni maggiori sono stati fatti dalla prima deflagrazione, che ha distrutto completamente alcuni dei fabbricati (casotti) dello stabilimento adibiti alle lavorazioni pirotecniche, mentre altri destinati al deposito dei materiali esplosivi sono rimasti intatti. Così, una volta spente le fiamme, si è provveduto anzitutto a rimuovere tali materiali per prevenire possibili rischi e quindi a recuperare le salme delle vittime. Essendo le indagini appena agli inizi, al momento del sopralluogo della Commissione, non era possibile fare considerazioni sulla dinamica dell’accaduto, anche perché vi erano ancora accertamenti in atto.
Su richiesta della Commissione, i rappresentanti dei Vigili del fuoco hanno quindi spiegato l’iter di rilascio delle autorizzazioni per le attività pirotecniche, disciplinato dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza o TULPS (regio decreto 18 giugno 1931, n. 773), che affida le relative verifiche alla Commissione provinciale per le materie esplodenti, insediata presso la Prefettura, previo nulla osta dei Vigili del fuoco circa la prevenzione incendi21. Per quanto riguarda la localizzazione, queste fabbriche devono sorgere in luoghi isolati e rispettare le distanze di sicurezza esterne ed interne, cioè tra i vari casotti. Questi ultimi all’interno della fabbrica possono essere di due tipi: o di deposito delle materie prime e dei prodotti finiti (quelli che hanno quindi il rischio di esplosione), o per il deposito degli inerti e adibiti alle lavorazioni. I Vigili del fuoco hanno poi illustrato le caratteristiche strutturali (mura e coperture) stabilite dal TULPS per le diverse categorie di casotti, segnalando che, per quanto risultava fino a quel momento, lo stabilimento esploso sembrava rispettare le suddette prescrizioni.
La prima autorizzazione risaliva al 1978, poi rinnovata con cadenza annuale, biennale e triennale a seguito dei prescritti controlli, tanto è vero che lo stabilimento fungeva anche da deposito di materiali pirotecnici per conto dell’Autorità giudiziaria.
Fino alla conclusione delle perizie, non era però possibile stabilire che tipo di materiali fossero effettivamente lavorati o detenuti presso la Pirotecnica Arpinate. Ad una successiva richiesta di chiarimenti della Commissione, inoltre, i Vigili del fuoco hanno precisato che, indubbiamente, nelle attività pirotecniche influiscono molto anche gli aspetti microclimatici: la temperatura e, in modo particolare, il grado di umidità che si può determinare nell’ambiente circostante, soprattutto nei casotti in cui si svolgono i processi di lavorazione. Tuttavia, la normativa non stabilisce che in quei locali venga messa una strumentazione specifica per misurare e controllare il grado di umidità o la temperatura.
I controlli dei Vigili del fuoco presso la ditta sono stati effettuati essenzialmente in occasione dei rinnovi del certificato di prevenzione incendi (CPI), ad eccezione di uno svolto nel 2009, per verificare l’esposto di una ditta concorrente che lamentava la riproduzione di un proprio prodotto da parte della Pirotecnica Arpinate. I rappresentanti dei Vigili del fuoco hanno infatti ricordato che le attività pirotecniche, al di fuori delle verifiche previste in occasione del rilascio o del rinnovo delle autorizzazioni, possono essere ispezionate a campione o, perlopiù, in seguito a esposti di terzi (cittadini, altre ditte ecc.). D’altra parte, tali attività non rientrano neanche tra quelle a rischio di incidente rilevante ai sensi della cosiddetta «direttiva Seveso». Si tratta infatti di attività che vengono classificate ad alto rischio, in base al potenziale del materiale in deposito, al grado di combustione del materiale, alla sua tipologia e così via, ma che non sono comunque soggette ai vincoli e ai controlli più stringenti della citata direttiva.
Il responsabile del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL) dell’ASL di Frosinone ha riferito dei campionamenti effettuati sul materiale che si è frantumato a seguito dell’esplosione, in modo particolare sulle coperture delle casematte. Una parte di questo materiale è risultata essere eternit, cioè un materiale contenente cemento e amianto: si trattava di un piccolo quantitativo, circa 12 metri quadri, che si era frantumato e che avrebbe dovuto essere bonificato prima di intervenire su ogni altro aspetto del sito. La presenza dell’eternit era regolare, in quanto la normativa vigente obbliga il detentore di una copertura in eternit a mantenerla in buono stato di conservazione, ma non ad eliminarla, cioè a fare delle bonifiche. La copertura in questione, a giudicare dalla parte rimasta in piedi di un’altra casamatta, era effettivamente in buono stato di conservazione. Ciononostante, il responsabile dello SPRESAL ha evidenziato l’opportunità, per questa tipologia di attività, di obbligare comunque alla rimozione dei manufatti contenenti amianto, in quanto, essendo quest’ultimo un materiale cancerogeno, se un eventuale incidente provoca un’esplosione e quindi la frantumazione in moltissimi pezzi, si può avere una ricaduta anche sull’inquinamento ambientale.
Egli ha poi spiegato che gli stabilimenti pirotecnici sono soggetti alla normativa generale sui luoghi di lavoro, oltre che ad una normativa specifica (il TULPS e i successivi regolamenti attuativi, oltre al decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1956, n. 320). Le norme di igiene e sicurezza sul lavoro si applicano specificamente a questa tipologia di attività, rafforzate dal doppio sistema autorizzativo (Vigili del fuoco e commissione della Prefettura). Le fabbriche ricevono dunque una valutazione molto accurata sulla sussistenza dei requisiti strutturali e di igiene e sicurezza sul lavoro. Per quanto riguarda il controllo del clima all’interno dei locali, in risposta a una domanda della Commissione è stato confermato che non sono previsti obblighi particolari, ma solo dei consigli tecnici, sostanzialmente una serie di raccomandazioni la cui osservanza è rimessa alla perizia degli operatori. Si tratta di un aspetto delicato: anche se al momento del sopralluogo della Commissione non era ancora possibile stabilire se, quando è avvenuta l’esplosione, si stessero o no facendo delle lavorazioni o miscelazioni all’interno della fabbrica, in ogni caso l’ora (le 14,50) non sarebbe stata quella adatta. Le ore idonee sono infatti le prime ore del mattino o le ore serali, specie considerando che il 12 settembre nella zona, intorno alle 15, la temperatura era elevata, circa 35 gradi.
Ferma restando la necessità di attendere l’esito degli accertamenti, questa circostanza poteva comunque essere stata un elemento di criticità.
È stato poi ricordato che le persone che svolgono le attività pirotecniche sono tutte state certificate idonee per questo tipo di attività; esse devono superare un esame in cui vengono valutate le conoscenze pratiche e l’idoneità psicofisica, anche da parte dei medici del lavoro. Il responsabile dello SPRESAL ha tuttavia sottolineato come nel settore pirotecnico vi siano gravi carenze di tipo organizzativo e culturale. Le lavorazioni infatti avvengono spesso con un carattere troppo «artigianale», nel senso che le conoscenze necessarie si tramandano in molti casi per tradizione (spesso in ambito familiare, proprio come nel caso dei titolari della Pirotecnica Arpinate), senza che gli operatori acquisiscano nozioni tecnico-scientifiche (ad esempio di chimica o di fisica) adeguate rispetto ai materiali e ai processi che trattano. Tali nozioni sarebbero invece necessarie in un settore in cui le sostanze e le miscele diventano sempre più sofisticate e che presenta un alto rischio intrinseco. Il problema quindi non è delle caratteristiche strutturali degli edifici, perché le regole sono adeguate: infatti, nel caso della fabbrica esplosa, è stato confermato che, sotto questo profilo, era tutto regolare, anche nelle ispezioni compiute periodicamente.
Il vero problema – ha ribadito il responsabile dello SPRESAL – sta nella formazione inadeguata degli operatori e nell’approccio eccessivamente «empirico», che può portare a commettere errori o a non applicare in modo rigoroso le norme di sicurezza. Ad esempio, il fatto di portare in fabbrica i familiari o di far entrare un visitatore all’interno: una delle persone decedute nell’esplosione di Arpino era infatti un ospite che era probabilmente andato a comprare del materiale e che si trovava all’interno della struttura, sebbene questo non sia consentito dalla norma. Occorre dunque anche un’organizzazione più specializzata e rigorosa.
I rappresentanti della Direzione provinciale del lavoro di Frosinone hanno successivamente riferito in merito ai rapporti di lavoro attivati presso la Pirotecnica Arpinate. L’azienda era stata già ispezionata nel 1999: nel corso di tale controllo, era stato trovato un lavoratore irregolare.
Nel 2002, in occasione di un ulteriore controllo, l’azienda era risultata perfettamente in regola e da allora non aveva più avuto ispezioni. Dalle indagini svolte nei giorni immediatamente successivi all’incidente, tuttavia, è emerso che tra gli operai deceduti c’era anche un lavoratore in nero.
La Commissione ha chiesto ulteriori dettagli su questi aspetti, anche per verificare alcune notizie apparse sugli organi di stampa secondo le quali nella ditta sarebbe stato impiegato anche un altro lavoratore, che era uscito dalla fabbrica la mattina alle ore 11, salvandosi così dal disastro.
Il rappresentante dello SPRESAL ha confermato la notizia: c’era una persona, sulla quale in quel momento si stavano facendo accertamenti, che aveva abbandonato lo stabilimento dopo le 11. Nel pomeriggio era stato là con i tecnici per aiutare a ricostruire la disposizione dei locali e le eventuali lavorazioni in corso. A quanto aveva riferito, collaborava periodicamente con l’azienda; erano quindi in corso le verifiche del caso per capire in che cosa consistesse effettivamente questo rapporto. Anche su questo versante, però, le indagini erano ancora in una fase preliminare e non era possibile avanzare conclusioni.
Per quanto riguarda il discorso sulla sicurezza nel settore delle attività pirotecniche, i rappresentanti della Direzione provinciale del lavoro hanno confermato quanto detto dal responsabile dello SPRESAL in merito alla scarsa preparazione dei lavoratori. Attualmente, infatti, l’esame per il rilascio dei patentini di abilitazione non richiede alcuna scuola specifica di addestramento per esercitare questo tipo di attività: in genere i lavoratori sono ragazzi ma anche persone meno giovani. Il problema è che, mancando una norma esplicita in questo senso, non è possibile chiedere loro di più. Si tratta di una formazione elementare, che però non è al passo con l’evoluzione della chimica e della tecnologia che si registra anche nel settore pirotecnico. Il rischio che si corre allora è che molti di questi operatori non abbiano coscienza del pericolo perché non conoscono fino in fondo la materia di cui si occupano.
Conclusivamente, la Commissione ha infine chiesto agli organi competenti di trasmettere – non appena disponibili e fatte salve le esigenze istruttorie – i risultati degli accertamenti effettuati, al fine di poter ricostruire la dinamica dell’incidente. Al di là di tali aspetti, la missione ad Arpino ha però messo in luce varie carenze di carattere normativo e amministrativo nelle procedure di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori addetti alle attività pirotecniche, che hanno successivamente indotto la Commissione ad assumere una serie di iniziative sia per approfondire in senso più generale i problemi del settore, sia per verificare le possibili soluzioni.
Di tali iniziative si è dato conto ampiamente nel paragrafo 3.2, al quale pertanto si rinvia.

4.10. Sopralluogo ad Aosta (16-17 ottobre 2011)
Il 16 e 17 ottobre 2011 la Commissione ha svolto una missione ad Aosta, mediante una delegazione composta dal presidente Tofani e dai senatori Fosson, Maraventano e Pichetto Fratin. Tale missione si iscriveva nel percorso di approfondimento volto a verificare, in ambito regionale, l’andamento del processo di attuazione del testo unico e, più in generale, l’assetto organizzativo adottato per il sistema di prevenzione e di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, anche alla luce dell’autonomia speciale riconosciuta alla regione Valle d’Aosta.
Il presidente della Giunta regionale della Valle d’Aosta, nella sua audizione, ha anzitutto evidenziato come le ridotte dimensioni della Regione e il fatto di avere una sola unità sanitaria locale favoriscano una gestione più diretta delle varie competenze, superando alcuni dei problemi di coordinamento riscontrati talvolta in altre regioni. Puntando sulla filosofia della prevenzione a largo raggio, la Regione aveva istituito il comitato regionale di coordinamento già ai sensi del decreto legislativo n. 626 del 1994, che ha anticipato il decreto legislativo n. 81 del 2008. In adeguamento a quanto poi previsto da tale successivo decreto, sono state inserite le parti sociali ed è stato istituito l’ufficio operativo, che coordina gli enti preposti alla vigilanza ed elabora le proposte su azioni di vigilanza e di prevenzione da sottoporre alla preventiva approvazione del comitato.
Sotto questo profilo, in coordinamento con il comitato, nell’anno 2010 è stato attuato il Piano operativo regionale di vigilanza e prevenzione, approvato nel dicembre 2009. Le iniziative hanno interessato, in particolare, i seguenti ambiti di attività: la prevenzione nei cantieri edili con azioni specifiche rivolte alla realizzazione di una campagna di vigilanza sui cantieri e di campagne di informazione e di formazione degli attori della sicurezza; la prevenzione in agricoltura, nel cui ambito sono state sviluppate una campagna informativa in collaborazione con l’assessorato regionale all’agricoltura, l’azienda USL e le associazioni di categoria, e una campagna di sensibilizzazione degli agricoltori per la messa a norma dei trattori e delle macchine agricole in genere (molti degli incidenti erano infatti proprio legati a ciò); l’esecuzione dei controlli nelle aziende agricole regionali; la prevenzione nel settore metallurgico e in quello della lavorazione dei metalli, con l’obiettivo specifico di intervenire sull’uso di attrezzature di lavoro pericolose e sui processi di lavorazione, attraverso il controllo e l’ispezione delle aziende metalmeccaniche e siderurgiche.
Il presidente della Giunta Regionale si è quindi soffermato su due aspetti che si ricollegano all’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 e che in Valle d’Aosta sono stati esaminati con particolare attenzione. In primo luogo il contrasto al lavoro nero, orientando in tal senso la legislazione regionale, ad esempio vincolando l’ottenimento di provvidenze economiche al previo accertamento del versamento dei contributi dovuti. Secondo i dati forniti alla Commissione, in Valle d’Aosta vengono accertati ogni anno circa 200 lavoratori in nero, distribuiti abbastanza uniformemente nei settori che caratterizzano l’economia locale (ossia edilizia, settore pubblico, servizi e agricoltura). Sono chiaramente piccoli numeri rispetto al macrofenomeno esistente in Italia, ma che denotano l’attenzione riservata a questo tema, sia legislativamente sul fronte del costo sia operativamente con la vigilanza. Il secondo aspetto richiamato è quello relativo alle forme di assistenza e di sostegno ai familiari delle vittime degli incidenti di lavoro, per le quali il 21 luglio 2009 la Regione si è dotata di una legge specifica che prevede diverse tipologie di intervento.
Infine, è stato ricordato che la stessa amministrazione regionale è il datore di lavoro più importante della Valle d’Aosta, considerando l’amministrazione in sé, l’AUSL e tutte le aziende partecipate: essa è, quindi, uno dei riferimenti per l’applicazione della legge stessa. Come regione a statuto speciale, i problemi relativi alla sicurezza riguardano settori eterogenei, che comprendono anche scuole e specificità professionali, come i Vigili del fuoco, il Corpo forestale o il personale che opera nella Protezione civile, che appunto sono di competenza della regione. Nel 2010 in Valle d’Aosta, escludendo il settore scolastico, si sono verificati 93 infortuni; questo dato conferma la tendenza decrescente registrata nell’ultimo quinquennio.
Nel 2010 inoltre non si sono verificati incidenti mortali, segno anche dell’attenzione profusa ai vari livelli.
Su richiesta della Commissione, il coordinatore del Dipartimento politiche del lavoro e della formazione ha poi confermato che l’ufficio operativo del comitato di coordinamento è regolarmente attivato e presieduto dal presidente della Regione che in Valle d’Aosta svolge anche le funzioni di prefetto. Essendovi in Valle d’Aosta un’unica provincia coincidente con il territorio regionale, risulta peraltro relativamente facile organizzare il coordinamento tra i vari soggetti istituzionali preposti alla sicurezza del lavoro, che sono tutti presenti nell’ufficio operativo. Alcuni problemi si registrano nella fase della vigilanza da parte della Direzione regionale del lavoro, che ha grosse carenze di organici dovendo svolgere anche le funzioni di Direzione provinciale, al punto che non vi sono più ispettori da destinare ai controlli. Per il resto la maggior parte delle competenze spettano al Dipartimento di prevenzione dell’AUSL: da segnalare come il coordinamento sia continuo perché nel 2010 è stata costituita una banca dati warehouse che ha messo in linea i dati sugli infortuni dell’INPS, dell’INAIL e del Dipartimento di prevenzione, superando le discrasie che si registravano in precedenza tra i vari archivi. La Valle d’Aosta è in effetti forse l’unica a vantare un sistema del genere, forse anche perché è più semplice da realizzare rispetto alle organizzazioni territoriali di altre regioni.
La Commissione ha poi chiesto informazioni circa i contatti delle strutture regionali con i Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute, in particolare per quanto riguarda la trasmissione delle relazioni sull’attività del comitato di coordinamento che, in base alla normativa, dovrebbe avvenire ogni anno. In merito, si è precisato che i contatti con i ministeri per la Valle d’Aosta come per altre Regioni avvengono indirettamente; nel senso che il responsabile del Dipartimento di prevenzione, che fa parte dell’ufficio operativo, partecipa al Coordinamento tecnico interregionale di prevenzione nei luoghi di lavoro della Conferenza delle regioni e delle province autonome22, che costituisce un’importante sede di confronto. Inoltre, il Dipartimento delle politiche del lavoro è in contatto costante con il Ministero del lavoro, anche per concorrere alla definizione dei vari accordi tra Stato e regioni previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008 per completare l’emanazione della normativa di dettaglio (ad esempio, il coordinatore del Dipartimento delle politiche del lavoro ha segnalato alcuni problemi in merito a una parte dell’articolo 37 del testo unico, sulla formazione nel settore terziario).
In definitiva, si è confermato il pieno funzionamento del comitato regionale di coordinamento e degli organismi collegati in Valle d’Aosta: le riunioni avvengono con cadenza addirittura bimensile, precedute da incontri preparatori dell’ufficio operativo. Il Piano operativo regionale della prevenzione è in linea con quello nazionale, sia per quanto riguarda le attività di vigilanza (sono stati pienamente rispettati i vari obiettivi fissati per i controlli) che quelle di prevenzione in senso stretto. Il coordinatore del Dipartimento politiche del lavoro ha quindi espresso una valutazione molto positiva sul ruolo dei comitati regionali di coordinamento, come ridisegnato dal testo unico, evidenziando però una certa difficoltà nell’utilizzo delle risorse messe a disposizione dallo Stato per le attività di prevenzione, a causa di una eccessiva burocraticità nelle procedure amministrative, che dovrebbero invece essere più snelle e maggiormente adeguate alle esigenze specifiche dei contesti locali. Si è citato ad esempio il caso della formazione nel settore turistico-alberghiero, che nelle zone montane come quella valdostana deve tenere conto dell’impegno stagionale dei lavoratori del settore. La Valle d’Aosta e molte altre regioni hanno dunque problemi ad approvare i programmi necessari per l’utilizzo dei fondi e si rischia a volte di perdere queste risorse.
La Commissione ha evidenziato come certe problematiche potrebbero forse trovare più facilmente soluzione nell’ambito di un dialogo più diretto e costante tra le regioni e il Governo centrale, attraverso lo strumento delle relazioni annuali del comitato regionale di coordinamento ai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute, previsto dalla normativa vigente. In questo modo si potrebbero far arrivare gli elementi che si colgono sul territorio direttamente ai ministeri, attivando percorsi più rapidi anche per risolvere eventuali problemi.
Il Presidente della Giunta regionale ha espresso il proprio favore per l’attivazione di questo rapporto bilaterale diretto tra regione e ministeri, segnalando però la necessità, affinché lo stesso sia realmente efficace, di prevedere un referente specifico a livello ministeriale – presenza che finora non è stata definita né sollecitata –, in modo da poter individuare con certezza a chi inviare la relazione e da chi avere una risposta, evitando che i dossier messi a disposizione poi non producano effetti. Il coordinatore del Dipartimento delle politiche del lavoro ha confermato tale esigenza, che dovrebbe portare ad individuare una figura unica di raccordo a livello centrale presso i ministeri.
Il procuratore capo della Repubblica presso il tribunale di Aosta ha poi illustrato i dati sull’attività giudiziaria riguardante gli infortuni sul lavoro.
Negli ultimi due anni sono pervenute alla procura della Repubblica circa 500 notizie di reato riguardanti questo settore, che è seguito da un gruppo di lavoro specializzato della procura. Di queste 500 notizie di reato, però, solo il 10 per cento o poco meno va a giudizio o viene definito con decreto penale, mentre tutte le altre vengono in pratica definite con l’ottemperanza alle prescrizioni indicate dallo SPESAL (Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro), cui fa seguito l’estinzione del reato, di cui a questo punto la procura chiede l’archiviazione. I casi che vanno a giudizio riguardano per lo più situazioni in cui c’è già stata una recidiva e nelle quali dunque per legge i relativi procedimenti non possono essere conclusi con quella speciale forma di oblazione che porta all’estinzione del reato.
Sono stati inoltre registrati, in due anni, circa 500 casi di lesioni personali colpose ex articolo 590 del codice penale, con riferimento particolare ai casi di lesioni gravi o gravissime, anche se in realtà vi sono stati solo quattro casi in cui tali lesioni colpose sono concorse con una violazione antinfortunistica specifica (macchinario non a norma; mancanza delle cautele di legge per evitare cadute dall’alto). In Valle d’Aosta gli infortuni si verificano soprattutto nel campo dell’edilizia, dell’agricoltura e del turismo. Fortunatamente, anche se le segnalazioni sono numerose, la grande maggioranza non costituiscono reato. Anche se la popolazione valdostana non è numerosa (circa 129.000 abitanti), sono comunque dati molto positivi, che testimoniano un livello elevato di sorveglianza sui luoghi di lavoro, tenuto conto che la procura della Repubblica viene sempre notiziata, anche sui casi per cui viene poi chiesta l’archiviazione.
Il procuratore ha quindi svolto alcune considerazioni di carattere generale sull’efficacia del decreto legislativo n. 81 del 2008, sottolineando la grande portata della normativa, tra l’altro, nella maggiore responsabilizzazione del datore di lavoro, dei preposti e, in generale, di tutti coloro che devono curare il rapporto con altri sotto il profilo della sicurezza. Al tempo stesso, ha però ravvisato un problema, laddove nel testo unico vengono indicate fattispecie penali anche a carico del lavoratore che, ad esempio, si rifiuta di usare determinati strumenti a propria tutela. Si tratta purtroppo di un fenomeno che nella pratica succede molto spesso e, dovendo applicare la legge nella realtà, ciò imporrebbe non solo di applicare le norme in campo penale, ma anche di comminare multe e ammende, facendo pagare una sanzione al lavoratore dopo che si è fatto male. C’è però qualche perplessità da parte degli inquirenti: in genere, si tratta di sanzioni penali di tipo pecuniario e rateizzabili che quindi, di fatto, non si applicano mai. Al di là delle previsioni normative e delle sanzioni, occorrerebbe soprattutto favorire la crescita culturale della società sui temi della sicurezza e responsabilizzare maggiormente anche i lavoratori.
La Commissione ha poi evidenziato come, dai dati INAIL disponibili, risulti un calo generalizzato degli infortuni (anche di quelli mortali), con una differenziazione tra i generi: una diminuzione del 18,6 per cento relativa ai maschi e un aumento dell’8,3 per cento con riguardo alle femmine.
Un altro aspetto da approfondire riguarda le malattie professionali, per le quali si registra un aumento significativo del 175 per cento, sia pure su numeri molto contenuti (da 9 a 22 casi). C’è più che un raddoppio delle malattie osteoarticolari e muscolo-tendinee; una crescita si registra anche con riguardo alle malattie cutanee. Tale andamento degli infortuni e delle malattie professionali si inserisce inoltre in un quadro di occupazione crescente: in Valle d’Aosta gli occupati sono infatti aumentati, sia pure di poco: dal 2009 al 2010 sono cresciuti di 600 unità e dal 2006 al 2010 da 55.500 a 57.000 unità.
Il procuratore capo di Aosta ha sottolineato che la diversa incidenza infortunistica tra maschi e femmine potrebbe dipendere anche dal fatto che, dal punto di vista lavorativo, la popolazione femminile è aumentata rispetto a quella maschile. Nell’andamento infortunistico della Valle d’Aosta si registra poi un aspetto stagionale, con un picco nei mesi invernali, legato probabilmente alle condizioni climatiche che favoriscono incidenti come le cadute sul ghiaccio. Si tratta comunque di elementi difficili da apprezzare. Per quanto riguarda le malattie professionali, il discorso è più complesso: probabilmente l’aumento dei casi segnalati è anche legato a una maggiore sensibilizzazione dei lavoratori nel rendersi conto di questi aspetti. Da un punto di vista statistico, il grosso delle malattie professionali in Valle d’Aosta è rappresentato dall’ipoacusia, relativa alla sottoposizione a rumori, per la quale peraltro dal 2009 al 2010 si è registrato un calo, passando da 17 a 12 casi (-75 per cento).
Dopo aver ricordato che dal punto di vista giuridico le malattie professionali rientrano di solito nell’ambito dell’articolo 590, comma 3, del codice penale (lesioni colpose) o, se dovessero condurre alla morte, nell’ambito dell’articolo 589 (omicidio colposo, ad esempio il caso dell’amianto e del mesotelioma pleurico), il magistrato ha evidenziato la difficoltà di accertare tali reati in relazione alle varie patologie. Occorre infatti risalire indietro nel tempo, spesso anche di molti anni, per ricostruire la vita lavorativa del soggetto e dimostrare il nesso di causalità tra l’attività svolta e la patologia contratta. Ad esempio, ciò risulta molto difficile per quasi tutte le malattie professionali riguardanti l’ipoacusia, perché quando la notizia di reato arriva alla magistratura la persona ne soffre in genere già da tempo e la Cassazione ha stabilito che si deve provare che da sei anni a questa parte c’è stato un aggravamento tale da costituire malattia autonoma, altrimenti la notizia di reato è destinata ad essere archiviata.
Un discorso ancora più complesso vale per malattie come il mesotelioma pleurico, ossia il tumore relativo all’esposizione ad amianto. Si tratta di processi difficilissimi e dall’esito incerto, perché questo tipo di tumore ha una latenza anche di 40 anni e quindi la ricerca delle cause impone di risalire indietro di decenni. In eventi che abbracciano un lasso di tempo così lungo, la prescrizione sarebbe già da tempo operativa se si trattasse di un altro tipo di reato. In questo caso, invece, la Cassazione ha stabilito che il reato non si prescrive, in quanto il tempo comincia a decorrere dal momento in cui avviene la morte.
