Categoria: Cassazione penale
Visite: 18502

 

Morte di tre lavoratori caduti in una vasca di sollevamento con sostanze pericolose e lesioni di altri tre lavoratori occorsi in loro aiuto. Responsabilità del direttore tecnico non solo per la per  la carenza di una costante  e mirata attenzione per la salvaguardia dei lavoratori ma anche e soprattutto per la completa mancanza  di un' attrezzatura adeguata e funzionale - Sussiste

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Ferruccio SCORZELLI Presidente
" Mauro GOLIA Consigliere
" Renato OLIVIERI "
" Mariano BATTISTI Rel. "
" Giovanna SCHERILLO "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto da n. a Alessandria