Dopo che la Commissione ha richiamato l’attenzione anche sugli infortuni stradali legati ad attività lavorative, il procuratore ha infine segnalato che, mentre nel 2010 fortunatamente non vi erano state morti sul lavoro, nel 2011 (fino al momento della visita della Commissione) se ne erano verificate due, la prima delle quali ha riguardato un lavoratore che è stato investito da un pacco di tondini di ferro in un cantiere edile durante una movimentazione con escavatore: su questo caso al momento stava indagando la magistratura. L’altro incidente, invece, si è verificato durante un lavoro di disgaggio (la liberazione dei massi pericolanti dalle pareti rocciose): per tale caso sarebbe stata probabilmente chiesta l’archiviazione, in quanto sembravano essere state rispettate tutte le prescrizioni di sicurezza. In generale, la diminuzione del numero delle morti bianche in Valle d’Aosta negli ultimi anni appare un fatto consolidato ed in parte è da ricondurre anche all’attenzione posta sul tema e all’intensa opera di prevenzione e di formazione svolta da tutti gli organi competenti.
Il Comandante del gruppo dei Carabinieri di Aosta ha successivamente illustrato l’attività svolta in relazione agli infortuni sul lavoro in Valle d’Aosta. Nel corso del 2011, ad esempio, l’Arma è intervenuta in 15 casi di incidenti, di cui 10 riguardanti l’edilizia e uno l’agricoltura.
Vi è stato inoltre un incidente casalingo, relativo però alla ristrutturazione di una casa. Due incidenti sono avvenuti nel settore dell’impiantistica e uno ha riguardato la sistemazione di massi di montagna, in cui un addetto specializzato ha avuto un incidente mortale sul posto di lavoro. In base a una convenzione firmata nel giugno 2010 con la Direzione regionale del lavoro, inoltre, l’Arma dei Carabinieri svolge congiuntamente con l’Ispettorato del lavoro alcune ispezioni per verificare eventuali irregolarità nel rapporto di lavoro. Per quanto riguarda la Valle d’Aosta, le violazioni che si riscontrano riguardano, in massima parte, lavoratori assunti irregolarmente che, soprattutto nei cantieri edili, sono spesso dei soggetti stranieri, generalmente dell’Est Europa (rumeni o albanesi).
Tale attività ispettiva contro il lavoro irregolare avviene nell’ambito della convenzione con l’Ispettorato del lavoro; qualora l’Arma dovesse intervenire per altri motivi, vengono comunque attivate le necessarie intese anche con gli altri enti competenti in materia di sicurezza sul lavoro, con i quali esiste infatti uno stretto coordinamento nell’ambito del comitato regionale e dell’ufficio operativo. Anche il responsabile del Nucleo tutela del lavoro dei Carabinieri presso la Direzione regionale del lavoro ha confermato tale aspetto, sottolineando che la collaborazione in funzione ispettiva con altre forze dell’ordine e altri enti, quali INAIL, INPS, Agenzia delle entrate ed ENPALS, in Valle d’Aosta ha una lunga e consolidata tradizione.
Purtroppo, il Nucleo ha una consistenza organica esigua, essendo formato dallo stesso responsabile e da una sola altra unità. Ciononostante, i controlli congiunti dei Carabinieri e dei vari enti presenti sul territorio sono assidui e mirati in tutte le realtà, anche se il settore nel quale si effettuano maggiori controlli è quello dell’edilizia. L’Arma si concentra comunque sul controllo dei lavoratori irregolari, mentre la competenza primaria sulla sicurezza del lavoro, anche a livello preventivo, rimane della ASL, che lavora bene sia in sinergia con l’Arma territoriale che con organi ispettivi. Pur con le ovvie difficoltà legate al numero esiguo delle unità, il Nucleo tutela del lavoro sta comunque cercando di intensificare l’azione sul territorio, proprio per prevenire l’insorgenza di infortuni sul lavoro. Uno dei fattori più preoccupanti segnalati alla Commissione riguarda la forte presenza di lavoratori precari, spesso immigrati, provenienti da fuori del territorio regionale (ad esempio da Torino o da Milano), che favorisce il lavoro irregolare e aumenta i rischi per la sicurezza, soprattutto in edilizia. Si tratta di frequente di aziende non aventi sede in Valle d’Aosta, ma di piccole imprese, a volte artigiane, che arrivano in Valle d’Aosta, lavorano per pochi giorni e poi scompaiono, rendendo così difficile la loro rilevazione. Tali aziende sfruttano proprio questa manodopera precaria che, com’è noto, è disposta a percepire anche paghe molto basse pur di spuntare qualche giorno di lavoro. Tutto questo causa la negazione del diritto, favorendo altresì l’insorgere degli infortuni.
Nella successiva audizione, il Comandante regionale dei Vigili del fuoco ha ricordato che i Vigili del fuoco svolgono attività sia di prevenzione che di soccorso. L’attività di prevenzione viene svolta sia come normale attività istituzionale, legata essenzialmente all’esame di progetti per le attività soggette ai controlli di prevenzione antincendio, sia nell’ambito del comitato regionale di coordinamento. In particolare, in questa fattispecie negli ultimi anni i Vigili del fuoco sono stati coinvolti nelle attività a favore della sicurezza sul lavoro per alcuni settori specifici come l’edilizia, la lavorazione dei metalli e l’agricoltura.
Per quanto riguarda gli interventi di soccorso, quelli nei luoghi di lavoro sono una percentuale limitata del totale. Precisamente nel 2011, con riferimento agli incendi, su un totale di 301 casi 19 si sono verificati su luoghi di lavoro, fortunatamente senza vittime: tra gli altri uno in banca, uno in un cantiere, due in capannoni industriali, due in discarica, due in fabbriche di attività industriali, due in fienili, due in hotel ristoranti e un principio di incendio in un ospedale. La percentuale risulta ancora più bassa per quanto riguarda il soccorso a persone, dove si parla di 3- 5 interventi in luoghi di lavoro su un totale di 70-80 casi. Oltre ai sopralluoghi effettuati nell’ambito dell’attività del comitato di coordinamento, i Vigili del fuoco svolgono ovviamente i loro sopralluoghi istituzionali su tutte le attività soggette alla prevenzione incendi. Sono circa 10.000, di cui però solo il 30 per cento riferito ad attività lavorative. Nel corso dei controlli del 2011 sono stati effettuati 17 procedimenti sanzionatori per verifica di inosservanza delle norme di lavoro; l’anno scorso erano stati 12, ma il numero è in funzione anche della quantità di sopralluoghi, che negli ultimi anni sono aumentati. Infine, il Comandante dei Vigili del fuoco ha ricordato che in Valle d’Aosta ci sono sei siti industriali di attività ad alto rischio ricomprese nell’ambito della cosiddetta «direttiva Seveso» (decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334), per le quali i Vigili del fuoco hanno di recente aggiornato i piani di emergenza, in collaborazione con le altre forze dell’ordine e gli organi prefettizi.
Il successivo incontro della Commissione si è svolto con il presidente dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL). Dopo aver ricordato come l’Associazione lavori da tempo attivamente per la tutela contro gli infortuni sul lavoro, in questi ultimi anni con particolare attenzione alla prevenzione, egli ha sottolineato come la situazione della Valle d’Aosta rispecchi sostanzialmente quella si registra a livello nazionale.
Sono infatti in aumento anche in questa Regione le malattie professionali, soprattutto le patologie osseo-scheletriche e i tumori causati dall’esposizione a radiazioni ed amianto. Nel 2010 c’era stata una regressione degli infortuni sul lavoro, mentre nei primi mesi del 2011, pur registrandosi ancora una leggera flessione del fenomeno infortunistico, si sono verificati in Valle d’Aosta tre incidenti mortali, che evidenziano la necessità di un intervento più incisivo.
Al riguardo l’ANMIL ritiene che il passaggio decisivo stia nell’accrescere la cultura generale della popolazione in ordine alla prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, che risulta ancora carente, anche in regioni come la Valle d’Aosta. Occorre andare nelle scuole per formare i giovani alla sicurezza sul lavoro attraverso lezioni mirate, rivolgendosi soprattutto a quanti, frequentando la scuola secondaria, entreranno a breve nel mondo del lavoro. In proposito ha citato come esempio il progetto SILOS (Scuola innovazione lavoro organizzazione sicurezza) attivato dall’ANMIL in varie regioni del Paese.
La Commissione, nel manifestare apprezzamento per la meritoria opera di sensibilizzazione sui temi della sicurezza sul lavoro svolta a livello nazionale dall’ANMIL, ha altresì condiviso l’esigenza di iniziare la formazione in questo settore dalle scuole, magari fin da quelle elementari. In proposito, ha ricordato che esiste ormai una cabina di regia, formata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dall’INAIL, per coordinare le attività di formazione all’interno delle scuole previste dallo stesso testo unico, attraverso specifici moduli didattici. È stato inoltre richiamato il bando di concorso emanato dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca attraverso l’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica (ANSAS), per un finanziamento di 110.000 euro per ogni progetto, bando al quale hanno risposto un po’ tutte le regioni italiane.
È stato quindi il turno della direttrice regionale dell’INAIL della Valle d’Aosta, che ha innanzitutto richiamato i dati dell’ultimo Rapporto annuale, evidenziando che nel 2010 nella Regione non vi sono stati incidenti mortali sul lavoro, mentre se ne sono verificati tre all’inizio del 2011, di cui uno però formalmente di competenza della Direzione regionale dell’Abruzzo, dove era il luogo di residenza del deceduto (Avezzano nel caso in questione), il che spiega la mancata registrazione per la Valle d’Aosta. I tre lavoratori deceduti erano una guardia forestale che stava osservando un nido di gipeto; un giovane caduto durante le operazioni per la messa in sicurezza di una strada e un operaio edile morto il 28 luglio 2011. Già tali elementi mettono in evidenza come, accanto agli incidenti per così dire «ordinari» che avvengono nel settore dell’edilizia o all’interno di impianti industriali, ne esistano altri legati alla peculiare morfologia del territorio valdostano, che è molto diversa da quella di altre regioni.
È il caso, ad esempio, degli infortuni correlati alla messa in sicurezza dalle frane delle strade provinciali o comunali, che spesso si snodano lungo pareti rocciose.
La direttrice regionale ha quindi illustrato le iniziative svolte dall’INAIL, in collaborazione con altri enti, per aiutare lavoratori e datori di lavoro sul fronte della prevenzione, dove spesso manca un’adeguata cultura. Innanzitutto sono stati siglati dei protocolli d’intesa con l’Azienda USL per lo scambio di dati informatici su infortunati e tecnopatici. In secondo luogo, sono stati fatti dei progetti nelle scuole («Naso in su» e «Sicuropoli ») per favorire la diffusione della cultura della sicurezza tra le giovani generazioni. Ancora, sono state avviate una serie di iniziative volte a contemperare le esigenze della vita lavorativa e della scuola, tra cui in particolare alcuni corsi di aggiornamento sulla prevenzione delle scuole edili, con l’ausilio della Consulenza tecnica accertamento rischi e prevenzione (CONTARP) del Piemonte. Altri progetti prevedono la realizzazione di filmati che raccontano la storia di alcuni infortuni e che saranno poi proiettati nelle scuole, per porre l’attenzione sui comportamenti corretti da tenere. Per quanto riguarda le malattie professionali, l’aumento maggiore in Valle d’Aosta si registra per quelle osteoarticolari, come la sindrome del tunnel carpale, derivanti dall’utilizzo ormai sempre più diffuso del computer e dalla postura non corretta davanti allo stesso.
Un cenno particolare è stato poi fatto in merito al problema del lavoro nero, diffuso anche in Valle d’Aosta, soprattutto nel settore edile; purtroppo la Direzione regionale dell’INAIL ha un solo funzionario addetto alla vigilanza, che opera congiuntamente con la Direzione regionale del lavoro e con l’INPS. La direttrice regionale dell’INAIL ha pertanto evidenziato la necessità di potenziare le attività di controllo in questo settore, che richiedono personale specializzato e più numeroso, in quanto, pur essendo il territorio della Valle d’Aosta piuttosto piccolo, vi è una presenza molto elevata di lavoro nero se confrontata con altre regioni, il che potrebbe anzi consigliare la costituzione di una task force interregionale con i servizi ispettivi delle regioni limitrofe.
Dopo aver richiamato la collaborazione tra l’INAIL e i vari patronati, inclusa l’Associazione nazionale tra mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL), che ora ha appunto assunto anche la veste di patronato che prima non aveva, sono stati poi analizzati i dati sugli infortuni. Si è confermato anzitutto il trend decrescente, pur con alcune differenze settoriali: ad esempio vi è una permanenza di infortuni in agricoltura, alla quale l’INAIL sta cercando di fare fronte con progetti di prevenzione ad hoc condotti insieme alle associazioni di categoria, tenendo conto sia degli incidenti legati all’uso del trattore sia di quelli derivanti dalla peculiarità di alcune coltivazioni, dovuta alla natura montuosa del territorio valdostano (ad esempio la coltivazione dei vigneti a terrazze). Un altro tipo di infortuni in aumento sono quelli su strada, sia in itinere che in occasione di lavoro, dovuti in parte alla morfologia del territorio e in parte alla loro ammissione all’indennizzo introdotta con il decreto legislativo n. 38 del 2000.
La Commissione ha rilevato la necessità di approfondire meglio le possibili cause del forte aumento degli infortuni in itinere registrato nel periodo 2009-2010, come pure degli infortuni che hanno colpito di più le donne rispetto agli uomini. Nell’ultimo quinquennio per gli incidenti alle lavoratrici in Valle d’Aosta si è infatti registrato un aumento dell’8,3 per cento, anche se si tratta pur sempre di numeri piccoli, perché si passa dai 700 infortuni del 2006 ai 758 del 2010. D’altra parte nel periodo 2009-2010 l’occupazione è aumentata, passando da 56.400 a 57.000 unità. Infine la Commissione ha raccomandato una particolare attenzione al fenomeno degli incidenti in agricoltura legati all’uso di trattori, ricordando anche le iniziative assunte direttamente, cercando di facilitare l’uso di agevolazioni per l’adeguamento e la messa in sicurezza dei mezzi – superando i vincoli comunitari del «de minimis» – e valutando la possibilità di introdurre uno specifico patentino per la guida. La rappresentante dell’INAIL ha condiviso tali esigenze, segnalando che anche l’Istituto aveva in programma iniziative analoghe.
È stato quindi il turno del direttore regionale del lavoro della Valle d’Aosta, che ha segnalato una preoccupante carenza del personale ispettivo: in quel momento, l’ufficio era sprovvisto di figure tecniche e aveva solo 7-8 funzionari amministrativi, che si occupavano delle verifiche della tutela della legislazione sociale o del recupero contributivo, ma non potevano operare sotto il profilo della sicurezza non avendo le necessarie competenze.
Così, ad esempio, per quanto riguarda l’edilizia, nel periodo gennaio- settembre 2011 sono state effettuate un centinaio di ispezioni, ma si è trattato di ispezioni relative alla verifica della regolarità del rapporto di lavoro degli addetti al comparto, mentre non è stato possibile fare alcuna attività di vigilanza specificamente finalizzata alla sicurezza sul lavoro: benché certamente anche il contrasto al lavoro nero contribuisca alla prevenzione, si tratta di una lacuna che andrebbe colmata rapidamente.
Il rappresentante del Servizio prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro (SPRESAL) della AUSL, dal canto suo, ha evidenziato che il Servizio è composto da circa 17 unità, con caratteristiche prevalentemente tecniche: 2 ingegneri, 12 tecnici e 3 amministrativi. Lo SPRESAL si occupa di vigilanza, di attività di polizia giudiziaria e di prevenzione, nonché della verifica periodica degli impianti. A questo tipo di attività sono preposte oggi cinque persone, anche se soltanto due se ne occupano a tempo pieno. Negli anni il numero degli addetti è rimasto abbastanza invariato, poiché gli addetti usciti sono stati via via sostituiti con personale assunto a tempo determinato o con contratti di lavoro interinale.
Per quanto riguarda specificamente l’attività di vigilanza, esistono banche dati sugli infortuni in comune con l’INAIL, per individuare quali sono i settori maggiormente a rischio ed in funzione di questo stabilire poi ogni anno le priorità negli interventi, che in genere riguardano soprattutto l’edilizia e l’agricoltura. Per quanto riguarda specificamente il settore edile, da circa 5 anni una parte dell’attività di vigilanza sui cantieri più grandi viene svolta congiuntamente all’Ispettorato del lavoro, al fine di verificare non solo gli aspetti correlati alla sicurezza, ma anche quelli riguardanti il lavoro nero. Purtroppo nel 2010, per ragioni organizzative, non si è riusciti a concordare un’azione congiunta, che è stata comunque ripresa nel 2011. Le priorità e le azioni strategiche vengono stabilite di comune accordo all’interno del coordinamento regionale.
In definitiva, si è confermato il buon funzionamento del sistema, anche sotto il profilo della dotazione di risorse strumentali, mentre sono state evidenziate alcune carenze di personale, che non consentono di rispettare tutti gli obiettivi posti per la vigilanza dal Patto per la salute stipulato a livello nazionale tra Stato e regioni: ad esempio il controllo dei cantieri notificati dovrebbe raggiungere ogni anno il 20 per cento, mentre si attesta intorno al 16-17 per cento. Ciò dipende anche dalla mancata assunzione con contratto a tempo indeterminato di due tecnici: non essendo di ruolo questi due soggetti non sono ufficiali di polizia giudiziaria, per cui non possono svolgere funzioni di vigilanza senza il supporto di un ufficiale, il che costituisce un elemento di debolezza.
La Commissione ha condiviso le problematiche segnalate dai rappresentanti dei vari enti in ordine alle carenze di personale ispettivo, auspicando che le stesse potessero essere presto superate, in modo da garantire il corretto svolgimento di tutte le funzioni.
Nella successiva audizione, i rappresentanti delle organizzazioni sindacali hanno anzitutto sottolineato che, pur essendo la Valle d’Aosta una piccola regione e avendo maggiori risorse e possibilità di controllo del territorio rispetto ad altre realtà, essa non è immune dal fenomeno degli infortuni e delle morti sul lavoro, il cui trend decrescente rispecchia quello generale a livello nazionale. Occorre però tenere alta la guardia e diffondere una vera cultura della sicurezza, anche se in Valle d’Aosta vi è una forte carenza di ispettori, che rende di fatto molto difficile eseguire i controlli presso le aziende.
Un altro aspetto evidenziato dai sindacati riguarda il fatto che, rispetto al livello nazionale, la Valle d’Aosta ha una percentuale inferiore di incidenti gravi, ma una più alta di incidenti meno gravi, anche se non lievi. Ciò deriva dalla grande frammentazione del lavoro, determinata dalle caratteristiche del territorio e del tessuto economico e sociale, con moltissime aziende di dimensioni medio-piccole, dove la sicurezza viene talvolta trascurata. Un altro fattore di frammentazione è il carattere stagionale di molte attività, in cui i rapporti di lavoro hanno durata inferiore all’anno: si tratta di circa 10.000 persone che entrano ed escono dal mercato del lavoro in ogni stagione, una quota molto alta sul totale della forza lavoro.
Inoltre, alcuni tipi di lavoro vengono fatti essenzialmente da extracomunitari e da persone che lavorano in montagna o negli alpeggi, con caratteristiche peculiari.
È stato poi confermato il buon funzionamento del comitato regionale di coordinamento, giudicato più che adeguato rispetto alle esigenze della realtà valdostana e al quale anche i rappresentanti dei sindacati concorrono attivamente. In particolare, è stato riconosciuto il grande impegno della Regione nel settore delle politiche del lavoro, incentrato sulla prevenzione e, quindi, su una maggiore informazione sia a livello aziendale, che con riferimento al singolo lavoratore. In questo senso, i sindacati ritengono che i settori più rischiosi sotto il profilo della sicurezza sul lavoro e sui quali occorre concentrare maggiormente l’attenzione siano soprattutto il settore dei subappalti, allorquando le ditte vengono dall’esterno della Regione, e alcuni settori specializzati, legati alla peculiare configurazione montuosa del territorio che impone condizioni di lavoro molto particolari e rischiose (ad esempio, i piloti di elicotteri di montagna). Come esempio virtuoso di attività di prevenzione è stato ricordato il grande lavoro sui temi della sicurezza svolto in seguito alla tragedia del tunnel del Monte Bianco nel 1999, nonché la stipula di un accordo italo-francese (promosso dalle organizzazioni sindacali regionali) che ha permesso di standardizzare tutti i processi di sicurezza interni.
In risposta a uno specifico quesito della Commissione, infine, le organizzazioni sindacali hanno confermato che la frammentazione produttiva della Valle d’Aosta, che ha oltre il 98 per cento di microimprese, rende molto difficile, da una parte, diffondere la cultura della sicurezza e, dall’altra, portare i responsabili dei lavoratori per la sicurezza territoriali (RLST) dentro queste aziende senza che l’imprenditore li percepisca spesso come un soggetto estraneo ed ostile. Infatti, mentre nell’impresa più strutturata il responsabile dei lavoratori per la sicurezza e il sindacato stesso, nella maggior parte dei casi, hanno un rapporto costruttivo con l’imprenditore, nelle microimprese ciò diventa più complicato. Si è iniziato ad operare attraverso i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali nel comparto edile – dove sono presenti da tempo – e recentemente anche nell’artigianato, grazie alla presenza degli enti bilaterali, che hanno contribuito in maniera decisiva a diffondere questa esperienza. Anche se molto ancora rimane da fare, si stanno comunque registrando dei progressi, in quanto il datore di lavoro comincia finalmente a vedere gli RLST come una figura di aiuto complementare ad altre che si occupano di sicurezza, e non come una figura che ostacola in qualche maniera il lavoro o che agisce con ostilità.
La Commissione ha condiviso l’azione dei sindacati su questo fronte, sottolineando il ruolo decisivo degli RLST nell’attività di prevenzione soprattutto nei confronti delle piccole e piccolissime imprese, che sono proprio quelle dove si verifica il maggior numero di incidenti sul lavoro.
L’ultima audizione si è svolta con i rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali. È stata anzitutto ricordata una iniziativa per il settore edile, nata nel 2007 con un protocollo d’intesa con l’INAIL della Valle d’Aosta, per la formazione delle piccole e piccolissime imprese edili mediante uno speciale camper attrezzato: si è trattato di uno strumento valido, che ha contribuito alla riduzione degli incidenti in questo settore.
Per tutte le altre imprese del settore industriale, sono state ricordate alcune iniziative promosse dalle associazioni di categoria per fornire assistenza ai loro iscritti nel settore della sicurezza sul lavoro, ad esempio attraverso uno sportello gratuito rivolto alle imprese o realizzando corsi di formazione per i lavoratori e i preposti, poiché molte imprese della Valle d’Aosta, avendo dimensioni assai ridotte, non possono permettersi di organizzare queste attività in proprio. Occorre quindi fare rete tra le imprese e offrire loro un supporto per realizzare il processo formativo dei dipendenti.
È stato inoltre citato come esempio di eccellenza nella gestione dei problemi legati alla sicurezza sul lavoro lo stabilimento della Heineken a Pollein, dove avviene la produzione della birra e il suo imbottigliamento nei barattoli di alluminio. Tale stabilimento applica il Behavior Based Safety (BBS), un sistema che cerca di coinvolgere e motivare tutti i dipendenti premiando chi adotta le misure di sicurezza o partecipa alla formazione, piuttosto che punendo o reprimendo chi non lo fa. (La Commissione aveva avuto modo di approfondire questa metodologia proprio la settimana prima della missione in Valle d’Aosta23).
Da parte loro i rappresentanti del settore dell’artigianato hanno sottolineato come per le piccole realtà imprenditoriali risulti particolarmente difficile e oneroso dare attuazione a tutte le disposizioni del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sia perché in queste realtà manca l’organigramma articolato al quale la normativa affida le varie funzioni, essendovi quasi sempre solo il legale rappresentante dell’azienda, sia a causa dei troppi adempimenti burocratico- amministrativi che le piccole imprese fanno fatica a sostenere e che talvolta sono tentate di disattendere, specie in questo momento di crisi economica. Pertanto, dopo aver ricordato il loro impegno a favore delle attività di formazione e prevenzione, i rappresentanti dell’artigianato hanno chiesto uno snellimento delle procedure amministrative e una semplificazione degli adempimenti imposti alle aziende, con una specifica attenzione alle realtà di minori dimensioni come quelle che caratterizzano il tessuto economico valdostano, puntando meno sull’aspetto sanzionatorio e maggiormente sulla formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, il cui aggiornamento dovrebbe avvenire in maniera continua e più mirata. Altra questione è quella dei piani operativi di sicurezza che, a loro avviso, nei cantieri edili sono spesso disattesi, ad esempio da parte dei lavoratori autonomi, che non sono obbligati a redigerli.
La Commissione, pur comprendendo l’esigenza di uno snellimento degli adempimenti burocratico-amministrativi per le imprese di minori dimensioni, ha però evidenziato che questo non può mai tradursi in una inosservanza delle regole, considerato che la maggior parte degli incidenti delle morti sul lavoro si verificano proprio nelle piccole aziende, a volte costituite dal solo titolare o dal titolare e da pochi dipendenti. Richiamando il precedente incontro con i sindacati, la Commissione ha poi sollecitato un’attenzione particolare per le figure degli RLST (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali), che dovrebbero essere considerati come un ausilio e non come soggetti antagonisti, potendo dare un contributo prezioso all’innalzamento della sicurezza sul lavoro proprio nelle piccole aziende, che hanno risorse molto più limitate di quelle grandi.
Altre interessanti considerazioni sui problemi della sicurezza sono poi venute dall’Associazione valdostana dei gestori degli impianti a fune. Si tratta infatti di un settore complesso, che richiede un’attenta gestione sia dei macchinari che del personale e nel quale si ritrovano un po’ tutte le tipologie di lavoro (e quindi di rischio) presenti in altri comparti: lavoratori edili, carpentieri, alpinisti e perfino agricoltori. In proposito si è sottolineato come le disposizioni previste dal testo unico per le attività svolte in ambienti confinati e normali, possano risultare di difficile applicazione in certi contesti (ad esempio su un ghiacciaio o su una parete rocciosa).
Per tale ragione, i rappresentanti di categoria hanno chiesto di studiare una normativa specifica per il settore, che tenga conto delle peculiarità di tale attività.
La Commissione ha invitato le associazioni interessate a segnalare tali problematiche e le eventuali proposte di soluzione in modo specifico, al fine di studiare le soluzioni più idonee con gli tutti gli enti preposti. Nel dibattito, è stato comunque ricordato che le istituzioni e le autorità sanitarie della Regione Valle d’Aosta hanno un’attenzione particolare verso il comparto delle attività di alta montagna, tra le quali appunto quelle degli impianti a fune. Ad esempio è stata citata la creazione dell’ambulatorio di medicina di montagna, l’unica struttura pubblica di questo tipo esistente oggi in Italia, in grado di effettuare la valutazione dell’idoneità psico-fisica di chi opera ad alta quota.
I rappresentanti imprenditoriali del settore agricolo hanno evidenziato alcune difficoltà specifiche del loro settore, che resta uno dei più rischiosi sotto il profilo della sicurezza sul lavoro. Si tratta in particolare della formazione del personale assunto: nella maggior parte dei casi, infatti, in Valle d’Aosta operano aziende agricole di piccolissime dimensioni, con una superficie media molto ridotta, che di solito assumono personale quasi esclusivamente nel periodo estivo per la pratica dell’alpeggio, da giugno a settembre. I lavoratori assunti sono in massima parte stranieri (perlopiù romeni, nordafricani e albanesi), che arrivano in massa all’inizio della stagione e se ne vanno subito dopo la conclusione. È quindi estremamente difficile (oltre che molto oneroso) per le imprese agricole fare formazione e informazione nei riguardi di questi operatori, sia per la loro breve permanenza sia per il fatto che essi spesso non conoscono la lingua italiana.
Per tale ragione anche i rappresentanti delle associazioni agricole hanno chiesto di individuare delle soluzioni ad hoc che, tenendo conto di tali peculiarità, possano aiutare le aziende ad adempiere alle esigenze di formazione degli addetti. Anche in questo caso naturalmente la Commissione ha invitato le organizzazioni di settore ad approfondire la questione con i competenti organismi, confermando la sua disponibilità a contribuire alla ricerca di soluzioni idonee.
È stato quindi il turno delle organizzazioni del mondo cooperativo, che hanno sottolineato il ruolo prezioso svolto dall’IRECOOP, l’Istituto regionale per la formazione e l’educazione cooperativa, che svolge tutti i corsi di formazione legati al testo unico, tra cui una recente campagna in collaborazione con AUSL, INAIL e Coldiretti, rivolta a circa 6.000 aziende per sensibilizzare gli addetti sui temi della sicurezza mediante l’esposizione di appositi cartelli visivi. Al riguardo, vi è l’obiettivo di estendere l’esperienza anche ad altri settori, in quanto la cooperazione riguarda numerosi ambiti: dall’edilizia ai servizi, all’agricoltura. Le organizzazioni del mondo cooperativo hanno infine evidenziato che, essendo i loro associati in gran parte piccole imprese, in ragione del costo elevato diventa per loro molto difficile individuare una figura che svolga le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), proponendo di ovviare al problema mediante l’istituzione di un rappresentante per la sicurezza di tipo settoriale, piuttosto che territoriale.
Nell’incontro con le organizzazioni imprenditoriali è poi emerso nuovamente il tema della diversa rischiosità tra le imprese di grandi e piccole dimensioni: si è citato in proposito il caso virtuoso della Cogne Acciai Speciali, un’azienda siderurgica che conta circa 1.000 dipendenti diretti in Valle d’Aosta e altri 600 in tutto il mondo. Grazie ad una serie di iniziative di sensibilizzazione, dagli anni novanta non si verificano incidenti, né all’interno dell’azienda né tra le varie imprese che lavorano con la stessa in contratto di appalto o subappalto, pur essendo queste ultime assai numerose e diversificate. La Commissione ha sottolineato in proposito come purtroppo in molte situazioni la sicurezza negli appalti e subappalti non sia affatto garantita, anche perché spesso la catena degli affidamenti è molto lunga e vi è un’alta presenza di microaziende, che lavorano contemporaneamente nello stesso ambiente. Il coordinamento che dovrebbe prevenire le possibili interferenze nelle lavorazioni spesso avviene solo sulla carta e i rischi per la sicurezza aumentano. Sono poi intervenute le organizzazioni del settore del commercio, che hanno evidenziato, in termini generali, il minor livello di rischiosità del proprio comparto rispetto ad altri settori. Ciononostante, anche le aziende commerciali svolgono comunque dei corsi di preparazione alla sicurezza per i loro addetti, sia direttamente come associazioni di categoria, sia, soprattutto, attraverso gli enti bilaterali del commercio e del turismo che sono molto attivi al riguardo. Infine, anche in questo settore sono state riscontrate alcune difficoltà di tipo economico, che rendono difficile convincere non solo i datori di lavoro, ma anche e soprattutto i dipendenti a partecipare ai corsi.
Infine, indicazioni molto interessanti sono venute dall’audizione dell’Associazione degli albergatori della Valle d’Aosta (ADAVA), che riunisce oltre 500 imprese del settore, che hanno però dimensioni ed esigenze molto diversificate pur all’interno dello stesso comparto. Ancora una volta si è richiamato il tema della stagionalità, sottolineando il rischio che la breve durata dei rapporti di lavoro possa compromettere una efficace applicazione del testo unico, che rischia di ridursi talvolta ad una serie di obblighi meramente formali, vissuti dagli imprenditori con disagio e fastidio, come avvenuto recentemente con gli adempimenti finalizzati alla prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato.
Anche per il settore alberghiero è stata poi rilevata una notevole difficoltà di realizzare un maggior coinvolgimento dei responsabili dei lavoratori per la sicurezza: essendo infatti la maggior parte dei lavoratori stagionali, essi tendono a evitare questo impegno, percepito come una eccessiva responsabilità, al punto che a volte per le aziende è difficile perfino chiedere ai lavoratori di individuare queste figure. Infine, i rappresentanti degli albergatori hanno auspicato l’introduzione di norme sulla sicurezza in grado di superare una concezione basata su adempimenti eccessivamente burocratici, in favore di un approccio più concreto e mirato, capace di realizzare una più efficace tutela dei lavoratori.
La Commissione ha condiviso, ancora una volta, l’esigenza di superare alcuni aspetti eccessivamente burocratici dell’attuale normativa sulla sicurezza del lavoro, sottolineando però che si tratta di un obiettivo non facile. La normativa (e in particolare il testo unico), infatti, pur essendo certamente perfettibile, presenta inevitabilmente un notevole grado di complessità, perché complessa è la materia, aggravata anche dalla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni, che impone ogni volta la ricerca di una sintesi tutt’altro che semplice, come testimonia il lungo e faticoso iter che ha condotto al decreto legislativo n. 81 del 2008. Pertanto, tutti i soggetti che ritengono necessario modificare la normativa dovrebbero anche avanzare a tal fine proposte e soluzioni concrete, che il legislatore possa prendere in considerazione.

4.11. Sopralluogo a Barletta (6-7 novembre 2011)
Il 6 e 8 novembre 2011, la Commissione ha svolto una missione a Barletta, con una delegazione formata dal presidente Tofani e dai senatori De Luca, Maraventano, Nerozzi e Spadoni Urbani, al fine di assumere informazioni su un gravissimo incidente avvenuto in quella città circa un mese prima e nel quale hanno perso la vita cinque persone. Il 3 ottobre 2011, infatti, intorno alle 12,30, è crollata una palazzina in via Roma, nel centro di Barletta, che ospitava al suo interno un laboratorio abusivo di maglieria: nel crollo sono morte cinque persone, tra le quali la giovanissima figlia dei proprietari, Maria Cinquepalmi, e quattro operaie, Giovanna Sardaro, Matilde D’Oronzo, Antonella Zara e Tina Ceci. I soccorsi purtroppo sono riusciti a salvare solo poche persone, per fortuna ferite in modo lieve.
Come è emerso sia dal sopralluogo che la Commissione ha compiuto nel luogo dell’incidente, sia dalle audizioni svolte con i vari soggetti istituzionali e sociali, in questa tragedia sono presenti due distinti ma concomitanti aspetti, sui quali si sono concentrate anche le indagini condotte dagli organi inquirenti. Il primo aspetto è quello riguardante il crollo della palazzina, le cui cause sono di tipo strutturale e legate ad alcuni lavori di demolizione e ristrutturazione eseguiti durante i mesi precedenti nell’edificio adiacente. Si trattava precisamente di tre immobili contigui: un primo immobile, che è quello che è crollato, accanto a questo, esattamente confinante, l’immobile che è stato demolito e ricostruito e infine accanto al cantiere un terzo immobile, che non ha subito danni, essendo stato per fortuna già sgomberato e messo in sicurezza anni prima. L’altro aspetto della vicenda è quello dell’attività manifatturiera che veniva svolta nel laboratorio di maglieria posto al pianterreno della palazzina: si trattava di un’attività che avveniva completamente in nero, secondo uno schema purtroppo molto diffuso in quelle zone e in altre parti d’Italia, in un contesto di grave disagio sociale ed economico.
Nelle audizioni, la Commissione ha chiesto notizie sia sull’incidente che sulla situazione complessiva legata a questi due aspetti, oltre che sullo stato di conservazione degli edifici della zona, in merito al quale, durante la visita nel luogo della tragedia, era stata richiamata l’attenzione della delegazione.
In proposito, il prefetto di Barletta ha evidenziato come l’episodio verificatosi il 3 ottobre debba essere appunto inquadrato sotto vari profili.
Per quanto riguarda il collasso dell’edificio, probabilmente esso non è stato del tutto spontaneo ma causato anche da azioni umane. Sotto il profilo del lavoro che si svolgeva nell’edificio, esso rientrava nei vari casi di lavoro irregolare che gli organi ispettivi competenti seguivano da tempo e che, ad esempio, nel 2010 e nel 2011 hanno condotto alla chiusura rispettivamente di 10 e di 7 attività di questo tipo. In merito alle segnalazioni rivolte alla Commissione circa la sicurezza degli edifici, esse rientravano purtroppo in un problema sempre più diffuso a Barletta e in provincia relativo alle condizioni critiche di molte strutture. L’amministrazione comunale di Barletta, nell’ultimo mese, aveva infatti emanato numerose ordinanze di intervento, dalla messa in sicurezza alle ristrutturazioni, fino allo sgombero degli edifici stessi, e problemi analoghi si erano avuti anche ad Andria, a Bisceglie e in altre zone. Si tratta di centri abitati molto vecchi, i cui edifici, specie nella parte storica, risentono della vetustà e delle tecniche di costruzione antiquate. Il prefetto ha infine sottolineato la necessità di tenere distinti, in relazione all’incidente, l’aspetto strutturale relativo al crollo e quello del lavoro irregolare.
La Commissione ha osservato che, pur essendo i due aspetti certamente distinti, essi però appartengono a un medesimo scenario: anche se infatti il crollo non è stato provocato dall’attività manifatturiera che si svolgeva nell’edificio, occorre però verificare se l’attività poteva svolgersi in quel luogo e se le condizioni erano o meno a norma. Analogamente, si deve accertare la regolarità del cantiere edile dove si sono svolti i lavori di demolizione che hanno probabilmente concorso al crollo della palazzina. Anche per quanto riguarda la sicurezza degli edifici, esistono una serie di situazioni che devono essere affrontate dagli organi competenti, soprattutto con azioni preventive. In merito al problema del lavoro irregolare, la Commissione ha poi sottolineato che, senza voler creare maggiori difficoltà all’economia dei territori, occorre però aiutare chi opera in queste situazioni a mettersi in una condizione di regolarità, ad esempio creando degli incubatori per le attività artigianali, come si è fatto in molte parti d’Italia dove questi incubatori sono diventati un luogo di lavoro sicuro per le microaziende, creando anche dei vantaggi per la rete. Se infatti si può comprendere come la crisi di certi settori (ad esempio quello tessile e calzaturiero in Puglia) possa creare un grave disagio economico e sociale che spinge molte imprese e lavoratori a operare in modo parzialmente o totalmente sommerso, queste situazioni alla lunga non sono sostenibili e sono destinate a deteriorarsi.
Il sindaco di Barletta ha anzitutto ricostruito il contesto in cui ha avuto luogo la tragedia, ricordando come la città di Barletta negli anni ’70-’80 fosse divenuta un polo importante del settore del tessile, abbigliamento e calzaturiero (cosiddetto TAC), con centinaia di stabilimenti e di imprese che offrivano posti di lavoro in quantità significativa, anche se ogni attività aveva un numero di dipendenti ridotto. Successivamente la concorrenza internazionale, legata all’apertura dei mercati e alla delocalizzazione, ha messo in crisi tutto il sistema, spingendo all’abbandono delle industrie e, soprattutto, creando una enorme disoccupazione (17-18.000 persone su una popolazione residente di 95.000 abitanti) e una grave situazione di disagio economico e sociale.
In merito all’incidente, il sindaco ha poi segnalato che, negli uffici comunali, a carico del titolare dell’azienda coinvolta risultava solo una denuncia di attività di commercio su aree pubbliche, ma non per attività produttiva.
Per quanto riguarda l’intervento edilizio connesso al crollo, si trattava di un’attività di recupero edilizio autorizzata dal Comune alcuni anni prima (precisamente nel febbraio 2008), in base a un progetto che prevedeva un intervento non sull’intero isolato, ma su singoli fabbricati. A fronte del permesso di costruire (la cosiddetta DIA), è partita l’attività di demolizione del fabbricato intermedio, quello che poi ha determinato conseguenze sugli edifici circostanti. Rispondendo anche a successive richieste di chiarimenti della Commissione, il sindaco ha precisato che, all’atto del rilascio del permesso, i controlli dell’ufficio tecnico comunale si sono limitati – come normalmente accade – al fabbricato oggetto del permesso e non si sono estesi ai fabbricati adiacenti, né per quanto riguarda gli aspetti strutturali né per quanto attiene alle eventuali attività che si svolgevano al loro interno, non essendovene il motivo.
Solo dopo la demolizione, infatti, vi sono state segnalazioni di crepe da parte dei proprietari dell’altro fabbricato adiacente a quello in ristrutturazione.
L’edificio è risultato pericolante e i suoi proprietari, pur intentando azioni contro l’impresa che stava costruendo, hanno proceduto a mettere in sicurezza il fabbricato (che è stato poi definitivamente sgomberato nel febbraio 2009). Sul fabbricato del lato opposto, quello che poi è stato oggetto del crollo, secondo il sindaco non sono mai arrivate al comune notizie di lesioni o altri elementi di preoccupazione. In conseguenza dell’accertamento dei danni all’edificio poi messo in sicurezza, alla fine del 2008 il cantiere è stato bloccato e tale è rimasto fino a una decina di giorni prima del crollo quando, per effetto di un’ordinanza del comune (del maggio 2011), la ditta costruttrice ha provveduto a rimuovere le macerie della prima demolizione e a bonificare il sito da vari rifiuti che si erano nel frattempo accumulati creando condizioni igienico-sanitarie precarie, che avevano suscitato le lamentele dei confinanti e di altri cittadini e indotto il Comune a intervenire. Vi è però il sospetto – il cui accertamento rientra nella competenza della magistratura – che insieme alla rimozione di rifiuti e delle macerie siano stati eseguiti interventi sulle strutture residuali conseguenti alla prima demolizione del fabbricato oggetto dell’intervento edilizio, che potrebbero aver lesionato anche le strutture portanti dell’edificio poi crollato.
In ogni caso i proprietari di quest’ultimo, quando sono iniziati i lavori di bonifica, si sono preoccupati, anche per la comparsa di alcune lesioni, e hanno chiamato il Comune, che è intervenuto venerdì 30 settembre in tarda mattinata per fare la verifica statica dell’edificio. Il sindaco ha precisato che, essendo il cantiere rimasto fermo per anni, prima della ripresa dei lavori non vi erano stati allarmi; inoltre, nel corso del sopralluogo di venerdì 30, effettuato dai tecnici comunali con i Vigili del fuoco e i periti dei proprietari, non sono stati rilevati elementi che facessero presagire una situazione di grave pericolosità e non sono stati quindi adottati provvedimenti urgenti di sgombero dell’edificio. Secondo vari testimoni, il successivo lunedì 3 ottobre le operazioni in quel cantiere sono continuate; la preoccupazione ha indotto allora i proprietari a sollecitare un nuovo intervento ma poi, attorno alle 12,30, c’è stato il crollo della struttura. Fortunatamente gli abitanti della palazzina sono riusciti a mettersi in salvo, mentre purtroppo coloro che erano presenti nel laboratorio sono rimasti intrappolati.
Naturalmente, la ricostruzione esatta della dinamica degli eventi e l’accertamento delle eventuali responsabilità erano ancora oggetto delle indagini della magistratura. In seguito al crollo, anche per rispondere alle preoccupazioni della cittadinanza, il Comune ha quindi attivato una serie di verifiche urgenti sulle condizioni di vari edifici, particolarmente vetusti, ubicati soprattutto nei centri storici. Sono state emanate circa 170 ordinanze per la messa in sicurezza dei fabbricati e in una decina di casi si è proceduto allo sgombero. Inoltre, nei giorni successivi al crollo sarebbe stato creato un tavolo tecnico interistituzionale, composto anche di docenti universitari, per censire e valutare gli immobili e adottare i necessari interventi di recupero.
Il sindaco si è poi soffermato su una serie di iniziative promosse dal Comune per educare al rispetto delle regole della sicurezza sul lavoro, ad esempio alcuni corsi per gli operatori dell’agricoltura e del commercio e una campagna di sensibilizzazione con audiovisivi. È stata altresì illustrata l’intenzione di avviare una concertazione con la provincia, la Regione e le associazioni dei settori tessile e manifatturiero, per cercare di mettere in campo iniziative di riemersione legalizzata del lavoro in nero, tentando di aiutare economicamente questi produttori, messi in difficoltà dalla concorrenza internazionale a basso costo. Riprendendo uno spunto introdotto dalla Commissione, si è inoltre ricordato che il comune di Barletta ha presentato un progetto per un incubatore d’impresa finanziato con i fondi europei, che dovrebbe essere realizzato nell’arco di due anni, per aiutare lo sviluppo delle attività economiche locali di giovani e imprenditori, nel rispetto della legalità. Infine, il sindaco ha fatto presente che, nell’arco degli ultimi anni, grazie alle attività di controllo sono state accertate situazioni irregolari e sono state prodotte le azioni di diffida, denunciando alla magistratura coloro che non hanno ottemperato.
La Commissione ha preso atto delle informazioni fornite dal comune in merito all’incidente, rilevando tuttavia che sulla vicenda permanevano ancora molti aspetti da chiarire per accertare l’esatto svolgimento dei fatti e le eventuali responsabilità, anche relativamente all’efficacia dei controlli svolti dalle autorità preposte rispetto alla sicurezza dell’edificio crollato, quando vi erano stati i primi segnali premonitori, nonché riguardo alla presenza abusiva del laboratorio.
Nelle successive audizioni, i rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine hanno ricostruito gli scenari sottesi all’incidente, relativamente al crollo del fabbricato e all’attività lavorativa sommersa svolta nel laboratorio. Al momento del sopralluogo gli accertamenti erano ancora in corso e le indagini coperte dal segreto istruttorio, dovendosi anche attendere l’esito di una serie di perizie. In seguito, ai primi di dicembre 2011, nell’ambito delle stesse indagini, la magistratura di Trani ha disposto gli arresti domiciliari per quattro persone e l’interdizione dall’attività professionale per un’altra, con l’accusa di disastro colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni. I provvedimenti restrittivi riguardano il titolare e due dipendenti dell’impresa che si è occupata di demolire i resti del fabbricato accanto a quella crollato, e il titolare dell’impresa di costruzioni che avrebbe dovuto edificare il nuovo edificio nella stessa area. Il provvedimento di interdizione alla professione, in via cautelare, riguarda l’architetto che aveva progettato e diretto i lavori. Sono state inoltre ipotizzate una serie di condotte omissive nei confronti di alcuni tecnici comunali quando erano state segnalate avvisaglie di cedimento.
Ferma restando la necessità di attendere la conclusione del relativo procedimento, l’inchiesta della procura di Trani sul crollo della palazzina ha comunque ricostruito un quadro estremamente grave, nel quale è stata accertata l’illegittimità delle opere demolitorie effettuate sui resti del preesistente stabile adiacente a quello crollato. Infatti, i lavori sarebbero stati eseguiti non solo in difformità rispetto al piano di demolizione elaborato dall’ufficio tecnico comunale (che prevedeva l’utilizzo di mezzi manuali e di piccole dimensioni e i puntellamenti atti ad impedire cedimenti o collassi del confinante edificio), ma anche in assenza della DIA (che originariamente esisteva ma era diventata inefficace dal febbraio 2011). La ditta appaltatrice avrebbe quindi messo in atto una condotta imprudente e inadeguata, senza che venisse impedita dall’imprenditore proprietario del cantiere e dal direttore dei lavori, nonostante la comparsa nell’edificio adiacente, poi crollato, di evidenti lesioni murarie. Al di là quindi dell’esito processuale che avrà la vicenda e delle responsabilità che verranno poi acclarate, resta un profondo sconforto per una tragedia che poteva probabilmente essere evitata, con una maggiore attenzione e un intervento più incisivo, anche da parte degli organi di vigilanza.
Sull’altro aspetto della vicenda, quello legato all’attività del laboratorio di confezioni, ulteriori elementi sono stati forniti dal direttore provinciale dell’INAIL di Barletta. Egli ha confermato che l’attività in questione era completamente in nero, anche se l’azienda era registrata come ditta individuale senza dipendenti, ma solo per il commercio e non per la produzione, di maglie, magliette e camicette. Nel territorio di Barletta esiste infatti un diffuso fenomeno di attività manifatturiera legata al mondo delle confezioni, che viene svolta prettamente al nero, da aziende che lavorano per conto terzi (le cosiddette «fasoniste»). Nel 2010 l’INAIL (che ha avuto peraltro un solo ispettore in forza per tutta la provincia di Barletta-Andria- Trani) ha ispezionato 141 aziende, di cui 135 hanno presentato irregolarità amministrative o contributive. Nel primo semestre del 2011, su 103 aziende ispezionate ben 91 hanno presentato irregolarità amministrative o contributive. Le violazioni rilevate sono di tipo molto eterogeneo e si riferiscono a 188 lavoratori accertati irregolari, di cui 24 totalmente in nero.
Anche il direttore provinciale dell’INPS ha confermato tali dati. La Direzione INPS di Barletta-Andria-Trani dispone di un corpo ispettivo formato da 10 ispettori di vigilanza, di cui 4 costantemente impegnati in attività ispettive in agricoltura, in linea con l’organizzazione adottata a livello regionale. Le violazioni indagate dall’INPS, nel quadro dell’attività ispettiva, riguardano tanto il lavoro sommerso, quanto l’irregolarità di tipo contributivo. In effetti, secondo il rappresentante dell’INPS, è abbastanza raro imbattersi in personale totalmente in nero. Questo accade generalmente solo in alcuni settori che vengono vigilati con un’attività ispettiva ad hoc (ad esempio i pubblici esercizi nel periodo estivo). Nelle aziende industriali classiche di media grandezza adesso è piuttosto raro trovare il lavoro nero, quello che si riscontra più facilmente è il cosiddetto lavoro grigio, le situazioni di parziale violazione della normativa (a volte anche molto rilevante).
Per quanto riguarda peraltro l’attività legata alle aziende produttrici di confezioni, proprio a seguito del tragico incidente del 3 ottobre, la Direzione provinciale dell’INPS aveva disposto congiuntamente con la Direzione provinciale del lavoro una serie di accessi ispettivi. Così, nelle giornate del 27 e del 28 ottobre, nei comuni di Bisceglie e Trani, 11 aziende sono state visitate, 65 lavoratori individuati, di cui 8 erano al nero. Nei giorni 3 e 4 novembre, attività analoga si è svolta nei comuni di Andria e Minervino per un totale di 10 aziende visitate, 59 lavoratori individuati di cui 10 al nero. Peraltro, l’attività ispettiva nel corso del 2011 è stata in parte rallentata dalla necessità di mettere a punto il verbale unico ispettivo previsto dal cosiddetto «collegato lavoro», la legge n. 183 del 2010.
Il direttore provinciale del lavoro di Bari, competente per territorio, ha sottolineato la consistenza del fenomeno del lavoro nero e la diffusione sempre più ampia che purtroppo sta avendo nella Regione Puglia. Il riferimento ai dati del 2009 e del 2010 consente di evidenziare, rispetto ad un incremento delle aziende ispezionate del 3 per cento, un incremento del fenomeno dell’irregolarità in tutte le sue valenze di circa il 24 per cento e del 28 per cento del lavoro nero. Questa realtà purtroppo è in drammatica ascesa e interessa anche l’attuale territorio della provincia di Barletta-Andria-Trani, che per quanto riguarda il Ministero del lavoro e delle politiche sociali fa capo alla Direzione provinciale del lavoro di Bari e, in parte, a quella di Foggia. Per fare fronte a questo fenomeno, opportunamente il legislatore con il già citato «collegato lavoro» ha esteso non più solo alle Direzioni del lavoro, ma anche a INPS, INAIL e forze dell’ordine la possibilità di effettuare le contestazioni. Il direttore provinciale del lavoro ha sottolineato però come lo svolgimento di tale attività da parte anche degli altri organi ispettivi presupponga una specifica competenza, che si sta cercando di realizzare con azioni di formazione mirate.
Un altro strumento è l’implementazione di indicatori e di parametri che consentano di individuare il lavoro nero, ossia quello completamente sconosciuto alla pubblica amministrazione, come l’impresa rimasta coinvolta nell’incidente, che era iscritta alla Camera di commercio come ditta individuale senza dipendenti.
La Commissione ha chiesto ulteriori chiarimenti in proposito, rilevando la stranezza del fatto che un laboratorio di confezioni, comunque registrato alla Camera di commercio e operante nel pieno centro di Barletta, con lavoratori e macchinari, potesse essere rimasto completamente sconosciuto alla pubblica amministrazione, senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Il direttore provinciale del lavoro ha precisato che, anche con il concorso di Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si stanno affinando strumenti e indicatori che consentano di individuare situazioni di questo tipo, ossia ditte che, in un lasso temporale abbastanza ravvicinato, abbiano ridotto drasticamente la forza lavoro, perché se c’è una prosecuzione dell’attività, ciò potrebbe essere indicativo di un ricorso al lavoro nero. Un problema di fondo resta però la creazione di una banca dati realmente condivisa tra i vari organi ispettivi, incluse le forze dell’ordine, che lavorano ancora con strumenti e archivi informatici diversi, laddove sarebbe invece essenziale poter mettere in rete tutte le informazioni per un’azione più capillare sul territorio. D’altra parte, l’azione di vigilanza, pur intensa, viene limitata anche dalla scarsità del personale tecnico in rapporto alla vastità del territorio da controllare.
Il tema della diffusione del lavoro nero nel contesto locale, in situazioni simili a quella della ditta coinvolta nell’incidente, è stato ulteriormente affrontato con il direttore generale dell’ASL della provincia di Barletta-Andria-Trani. Questi ha confermato che l’ASL e i suoi servizi ispettivi sono stati informati della presenza dell’opificio solo dopo la tragedia, a seguito dell’attivazione di un’inchiesta interna, ascoltando anche i sopravvissuti.
Si tratta infatti di un insediamento e di un’attività produttiva che, per grandezza, per tipologia e modalità di svolgimento, normalmente sfugge all’attività di monitoraggio della ASL, che deve concentrare la propria attività di prevenzione sugli insediamenti produttivi a più alto rischio e a più alta intensità tecnologica e di lavoro. D’altra parte, esiste una diffusa omertà riguardo a queste situazioni di lavoro nero, che non vengono normalmente segnalate.
In merito all’incidente, è stato poi precisato che l’attività del laboratorio si svolgeva al piano terra, mentre il seminterrato, rimasto integro dopo il crollo, era adibito a deposito. L’azienda effettuava operazioni di assemblaggio dei vari componenti delle confezioni di maglieria ed era ovviamente sconosciuta ai servizi delle ASL. La Commissione ha auspicato in proposito una maggiore sinergia fra tutti i soggetti istituzionali preposti, al fine di favorire l’individuazione e l’emersione di questi fenomeni, per evitare il ripetersi di nuove tragedie. Se infatti si possono comprendere le motivazioni anche sociali che determinano queste situazioni di lavoro irregolare, le istituzioni hanno però il dovere di promuovere il rispetto delle regole, mediante un percorso che non sia di mera repressione o accanimento ma piuttosto di aiuto nei confronti di questi soggetti.
Il direttore generale dell’ASL ha condiviso tale impostazione, segnalando però la difficoltà di operare in certi contesti che incontrano gli organi ispettivi e le stesse forze dell’ordine, che rischiano di farsi la fama dei «persecutori» quando intervengono. Il fenomeno del lavoro nero è infatti estremamente diffuso e connaturato alla realtà locale, che presenta un tessuto economico-sociale fortemente degradato o comunque disagiato.
Come hanno confermato anche i rappresentanti del Servizio di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro dell’ASL, in queste condizioni risulta difficile affermare il rispetto delle regole e della tutela della salute e della sicurezza nel posto di lavoro, poiché per molte persone la priorità è quella di lavorare, anche in nero o in condizioni di rischio elevato, pur di potersi assicurare un reddito. Anche se queste dinamiche si possono comprendere, però, certe situazioni non sono accettabili e vanno affrontate.
Nella successiva audizione con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali è stato ulteriormente affrontato il tema del lavoro sommerso e della difficoltà in cui si dibattono le piccole imprese locali, soprattutto del settore tessile. I sindacati hanno confermato che l’economia sommersa è un fenomeno estremamente diffuso nella zona di Barletta nel settore del tessile, abbigliamento e calzature. Dopo la grave crisi che negli anni passati ha colpito il settore, incapace di fronteggiare la concorrenza internazionale a basso costo delle nuove economie emergenti, molte piccole e piccolissime aziende sono state costrette a operare in nero per poter comprimere i costi e ottenere le commesse dalle grandi aziende. A loro volta molti lavoratori (e lavoratrici: le vittime dell’incidente erano tutte operaie donne) hanno accettato questa situazione per poter avere un impiego: il risultato è una condizione di estrema debolezza, in cui aumentano anche i rischi per la sicurezza.
Per poter uscire da questa situazione, i sindacati hanno sottolineato come la repressione in sé non possa essere la soluzione e hanno preannunciato l’intenzione di avviare un tavolo di confronto permanente con i datori di lavoro, per verificare anzitutto la volontà delle imprese di emergere e quindi di trovare le soluzioni più idonee a tale scopo. Tra le proposte avanzate c’è quella di ricorrere a strumenti già previsti dalle norme esistenti come i contratti di gradualità e i contratti di emersione, sfruttando anche alcuni finanziamenti di carattere regionale che favoriscono l’aggregazione delle piccole imprese. Uno dei problemi principali in questa complessa questione è infatti lo scarso potere contrattuale dei piccoli imprenditori nei confronti delle grandi imprese che commissionano loro il lavoro e impongono prezzi molto bassi, che si riverberano poi nella spinta a lavorare in nero e a tagliare anche sui costi della sicurezza. Una soluzione potrebbe essere anche quella di creare dei marchi collettivi che possano garantire i produttori locali e aumentare la loro forza contrattuale nei confronti dei committenti, anche per spuntare prezzi migliori e alzare il livello di salario, di contribuzione e di sicurezza a favore dei lavoratori.
La situazione resta tuttavia molto complessa: le organizzazioni sindacali hanno riferito che dopo l’incidente molte piccole aziende irregolari come quella rimasta coinvolta nella tragedia, temendo che le autorità avviassero controlli più severi, hanno interrotto l’attività, con la conseguenza che molte persone si sono trovate senza neanche più il lavoro in nero e quindi senza alcun reddito. I sindacati hanno perciò puntualizzato che, pur essendo questa scelta tra illegalità e disoccupazione assolutamente inaccettabile, occorre però fornire alternative concrete ai lavoratori, altrimenti anche i migliori discorsi sul rispetto delle regole e sulla sicurezza rischiano di diventare retorici. Il primo elemento risolutivo di certe situazioni è chiaramente la creazione di occasioni di lavoro, che peraltro in quel territorio sono molto rare o inesistenti. Il secondo elemento è quello dei controlli: le organizzazioni sindacali in proposito hanno denunciato come la provincia di Barletta-Andria-Trani non abbia ancora una sua Direzione provinciale del lavoro e dipenda sostanzialmente da quella di Bari, chiedendo che tale situazione sia finalmente risolta. L’Ispettorato del lavoro del resto è dotato di poco personale e scarsi mezzi, per cui i tempi delle ispezioni presso le aziende si allungano a dismisura, a meno che non vengano fatte denunce mirate. Anche queste però, che pure i sindacati fanno, rischiano di essere inutili se l’ispezione poi tarda ad arrivare, perché nel frattempo l’attività irregolare è già scomparsa. D’altra parte il lavoro nero nella zona è molto diffuso non solo nel comparto tessile, ma anche in altri settori, a cominciare dall’edilizia e dall’agricoltura.
Un altro aspetto collegato a questo discorso è il fatto che la gran parte delle aziende della provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT) (oltre il 90 per cento) è di piccole o piccolissime dimensioni, spesso a conduzione familiare: in queste realtà i sindacati, a differenza di quanto accade nelle grandi aziende, hanno molta difficoltà a entrare e i lavoratori tendono a evitare i contatti, per timore di perdere il posto di lavoro, regolare o irregolare che sia. Vi è anche un problema culturale, dove la mentalità dominante vede la scelta del lavoro irregolare come «normale» e il datore di lavoro e i lavoratori spesso solidali nel condividere la situazione di illegalità e la conseguente omertà. In questo contesto, i sindacati hanno ribadito con forza la necessità di evitare da parte delle autorità un atteggiamento meramente repressivo o eccessivamente punitivo nei confronti delle piccole aziende irregolari, puntando invece sulla formazione e sull’assistenza e mettendo l’imprenditore in condizione di adempiere alle prescrizioni, anche in materia di sicurezza sul lavoro. Infine, i rappresentanti sindacali hanno messo in rilievo la necessità di un maggiore coordinamento tra i diversi enti preposti alla sicurezza sul lavoro, chiedendo un’attenzione più elevata a queste tematiche.
La Commissione ha condiviso l’opportunità di favorire l’emersione del lavoro sommerso con politiche imprenditoriali attive, che non siano meramente repressive. Al tempo stesso, ha ribadito la necessità di garantire il rispetto delle regole e della sicurezza dei lavoratori, per evitare il ripetersi di nuove tragedie. In merito al coordinamento tra gli organismi competenti per la salute e la sicurezza sul lavoro, ha poi ricordato come le normative vigenti prevedano già a tal fine un’organizzazione ben definita, incentrata sui comitati regionali di coordinamento, sul loro ufficio operativo e sulle corrispondenti articolazioni a livello provinciale. Purtroppo, come la Commissione stessa ha verificato, in molte regioni (inclusa la Puglia) tali comitati non sono in realtà mai stati attivati e questo compromette inevitabilmente le azioni di prevenzione e di contrasto agli infortuni sul lavoro. In questo ambito, i sindacati possono giocare un ruolo decisivo, sollecitando e stimolando le autorità regionali e gli altri attori istituzionali a rilanciare l’attività dei comitati, di cui peraltro i sindacati stessi sono parte integrante. La Commissione ha inoltre sottolineato che per creare un’alternativa all’economia sommersa, oltre all’aiuto delle istituzioni, occorre un’intesa forte tra datori di lavoro e lavoratori sul modello produttivo da adottare per l’economia locale, superando anche certi atteggiamenti culturali, per i quali il lavoro sommerso diventa a volte una scelta apparentemente più comoda e conveniente sia per le imprese che per i lavoratori, ma che alla lunga è destinata a rivelarsi perdente.
Nel successivo incontro con i rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali, essi hanno anzitutto sottolineato l’esigenza di distinguere, in relazione all’incidente del 3 ottobre, la causa effettiva, ossia il crollo strutturale dell’edificio, dalle altre questioni legate al lavoro sommerso. Sul primo aspetto, i rappresentanti del settore edile hanno evidenziato come, al fine di assicurare una maggiore sicurezza nel comparto, sia necessario che l’attività di costruttore edile sia svolta con le dovute garanzie di professionalità e competenza richieste da certe tipologie di lavoro. In tal senso, si è chiesto che anche il Senato proceda quanto prima all’approvazione definitiva della proposta di legge, già approvata dalla Camera dei deputati, che disciplina l’attività di costruttore edile24.
È stato inoltre ricordato che l’area in cui è avvenuto il crollo si trova nel centro storico di Barletta, che comprende edifici molto vetusti e che avrebbe dovuto avere una regolamentazione edilizia più specifica. In questo senso si è chiesto anche la reintroduzione del cosiddetto fascicolo del fabbricato, per consentire una verifica strutturale degli edifici, almeno di quelli più a rischio dei centri storici, che dovrebbe essere obbligatoria, anche con il sostegno pubblico. Per quanto riguarda il tema più generale della sicurezza sul lavoro, i rappresentanti del settore edile hanno suggerito un rafforzamento della collaborazione tra le organizzazioni datoriali e sindacali e gli enti pubblici, promuovendo la creazione di una «rete delle sicurezza», che faccia leva anche sulla specializzazione nella produzione di dispositivi di protezione individuali che vanta la città di Barletta.
Le organizzazioni artigiane, dal canto loro, hanno ricordato che il territorio locale è caratterizzato da numerosi insediamenti produttivi del TAC (tessile, abbigliamento e calzaturiero) che stanno soffrendo una crisi congiunturale legata soprattutto alla concorrenza a basso costo delle economie emergenti, che ha determinato la chiusura di moltissime attività. Questa situazione da un lato danneggia i molti imprenditori onesti che lavorano con grandi difficoltà ma rispettando le leggi, dall’altro favorisce la diffusione di un’economia sommersa che però è difficile far emergere, trattandosi di non imprenditori ma di soggetti improvvisati che, per cause di forza maggiore, decidono di lavorare in condizioni molto precarie.
I rappresentanti dell’artigianato hanno quindi espresso il timore che, in conseguenza del clamore suscitato dalla tragedia del 3 ottobre, si passasse da un eccesso all’altro inasprendo oltre misura i controlli sulle aziende, laddove in precedenza c’era stata a volte fin troppa accondiscendenza affinché certi fenomeni rimanessero immutati nel tempo. A loro avviso, adottando una politica del genere si finirebbe per colpire solo le imprese oneste che con grandi difficoltà cercano di sopravvivere sul territorio. Infatti, l’impresa completamente sconosciuta alla pubblica amministrazione è difficile da individuare, proprio perché si insedia in luoghi non idonei e più facilmente occultabili. Senza un intervento concordato tra i vari soggetti istituzionali sarà molto difficile convincere queste aziende a uscire dall’abusivismo, a fronte di una situazione economica di grande sofferenza.
I rappresentanti del mondo cooperativo, particolarmente attivo nelle province di Bari e di BAT nei comparti del facility management e dell’agroalimentare, hanno evidenziato l’importanza di garantire non solo occasioni di lavoro, ma anche un lavoro «di qualità», dove vengano rispettati i contratti collettivi e le attività si svolgano in ambienti salubri e idonei. Al riguardo si è ricordato che nella zona industriale di Barletta esistono moltissimi capannoni e impianti ormai vuoti, dove potrebbero essere ricollocate numerose attività attualmente ubicate in laboratori artigianali meno adeguati. Tale processo necessita però di un sostegno e di un accompagnamento da parte del settore pubblico, atteso che molti dei settori interessati hanno una scarsa redditività e non sono in grado di fare questi investimenti, ma anzi tendono spesso a risparmiare proprio sulla sicurezza.
I rappresentanti della Camera di commercio provinciale hanno evidenziato come la provincia di BAT abbia un vivace tessuto produttivo, formato da circa 40.000 imprese iscritte, di cui molte nel settore del tessile, dell’abbigliamento e del calzaturiero (solo a Barletta si contano circa 470 aziende tessili). Molte attività sono in crisi e il tasso di cessazioni è elevato, tuttavia esiste anche un’imprenditoria solida e operosa, per cui non può essere accettata l’immagine semplicistica fornita dai media all’indomani della tragedia del 3 ottobre, che hanno descritto la situazione di Barletta ai limiti della illegalità, puntando l’attenzione solo sul lavoro nero. Le aziende serie che lavorano in maniera regolare sono numerose e subiscono una concorrenza sleale da parte delle piccole realtà abusive diffuse sul territorio che creano turbative di mercato e problemi vari. In proposito, i rappresentanti della Camera di commercio hanno ricordato che, soprattutto nel settore tessile, le aziende abusive sono nate dalla crisi economica degli ultimi anni e dalla concorrenza internazionale legata alla globalizzazione, che ha spinto molte imprese a chiudere e altre a scegliere la via del lavoro sommerso. Ma si tratta di un fenomeno generale diffuso in molti settori e in molte parti d’Italia, che non può quindi essere ascritto solo alla provincia di Barletta-Andria-Trani. Anche la sciagura di via Roma – a loro avviso – non può essere confusa con il problema del lavoro nero, essendo stata causata da ragioni completamente diverse, ossia dal crollo di un edificio, situato peraltro in una posizione centrale della città e che forse avrebbe dovuto essere messo in sicurezza già da tempo. Infine, si è ricordato lo sforzo compiuto dalle associazioni imprenditoriali per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, pur in un momento di grave crisi economica, attraverso varie attività di prevenzione e di formazione, chiedendo al riguardo un forte sostegno da parte delle istituzioni nazionali e locali.
La Commissione ha ribadito che, sebbene le cause dell’incidente siano certamente da ricondurre al crollo dell’edificio e non al fenomeno del lavoro nero, i due aspetti si inseriscono però in una stessa cornice di difficoltà, perché le imprese regolari non si insediano in luoghi fatiscenti come quello. Esiste purtroppo nel territorio una situazione oggettiva di forte disagio economico-sociale, che alimenta certi fenomeni e che occorre trovare il modo di superare. Nell’assicurare il proprio sostegno a tal fine, in un ruolo che vuole essere di stimolo e di dialogo, la Commissione ha ricordato che esistono una serie di strumenti normativi nazionali e regionali per favorire l’emersione delle imprese irregolari. La presenza sul territorio di forze imprenditoriali sane e vivaci e la volontà comune di impegnarsi in questo processo, ribadita sia dagli imprenditori che dai sindacati nelle loro audizioni, sono certamente elementi di speranza e di forza per il futuro.

4.12. Sopralluogo ad Avellino (7-8 novembre 2011)
La successiva missione della Commissione si è svolta ad Avellino il 7 e 8 novembre 2011, con una delegazione formata dal presidente Tofani e dai senatori De Luca, Maraventano e Nerozzi, ed era volta ad acquisire informazioni di carattere generale sui problemi della sicurezza sul lavoro nel territorio di questa provincia.
Nella prima audizione il vice prefetto vicario di Avellino ha illustrato innanzitutto le iniziative che la Prefettura, pur non avendo una competenza specifica e diretta in materia di sicurezza sul lavoro, ha comunque messo in campo da diversi anni con alcuni organismi che si occupano indirettamente anche della prevenzione in questo settore. Tra gli altri, nel 2001, un osservatorio sui lavori pubblici, successivamente sostituito da un «gruppo interistituzionale» composto, oltre che dalla Prefettura, dalla Questura, dagli enti preposti alla salute e sicurezza sul lavoro e dalla parti sociali del settore edile. La struttura ha lavorato dal 2008 al 2009 e aveva lo scopo di verificare le attività svolte nei cantieri delle opere pubbliche aperti nella provincia e quindi anche il rispetto della normativa sulla sicurezza sul lavoro, attraverso appositi controlli fatti con squadre miste.
Successivamente, nel 2010, l’attività si è fermata perché, a seguito dei fatti di Rosarno, è stato avviato a livello nazionale un piano di controllo straordinario nel settore con la contemporanea attività di due tavoli, uno regionale presso la Prefettura di Napoli, che coordinava l’attività anche delle altre prefetture della Campania, e uno a livello provinciale. Questo piano straordinario che, per quanto riguarda la provincia di Avellino, aveva ad oggetto esclusivamente l’edilizia, ha comportato un fortissimo coordinamento a livello provinciale e regionale, con la costituzione di tre gruppi di lavoro, formati dalle forze dell’ordine che, unitamente alla Direzione del lavoro, all’INPS e all’INAIL, provvedevano a fare dei controlli sui cantieri, verificando l’esistenza del lavoro nero o irregolare e il rispetto di tutte le norme di carattere amministrativo e antinfortunistico.
Un’altra iniziativa ha riguardato l’emanazione di una serie di circolari sia alla provincia che ai sindaci della provincia perché riservassero particolare attenzione agli incidenti stradali, qualora si verificasse che questi fossero legati a infortuni sul lavoro. Si è trattato di una sensibilizzazione a largo raggio, sia sulle forze dell’ordine che sulla Polizia municipale.
Anche per il 2011 vi è un nuovo piano di prevenzione, che però vede essenzialmente la partecipazione dei Carabinieri e della Guardia di finanza, in virtù delle convenzioni stipulate a livello nazionale con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L’attenzione delle Prefetture, direttamente o indirettamente, resta quindi massima, anche attraverso l’attività dei comitati provinciali per la sicurezza pubblica. Rispondendo a un quesito della Commissione, il vice prefetto vicario ha poi confermato che, nella provincia di Avellino, mentre da un punto di vista generale il numero degli infortuni registra sicuramente un calo, c’è però un andamento altalenante degli infortuni mortali: 8 nel 2006, 5 nel 2005, 9 nel 2008, 4 nel 2009 e 8 nel 2010). Si tratta però di un fenomeno generalizzato che interessa un po’ tutto il Paese.
Il Presidente della provincia di Avellino ha poi ricordato i dati demografici salienti del territorio: la provincia ha un’estensione di circa 2.800 km2, con circa 445.000 abitanti e comprende 119 comuni, molti dei quali contano meno di 5.000 abitanti. Il tasso di disoccupazione è di circa il 20 per cento e riguarda circa 80.000 unità. Il Presidente ha quindi confermato, in risposta a una sollecitazione della Commissione, che anche la provincia, insieme al comune capoluogo e agli altri enti locali, è pronta a collaborare, nei limiti delle proprie competenze, con gli enti preposti e con le parti sociali per favorire la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. In proposito sono stati ricordati i numerosi incontri già svolti con le organizzazioni sindacali e le associazioni dei costruttori, ossia i principali attori della vita produttiva locale. Esistono ancora una serie di problemi legati alla disoccupazione e agli infortuni sul lavoro, che vanno diminuendo per quanto riguarda gli incidenti di piccola entità ma restano ancora elevati in merito a quelli mortali. Nel complesso, però, il quadro sembra offrire segnali incoraggianti, che confermano la validità del lavoro fatto nel settore della prevenzione negli anni passati.
L’assessore provinciale al lavoro ha confermato la forte collaborazione avviata dalla provincia di Avellino con le organizzazioni sindacali e datoriali, soprattutto nel settore edile, per prevenire gli infortuni sul lavoro, fortunatamente non numerosi nella provincia, ma comunque presenti.
Al fine di rafforzare l’attività di prevenzione e di formazione in questo settore, si è quindi richiamata l’esigenza di attivare quanto prima il Sistema informativo nazionale per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali (SINP), previsto dal decreto legislativo n. 81 del 2008 e atteso da tempo25. L’obiettivo è quello di programmare in modo più efficace la prevenzione e di indirizzare l’attività di vigilanza. La provincia di Avellino al riguardo ha preannunciato l’intenzione di avviare una sperimentazione su scala locale dell’utilizzo del sistema, che provvederà alla raccolta dei dati dai soggetti depositari a livello provinciale, per poi sviluppare un sistema in rete che aiuti a incrociare i dati stessi. I soggetti coinvolti sarebbero il Comitato paritetico con il suo Sistema informativo provinciale (Avellino è infatti una delle province sperimentali su cui il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sta procedendo alla creazione dell’anagrafe dei lavoratori e delle aziende), l’INAIL, con le denunce di infortuni dei lavoratori, l’INPS, la Cassa edile, l’ASL e la Direzione provinciale del lavoro. La provincia di Avellino ha quindi presentato delle specifiche proposte in merito all’organizzazione del sistema informatizzato.
La Commissione ha ricordato che, per quanto riguarda la collaborazione istituzionale in tema di salute e sicurezza sul lavoro, è essenziale promuovere l’attività dei comitati regionali di competenza delle regioni.
Purtroppo, in molte regioni (in parte anche in Campania), questo istituto stenta a decollare, pur essendo uno strumento fondamentale, in quanto è l’elemento di congiunzione tra le regioni – quindi anche tra le strutture territoriali interne alle regioni – e i ministeri competenti (quello della salute e quello del lavoro e delle politiche sociali).
Il sindaco di Avellino ha quindi ricostruito il quadro delle attività di prevenzione portate avanti nel capoluogo. In città da anni sono attivi importanti lavori edilizi: vi sono stati fino a 54 cantieri e anche allo stato attuale esistono cantieri importanti sia dal punto di vista dell’estensione che dei finanziamenti: in otto anni, però, in città non si sono avuti né incidenti mortali né incidenti significativi. Ciò è frutto di una sinergia che si è instaurata, soprattutto negli ultimi tempi, con la provincia volta a mettere in atto un’azione di vigilanza sul territorio. L’anno scorso inoltre il Comune ha firmato un protocollo d’intesa, insieme ai sindacati e agli imprenditori, per la legalità e per la sicurezza nei cantieri, cercando di creare una filiera di controllo in sinergia con gli enti preposti, che andasse dall’inizio dell’attività fino all’esecuzione e al completamento dei lavori.
Tale controllo si è esteso anche a lavori non pubblici, dove era possibile intervenire sulle piccole imprese, che in questa realtà sono numerose e difficilmente controllabili. Sotto questo aspetto, riscontrando la mancanza di incidenti significativi e di morti, i risultati sono certamente positivi.
L’assessore comunale all’igiene e sanità ha infine segnalato che il comune di Avellino ha istituito una squadra edilizia della polizia municipale: ci sono cioè dei vigili preposti al controllo esclusivo dei cantieri in città, che si integrano con le attività di vigilanza svolte dalle altre forze dell’ordine.
Ciò ha prodotto ad Avellino un elevato livello di sicurezza nei cantieri edili.
Nel corso dell’audizione con i rappresentanti della magistratura, il procuratore della Repubblica di Sant’Angelo dei Lombardi ha illustrato le attività svolte dalla magistratura campana in materia di contrasto agli infortuni e alle malattie professionali. Nel 2010, la procura generale di Napoli ha stipulato una convenzione con la regione Campania, prevedendo dei corsi formazione per tutti i funzionari delle ASL preposti alla prevenzione e alla sicurezza sul lavoro. Lo scopo era di migliorare la qualità delle indagini, attraverso un migliore coordinamento e un miglioramento delle metodiche di indagine, individuando dei protocolli comuni. Il successivo obiettivo della procura generale era quello di sviluppare un nuovo protocollo d’indagine, allargato a tutti gli uffici del distretto, che operasse un migliore coordinamento non solo a livello infradistrettuale, ma anche a livello regionale, e consentisse altresì di realizzare una banca dati aggiornata di tutti gli infortuni sul lavoro, almeno a livello di corte d’appello, ad esempio per ricostruire in tempo reale gli eventuali precedenti di un soggetto indagato. Il magistrato ha infatti ricordato come uno degli effetti della pesante crisi economica che sta interessando l’intero Mezzogiorno d’Italia sia spesso la riduzione, se non l’azzeramento, dei costi relativi alle misure di prevenzione e sicurezza. In Campania ciò si riscontra principalmente per le imprese che operano nell’area casertana, dove esiste purtroppo anche un fortissimo intreccio con la criminalità organizzata.
Molte imprese spregiudicate azzerano il costo delle misure di prevenzione e di sicurezza, creando una competizione illecita con le imprese che invece rispettano le norme.
In questi contesti spesso anche gli infortuni sul lavoro vengono denunciati con ritardo o addirittura nascosti, modificando anche lo stato dei luoghi, subito dopo l’incidente, per camuffare la situazione. Per questo la magistratura campana sta cercando di far sì che l’intervento sul luogo dell’incidente sia immediato, per consentire da subito rilevazioni accurate e l’acquisizione di ogni elemento utile, in modo da fissare lo stato dei luoghi, senza che questi possano essere successivamente alterati. Il procuratore di Sant’Angelo dei Lombardi ha infine sottolineato come la strada da percorrere per migliorare la sicurezza del lavoro in certe zone sia ancora lunga. Il ricatto occupazionale, che nasce da questo momento di profonda crisi economica, determina che i soggetti che dovrebbero rendere dichiarazioni siano sempre più ricattabili e non vadano a denunciare l’impresa per timore di perdere il lavoro. Occorre perciò rafforzare il coordinamento e ampliare il numero di funzionari preposti, che attualmente non è adeguato all’impegno e al numero dei fenomeni. Nella procura di Sant’Angelo dei Lombardi, ad esempio, si è avuto un aumento dei decessi conseguenti alle violazioni delle norme di sicurezza sul lavoro (da due a tre), mentre persistono i casi di lesioni più o meno gravi, legate ad analoghe situazioni di illegalità.
Il procuratore generale di Avellino ha raccomandato un forte sostegno istituzionale, anche da parte della Commissione, alle iniziative tese a diffondere una idonea cultura investigativa tra i diversi soggetti preposti alla vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attraverso il coordinamento delle attività e il rafforzamento dei corsi di formazione. Questi permettono infatti il confronto e la verifica delle situazioni sul territorio, da cui scaturisce la predisposizione dei protocolli per regolare le attività investigative, soprattutto della prevenzione. Fondamentale è a tal fine la costituzione di una banca dati operativa adeguata e specifica, che consenta di studiare meglio i problemi e le possibili soluzioni. Tra le priorità, è stata ribadita la necessità di sottrarre i lavoratori a quelle forme di pressione psicologica e materiale che subiscono nel momento in cui sono costretti ad atteggiamenti di connivenza con i datori di lavoro, per coprire infortuni anche di rilevante entità.
Dopo aver ricordato come, in provincia di Avellino, tra il 2009 e il 2010 gli infortuni sul lavoro in genere si siano ridotti del 6,7 per cento, a fronte però di un aumento dei casi mortali da 4 a 8, il procuratore generale ha quindi avanzato una serie di proposte. Anzitutto il rafforzamento delle esclusioni dalle procedure di appalti pubblici per le imprese che abbiano dei precedenti specifici di infortuni sul lavoro, essendovi già gli strumenti che consentono di valutare le offerte non professionalmente valide di chi partecipa agli appalti. Occorre soprattutto un rafforzamento delle dotazioni di personale ispettivo, che deve essere adeguatamente sensibilizzato e costantemente aggiornato, per realizzare un’efficace azione di prevenzione e di repressione. Del resto, anche la procura generale sconta una carenza di magistrati specificamente dedicati a tale settore. Infine, fra le situazioni rilevanti nel circondario, posto che gli infortuni più ricorrenti (le morti bianche e gli infortuni non letali) riguardano il settore dell’edilizia, ormai prevalente rispetto a quello delle attività industriali, il magistrato ha richiamato l’attenzione sul tema delle malattie professionali. Esiste infatti nella zona di Avellino una situazione di inquinamento ambientale da amianto (con casi di asbestosi ed altre patologie) ancora irrisolta e riguardante la bonifica delle carrozze ferroviarie dell’ex Isochimica, un’area nelle immediate vicinanze del comune capoluogo, dove si pongono sia problemi di lavoratori che hanno patito affezioni per la contaminazione da amianto, sia problemi di bonifica ambientale non indifferenti.
Il procuratore della Repubblica di Ariano Irpino ha sottolineato anch’egli la necessità del protocollo investigativo comune tra tutte le procure del distretto. Sul tema della prevenzione, ha poi ribadito la necessità di potenziare le strutture di controllo dell’Ispettorato del lavoro, che hanno una specifica preparazione tecnica, sia sulle grandi che sulle piccole aziende della provincia. Al riguardo, è stata sollecitata una presenza più attiva e partecipe da parte dell’Ispettorato, proprio per intervenire in maniera efficace in materia di controlli. Alle procure arrivano del resto numerose notizie di reato in tema di infortuni sul lavoro, ma sono spesso in ritardo rispetto al verificarsi dell’evento, perché il referto medico viene redatto al pronto scorso o comunque all’ospedale più vicino e arriva in procura dopo due o tre giorni. In questo modo però si è persa l’immediatezza del contatto con la notizia di reato: per questo occorre trovare, all’interno del citato protocollo investigativo, una modalità di intervento più efficace, almeno per i casi più gravi. Purtroppo talvolta la relazione degli ispettori del lavoro o delle ASL, indispensabile per poter procedere giudizialmente, arriva con notevole ritardo.
Il presidente vicario della sezione penale del Tribunale di Avellino ha riferito che i processi per omicidio e lesione colposa da infortuni sul lavoro sono trattati dai giudici monocratici con assoluta priorità. Il rispetto dei tempi di durata è elevato e si sono ottenuti ottimi risultati, posto che la durata di un processo non supera gli otto mesi e nonostante la carenza degli organici. Naturalmente, accanto alla fase repressiva, occorre investire sulla prevenzione, attraverso il rafforzamento e l’aggiornamento del personale ispettivo.
La Commissione, nell’esprimere il proprio apprezzamento per l’importante lavoro svolto dai magistrati, ha condiviso la preoccupazione per la carenza di personale nei vari servizi ispettivi, comune purtroppo a molte regioni. In un momento di forte limitazione delle risorse pubbliche, una parziale soluzione potrebbe venire da un migliore coordinamento tra i diversi enti preposti alla vigilanza, anche attraverso la piena attivazione dei comitati regionali di coordinamento e del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP). Ciò potrebbe infatti consentire la messa in comune anche delle risorse di organico, specie tra gli Ispettorati del lavoro e le ASL, che hanno la maggior parte delle competenze.
Al riguardo, la Commissione ha chiesto se sia possibile integrare tali risorse anche con funzionari di altri uffici pubblici, mediante un’adeguata formazione. Sull’aspetto dei ritardi nella trasmissione delle relazioni ispettive, infine, si è osservato che la magistratura ha gli strumenti per sanzionare tali comportamenti, specie qualora essi configurassero una effettiva omissione di atti di ufficio.
Il procuratore della Repubblica di Sant’Angelo dei Lombardi, in risposta ai quesiti della Commissione, ha ribadito l’importanza della formazione, richiamando i corsi già citati, svolti presso la procura generale con il concorso di tutte le procure del distretto, a tutti i funzionari dell’ASL, anche per raccogliere da loro informazioni circa le loro difficoltà operative.
La magistratura è impegnata costantemente su questo fronte, riunendosi con i rappresentanti dei vari organismi preposti per migliorare le metodiche d’indagine e sviluppare anche strumenti innovativi di coordinamento.
Per ottimizzare meglio le risorse a disposizione, oltre alle iniziative già richiamate del protocollo investigativo unico per l’intero distretto e della banca dati del SINP, è stato altresì avanzata la proposta di unificare l’ufficio preposto delle ASL e quello relativo alla prevenzione dell’Ispettorato del lavoro, prevedendo un ufficio unico per la sicurezza sul lavoro.
Inoltre, esiste certamente la possibilità di formare funzionari di altre strutture pubbliche al fine di inserirli nei ruoli ispettivi, tuttavia occorre essere consapevoli che la formazione non avviene solo nel momento iniziale, ma è continua. Una strada è appunto quella del corso annuale varato dalle procure, ma poi bisogna sviluppare il lavoro sul campo, attraverso l’esperienza dei vari casi concreti. Un aspetto importante è quello della rilevazione immediata sulla scena dell’infortunio, che viene a volte trascurata dalle forze dell’ordine e sulla quale invece la magistratura sta molto insistendo. Al tempo stesso, il procuratore della Repubblica di Sant’Angelo dei Lombardi ha sottolineato che il problema non è soltanto relativo al numero delle persone, ma anche alle condizioni con cui queste persone vengono messe in condizione di operare, migliorando i mezzi tecnologici a loro disposizione. Questo chiama in causa anche la responsabilità e la capacità dei dirigenti dei vari uffici ispettivi, del lavoro o delle ASL, che hanno talvolta un approccio troppo burocratico e mancano della necessaria sensibilità su questi temi.
Il procuratore della Repubblica di Ariano Irpino ha poi sottolineato l’importanza di una programmazione attenta del lavoro giudiziario, proprio al fine di ottimizzare le risorse esistenti. Ciò può essere fatto utilizzando adeguati criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti in materia di infortunistica sul lavoro, soprattutto in materia di omicidi colposi in violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e dando il massimo impulso alla definizione dei procedimenti stessi.
Il procuratore generale della Repubblica di Avellino, a sua volta, raccogliendo lo spunto offerto dalla Commissione, ha avanzato una serie di proposte per sopperire alla carenza di organici nei ruoli ispettivi e ottimizzare le risorse esistenti. Un primo percorso potrebbe essere quello di recuperare personale attraverso la mobilità di funzionari di altri uffici pubblici, previa formazione. Ancora si potrebbe pensare di istituire una vera e propria autorità per la sicurezza e l’igiene sul lavoro, ovvero sezioni specializzate di Polizia giudiziaria, per quanto riguarda la repressione e la prevenzione dei reati, che possano riunire tutto il personale specializzato. Un altro aspetto essenziale è quello di snellire il sistema normativo delle sanzioni, che risente ancora di una dimensione burocratica delle violazioni che vengono riscontrate, attraverso i meccanismi delle definizioni amministrative, delle prescrizioni, degli adempimenti e delle sanzioni pecuniarie che vengono comminate. Si tratta di processi importanti, anche se certo di non facile né immediata realizzabilità.
La Commissione ha concordato con molte delle analisi e delle considerazioni dei magistrati, sottolineando però che le possibili soluzioni incidono su competenze legislative e amministrative che sono concorrenti fra Stato e regioni e richiedono un accordo spesso non facile da raggiungere, il che rallenta inevitabilmente anche i migliori processi di riforma.
Nella successiva audizione con il direttore provinciale dell’INAIL la Commissione ha evidenziato il forte aumento degli infortuni mortali nella provincia di Avellino tra il 2009 e il 2010 (da 4 a 8), sia pure su numeri contenuti e nel quadro di un trend generalmente decrescente degli infortuni nel loro complesso. Il direttore provinciale ha osservato che, senza voler sottovalutare il suddetto dato degli infortuni mortali, esso è comunque in linea con quelli registrati a partire dal 2006, che hanno avuto un andamento ugualmente oscillante negli anni.
Il direttore generale dell’ASL di Avellino ha segnalato che, dai dati in possesso del suo ufficio, nel corso dei primi dieci mesi del 2011 si erano avuti nella provincia 6 decessi per infortuni sul lavoro. Naturalmente si trattava di dati provvisori, che potevano anche divergere da quelli dell’INAIL, anche perché non vi era purtroppo al momento ancora un coordinamento su base provinciale tra le diverse banche dati. Con questa avvertenza, l’analisi settoriale evidenziava una prevalenza di decessi in agricoltura e una minore incidenza in edilizia.
La Commissione ha sottolineato come anche questa duplice lettura dei dati richiamasse la necessità di un rafforzamento del coordinamento tra gli enti istituzionali, attraverso l’apposito comitato regionale che, anche in Campania, incontra ancora difficoltà. La direttrice dell’Ufficio provinciale del lavoro ha confermato i ritardi accumulatisi in passato nel coordinamento tra i vari enti della provincia di Avellino, che recentemente, sia pure lentamente, hanno però iniziato a essere recuperati. Ad esempio, in relazione alle istruzioni emanate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel 2011 per un rafforzamento della vigilanza nei casi di attività in ambienti confinati come silos e cisterne, si è realizzato un buon coordinamento tra la Direzione provinciale del lavoro e l’ASL. Naturalmente la frammentazione delle competenze non incide positivamente sul controllo del territorio, anche se la Direzione provinciale del lavoro riesce comunque a garantire, nell’ambito del settore dell’edilizia, un’adeguata attività di vigilanza e prevenzione, integrando il personale ispettivo – purtroppo limitato – con l’ausilio dei Carabinieri del Nucleo tutela del lavoro.
Il direttore generale dell’ASL di Avellino ha poi osservato che la prevenzione obbligatoriamente svolta dal sistema sanitario risente di previsioni normative ormai superate, in particolare quelle del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502. Al sistema della prevenzione è destinato ogni anno il 5 per cento dei fondi complessivamente trasferiti all’azienda sanitaria locale, cifra che deve essere poi suddivisa tra i diversi ambiti. In genere, questa suddivisione avviene in misura fissa, senza una valutazione approfondita delle effettive esigenze e questo si riverbera sul volume delle risorse a disposizione per le attività di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Infine, dai dati della ASL emerge che la mortalità è inferiore nel settore dell’edilizia, maggiormente seguito e controllato, rispetto all’agricoltura, dove la capacità di intervento è minore. Qui il problema principale è il ribaltamento dei trattori, per prevenire il quale si potrebbero adottare dispositivi come l’inclinometro, che spegne il motore quando il mezzo si inclina oltre un certo livello.
La Commissione ha ribadito l’importanza dei comitati di coordinamento regionale come organismi di indirizzo e raccordo delle attività dei vari enti preposti alla salute e sicurezza del lavoro, per i quali si registrano ancora troppi ritardi in molte regioni. Viceversa, sono sicuramente meritorie le iniziative del territorio tese a favorire il raccordo e la collaborazione tra gli enti, come quelle messe in campo da molte Prefetture o quelle, citate in precedenza, adottate dalla magistratura della provincia di Avellino. Anche le ASL, che hanno la maggior parte delle competenze nel settore della prevenzione, potrebbero porsi come capofila di questo coordinamento. Per quanto riguarda poi la questione delle risorse, purtroppo non si è mai riusciti a stabilire per legge quanta parte del totale destinato al sistema della prevenzione debba essere riservata alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, anche se le singole ASL hanno una certa autonomia gestionale in proposito. Infine, la Commissione ha confermato la propria attenzione al tema degli infortuni in agricoltura, richiamando le iniziative già assunte.
Nella successiva audizione il comandante provinciale dei Carabinieri ha ricordato che il comando ha competenza sui 119 Comuni dell’intera provincia di Avellino e si articola in 6 comandi di compagnia e 68 presidi (comandi di stazione). La componente territoriale opera in stretta sinergia e collaborazione, oltre che con il Nucleo ispettorato del lavoro dell’Arma, anche con la stessa Direzione provinciale del lavoro, in basse alla convenzione sottoscritta dal Ministero della difesa e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel settembre 2010. A tal fine, si svolgono riunioni trimestrali tra il comandante provinciale dei Carabinieri e il direttore provinciale del lavoro, per programmare gli interventi di vigilanza e di prevenzione da effettuare sul territorio. Del resto, la legge 4 novembre 2010, n. 183, il cosiddetto «collegato lavoro», attribuisce ad ogni agente e ad ogni ufficiale di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, a prescindere dalla qualifica, il ruolo di ispettore in materia di lavoro. Inoltre, sulla base del testo unico (decreto legislativo n. 81 del 2008), oltre agli interventi in caso di infortunio, specie mortale, l’Arma dei Carabinieri effettua di propria iniziativa e con le aziende sanitarie locali anche interventi di prevenzione, in particolare nei cantieri edili. In tal modo è stata evidenziata l’esistenza nella provincia, anche se in misura modesta, di fenomeni di occupazione di minori e di lavoro in nero, anche di lavoratori extracomunitari. Questi ultimi casi sono presenti maggiormente nel terziario, in particolare nel settore della concia delle pelli: ci sono infatti quattro comuni alle porte di Avellino (Solofra, Montoro Superiore, Montoro Inferiore e Serino) che rappresentano il terzo polo conciario per importanza a livello nazionale.
Nel settore edile, il Nucleo ispettorato del lavoro ha elevato nel 2010- 2011 sanzioni che riguardano per il 45 per cento l’omissione delle regole di prevenzione per i lavori di costruzione in quota, per il 18 per cento l’omessa osservanza delle norme di igiene e salubrità nei luoghi di lavoro, per il 30 per cento l’omessa informazione o formazione dei lavoratori, per il 2 per cento l’omissione dell’uso dei dispositivi di protezione individuale e per il 5 per cento violazioni varie. I problemi rilevati riguardano dunque l’impreparazione professionale dei lavoratori addetti, l’omessa adozione delle precauzioni e delle protezioni obbligatorie e dei dispositivi di protezione individuale, l’inadeguatezza dei piani di sicurezza e coordinamento.
Per quanto riguarda gli infortuni, nel 2010 i Carabinieri si sono occupati di tre decessi sul lavoro: uno in un tabacchificio, un altro nel settore edilizio (una caduta accidentale da un ponteggio) e uno nel settore metalmeccanico (un operaio rimasto schiacciato da balle di ferro). Nel 2011 sono intervenuti per tre decessi, due relativi sempre al settore dell’edilizio, in particolare del movimento terra (degli operai sono stati colpiti da escavatori) e uno relativo ad un caricamento di lamiera di ferro su un automezzo. Nel 2010, infine, sono state ispezionate 388 aziende, di cui 309 nel settore edile, mentre dal 1º gennaio al 31 ottobre 2011 ne sono state ispezionate 258, di cui 224 nel settore edile.
Il comandante del Nucleo ispettorato del lavoro, dopo aver precisato che il Nucleo è composto di quattro unità, in risposta ad alcuni quesiti della Commissione sulla presenza di lavoro minorile nella provincia di Avellino, ha fatto presente che si tratta di un fenomeno di modesta entità.
Si sviluppa per lo più nei periodi estivi e riguarda prevalentemente il commercio, ad eccezione di casi sporadici nell’attività industriale, ma in quel caso riguarda minori extracomunitari. Le violazioni che si riscontrano maggiormente, oltre all’abbandono dell’obbligo scolastico dove presente, sono la mancata visita medica, il mancato riposo e il perdurare dell’orario di lavoro oltre il limite ridotto previsto per i minori. In agricoltura il fenomeno non è stato riscontrato, nonostante le ispezioni eseguite. Tuttavia occorre considerare che in provincia di Avellino l’attività agricola è rappresentata prevalentemente dalla raccolta delle uve, peraltro non in grandi quantitativi: si tratta di un’attività a conduzione familiare, nella quale non si fa molto ricorso a manodopera. I pochi casi riscontrati fanno buon uso dei voucher, uno strumento che in Iripinia ha dato i suoi frutti.
Il comandante del Nucleo si è infine soffermato sulla sospensione amministrativa, un efficace strumento sanzionatorio e deterrente introdotto dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Purtroppo nella provincia di Avellino tale strumento può di fatto essere utilizzato solo nella prima delle due ipotesi previste dalla legge, cioè se si riscontra la presenza di lavoratori in nero pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, ma non anche nella seconda ipotesi delle reiterate violazioni sul versante della prevenzione, perché a livello regionale non è ancora stata attivata la banca dati per verificare l’esistenza delle eventuali violazioni pregresse. Ove necessario il Nucleo supplisce a questa mancanza con il sequestro giudiziario, che però è più drastico e comporta tempi più lunghi anche per il ripristino della sicurezza.
È stato poi il turno del comandante provinciale dei Vigili del fuoco di Avellino, che ha anzitutto richiamato le funzioni svolte dal Corpo sia per quanto riguarda l’attività di prevenzione (in particolare degli incendi), sia per quanto concerne il soccorso tecnico urgente. I controlli legati all’attività di prevenzione incendi sono stati molto semplificati dal nuovo regime introdotto con il recente regolamento di applicazione, che ha modificato le procedure di verifica e di rilascio delle autorizzazioni antincendio, differenziandole in base al livello di rischio delle attività soggette a controllo26. Riguardo all’attività di soccorso, i Vigili del fuoco intervengono non solo per problemi legati alla prevenzione incendi, ma per il soccorso tecnico in generale, grazie anche alla forza operativa dispiegata sull’intero territorio della provincia. In tali attività essi agiscono anche come ufficiali di polizia giudiziaria e, ove riscontrino delle violazioni, possono procedere di conseguenza, per via amministrativa o penale nei casi più gravi, ovviamente di concerto con la magistratura.
Nel territorio provinciale il Corpo dei Vigili del fuoco conta in tutto circa 170 unità, suddivise in quattro turni che si avvicendano sulle 24 ore, pertanto mediamente sono presenti 25 unità. La sede centrale è ad Avellino, vi sono poi quattro distaccamenti a Grottaminarda, Bisaccia, Lioni e Montella, oltre ad un distaccamento di volontari, che vengono periodicamente richiamati, secondo le disponibilità delle risorse economiche, per rimpiazzare le carenze di organico (purtroppo inferiore di circa il 20 per cento rispetto alle previsioni). A queste unità si aggiungono poi 9 funzionari tecnici e 25 unità amministrative.
Nella successiva audizione, il presidente provinciale dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE) ha ricordato l’importanza della formazione ai fini della sicurezza sul lavoro, citando l’esempio della scuola edile provinciale del Centro formazione e sicurezza in edilizia.
Per essere realmente efficace, la sensibilizzazione ai temi della sicurezza sul lavoro non deve però rappresentare solo un ordine o una regola da seguire perché imposta da qualcuno, ma deve essere un fatto culturale: diventa quindi fondamentale promuovere la diffusione della cultura delle sicurezza tra i giovani fin dalle scuole.
Il vice presidente del Centro formazione e sicurezza in edilizia ha ribadito l’impegno delle organizzazioni datoriali e sindacali del settore edile a favore della sensibilizzazione e della prevenzione per la sicurezza sul lavoro. Ha quindi lanciato l’allarme sul fatto che la provincia di Avellino, dove la sicurezza in edilizia era sempre stata elevata, ha registrato recentemente numerosi incidenti, tra cui uno mortale che il 1º novembre ha coinvolto un ragazzo di diciannove anni. Si sta assistendo ad un allentamento dell’attenzione e dei controlli, frutto anche della pesante crisi che ha investito il settore delle costruzioni e l’economia in generale, dove trovano spazio imprese non strutturate, operanti nell’assoluta inosservanza delle regole sulla sicurezza. Occorre dunque uno sforzo comune delle istituzioni e delle parti sociali per superare la situazione.
In replica ad una domanda della Commissione, il direttore provinciale dell’ANCE ha poi affermato che, per quanto riguarda l’attività del comitato regionale di coordinamento, si registra purtroppo una forte assenza.
Con riferimento specifico alla realtà della provincia di Avellino, si è cercato di sopperire con autonome iniziative: negli anni passati le parti sociali hanno istituito, insieme al prefetto dell’epoca, un osservatorio provinciale, poi bloccatosi, che si occupava del settore delle costruzioni in tutte le sue sfaccettature, ottenendo ottimi risultati. Ancora, sono stati sottoscritti una serie di protocolli di intesa tra le parti sociali, l’amministrazione provinciale di Avellino e il Comune capoluogo, affrontando la questione della sicurezza e della legalità nei cantieri, con riferimento anche agli effetti negativi indotti dal ricorso preferenziale al sistema del massimo ribasso nelle gare d’appalto. Con i protocolli si è riusciti ad inserire nelle gare bandite dalle pubbliche amministrazioni della provincia l’uso di criteri alternativi come il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Tuttavia tale sistema è più complesso e non tutte le amministrazioni hanno la capacità di gestirlo: c’è bisogno infatti di un apparato amministrativo e burocratico più preparato, che potrebbe ad esempio essere formato con appositi corsi organizzati dalle associazioni dei comuni e delle province. In merito, il direttore provinciale dell’ANCE ha evidenziato che la formula della stazione unica appaltante può dare un contributo importante alla gestione amministrativa degli appalti, anche se non può risolvere tutti i problemi. Occorrerebbe riformare il codice degli appalti, recuperando anche vecchi sistemi di gara come ad esempio la media mediata, maggiormente garantista anche nei confronti delle piccole e medie imprese.
Occorre inoltre una maggiore capacità di controllo delle pubbliche amministrazioni, anche attraverso una presenza più assidua del direttore dei lavori nei cantieri delle opere pubbliche. In provincia di Avellino, se fortunatamente gli infortuni di lieve entità sono calati rispetto agli anni passati, purtroppo quelli mortali sono invece aumentati, anche a causa dell’ingresso sempre più frequente nel mercato di imprenditori non organizzati e non all’altezza. Infine, ha ribadito anch’egli l’importanza di diffondere la cultura della sicurezza fin dalle scuole.
Successivamente, il presidente del Centro formazione e sicurezza in edilizia della provincia di Avellino ha illustrato l’attività dell’organismo: esso raggruppa sia la scuola edile, sia il CPT (Comitato paritetico territoriale) che è preposto, con i suoi tre tecnici, al controllo sui cantieri e alla consulenza alle imprese. Il Centro svolge anzitutto un’intensa e qualificata attività di formazione delle maestranze in ingresso nei cantieri edili in tutta la provincia, attività coordinata dal FORMEDIL che rappresenta un’eccellenza a livello nazionale e al cui ausilio ricorrono anche altre province italiane. Vi è poi l’attività di costante monitoraggio dei cantieri, che copre tutto il territorio della provincia e consente non solo di raccogliere dati aggiornati ma di segnalare alle autorità preposte eventuali problemi.
Si è confermato che c’è un’ottima integrazione con le Forze dell’ordine, con i preposti alla sorveglianza e al controllo sui cantieri.
La Commissione ha condiviso la necessità di promuovere la diffusione della cultura della sicurezza nelle scuole, richiamando le iniziative e il tavolo permanente istituito a tal fine tra il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, quello del lavoro e delle politiche sociali e l’INAIL. In merito alla questione degli appalti, i vincoli comunitari in materia non consentono di fare interventi legislativi sul criterio del massimo ribasso; si può però incentivare il ricorso a criteri alternativi più sofisticati, ad esempio come già detto recuperando la media mediata, o a formule organizzative come la stazione appaltante unica. Dove quest’ultima è stata istituita, spesso su iniziativa delle Prefetture, ha dato ottimi risultati. Infine, particolare apprezzamento è stato espresso per l’attività del Centro formazione e sicurezza in edilizia.
È stata poi la volta dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali, che hanno espresso preoccupazione per il recente andamento infortunistico nella regione Campania e in particolare nella provincia di Avellino. Secondo dati ISTAT in loro possesso, nei primi dieci mesi del 2011 vi sarebbero stati 565 morti sul lavoro in Italia e 34 in Campania, di cui 9 in provincia di Avellino. Ciò dimostra che la provincia è esposta al fenomeno e che occorre assumere provvedimenti. Si è ricordata la necessità di promuovere nelle scuole l’insegnamento delle materie della sicurezza, per far crescere questa cultura tra i bambini e i ragazzi. Si è poi chiesto un maggiore impegno sul fronte della prevenzione, attraverso la formazione e l’informazione: ad esempio, la previsione del contratto collettivo nazionale del settore edilizio, che impone ai nuovi assunti 16 ore di formazione obbligatoria prima di entrare in un cantiere, potrebbe essere estesa a tutti i settori lavorativi, perché gli infortuni avvengono soprattutto nei primi giorni di lavoro, tra i giovani che per la prima volta si accingono ad un’esperienza lavorativa. I sindacati hanno inoltre sottolineato l’esigenza di dare maggiore risalto, in tutti i luoghi di lavoro, alla figura dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali (RLST), allargando ad altri settori la positiva esperienza maturata nell’edilizia sia per queste figure che per gli enti bilaterali come il Comitato paritetico territoriale (CPT).
I sindacati hanno insistito molto anche sul rafforzamento dei controlli ispettivi e del coordinamento tra i vari enti preposti: in particolare hanno segnalato il persistere di ritardi nell’integrazione, a livello provinciale, tra INAIL e ISPESL, nonché più in generale nel raccordo tra ASL, INPS, INAIL, Ispettorato del lavoro e forze dell’ordine, che non sono tenute a lavorare insieme e spesso non lo fanno, mentre un effettivo coordinamento potrebbe garantire una più efficace azione di controllo e superare anche duplicazioni e sovrapposizioni. Una parte dei problemi, sempre secondo le organizzazioni sindacali, deriva anche da un contenzioso tra i diversi enti in ordine alle competenze di ciascuno in materia di vigilanza, sebbene tali competenze siano in realtà chiaramente indicate dalla legge. Occorrerebbe quindi un intervento forte delle istituzioni per mettere ordine nella situazione.
Ciò si lega al fatto che in provincia di Avellino vi è una forte carenza negli organici dei corpi ispettivi e che molti funzionari vengono impiegati in ruoli amministrativi anziché ispettivi, il che rende sempre più rari i controlli e favorisce l’aumento delle attività irregolari. In proposito le organizzazioni sindacali hanno evidenziato una forte contrazione del numero delle ispezioni a livello locale: secondo i dati da loro citati del CLES (il Comitato per l’emersione del lavoro sommerso attivato presso la Direzione provinciale del lavoro), infatti, nel 2010 sono state realizzate 2.018 ispezioni, mentre nel 2011, a tutto il secondo trimestre, ne sono state realizzate 486, con un calo quindi di oltre il 50 per cento.
Anche nel settore degli appalti, c’è bisogno di maggiori risorse umane ed economiche e di una maggiore responsabilizzazione a tutti i livelli per il controllo delle norme sulla sicurezza, dalle strutture amministrative degli enti appaltanti ai sindaci dei vari comuni, dal responsabile della sicurezza al direttore dei lavori che dovrebbero essere più presenti nei cantieri. Soprattutto i sindaci, attraverso gli uffici tecnici comunali e la polizia municipale, possono conoscere la situazione di tutti i cantieri aperti nei loro territori e dovrebbero dunque essere spinti ad accrescere le verifiche. Si è poi lamentato il fatto che non vi siano adeguati controlli da parte di INPS e INAIL ai fini del rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC): questo prezioso strumento per il contrasto al lavoro nero, infatti, perde di significato se, nella maggior parte dei casi, viene rilasciato per silenzio-assenso, solo perché non si ha tempo di fare le opportune verifiche. Altro tema sollevato è quello dell’istituzione della cosiddetta patente a punti per l’edilizia, per garantire la qualificazione professionale delle imprese del settore.
Vi è stato inoltre un richiamo all’osservatorio per la sicurezza sul lavoro in edilizia istituito a suo tempo presso la Prefettura: secondo i sindacati, era uno strumento che funzionava molto bene e garantiva un efficace coordinamento tra parti sociali, forze dell’ordine ed organi ispettivi nel monitoraggio del territorio. Non si capiscono quindi le motivazioni della sua eliminazione da parte della Prefettura, che ha fatto venire meno un’importante sede di programmazione e di concertazione delle attività.
Di quell’osservatorio, inoltre, facevano parte anche il presidente della Cassa edile e il presidente del CPT: questi due organismi, infatti, sono da sempre molto attivi sul fronte della prevenzione e della vigilanza, grazie ai loro ispettori che, girando per i cantieri della provincia, possono rilevare eventuali problemi e segnalarli per tempo alle autorità preposte. Ciò è stato di grande aiuto durante l’attività dell’osservatorio e lo è tuttora, considerata anche la carenza degli organici ispettivi già richiamata.
Infine, i sindacati hanno chiesto una revisione del meccanismo del massimo ribasso d’asta nell’aggiudicazione degli appalti, atteso il fatto che nella provincia, come pure nell’intera Regione, si riscontrano ribassi anche del 40 per cento, che mettono in dubbio la stessa bontà del progetto o dell’opera appaltata. In tal contesto, vi è stata una denuncia dell’inerzia di molte amministrazioni comunali, che hanno spesso solo interesse a terminare l’opera, senza effettuare i dovuti controlli: anche qui occorrerebbe potenziare e responsabilizzare maggiormente gli apparati amministrativi.
La Commissione, nel prendere atto delle segnalazioni dei sindacati, ha sottolineato ancora una volta, in merito al problema del coordinamento tra gli enti preposti alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, che le disposizioni vigenti prevedono già a tal fine un sistema molto articolato, imperniato sui comitati regionali di coordinamento, sul loro ufficio operativo e sulle loro sedi provinciali. Si tratta di un elemento essenziale, atteso che la competenza legislativa in materia è di natura concorrente tra Stato e regioni. Ciononostante, la Commissione ha dovuto constatare come in molte Regioni – inclusa la Campania – tali comitati non siano ancora funzionanti o scontino comunque una serie di ritardi e di inefficienze. Ciò incide anche sulle strutture provinciali del sistema e crea quella mancanza di collegamento e di collaborazione tra gli enti che è stata segnalata anche nella provincia di Avellino (che pure ha delle strutture amministrative molto valide), finendo per danneggiare anche il lavoro di prevenzione e di vigilanza sul territorio.
Occorre dunque il contributo di tutti per superare questo problema e i sindacati possono svolgere un ruolo attivo, sollecitando le autorità regionali e gli altri soggetti istituzionali a rilanciare l’attività dei comitati, nei quali del resto sono rappresentate di diritto anche le parti sociali. Infine, la Commissione ha ricordato le iniziative già adottate dai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’istruzione, dell’università e della ricerca per assicurare la presenza di insegnamenti legati alla sicurezza del lavoro nelle scuole, anche in relazione al recente concorso per progetti in questo settore bandito a livello nazionale.
Nell’ultima audizione la Commissione ha incontrato i rappresentanti delle organizzazioni datoriali. I rappresentanti delle imprese manifatturiere, dopo aver ricordato i settori di maggiore attività nella provincia di Avellino, hanno sottolineato come le aziende abbiano messo in atto una serie di miglioramenti a favore della sicurezza che hanno dato i loro frutti, in quanto nel 2011 non si sono registrati infortuni mortali nel comparto industriale. Al di là delle normative e delle disposizioni, tuttavia, è fondamentale diffondere la cultura della sicurezza per garantire l’efficacia delle misure di prevenzione, adottando gli strumenti più efficaci e le lavorazioni meno rischiose. Si è poi citato come esempio di eccellenza nella provincia l’azienda siderurgica ArcelorMittal, che da cinque anni non registra infortuni sul lavoro. Per raggiungere questi obiettivi c’è bisogno di molta formazione sulla sicurezza, che deve accompagnarsi alla lotta al lavoro irregolare e al fenomeno dei falsi infortuni. Infine, si è chiesta una maggiore semplificazione delle norme per facilitarne l’applicazione e l’inserimento della sicurezza sul lavoro nei programmi di studio, in particolare nelle materie curriculari dell’ultimo anno degli istituti tecnici.
Dal canto loro, i rappresentanti dell’artigianato hanno contestato il proposito della regione Campania di abolire la Commissione provinciale per l’artigianato (CPA), che fornisce una preziosa assistenza alle imprese del settore, anche per quanto riguarda la prevenzione e la sicurezza sul lavoro. Si tratta a loro avviso di una funzione indispensabile, poiché le piccole aziende artigiane nella maggior parte dei casi non sono in grado di conoscere o di gestire autonomamente i numerosi adempimenti richiesti dalle norme antinfortunistiche – in particolare la redazione del documento di valutazione dei rischi (DVR) – né hanno familiarità con le figure del sistema della sicurezza, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) o il medico competente. Le organizzazioni dell’artigianato hanno perciò invocato una maggiore vicinanza a queste piccole imprese, evitando accanimenti sanzionatori e chiedendo che la regione Campania receda dal suo progetto di chiudere la CPA, che dovrebbe invece sostenere anche finanziariamente con gli appositi contributi previsti dalla legge regionale n. 51 del 1975, non concessi ormai da tre anni.
Anche in questo settore, infine, si è chiesta una semplificazione degli adempimenti dettati dalle norme antinfortunistiche. Le imprese artigiane hanno infatti dimensioni assai ridotte, essendo basate sul lavoro del solo titolare o di quest’ultimo e di pochi dipendenti: non si può dunque pretendere che debbano sopportare gli stessi vincoli e gli stessi costi delle grandi imprese, con il rischio di essere messe fuori mercato. Per questo motivo è stata sollecitata l’emanazione dei decreti attuativi legati al decreto legislativo n. 81 del 2008, alcuni dei quali devono appunto dettare norme specifiche per tenere conto delle esigenze dei vari settori e tipi di imprese, che non possono essere considerati tutti uguali.
Le associazioni del settore del commercio, turismo e servizi hanno riconosciuto i notevoli progressi compiuti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, sebbene vi sia ancora molto da fare. È importante far crescere sempre di più la cultura della sicurezza all’interno del mondo aziendale, tanto da parte dell’imprenditore quanto da parte dei lavoratori, iniziando l’educazione su questi temi fin dalle scuole elementari. Per quanto riguarda il settore di loro competenza, esso comprende molte aziende, ma fortunatamente ha un basso livello di rischio. Anche per tale ragione, si è chiesta un’ulteriore semplificazione delle procedure per una loro migliore applicazione, suggerendo, per agevolare i controlli degli organi preposti, di rendere obbligatoria la presentazione per via telematica alle Camere di commercio e alle amministrazioni comunali della documentazione richiesta ai fini della sicurezza sul lavoro all’avvio di un’attività imprenditoriale, in modo da obbligare le imprese a mettersi in regola fin dall’inizio.
Le organizzazioni dell’agricoltura, infine, hanno evidenziato come i dati dell’INAIL e dell’INPS vedano nel settore gli infortuni sul lavoro notevolmente in calo rispetto agli anni precedenti, grazie all’ammodernamento tecnologico attuato nelle imprese agricole. Analizzando gli incidenti che ancora si verificano, emerge che molti sono causati da persone anziane che guidano mezzi non idonei o dall’utilizzo di attrezzature agricole che non presentano le necessarie omologazioni per garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro. A tal proposito, le associazioni hanno avanzato la proposta di destinare i risparmi che l’INPS e l’INAIL stanno conseguendo grazie alla diminuzione degli incidenti sul lavoro in agricoltura, anziché alla sostituzione, all’adeguamento degli attrezzi e dei mezzi agricoli già esistenti sul territorio, che implicherebbe l’esborso di somme minime.

4.12. Sopralluogo ad Ancona (11-12 dicembre 2011)
L’ultima missione della Commissione si è svolta l’11 e 12 dicembre 2011 ad Ancona, con una delegazione formata dal presidente Tofani e dalla senatrice Maraventano. Anche questo sopralluogo mirava a verificare lo stato di attuazione del testo unico e, più in generale, l’assetto organizzativo adottato per il sistema di prevenzione e di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro nel territorio della regione Marche.
Nella prima audizione, il prefetto di Ancona ha rimarcato l’influenza dell’andamento dell’occupazione regionale sulla qualità del lavoro e della sicurezza. L’occupazione nella regione Marche ha subito un decremento tra il 2009 e il 2010 di circa 7.000 addetti e questo danneggia soprattutto i giovani. Questi ultimi infatti, pur di inserirsi nel mondo del lavoro, accettano qualsiasi forma di attività, anche a fronte di irregolarità che a volte gravano sulla propria incolumità personale, e quindi, subendo una frammentazione dell’attività lavorativa, non riescono a seguire un percorso «educativo» alla sicurezza sui luoghi di lavoro, né a tale carenza suppliscono i datori di lavoro con corsi di formazione dedicati.
La Commissione ha precisato che, dai dati ISTAT, dal 2006 al 2010 si registra in realtà un progressivo aumento nel numero degli occupati della regione Marche pari all’1,5 per cento. Tale dato incorpora però anche i lavoratori in cassa integrazione, conteggiati come occupati: per una valutazione migliore, occorrerebbe quindi capire quante sono le ore effettive di lavoro.
Il prefetto ha poi richiamato i dati sugli infortuni che, in generale, sono passati da 26.160 in tutta la Regione nel 2009 a 25.160 nel 2010.
Il maggiore decremento di incidenti sui luoghi di lavoro in ambito regionale si registra nella provincia di Macerata, con circa -6 per cento nel 2010, mentre stranamente la provincia di Pesaro-Urbino è quella che ha visto l’andamento meno positivo, con un incremento degli incidenti mortali.
Nel 2010 in tutte le Marche si sono avuti 6 casi in meno di infortuni mortali: dai 32 del 2009 si è scesi a 26 nel 2010; 1 solo ad Ancona, 3 nelle province di Ascoli Piceno e Fermo (occorre ricordare che la provincia di Fermo esiste dalla metà del 2010, quindi il dato è aggregato tra le due province), 4 a Macerata, laddove a Pesaro si sono registrati 10 casi a fronte dei 7 del 2009. Nel loro totale, gli infortuni ad Ancona sono stati 8.828, contro i 9.257 dell’anno precedente; ad Ascoli Piceno e Fermo 5.210 contro 5.425, a Macerata 4.771 contro 5.072, mentre a Pesaro-Urbino il decremento è stato minimo in quanto da 6.408 si è scesi solo a 6.351. Nel settore dell’industria e dei servizi il decremento degli infortuni si è attestato al 3,5 per cento. Se si raffrontano i dati con l’andamento registrato nel precedente anno, si vede subito il forte rallentamento del trend decrementale: nel 2009, il settore dell’industria e dei servizi aveva registrato un calo del 15 per cento. A livello territoriale il calo più sensibile si è avuto nella provincia di Ancona, mentre in quella di Pesaro-Urbino si è registrato un andamento meno favorevole. Bisogna tuttavia considerare che dal 1º settembre 2009, 1.026 aziende si sono trasferite dalla provincia di Pesaro alla provincia di Rimini, in quanto sette Comuni dell’Alta Valmarecchia sono stati aggregati alla provincia di Rimini a seguito di referendum.
L’andamento infortunistico tra i dipendenti dello Stato non evidenza mutamenti di rilievo; nell’ambito di questa modesta variazione, si è registrato un picco per quanto riguarda il personale delle scuole statali di ogni ordine e grado, sempre facendo una dovuta distinzione tra le varie province.
Infatti, se ad Ascoli e Pesaro c’è stato un modesto incremento, ad Ancona e Macerata si è avuto invece un calo. Un altro dato sottolineato dal prefetto riguarda l’andamento infortunistico nel lavoro degli stranieri, la cui presenza nelle Marche è molto consistente, con un trend superiore alla media nazionale. La percentuale degli stranieri nelle Marche arriva infatti quasi al 10 per cento, al secondo posto dopo la Toscana. Poiché il lavoro degli immigrati è ormai strutturale nel sistema produttivo marchigiano, una quota elevata di infortuni ha interessato questa categoria di lavoratori: 4.153 casi nel 2010, di cui due mortali. È una percentuale superiore rispetto a quella nazionale, che è attestata al 15,5 per cento. Rispetto al 2009 c’è comunque una diminuzione di circa 285 casi, corrispondente al 6,4 per cento.
Il prefetto di Ancona ha infine ricordato che nella Prefettura sono stati sottoscritti vari protocolli di legalità e sicurezza per il controllo del lavoro, soprattutto nei cantieri edili delle grandi opere pubbliche. Ci sono inoltre un protocollo d’intesa che la regione Marche ha sottoscritto con l’INAIL e alcuni protocolli sottoscritti nelle cosiddette «aree vaste», ovvero gli ambiti territoriali di competenza delle aziende sanitarie locali, ciascuno dei quali nelle Marche coincide con una provincia. I protocolli in questione concernono scambi di informazioni e di notizie, necessità di interventi, miglioramento di sinergie e coordinamenti tesi a migliorare le condizioni di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Nella successiva audizione, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona ha fatto presente come nella regione Marche il fenomeno infortunistico sia fortunatamente poco significativo: ad esempio, nel periodo compreso tra luglio 2009 e giugno 2010 (il cosiddetto anno giudiziario) si sono verificati solo 8 casi mortali. Tale andamento contenuto degli infortuni si lega al fatto che il tessuto produttivo marchigiano non è quello della grande industria (manifatturiera ed edile). Sono stati adottati protocolli di indagine tra alcune procure, l’INAIL e gli enti che hanno competenze in materia. Non esistono però sezioni specializzate su questa materia nei tribunali della Regione, avendo gli stessi dimensioni troppo piccole. Lo stesso vale per le procure, che non hanno in genere un numero di magistrati sufficiente: ad esempio anche la procura di Ancona, che è la più grande, ha solo una decina di sostituti, per cui è difficile pensare a deleghe specifiche.
Il magistrato ha sottolineato come in realtà l’aspetto essenziale nelle indagini per infortuni sul lavoro sia la presenza tempestiva dei tecnici della Direzione provinciale del lavoro o della ASL sul luogo dell’incidente, per fare la ricostruzione tecnica dell’evento, che è la premessa per l’individuazione delle responsabilità da parte del magistrato, il quale subentra solo successivamente. Il problema principale è appunto quello di individuare la responsabilità penale in una struttura complessa in caso di condotte commissive e omissive delle cautele antinfortunistiche, soprattutto nell’ambito del settore pubblico come, ad esempio, negli enti locali. Il fenomeno infortunistico, comunque, anche se sicuramente presente, non è però particolarmente rilevante. Anche rispetto al lavoro nero, malgrado la forte presenza di stranieri, non vi è un’emergenza giudiziaria.
Sicuramente il fenomeno è presente nell’edilizia e nel lavoro domestico, ma dalle indagini non risulta l’esistenza di situazioni gravi come ad esempio il caporalato: nella regione Marche, infatti, i settori dove tradizionalmente si annida il lavoro nero o sono assenti, come nel caso della grande industria e dell’agricoltura, o hanno portata più limitata, come l’edilizia, formata in genere da piccole imprese che assumono il lavoratore straniero in nero per lavori di uno o due mesi. Viceversa, il fenomeno non si registra nel settore manifatturiero, dove le aziende sono a conduzione familiare e parafamiliare. A ciò si aggiunge un elevato livello di controllo da parte degli organi competenti, che riescono a visitare le imprese (solitamente di piccole dimensioni) anche più volte nell’arco dell’anno e non hanno riscontrato casi eclatanti.
Per quanto riguarda i processi per violazioni antinfortunistiche, la maggior parte sono reati di tipo contravvenzionale, che vengono però in genere oblazionati. I casi più ricorrenti riguardano soprattutto fenomeni di evasione contributiva (omesso versamento, ad esempio, delle ritenute operate sullo stipendio dei lavoratori ai fini previdenziali) in cui l’imprenditore incorre per difficoltà economiche, finendo poi sotto processo. Si tratta dunque solitamente di attività sane, che incontrano difficoltà alle quali spesso consegue il tracollo stesso dell’attività imprenditoriale e che sono sanzionate in maniera meno severa. Sanzioni più gravi vengono irrogate, invece, in tutti i processi per infortunio sul lavoro (sia nel caso di semplici lesioni, che di decesso del lavoratore), che riguardano molto spesso anche reati formali (omessa istruzione del lavoratore).
Infine, il sostituto procuratore ha sottolineato la difficoltà di attribuire la responsabilità, allorquando manchi un nesso eziologico preciso, ossia un rapporto di causa ed effetto tra la violazione riscontrata (in genere omissiva) e l’infortunio. Un problema più delicato riguarda la responsabilità negli enti pubblici e, in particolare, negli enti locali, che sono talvolta sottodimensionati e senza una specifica ripartizione di competenze, per cui, in mancanza di una delega puntuale al dirigente, si arriva alla fine ad un’attribuzione di responsabilità quasi formale al sindaco. A suo avviso, il settore pubblico è uno di quelli in cui probabilmente occorrerebbe intervenire in maniera più dettagliata in ordine alle competenze e alle responsabilità, attraverso una modifica normativa.
La Commissione ha rilevato che la giurisprudenza sta colmando ormai anche queste lacune. Pur essendo il fenomeno certamente complesso e da approfondire, occorre evitare il fenomeno per il quale il datore di lavoro o il responsabile dell’ufficio delegano i compiti di formazione o di vigilanza, ritenendo così di rimanere fuori da eventuali responsabilità che dovessero determinarsi in presenza di un infortunio grave, o addirittura mortale.
Nell’incontro con i rappresentanti della regione Marche, l’assessore regionale alla salute ha evidenziato come il fenomeno degli infortuni sul lavoro presenti ancora dimensioni preoccupanti, anche se si possono fare grandi miglioramenti, come testimoniato dall’esperienza delle Marche che, grazie alla collaborazione di tutte le parti in causa, hanno ridotto significativamente il numero degli incidenti tra il 2001 e il 2011. Tale collaborazione si esplica con successo nel comitato regionale di coordinamento, che è stato ampliato anche alla partecipazione delle province e di altri soggetti non previsti dalle norme. Il comitato è stato costituito con una delibera nel giugno del 2008, anche se la prima seduta di insediamento si è tenuta nel dicembre dello stesso anno; in precedenza però esisteva un altro comitato di coordinamento, in seno al quale dal 2007 la regione Marche già invitava le parti sociali.
Circa il preoccupante aumento degli infortuni mortali, passati secondo l’INAIL tra gennaio-novembre 2010 e gennaio-novembre 2011 da 23 a 39, il dirigente regionale del servizio sanità e prevenzione ha evidenziato che la curva degli infortuni mortali nel corso degli anni ha avuto nelle Marche oscillazioni abbastanza evidenti, trattandosi di numeri piccoli.
Negli ultimi anni il 60 per cento di questi casi mortali è collegato alla viabilità, sono cioè infortuni sulla strada, sia in itinere che in occasione di lavoro: ad esempio, dei 26 incidenti mortali registrati in tutto il 2010, 6 sono in itinere, ma dei 20 rimanenti una quota rilevante sono avvenuti su strada durante il lavoro. Per questo la Regione ha posto il tema al centro del nuovo protocollo di intesa con l’INAIL, che definisce le attività di prevenzione, riunendo tutti i soggetti competenti (Regione, INAIL, Polizia stradale, ANAS, scuola) per adottare una strategia comune su questo problema, particolarmente sentito nelle Marche. In risposta alle osservazioni della Commissione circa le persistenti difficoltà di concertazione tra Stato e regioni su questo tema e su altri relativi alla salute e sicurezza sul lavoro, il dirigente ha poi rilevato la necessità di sollecitare il pieno utilizzo del Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale dell’attività di vigilanza di cui all’articolo 5 del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Mentre infatti la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 81 del 2008, è avviata, lavora bene e ha ormai trovato una sua efficacia di azione, il Comitato di coordinamento nazionale, che è il raccordo dei comitati di coordinamento regionali, ha ancora delle difficoltà. D’altra parte, alcuni progressi si stanno rilevando: nel 2011 per la prima volta le regioni hanno fatto, tutte insieme, una relazione sull’attività di prevenzione svolta nel 201027. Al riguardo sarebbe comunque utile avere un formato comune tra le varie regioni circa i dati da raccogliere.
Per quanto riguarda la Regione Marche, la struttura del comitato regionale di coordinamento è ormai pienamente completata: tra la metà del 2008 e l’inizio del 2011 sono stati costituiti e attivati il comitato, l’ufficio operativo e gli uffici provinciali. Nel 2011 sono inoltre stati elaborati i primi indirizzi per la vigilanza congiunta o coordinata dei vari enti, in particolare nelle attività degli ambienti confinati, nell’edilizia in generale e nelle grandi opere. Nelle Marche è infatti in atto l’ampliamento della terza corsia e l’asse quadrilatero Marche-Umbria, che richiede una grande attenzione per le questioni degli appalti. Due settimane prima, infine, si è riunito l’ufficio operativo e sono state programmate le attività degli uffici provinciali per il 2012, che tengono conto delle esperienze via via maturate. Tale metodo di lavoro ha una lunga tradizione nella Regione: con l’attribuzione nel 2000 delle competenze in materia di prevenzione all’INAIL, si sono fatti accordi triennali molto importanti con l’Istituto che, sempre di più, sono riusciti a sostenere e mettere insieme tutte le componenti del sistema, istituzioni e parti sociali.
L’assessore regionale al lavoro ha confermato che sul tema della sicurezza sono stati fatti passi in avanti decisivi nelle Marche, anche se i dati citati sugli infortuni sono ancora molto preoccupanti, perché purtroppo non si è ancora sviluppata la necessaria cultura della sicurezza.
Con riferimento alla regione Marche, occorre tenere conto che il tessuto produttivo è costituito essenzialmente da decine di migliaia di imprese manifatturiere (soprattutto piccole), il più delle volte intente a fronteggiare una pesante crisi, che induce a un allentamento dell’attenzione alla sicurezza.
Ci sono stati ad esempio incidenti rilevanti nei grandi cantieri, ed esistono ancora problemi in agricoltura, dove l’attività è svolta tradizionalmente da persone molto anziane che sono esposte più di altre agli infortuni nell’utilizzo degli strumenti di lavoro, soprattutto dei trattori.
La Regione ha fatto molto, specialmente nelle strutture provinciali e sanitarie. Con riferimento alle grandi opere, ad esempio, esiste un protocollo con le parti sociali per il monitoraggio e il controllo dei cantieri.
Un elemento essenziale è il protocollo d’intesa stipulato con l’INAIL, ormai alla quarta edizione, come pure quello con la Direzione regionale del lavoro. Altrettanto importanti le collaborazioni con il mondo dell’associazionismo e il confronto con le esperienze delle altre regioni. In proposito, l’assessore ha confermato il problema dello scarso collegamento con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, auspicando un rapido superamento, essendo comunque sempre necessaria una sintesi a livello nazionale delle varie istanze. Tra le attività a livello locale, si è poi citato l’Osservatorio Olympus in materia di sicurezza sul lavoro attivato presso l’Università di Urbino, i cui rappresentanti erano già stati auditi dalla Commissione nella seduta del 4 maggio 2011 [20 luglio 2011 n.d.r.] (si veda in proposito il paragrafo 3.4).
L’assessore regionale al lavoro ha quindi richiamato alcune iniziative normative, come la legge regionale 23 febbraio 2005, n. 8, per il documento unico di regolarità contributiva (DURC), per la quale è stato recentemente attivato un tavolo regionale per estendere la certificazione anche ai lavoratori prestati da aziende fuori Regione, in modo da garantire l’assolvimento degli adempimenti previdenziali. Si è poi fatta nel 2008 una legge specifica sui cantieri, per definire precisi orientamenti per la costruzione degli stessi. Inoltre, nel 2010, con specifico riferimento al discorso degli appalti, si è lavorato per chiarire quali spese possono o meno essere detratte in sede di ribasso d’asta, in modo da impedire interpretazione surrettizie e garantire che nei cantieri siano comunque rispettati tutti i requisiti di sicurezza richiesti.
La Commissione ha ricordato il proprio impegno sulla questione degli appalti e in particolare del contrasto ai problemi causati dal ricorso al criterio del massimo ribasso d’asta. Data l’impossibilità di eliminare questo criterio per i vincoli comunitari esistenti in materia, occorre individuare comunque procedure di tutela, ad esempio favorendo la concentrazione e il rafforzamento delle stazioni appaltanti. In questo campo, le province e le regioni possono avere un ruolo decisivo.
L’assessore al lavoro ha condiviso la posizione della Commissione, confermando i problemi legati al massimo ribasso, a causa delle percentuali eccessive di riduzione che si riscontrano in molte offerte e che mettono in dubbio la qualità stessa del progetto o dell’opera. D’altra parte le amministrazioni pubbliche tendono spesso a preferire questo criterio per motivi di convenienza economica. Occorre allora che le stazioni appaltanti abbiano il coraggio di contrastare offerte che, al di sotto di una certa percentuale, appaiono chiaramente anomale. La regione Marche sta lavorando su un accordo siglato con le parti sociali per quanto riguarda gli appalti al di sotto del milione di euro, perché sotto quella cifra i comuni possono agire con grande libertà e occorre quindi maggiore attenzione.
Altro tema su cui la Regione sta molto lavorando è quello dell’informazione e della formazione sulla sicurezza, supportando l’impegno dei datori di lavoro attraverso un’ampia offerta di più di 100 profili di carattere formativo che possono essere sviluppati in sintonia con il decreto legislativo n. 81 del 2008. Sono poi state imposte otto ore di formazione obbligatoria per i circa 35.000 lavoratori in cassa integrazione in deroga. Ancora, è stato citato un accordo con i Maestri del lavoro delle Marche per sviluppare un’attività di sensibilizzazione sul lavoro e sulla sicurezza nelle scuole, in particolar modo negli istituti tecnici e professionali. Altre iniziative ricordate sono state il premio regionale «Valore Lavoro», che viene attribuito nella giornata delle Marche alle cinque aziende che nel corso dell’anno si siano dimostrate le più virtuose sotto il profilo della sicurezza, nonché un progetto che riguarda la sicurezza sul lavoro attraverso la responsabilità sociale di impresa. L’iniziativa ha coinvolto 30 aziende campione e ha dato risultati molto positivi, considerando che una larga parte di esse ha visto anche aumentare la propria redditività.
L’assessore ha altresì ricordato come, in relazione alle grandi opere del «Quadrilatero Marche-Umbria», siano stati rafforzati i presidi sanitari e di controllo, aumentando gli addetti e coinvolgendo anche i Vigili del fuoco e la Protezione civile. L’attenzione è massima perché i rischi sono elevati: il mese prima in quei cantieri era morto un altro operaio. Infine, sono state richiamate le attività di formazione svolte nelle scuole in materia di sicurezza sul lavoro, sia nei confronti dei docenti, sia verso gli studenti, soprattutto negli istituti professionali e tecnici. Tali attività, concordate con la Direzione scolastica regionale e con la Scuola di formazione della regione Marche, sono finanziate attraverso i fondi per la formazione previsti dall’articolo 11 del decreto legislativo n. 81 del 2008 per l’anno finanziario 2008-2009, per un ammontare pari a 325.000 euro.
Nella successiva audizione, il direttore regionale dell’INAIL, anche alla luce della sua esperienza in altre realtà territoriali, ha messo in rilievo la grande capacità di coinvolgimento e di coordinamento delle istituzioni esistente nella regione Marche. Ciò ha contribuito ai grandi progressi compiuti negli ultimi anni nel campo della sicurezza sul lavoro e della prevenzione degli infortuni, che si riducono in misura superiore al dato nazionale: ad esempio nel 2009-2010 si è avuto un calo del 3,82 per cento rispetto all’1,8 per cento nazionale, che nel quadriennio 2007-2010 sale al 21,7 per cento, contro un dato italiano del 15,04 per cento. I problemi naturalmente esistono, anche perché il numero degli infortuni mortali resta alto, benché diminuito dai 32 casi del 2009 ai 26 nel 2010. Molti di questi infortuni sono ascrivibili al rischio strada: 6 casi sono infatti incidenti in itinere e 10 coinvolgono lavoratori che operano sulla strada: agenti di commercio, autotrasportatori, addetti ad attività stradali. Di conseguenza, sul totale dei 26 eventi mortali, solo 10 sono avvenuti in una sede di lavoro tradizionale, come un opificio. Per questo l’INAIL e la Regione si stanno impegnando per definire un accordo collegiale con tutti i soggetti compenti (ANAS, ACI, Polizia stradale, ecc.) per studiare le migliori iniziative di contrasto al fenomeno.
In risposta a un’osservazione della Commissione, circa il preoccupante aumento dei casi mortali, passati da 23 a 39 tra gennaio-novembre 2010 e gennaio-novembre 2011, il direttore ha poi sottolineato che i dati in questione sono ancora provvisori, posto che 14 casi di quelli denunciati sono sottoposti a verifiche ispettive e alcuni potrebbero non essere confermati.
In ogni caso si tratta di un segnale preoccupante e che è seguito con grande attenzione: infatti, si intende esaminare la questione nell’ambito del comitato regionale di coordinamento, dove si definiranno altresì i settori di intervento specifico. Al momento, tra quelli che destavano maggiore preoccupazione è stato segnalato il settore agricolo, dove continua a registrarsi un elevato numero di incidenti legati al ribaltamento dei trattori.
Infine, il direttore regionale dell’INAIL ha lamentato una scarsa disponibilità dei mezzi di comunicazione a ospitare campagne istituzionali a favore della salute e sicurezza sul lavoro, sia in ambito nazionale che regionale, che aiuterebbe invece a sensibilizzare maggiormente su questi temi.
La direttrice regionale del lavoro ha a sua volta confermato la grande attenzione a favore della salute e sicurezza sul lavoro esistente nella Regione.
Per quanto concerne la specifica competenza del suo ufficio in edilizia, si è lavorato molto sull’aspetto della formazione, ad esempio con i cantieri scuola avviati in provincia di Macerata con gli istituti per geometri, che hanno dato ottima prova e che si spera di estendere. Per quanto riguarda il comitato regionale di coordinamento, svolge in maniera molto proficua la sua attività e anche il livello di collaborazione tra i diversi enti è molto elevato, sia sul fronte della prevenzione che della vigilanza, senza duplicazioni o sovrapposizioni come si è visto ad esempio in occasione delle attività svolte per le lavorazioni negli ambienti confinati. Ci sono ancora alcune province in cui questi meccanismi devono essere migliorati, ma nel complesso funzionano bene, al punto che si sta avviando anche l’informatizzazione dei verbali ispettivi unificati.
I corpi ispettivi nella Regione contano circa 80-90 operatori, di cui 9 tecnici. Nel 2010 si sono fatte ispezioni in circa 700 aziende: si è lavorato molto soprattutto sul fronte del lavoro nero, anche se nelle Marche il fenomeno fortunatamente non è molto diffuso. Ci sono piuttosto altre forme di irregolarità: ad esempio c’è stato un uso anomalo dei voucher, nati originariamente in agricoltura e poi estesi anche ad altri settori, con i quali si è tentato di coprire altre forme di lavoro non regolari. Un altro fenomeno che desta preoccupazione è quello del cosiddetto lavoro grigio, ossia dell’irregolarità relativa all’orario di lavoro. Vi sono infatti molti casi di aziende che fanno lavorare i loro dipendenti oltre l’orario contrattuale: a parte il fatto che le ore eccedenti spesso non sono pagate, c’è soprattutto l’aspetto della stanchezza e del calo di attenzione che inevitabilmente subentra e che accresce i rischi per la sicurezza.
Il comandante della legione dei Carabinieri della regione Marche ha richiamato preliminarmente i compiti del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro, che anche nelle Marche, attraverso i Nuclei ispettorato del lavoro presenti in ogni provincia, opera in stretta sinergia e collaborazione con l’organizzazione territoriale dell’Arma dei Carabinieri, composta nella Regione, oltre che dal Comando Legione, da 4 comandi provinciali, 16 compagnie, 1 tenenza e 151 stazioni. In base alla convenzione sottoscritta dal Ministro della difesa e dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali il 29 settembre 2010, vi è oggi un rapporto ancora più stretto tra i Comandi dell’organizzazione territoriale e le Direzioni provinciali del lavoro, che prevedono incontri trimestrali tra i vertici degli organi provinciali ispettivi ed investigativi. Infine, la citata legge n. 183 del 2010, nota come «collegato lavoro», all’articolo 33, comma 7, ha attribuito il potere di diffida in materia di lavoro a qualsiasi agente ed ufficiale di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, a prescindere dalla qualifica di ispettore del lavoro. Questa previsione normativa ha permesso di incrementare le attività svolte dai Carabinieri che operano nella regione Marche in materia di legislazione sociale e prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro.
Per quanto riguarda l’attività ispettiva, nel corso del 2011 (fino al 30 ottobre) i Nuclei operanti nella regione Marche hanno ispezionato 415 aziende, riscontrando che 286 di esse (pari al 69 per cento) presentavano varie irregolarità. Tra le imprese maggiormente controllate vi sono quelle operanti nel settore alberghi e pubblici esercizi (110), seguite dal settore calzature e pelli (94) con un ulteriore incremento dell’attività di vigilanza tecnica rispetto agli anni precedenti. Dei 1.809 lavoratori intervistati, 1.293 sono risultati regolari, 197 irregolari, nonché 319 in nero. I lavoratori in nero sono dunque risultati meno del 20 per cento del totale degli intervistati, con una media inferiore a quella nazionale di circa il 25 per cento. Di questi ultimi 227 sono risultati stranieri e 8 minori. Per quanto riguarda i recuperi contributivi e le sanzioni comminate nella regione Marche nel 2011, l’attività del Nucleo e dell’Arma territoriale nelle Marche ha permesso di recuperare evasioni contributive per oltre 520.000 euro. È stato, inoltre, riscosso un importo di quasi 2 milioni di euro di sanzioni, realmente pagato ed entrato nelle casse dell’erario.
Il comandante regionale dell’Arma ha poi fatto presente che, nel corso del 2011 (periodo gennaio-ottobre), i Comandi territoriali dell’Arma dei Carabinieri della regione Marche hanno inoltrato al Comando tutela lavoro segnalazioni relative a 13 infortuni, di cui 3 mortali e 10 con lesioni guaribili oltre il 40º giorno. Per quanto riguarda l’attività di vigilanza connessa alla sicurezza e alla salute sul lavoro, nella regione Marche nel 2011 vi sono state: 15 ispezioni complessive; 36 prescrizioni (ai sensi degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758); una sospensione di attività, operata ai sensi dell’articolo 36-bis del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, nonché dell’articolo 14 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008, avendo scoperto lavoratori in nero in percentuale superiore al 20 per cento; ammende contestate per un importo superiore a 42.000 euro. Al fine di favorire una maggiore efficienza dell’attività di vigilanza, per il 2012 sono previsti accordi con i comitati paritetici territoriali (CPT) della regione Marche, per lo svolgimento di corsi di formazione ed aggiornamento del personale ispettivo dell’Arma, sulla scorta delle esperienze attuate in altre regioni d’Italia negli anni passati.
Sono stati altresì forniti i dati sulle violazioni contestate nel corso del 2011 nel settore della sicurezza: delle 34 contestazioni avanzate, 17 riguardavano omissioni di regole di prevenzione per i lavori nelle costruzioni in quota, ossia la violazione del regolare montaggio dei ponteggi; 11 omissioni nell’uso dei dispositivi di protezione individuale, ovvero di altre protezioni e precauzioni; 5 altri tipi di omissioni legate alla prevenzione degli infortuni, come la formazione ed istruzione del personale dipendente; l’osservanza delle norme di igiene e salubrità dei luoghi di lavoro. Inoltre, dall’attività ispettiva dei Carabinieri ispettori del lavoro emergono come aspetti di maggior criticità nei cantieri ispezionati quelli riguardanti la sicurezza e il coordinamento delle attività (dalla redazione dei piani alla loro esecuzione), l’impreparazione professionale dei lavoratori addetti, l’omessa adozione o utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e, in particolare lo scorretto utilizzo delle protezioni contro le cadute dall’alto, che sono poi la principale causa degli infortuni nelle attività edilizie.
Per tali ragioni, il comandante regionale dell’Arma ha evidenziato la necessità di insistere sulla sensibilizzazione e sulla cultura della sicurezza sia tra i datori di lavoro sia tra gli stessi lavoratori. Un altro aspetto rilevato nel contesto dell’azione ispettiva è che la redazione del piano di sicurezza e coordinamento troppo spesso si riduce ad un mero adempimento formale, svuotandolo di quei contenuti sostanziali necessari ad assicurare la sicurezza sui luoghi di lavoro. Per questo motivo, sarebbe opportuno che i piani di sicurezza relativi ad opere la cui durata presunta sia superiore a 1.000 uomini/giorno, siano trasmessi obbligatoriamente almeno 30 giorni prima della data di inizio dei lavori al comitato paritetico territoriale, che ne valuta l’idoneità o l’eventuale necessaria modifica.
Sono state inoltre avanzate alcune proposte tese a una maggiore responsabilizzazione dei datori di lavoro: una maggiore qualificazione con un corso di formazione sulla sicurezza di almeno 32 ore (solo 16 ore per i datori di lavoro che hanno già espletato il corso di 16 ore attualmente previsto), con obbligo di aggiornamento ogni 5 anni; ulteriori strumenti di incentivo economico per chi cura la formazione; la creazione di una sorta di patente a punti del datore di lavoro per gli infortuni e le malattie sul proprio cantiere, corredata di sanzioni per i datori di lavoro più volte risultati inadempienti. Analogamente, la certificazione della qualifica dei lavoratori garantirebbe la presenza di operatori esperti e quindi maggiormente preparati contro i rischi di infortunio. Tale certificazione diviene ancor più impellente se si considera il massiccio utilizzo di lavoratori interinali i quali spesso vengono inviati presso aziende, perlopiù di natura artigianale, senza neppure che sia stato prospettato loro il rischio specifico dell’attività che si apprestano ad affrontare. Ad esempio, esiste l’obbligatorietà di un corso di 14 ore per gli installatori di ponteggi. Infine, è stato precisato che non vi sono, fortunatamente, fenomeni rilevanti di infiltrazione della criminalità organizzata nella Regione, anche se l’attenzione è sempre vigile.
Il direttore regionale dei Vigili del fuoco, a sua volta, ha richiamato i compiti istituzionali del Corpo, ovvero il soccorso tecnico urgente (nel quale si inquadrano anche gli interventi legati agli infortuni sul lavoro) e la prevenzione incendi, recentemente rinnovata con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1º agosto 2011, n. 151, che semplifica gli adempimenti per utenti e cittadini, pur mantenendo inalterati i livelli di sicurezza.
Per quanto riguarda l’azione svolta nella regione Marche, è stata confermata la forte sinergia con gli altri enti, testimoniata ad esempio dalla giornata provinciale per la sicurezza sul lavoro organizzata nella provincia di Pesaro-Urbino con il concorso di tutti i soggetti istituzionali e sociali, che ha favorito un’ampia opera di sensibilizzazione di studenti e cittadini. È stata poi citata l’attività di esercitazione svolta soprattutto sulle grandi opere infrastrutturali attualmente in corso sul territorio marchigiano (per esempio, in galleria nel quadrilatero stradale Marche-Umbria), allo scopo di verificare eventuali criticità su cui intervenire e di testare il grado di conoscenza del personale.
Il direttore regionale dei Vigili del fuoco si è poi soffermato sulle attività ispettive, ricordando che, a parte gli interventi su segnalazione, le stesse avvengono in genere a campione o in particolari settori su indicazione del Dipartimento nazionale, anche per le limitate risorse di personale del Corpo in relazione ai numerosi compiti ad esso affidati (anzitutto il soccorso). Una recente direttiva del Dipartimento nazionale ha comunque affidato ai prefetti il compito di coordinare l’attività di prevenzione e sorveglianza dei Vigili del fuoco in ambito provinciale anche ai fini della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, il che rafforza ulteriormente il coinvolgimento dei Vigili del fuoco e la collaborazione con gli altri organismi preposti. Al riguardo, un esempio importante è il protocollo d’intesa in corso di definizione con l’INAIL, la Polizia stradale, l’ANAS e le province per contrastare il fenomeno degli infortuni sul lavoro che avvengono su strada e che nelle Marche sono molto frequenti, sia in itinere che in occasione di lavoro.
Nella successiva audizione i rappresentanti delle organizzazioni sindacali hanno confermato preliminarmente la buona collaborazione esistente tra istituzioni e parti sociali nella regione Marche nel campo della tutela della salute e sicurezza sul lavoro. In particolare, il comitato regionale di coordinamento, costituito ai sensi del decreto legislativo n. 81 del 2008, ha svolto fino ad oggi un’attività di programmazione e di coordinamento giudicata complessivamente adeguata. Tra le iniziative attivate in questo ambito, è stata ricordata la costituzione presso l’INAIL di un comitato misto tra i sindacati e gli enti bilaterali dell’artigianato e la Confapi (Confederazione italiana della piccola e media industria privata), che svolge una serie di attività, tra cui spicca la formazione per i rappresentanti del lavoratori per la sicurezza (RLS), che nella regione coinvolge circa 800 RLS e vede la collaborazione di INAIL, Regione Marche e di tutte le parti sociali. Ancora è stato citato il progetto «Impresa sicura» che ha lo scopo di produrre materiale informativo e formativo per le imprese e per i lavoratori del comparto artigianato e che conta anch’esso su una collaborazione con la Regione e l’INAIL. Da segnalare inoltre il grande investimento nelle Marche per la formazione continua dei lavoratori sulla sicurezza, finanziato dai fondi interprofessionali con un volume di risorse molto ingente, pari a circa 18 milioni di euro.
Un fatto molto rilevante è poi la sottoscrizione nelle Marche (avvenuto il 28 novembre 2011) dell’accordo attuativo dell’intesa nazionale sui rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali (RLST) dell’artigianato, che contribuirà al rafforzamento del ruolo di queste figure, molto importanti nelle imprese di piccole dimensioni. Su questo stesso tema ci sono invece ritardi con le altre associazioni datoriali, sia a livello nazionale che locale: a livello nazionale, ad esempio, non sono stati ancora siglati accordi di questo tipo con Confindustria e, pur essendo stati fatti con Confapi, devono essere ancora riportati sul territorio. Malgrado i progressi compiuti, rimangono quindi alcune difficoltà nel contrasto agli infortuni, che sono tuttora un fenomeno rilevante. Non sta decollando, ad esempio, la rappresentanza territoriale per le piccole imprese al di fuori dell’artigianato e dell’edilizia, nonostante il testo unico lo preveda, anche con una forma di sostegno finanziario. Ciò significa che, a parte questi settori, risulta difficile garantire un minimo di presenza in tutte le piccole aziende, in cui non è presente il RLS. Si tratta di un problema la cui risoluzione dipende però anche dall’attivazione a livello centrale dei canali finanziari, dai versamenti all’INAIL e dalla sottoscrizione di appositi accordi quadro.
I sindacati hanno inoltre lamentato con forza il fatto che, malgrado il Consiglio di indirizzo e vigilanza (CIV) dell’INAIL nazionale abbia dato disposizione di fornire ai territori l’elenco dei RLS eletti nelle imprese e comunicati all’INAIL, né i sindacati, né l’INAIL regionale e la Regione dispongono di questi dati. Si tratta però di un passaggio fondamentale per poter sviluppare tutte le attività di prevenzione e formazione in tema di sicurezza: l’INAIL nazionale, più volte sollecitata a comunicare questi nomi, o non ha risposto o si è trincerata dietro motivi di privacy, che appaiono però non plausibili, trattandosi di una disposizione di legge.
Nella regione Marche si parla di 18.000 RLS, di cui però non si conoscono i nominativi: si tratta di una situazione assurda alla quale occorre porre termine, obbligando l’INAIL nazionale ad adempiere quanto prima.
Le organizzazioni sindacali si sono poi soffermate sui problemi di attuazione del testo unico riscontrati nella realtà locale. Da un lato, c’è la difficoltà già ricordata di costruire un sistema partecipato con tutte le associazioni, con alcune delle quali si registrano ancora notevoli ritardi. Altri aspetti segnalati riguardano l’utilizzo delle risorse recuperate attraverso le sanzioni amministrative alle imprese, che sia la legge nazionale che quella regionale prevedono debbano essere reinvestite nell’attività di prevenzione.
Purtroppo finora nella regione Marche, a parte qualche caso sporadico, ciò non è avvenuto e queste risorse sono andate di fatto perse nel «calderone» generale dei bilanci della sanità regionale, il che non aiuta certamente la prevenzione. Si è quindi sottolineato il problema della sicurezza nei cantieri delle grandi opere della Regione, dal «Quadrilatero» alla terza corsia dell’autostrada A14. Malgrado sia stato siglato un importante accordo quadro tra sindacati e Regione, molte delle azioni previste per il rafforzamento delle strutture adibite alla sorveglianza e al pronto intervento non sono state attuate. Si tratta di un fatto preoccupante, considerato anche che il decentramento e la frammentazione dei cantieri edili rende difficile assicurare una presenza costante.
Sostanzialmente, pur confermando l’ottimo rapporto con le istituzioni preposte, i sindacati hanno fatto notare che gli enti stessi sono organizzati sul territorio in diverse articolazioni, con alcune delle quali si riesce a collaborare, in maniera anche eccellente, mentre con altre si incontrano più difficoltà ed ostacoli. Uno dei fattori di maggiore criticità riguarda l’insufficienza degli organici e delle risorse dei servizi ispettivi che, pur molto attivi, non riescono a coprire tutti i siti produttivi, con il rischio che alcune aziende, sentendosi al riparo dai controlli, siano indotte ad aggirare le norme. Questo è un rischio molto concreto nelle Marche, dove il tessuto produttivo è formato da numerose imprese di piccole dimensioni.
Purtroppo, malgrado siano stati sottoscritti vari accordi e protocolli, la cultura della sicurezza stenta ad entrare nelle realtà aziendali più piccole, e spesso gli stessi enti locali, deputati a rilasciare certificazioni ai fini della sicurezza, sono latitanti. A ciò si aggiungono gli effetti della crisi economica che, al di là delle cifre ufficiali, hanno inciso pesantemente sull’occupazione: in queste condizioni molte persone, disoccupate o magari anche in cassa integrazione, si prestano facilmente a fare lavori in nero e si espongono a gravi rischi per la sicurezza. Altro problema è quello della debolezza della posizione dei rappresentanti dei lavoratori della sicurezza: anche dove essi sono presenti, infatti, spesso le loro osservazioni non sono prese in considerazione nella redazione del documento di valutazioni dei rischi, così come anche le eventuali denunce o segnalazioni di situazioni irregolari o rischiose non sempre trovano attenzione presso gli organi preposti. Un caso emblematico è quello delle linee guida sulla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato: molto spesso tale valutazione non è fatta, per cui occorre una normativa che dia indicazioni precise ai privati e agli stessi enti locali o la disposizione rischia di rimanere inapplicata.
Infine, i sindacati hanno ricordato l’incremento degli incidenti sul lavoro nelle scuole, cresciuti nelle Marche del 31 per cento tra il 2009 e il 2010. Ciò deriva anche da una palese violazione delle norme che stabiliscono il numero massimo di alunni per classe, posto che l’affollamento è di gran lunga superiore e comporterebbe, nella maggior parte delle scuole, la decadenza del certificato di agibilità e di quello di prevenzione incendi.
Peraltro, secondo i dati riportati dai sindacati, solo il 53 per cento delle scuole della Regione possiede il certificato di agibilità e solo il 56 per cento quello di prevenzione incendi. La stessa anagrafe dell’edilizia scolastica è ferma al 2006. Occorre quindi prevedere un piano organico di manutenzione e di ristrutturazione, ma purtroppo le competenze sono frammentate tra regione, province e comuni, a seconda della titolarità, e questo crea in molti casi una paralisi di tutti gli interventi. Si dovrebbe allora almeno consentire alle singole scuole di fare autonomamente la manutenzione ordinaria. Nelle Marche vi sono in media 23 alunni per classe, ma si tratta di un rapporto molto sperequato fra le zone interne della Regione, dove esistono classi anche con pochissimi studenti, e quelle costiere, dove si arriva anche a 33-34 alunni per classe. Il problema è quello degli spazi fisici, che sono molto inferiori a quanto prevedono le norme vigenti. Naturalmente, gli incidenti riguardano tutte le categorie presenti negli edifici scolastici: nel 2010, ad esempio, si sono avuti circa 380 infortuni per gli insegnanti e oltre 3.000 per gli studenti.
Nell’ultimo incontro, la Commissione si è poi confrontata con i rappresentanti delle organizzazioni datoriali. Le associazioni agricole hanno introdotto il tema degli incidenti nel loro comparto, legati soprattutto all’utilizzo dei trattori: molti andrebbero adeguati, ma vi sono ostacoli di carattere pratico, principalmente dovuti all’alto costo degli interventi.
La Commissione al riguardo ha richiamato i numerosi approfondimenti da essa svolti sul tema con il concorso dell’INAIL, al cui interno è stato ormai integrato l’ex ISPESL (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro), che ha studiato una serie di misure per adeguare i trattori – anche quelli vecchi – con costi molto contenuti. Inoltre, l’INAIL ha messo a disposizione una serie di fondi per gli investimenti a favore della sicurezza, ma il meccanismo comunitario del «de minimis» ne limita fortemente l’utilizzo nel caso del settore agricolo, per cui la Commissione si sta confrontando con l’Unione europea per cercare di superare tale vincolo. Occorre però anche l’aiuto delle associazioni di categoria: la Commissione ha segnalato la necessità di introdurre una patente ad hoc per i trattori, non essendo accettabile che questi siano guidati spesso anche da persone molto anziane o addirittura da ragazzini. Inoltre, l’età media dei trattori agricoli in Italia è molto elevata, talvolta superiore ai quarant’anni.
I rappresentanti del settore agricolo hanno concordato con le considerazioni della Commissione, osservando però che, almeno nelle Marche, gran parte dei trattori hanno un’età media abbastanza bassa e che, comunque, negli ultimi anni gli infortuni in agricoltura si sono fortemente ridotti.
Per quanto riguarda la guida dei mezzi, è del tutto condivisibile il divieto sia per i minorenni che per le persone troppo anziane: per queste ultime, però, occorre tenere conto anche del fatto che nelle campagne gli agricoltori sono sempre meno e quindi gli anziani in pensione sono portati ad aiutare, anche per arrotondare i modesti redditi. Dal punto di vista delle organizzazioni di categoria, resta comunque il problema che molte norme del testo unico, pensate per luoghi di lavoro tradizionali al chiuso, sono di difficile applicazione nel caso delle attività agricole che si svolgono essenzialmente all’aperto, per cui occorrerebbe maggiore flessibilità da questo punto di vista. In merito ai trattori, si è infine fatta presente l’opportunità di distinguere quelli cingolati da quelli gommati, essendo i primi molto più pericolosi, anche perché spesso neanche i modelli nuovi hanno la cabina di protezione, che è invece indispensabile.
I rappresentanti del settore dell’artigianato hanno sottolineato come nelle Marche negli ultimi anni l’atteggiamento delle aziende del comparto (in massima parte di piccole o piccolissime dimensioni) verso la sicurezza sia molto cresciuto. Sia pure con le difficoltà ancora esistenti, nella Regione esiste un buon rapporto di collaborazione tra le istituzioni e le parti sociali, che ha dato i suoi frutti anche in termini di riduzione degli infortuni.
Peraltro, tra i casi mortali la causa principale è quella degli incidenti stradali, sia in itinere che in occasione di lavoro: si tratta di un problema che attiene anche alla cattiva qualità delle rete viaria, che non è cresciuta in maniera adeguata allo sviluppo economico della Regione. Nell’artigianato vi è tradizionalmente un rapporto molto stretto con i sindacati, grazie all’opera dei comitati paritetici, costituiti bilateralmente dalle associazioni datoriali e dalle rappresentanze sindacali, che vigilano e svolgono una serie di azioni, dalla prevenzione alla formazione sul tema della sicurezza, che funzionano molto bene.
Per quanto riguarda la normativa sulla sicurezza, è stato lamentato il fatto che si privilegino ancora troppo gli adempimenti formali rispetto a un approccio più sostanziale. Esiste un’attività di controllo molto seria da parte dei vari organismi, e le imprese collaborano, ma quelle più piccole fanno comunque fatica a stare dietro a questa mole di adempimenti, che per loro rappresentano un costo elevato. Serve quindi introdurre una maggiore semplificazione, affinché le norme siano comprensibili ed efficienti, perché la singola impresa non sempre riesce a coglierle. Un altro tema richiamato è stato quello della formazione prevista in materia dal decreto legislativo n. 81 del 2008: le organizzazioni artigiane sono molto attive su questo fronte, ma si deve ancora fare molto, specie per la formazione dei dipendenti. La difficoltà reale è che la formazione va fatta in orario di lavoro e questo comporta che imprese di piccole dimensioni, magari con uno o due dipendenti, nei giorni di formazione sono costrette a chiudere. Infine, si è sollecitata l’approvazione del disegno di legge che disciplina la professione di costruttore edile, che servirebbe a garantire una maggiore qualificazione delle imprese del settore.
Da ultimo, i rappresentanti del settore industriale si sono soffermati su alcune norme tecniche contenute nel testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Al riguardo hanno segnalato la messa a punto, insieme con l’INAIL, di un programma informatico in grado di aiutare le imprese a gestire i vari adempimenti in materia, sottolineando l’opportunità di istituire un sistema di premialità a favore delle aziende che hanno elevato i loro livelli di sicurezza, ad esempio applicando le norme ISO 12001. Esistono poi delle incongruenze nel testo unico, laddove ad esempio fissa come riferimento per la movimentazione dei carichi le normativa tecnica ISO 11228, la cui manualistica però (che usano anche gli enti di controllo) si può acquistare solo a pagamento, con costi molto elevati. La proposta è allora quella di prevedere in questi casi l’emanazione di linee guida o buone prassi che possano essere messe a disposizione delle imprese, specie di quelle più piccole che hanno minori risorse. Un altro problema segnalato riguarda l’elaborazione dei piani operativi della sicurezza (POS) che dovrebbero essere fatti in maniera adeguata, ma che spesso si riducono a mere attestazioni cartacee: per di più spesso le imprese sono costrette a rivolgersi a consulenti esterni, molto costosi. Infine, è stata sottolineata la necessità di garantire una gestione il più possibile uniforme delle procedure dei controlli ispettivi a livello regionale, essendovi a volte delle differenze nelle modalità di verifica che risultano poco coerenti.
La Commissione ha confermato la propria disponibilità a valutare, per quanto di propria competenza, proposte tese a semplificare e migliorare gli adempimenti legati al decreto legislativo n. 81 del 2008, specie per le imprese di minori dimensioni, invitando le associazioni di categoria interessate ad avanzare suggerimenti ed indicazioni precise in questo senso. In merito alle difficoltà segnalate per lo svolgimento delle attività di formazione per le imprese di piccole dimensioni, queste potrebbero essere in parte risolte avvalendosi in modo più ampio dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali, ancora non adeguatamente valorizzati. Per quanto riguarda poi il reperimento di alcune specifiche norme tecniche, tali problemi potrebbero essere superati attraverso le organizzazioni di categoria, che potrebbero mettere a disposizione dei loro associati i necessari supporti informativi, anche per limitare il ricorso delle imprese a consulenti esterni, per i quali (come per i formatori della sicurezza) si pone spesso anche il problema di come valutare la relativa professionalità.
Infine, circa la necessità di uniformare le procedure di controllo e verifica degli enti ispettivi a livello regionale, la Commissione ha ricordato che tale esigenza può essere affrontata opportunamente nell’ambito del comitato regionale di coordinamento, che ha anche questa specifica competenza e del quale fanno parte pure le rappresentanze delle parti sociali.


5. Considerazioni conclusive

A conclusione di questa relazione sul terzo anno di attività della Commissione, appare utile formulare alcune riflessioni e proposte, per evidenziare le principali questioni ancora aperte in materia di salute e sicurezza del lavoro, sulle quali la Commissione ritiene opportuno richiamare l’attenzione e gli sforzi dei vari soggetti competenti, pubblici e privati, nonché per tracciare le direttrici lungo cui intende continuare la sua inchiesta. Il primo aspetto fondamentale riguarda naturalmente il completamento, in tempi rapidi, dell’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, anche alla luce delle successive modifiche e integrazioni. Come ricordato, gran parte del lavoro è ormai stata fatta: il quadro istituzionale degli organismi chiamati a governare, a livello centrale e periferico, il sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro è stato completato e occorre solo concludere l’emanazione degli atti normativi secondari ancora rimanenti – peraltro quasi tutti già istruiti – destinati a regolare specifici settori di attività lavorativa. Tra gli altri, è essenziale avviare quanto prima il Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), la banca dati che dovrà riunire tutte le informazioni inerenti agli infortuni sul lavoro, alle malattie professionali e alle attività di prevenzione e vigilanza svolte dai vari enti competenti. Il Sistema sarebbe dovuto partire da tempo, ma ha subito gravi ritardi: finalmente, però, il 21 dicembre 2011 la Conferenza Stato-regioni ha espresso parere favorevole sullo schema di decreto interministeriale che ne regola il funzionamento, pertanto è auspicabile a questo punto che non vi siano ulteriori rinvii.
Completare l’attuazione del testo unico significa però anche – e forse soprattutto – garantirne la piena applicazione in tutti i settori e in tutte le parti del Paese, superando talune asimmetrie e contraddizioni che ancora permangono. A livello settoriale, mentre nelle grandi attività industriali la normativa è stata complessivamente recepita, essa trova tuttora resistenze e ritardi nei settori dove maggiore è la concentrazione delle piccole o piccolissime imprese come edilizia, agricoltura e artigianato, che non a caso sono anche i comparti con il maggior numero di infortuni (anche mortali), le cui prime vittime sono spesso proprio i titolari delle aziende.
Fattori di carattere organizzativo e culturale, sommati agli effetti della recente crisi economica, ostacolano un’applicazione completa delle disposizioni a favore della salute e della sicurezza sul lavoro, incoraggiando anche fenomeni di irregolarità, in particolare di lavoro sommerso.
Occorre allora intervenire maggiormente in queste realtà, non solo con un rafforzamento dei controlli, ma anche attraverso processi di formazione e di coinvolgimento: a tal fine, strumenti certamente utili e da potenziare sono gli organismi paritetici e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, aziendali e territoriali. Si tratta quindi di «illuminare gli angoli bui» che ancora esistono nel tessuto economico-produttivo del nostro Paese, in una battaglia di civiltà alla quale la Commissione d’inchiesta intende contribuire con decisione, sollecitando l’impegno e la coesione di tutti gli attori istituzionali e sociali.
L’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008 riguarda anche la dimensione territoriale, legata soprattutto alle nuove competenze assegnate alle istituzioni regionali, in termini di programmazione, coordinamento e vigilanza. L’inchiesta della Commissione, attraverso le numerose missioni compiute sul territorio, ha confermato purtroppo che permangono ancora molte, troppe differenze e disomogeneità tra le varie regioni, alcune delle quali procedono a volte attraverso scelte organizzative diverse. Il principale punto dolente è quello dei comitati regionali di coordinamento: tali organismi recepiscono gli indirizzi e le politiche nazionali di prevenzione e contrasto agli infortuni e alle malattie professionali e gestiscono le relative azioni in ambito locale, assicurando quindi il necessario raccordo sia tra il livello decisionale statale e periferico, sia tra gli enti territoriali competenti.
Pur essendo ormai insediati in tutte le Regioni, tuttavia, i comitati non sempre funzionano come dovrebbero: la loro convocazione non avviene con la cadenza prevista e l’attività è a volte lacunosa, specie riguardo alla collaborazione e alla sinergia tra gli enti. Tali ritardi però indeboliscono oggettivamente le azioni di prevenzione e contrasto a favore della sicurezza sul lavoro. Inoltre, le regioni non hanno inviato le previste relazioni ai ministeri centrali e alcune (specie quelle ad autonomia speciale) hanno adottato modelli organizzativi diversi per i comitati e più in generale per l’attività di prevenzione.
Questa tendenza a proporre soluzioni diverse, anche in relazione alla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, aumenta la confusione e rischia di produrre un’applicazione non uniforme della normativa tra le varie parti d’Italia, il che non è assolutamente accettabile. Allo scopo di accrescere la consapevolezza su questi temi, la Commissione ha cercato con forza un dialogo diretto con i rappresentanti delle regioni e delle province autonome, sia attraverso la Conferenza nazionale che nei singoli territori.
Essa intende continuare in questa sua opera, per rilanciare il ruolo dei comitati regionali di coordinamento e contribuire a superare le lacune e le differenze ancora esistenti tra i diversi territori del nostro Paese.
Tali considerazioni si legano all’esigenza di rafforzare ulteriormente la collaborazione tra i soggetti istituzionali statali e non statali, anche sul fronte dei controlli e della repressione delle infrazioni, mediante un’applicazione equilibrata ma rigorosa delle sanzioni. La Commissione auspica che si prosegua con decisione in questa azione, rafforzando il coordinamento tra gli enti ispettivi e la collaborazione con le forze dell’ordine e gli organi di polizia locale, in modo da accrescere l’efficacia e l’uniformità dei controlli. La banca dati del SINP potrà certamente contribuire in questo senso, aiutando a programmare meglio gli interventi e la vigilanza su base territoriale ed eliminando duplicazioni e sovrapposizioni.
A tal fine, è auspicabile l’adozione di procedure e verbali unificati di rilevazione da parte di tutti gli organi ispettivi.
La Commissione ha confermato la propria volontà di contribuire, nell’ambito delle proprie competenze, a definire gli interventi più appropriati per ridurre la grave piaga degli incidenti nel settore agricolo legati all’uso dei macchinari, agendo su due aspetti. Il primo è quello degli adeguamenti normativi per rendere più severi e stringenti i requisiti sia dei conducenti (mediante l’introduzione di patenti ad hoc), sia dei mezzi agricoli (imponendo a tutti l’obbligo dei dispositivi di sicurezza e delle revisioni periodiche).
La Commissione si è fatta parte attiva presso le amministrazioni competenti, per identificare le modifiche più idonee da apportare alla legislazione vigente: senza penalizzare le categorie interessate, si vuole però mettere ordine in settore dove esistono gravi lacune. A ciò si dovrà poi accompagnare una campagna mirata di sensibilizzazione e di formazione rivolta agli utilizzatori dei mezzi agricoli, di tipo professionale e non.
Il secondo aspetto è quello delle agevolazioni per la sostituzione e, soprattutto, per la messa in sicurezza dei mezzi stessi. Al fine di garantire un uso più efficiente delle risorse finanziarie già disponibili o di futuro stanziamento, occorre superare i vincoli imposti nel settore agricolo dal meccanismo comunitario del «de minimis» relativo ai limiti degli aiuti di Stato. A tal fine la Commissione intende portare avanti un’apposita proposta normativa – già sottoposta agli uffici dell’Unione europea di concerto con il competente Dipartimento per le politiche comunitarie – che mira ad escludere dalle limitazioni del regime comunitario degli aiuti di Stato tutte le agevolazioni volte ad accrescere la sicurezza delle macchine e attrezzature da lavoro, di qualunque settore, al fine di favorirne un migliore utilizzo. Auspicando il sostegno del Governo e del Parlamento in questa azione, la Commissione intende giungere in tempi rapidi a un testo consolidato che possa poi essere trasfuso in un disegno di legge formale, da sottoporre al necessario iter di approvazione legislativa.
In relazione alla procedura di infrazione aperta recentemente dall’Unione europea contro l’Italia per alcune norme contenute nel decreto legislativo n. 81 del 2008, in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, la Commissione d’inchiesta auspica che il Governo fornisca risposte sollecite ed esaurienti alle relative contestazioni, assumendo tutte le iniziative necessarie ad evitare una condanna del nostro Paese. In proposito, la Commissione d’inchiesta intende continuare a seguire la questione, per i profili di propria competenza, al fine di contribuire a una positiva conclusione della vertenza.
L’inchiesta della Commissione ha confermato l’esistenza di preoccupanti lacune nella normativa del settore delle attività pirotecniche, soggette ad un elevato grado di rischio e funestate, negli ultimi anni, da un altissimo numero di incidenti, quasi sempre mortali, come testimoniato anche da alcuni eventi recenti. Tali lacune riguardano in particolare l’accertamento dell’idoneità tecnica degli operatori (titolari e dipendenti) ed il relativo regime di autorizzazione; la sicurezza dei luoghi e degli ambienti di lavoro, anche sotto il profilo delle condizioni microclimatiche; l’iscrizione degli impianti per la produzione di fuochi d’artificio in una adeguata categoria di rischio; l’obbligatorietà della formazione e dell’aggiornamento professionale, che dovrebbe essere svolta a cura e a spese dei titolari delle aziende senza oneri per l’amministrazione. Vi è poi il problema dell’osservanza del divieto di accesso agli impianti per i non addetti ai lavori; dell’obbligo di bonifica e rimozione di tutti i manufatti contenenti amianto; e dello svolgimento di controlli periodici negli stabilimenti in maniera più severa e approfondita. Si tratta di questioni essenziali per tutelare la salute e la sicurezza delle persone, che sollecitano l’adozione di misure conseguenti, in tempi rapidi. A tal fine la Commissione ha promosso un ampio confronto con i competenti organismi del Ministero dell’interno, che si sono attivati elaborando una serie di proposte per le necessarie modifiche di carattere normativo e amministrativo. La Commissione continuerà naturalmente a seguire la questione, nell’intento di giungere quanto prima all’auspicata riforma della regolamentazione, che appare ormai non più rinviabile.
Come riscontrato dalla Commissione, non esiste ancora un’adeguata diffusione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), cui spetta un importante ruolo di garanzia nel sistema della prevenzione disegnato dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Specialmente nelle imprese di piccole dimensioni, si riscontrano ancora delle resistenze, e queste figure sono percepite talvolta con diffidenza o persino con ostilità, anziché in modo collaborativo. Ciò vale anche per i rappresentanti territoriali dei lavoratori per la sicurezza (RTLS), che lo stesso decreto legislativo n. 81 del 2008 ha introdotto per consentire la presenza di queste figure anche nelle realtà di minori dimensioni con pochi o pochissimi lavoratori, attraverso una rappresentanza a livello territoriale o settoriale per più imprese, evitando eccessivi aggravi per le aziende stesse. L’inchiesta condotta nelle varie regioni, inoltre, ha segnalato che talvolta i nominativi dei soggetti eletti come rappresentanti per la sicurezza non vengono resi noti, rendendo difficile per i sindacati e per gli enti preposti rapportarsi con loro ai fini delle attività di prevenzione e di formazione.
La Commissione auspica pertanto che, da parte delle istituzioni, vi sia un’ulteriore e forte valorizzazione del ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza aziendali e territoriali, anche attraverso idonee forme di pubblicità, al fine di favorire una sempre maggiore diffusione della cultura della sicurezza, anche tra le imprese di minori dimensioni.
La Commissione ribadisce l’importanza, ai fini della promozione di una vera cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro, della formazione, definita esplicitamente dal testo unico, all’articolo 2, come «processo educativo» attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale (inclusi i datori di lavoro) conoscenze e procedure utili ad accrescere la sicurezza e a ridurre i rischi.
Un problema concreto che si pone nelle attività di formazione è però quello della qualificazione dei formatori, ossia degli esperti chiamati a erogare i relativi insegnamenti: manca infatti ancora una regolamentazione che (come accade per altre figure professionali) definisca chiaramente le competenze, e quindi il percorso di studi ed esperienze, che dovrebbero compiere i soggetti che intendono svolgere l’attività di formatori.
L’assenza di tale disciplina ha creato una situazione confusa, in cui si insinuano a volte soggetti inadeguati che offrono i loro servizi alle aziende, magari a tariffe concorrenziali, danneggiando sia i clienti che i professionisti più seri e qualificati. Senza creare inutili appesantimenti burocratici, ma garantendo comunque la qualità dell’attività formativa, la Commissione intende concorrere a elaborare una specifica proposta normativa, di concerto con le associazioni di settore e previo confronto con i ministeri competenti e con le regioni e le province autonome.
La Commissione segue con attenzione anche gli aspetti della ricerca scientifica e dell’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attraverso un confronto con il mondo accademico e delle associazioni professionali, confidando in una diffusione sempre più ampia di moduli formativi specializzati in tutto il territorio nazionale, come contributo al miglioramento delle strategie di prevenzione. Tale discorso si collega naturalmente anche all’introduzione dei temi della sicurezza sul lavoro negli insegnamenti scolastici: l’apposita cabina di regia costituita tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e l’INAIL ha assunto importanti iniziative al riguardo, come il recente bando di un concorso che ha coinvolto 800.000 studenti in tutta Italia, per il finanziamento di progetti formativi sulla sicurezza del lavoro. La Commissione sottolinea il carattere prioritario di tale attività nelle scuole, ritenendola indispensabile per la promozione di una vera cultura della sicurezza sul lavoro e auspicando un potenziamento delle iniziative già in corso, sostenute da adeguate risorse, oltre che il passaggio da singoli progetti a moduli didattici regolari all’interno dei programmi scolastici.
Altro tema di attenzione è quello relativo alla sicurezza degli edifici scolastici, dove l’esigenza di tutela dei lavoratori si coniuga con quella degli studenti. Stante anche la vetustà di molti di questi fabbricati, vi sono forti esigenze di manutenzione e di messa a norma, che richiedono appositi interventi da parte dello Stato e degli enti territoriali, visto che la materia rientra in competenze di carattere necessariamente concorrente. La Commissione sollecita quindi un impegno concreto su questo fronte, che garantisca risorse adeguate e consenta anche ai singoli istituti, nell’ambito dell’autonomia scolastica, di fare le operazioni di manutenzione più urgenti.
Più in generale, la Commissione richiama l’attenzione sul problema dell’adeguatezza degli edifici pubblici, considerando che i luoghi nei quali sono ospitate le pubbliche amministrazioni (ospedali, scuole, amministrazioni comunali, ecc.) sono spesso non idonei o addirittura fatiscenti, il che ha evidenti implicazioni sulla sicurezza dei lavoratori. Anche in tal caso serve una specifica campagna di interventi, con l’appostamento di idonee risorse finanziarie. Uno strumento che potrebbe agevolare le azioni è la reintroduzione del «fascicolo del fabbricato» per gli edifici pubblici, così da avere la mappatura completa della storia di ciascuna costruzione.
Accanto al fenomeno degli infortuni sul lavoro, la Commissione conferma il suo impegno per la prevenzione e il contrasto delle malattie professionali. È auspicabile una emersione sempre più vasta delle cosiddette «malattie perdute» che ancora sfuggono alla rilevazione, al fine di favorire le attività di prevenzione e di sorveglianza sanitaria. A tal fine la Commissione sottolinea ancora una volta l’importanza di coinvolgere, oltre ai medici competenti e specialisti, anche quelli generici e di base, e di promuovere campagne di sensibilizzazione dei lavoratori. Auspica inoltre uno snellimento delle procedure di riconoscimento e indennizzo da parte dell’INAIL, soprattutto per le patologie più gravi come quelle legate all’amianto e per le patologie cosiddette «non tabellate».
In questo contesto, assume particolare rilievo il crescente contenzioso dell’INAIL per il recupero dei contributi assicurativi non versati dalle imprese, per il quale occorre l’intervento deciso del Governo. Oltre al danno economico, si crea una concorrenza sleale da parte delle imprese morose nei confronti di quelle regolari, che non può essere tollerata. L’allargamento della base contributiva potrebbe inoltre consentire un abbassamento dei premi assicurativi versati dalle imprese.
Infine la Commissione chiede una maggiore attenzione alla tutela delle posizioni più deboli che necessitano di azioni di intervento mirate. In primo luogo c’è il problema dei lavoratori immigrati, che provenendo in genere da contesti linguistici e culturali assai diversi da quello italiano, trovano maggiore difficoltà a integrarsi nel contesto lavorativo e ad essere sensibilizzati rispetto ai temi della sicurezza. A ciò si aggiunge naturalmente una posizione oggettivamente più vulnerabile che li espone anche a fenomeni di sfruttamento quali il caporalato o il lavoro nero. Accanto al contrasto al lavoro illegale, serve dunque anche una specifica attività di formazione/informazione verso questi soggetti, che tenga conto delle loro peculiari caratteristiche.
Altro grande tema di attenzione è poi la salvaguardia del diritto dei lavoratori e delle lavoratrici alla paternità e alla maternità. A tal fine, oltre alla necessità di azioni mirate per accrescere le opportunità di inserimento nel mondo del lavoro (specie per le donne, i cui tassi di disoccupazione sono tuttora molto più alti di quelli maschili, soprattutto nelle regioni del Centro-Sud), si pone l’esigenza di garantire la salubrità degli ambienti di lavoro e la protezione nelle attività a maggior rischio contro i possibili danni biologici, nonché di promuovere condizioni tali da permettere di conciliare la situazione lavorativa con quella familiare.
Ancora una volta, la Commissione deve poi richiamare con forza l’attenzione sul settore degli appalti e dei subappalti, uno dei più critici per il rispetto delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Gli eccessivi ribassi che continuano a riscontrarsi nelle offerte, sia in fase di progettazione che di realizzazione dei lavori, rischiano di comprimere i costi della sicurezza e di abbassare la qualità delle prestazioni, malgrado le disposizioni in materia. Ciò vale soprattutto nel settore privato, dove non esistono regole cogenti per gli appalti, ma anche in quello pubblico, dove il ricorso assai esteso al meccanismo del massimo ribasso d’asta (incoraggiato anche dalle esigenze di risparmio delle pubbliche amministrazioni e dalla maggiore semplicità della formula) crea spesso gravi distorsioni, specie nelle catene più lunghe dei subappalti.
Attesa la difficoltà, per i vincoli comunitari esistenti in materia, di modificare le norme vigenti per eliminare o quanto meno limitare il ricorso al massimo ribasso quale criterio di valutazione delle offerte, occorre trovare sistemi (come l’offerta economicamente più vantaggiosa, che la legge già consente in alternativa al massimo ribasso) che valutino non solo gli elementi meramente economici, ma anche qualitativi, assicurando quindi pure una selezione delle imprese più qualificate e capaci. A ciò si potrebbe pervenire adottando formule di verifica come gli indici di congruità del costo del lavoro e criteri di valutazione integrativi di quelli esistenti come, per fare un esempio, quello della «media mediata».
Parimenti, si impone la necessità di rafforzare il regime dei controlli da parte delle amministrazioni appaltanti, sia nella fase preliminare di valutazione delle eventuali anomalie di offerta che nelle fasi successive di esecuzione delle opere, nei confronti dell’appaltatore principale come pure dei subappaltatori. È infatti nella catena dei subappalti che ricorrono le maggiori violazioni della sicurezza sul lavoro e i più gravi incidenti, spesso mortali. La Commissione auspica a tal fine un potenziamento delle strutture amministrative, con una maggiore preparazione e tutela del personale preposto alla gestione delle gare, anche contro le minacce di contenzioso delle aziende. Una soluzione potrebbe essere quella di creare stazioni appaltanti uniche per varie amministrazioni, ad esempio per i comuni di una stessa provincia, così da poter avere una maggiore «massa critica» e gestire gli appalti in modo centralizzato e più efficiente, anche come controlli.
Negli appalti privati, l’assenza delle procedure e dei controlli più severi previsti per il settore pubblico fa sì che la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sia molto più frequente e difficile da arginare.
Il problema riguarda soprattutto l’edilizia e si lega al tema della regolamentazione della professione di imprenditore edile, per il cui esercizio non sono oggi previsti particolari requisiti di esperienza, preparazione tecnica o struttura organizzativa, essendo sufficiente, nella maggior parte dei casi, una semplice iscrizione alla Camera di commercio. Il rischio è anche che imprese o lavoratori autonomi non qualificati possano svolgere lavori, anche di notevole rilievo, offrendo prezzi più bassi in concorrenza sleale con le imprese meglio organizzate, spesso a discapito del rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro. La Commissione intende quindi concorrere, in collaborazione con le organizzazioni di categoria e in stretto raccordo con i ministeri competenti, a definire una regolamentazione della figura dell’imprenditore edile che, senza limitare la libertà d’iniziativa privata, assicuri una maggiore qualificazione degli operatori del settore.

 


 


1 In passato, il Parlamento aveva già affrontato, per mezzo di apposite Commissioni d’inchiesta o indagini conoscitive, il tema della sicurezza sul lavoro. In particolare, nella X legislatura, venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta del Senato «sulle condizioni di lavoro nelle aziende», presieduta dal senatore Lama, la quale operò tra il 1988 ed il 1989. Durante la XIII legislatura, negli anni 1996-1997, la 11a Commissione permanente del Senato (Lavoro e previdenza sociale) e la XI Commissione permanente della Camera (Lavoro pubblico e privato) svolsero congiuntamente un’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro. Nel corso della medesima legislatura, dal 1999 al 2000, la 11ª Commissione del Senato condusse una nuova indagine conoscitiva, ai fini della «verifica della situazione a due anni» dalla precedente indagine.
2 Si veda in proposito il paragrafo 3.6.
3 Della questione della messa in sicurezza delle macchine e delle attrezzature di lavoro in agricoltura e dei relativi incentivi, si parlerà in dettaglio più avanti, nel paragrafo 3.1.
4 La norma prevede la presenza dei rappresentanti, territorialmente competenti: dei servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro delle aziende sanitarie locali, dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA), dei settori ispettivi del lavoro delle direzioni regionali del lavoro, degli ispettorati regionali dei Vigili del fuoco, delle agenzie territoriali dell’Istituto superiore per la sicurezza sul lavoro (ISPESL), degli uffici periferici dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), degli uffici periferici dell’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA), degli uffici periferici dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), dell’Associazione nazionale dei comuni d’Italia (ANCI), dell’Unione province italiane (UPI) e dei rappresentanti degli uffici di sanità aerea e marittima del Ministero della salute nonché delle autorità marittime portuali ed aeroportuali.
5 Su questa iniziativa la Commissione aveva già svolto una specifica audizione nella seduta del 23 marzo 2011, di cui si parla nel paragrafo 3.4.
6 In occasione della presentazione del Rapporto Annuale 2010 era stato indicato per gli infortuni mortali del 2010 un valore di 980 casi. Per consentire un confronto omogeneo con gli infortuni mortali del 2009 (definitivi) erano stati infatti utilizzati non i dati fino ad allora acquisiti (948 casi al 30 aprile 2011), ma stime previsionali del dato definitivo, definite «prudenziali e cautelative». Con il consolidamento dei dati al 31 ottobre 2011, si è poi giunti alla cifra di 973 casi, che rappresenta il dato definitivo.
7 Nei confronti dei dati concernenti gli infortuni mortali, occorre ricordare che nei tassi standardizzati dei vari Paesi della UE sono esclusi, oltre agli infortuni in itinere, anche gli infortuni stradali o a bordo di qualsiasi mezzo di trasporto occorsi in occasione di lavoro. Questi incidenti, infatti, non sono rilevati da tutti gli Stati membri e soprattutto rappresentano una quota molto rilevante del totale dei casi mortali (nel nostro Paese ben il 30 per cento).
8 Si veda in proposito il paragrafo 2.4.
9 In base alla normativa comunitaria, infatti, per la guida di questi veicoli si prevedono due tipi di patente, la patente A per i trattori leggeri di cui all’articolo 115, comma 1, lettera c) del codice della strada, e la patente B per i trattori di massa maggiore.
10 La Commissione ha audito i rappresentanti dell’associazione AIFOS, assieme alle altre associazioni aderenti alla CIIP, nella seduta del 28 aprile 2010. Si veda in proposito la precedente relazione intermedia.
11 Come ricordato nel paragrafo 2.3, le linee guida per la valutazione dei rischi da stress-lavoro correlato sono state emanate con l’apposita circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 18 novembre 2010.
12 Si veda in particolare la precedente relazione intermedia.
13 Si ricorda, a titolo di esempio, l’esperienza della prefettura di Brindisi, di cui si è parlato nella seconda relazione intermedia della Commissione.
14 In relazione a tale grave incidente, si veda in proposito la seconda relazione intermedia.
15 I dati citati sono tratti dal sito ufficiale dell’AMA S.p.A., www.amaroma.it.
16 La suddetta riforma è stata poi introdotta con il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1º agosto 2011, n. 151, recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi. Il nuovo regolamento, recependo quanto previsto dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in materia di snellimento dell’attività amministrativa, individua le attività soggette alla disciplina della prevenzione incendi ed opera una sostanziale semplificazione relativamente agli adempimenti a carico dei soggetti interessati, in base a un principio di proporzionalità.
Come accennato nel testo, il nuovo regolamento ridefinisce l’elenco delle attività sottoposte ai controlli di prevenzione incendi in tre categorie, A, B e C, classificate in ordine crescente in base alla gravità del rischio piuttosto che alla dimensione o, comunque, al grado di complessità, e stabilisce conseguentemente, per ciascuna categoria, procedimenti differenziati, più semplici rispetto agli attuali, con riguardo alle attività ricondotte alle categorie A e B.
17 La Commissione d’inchiesta si è occupata direttamente di quel tragico incidente: si veda al riguardo la prima relazione intermedia.
18 Per la composizione dei comitati regionali di coordinamento, si rinvia al paragrafo 2.5.
19 La Commissione ha incontrato i rappresentanti dell’AIEA Val Basento nella seduta del 20 aprile 2011. Si veda in proposito il paragrafo 3.5.
20 La norma in questione era quella recata dall’articolo 4, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2011, n. 106). I dubbi interpretativi, richiamati anche nell’audizione di Potenza, sono stati successivamente risolti mediante una serie di modifiche introdotte dall’articolo 44, commi 1-4, del decreto legge 6 dicembre 2011 , n. 201 (convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214).
21 Per un esame dettagliato della normativa che regolamenta attualmente l’esercizio delle attività pirotecniche, si veda il paragrafo 3.2.
22 Del ruolo del Coordinamento tecnico interregionale si è parlato nel precedente paragrafo 2.6.
23 Precisamente, nella seduta dell’11 ottobre 2011, in cui è stata audita l’Association for the Advancement of Radical Behavior Analysis (AARBA). Si veda in proposito il paragrafo 3.4.
24 Si tratta dell’Atto Senato n. 2663, intitolato «Disciplina dell’attività professionale di costruttore edile e delle attività professionali di completamento e finitura edilizia». Della questione si è parlato diffusamente nel precedente paragrafo 3.6.
25 Dell’attuale stato di avanzamento del SINP si è parlato diffusamente nel paragrafo 2.3, al quale si rinvia.
26 Si veda in proposito la nota n. 19 nel paragrafo 4.6.
27 Di tale relazione si è parlato nel paragrafo 2.6.

 


Fonte: Senato della Repubblica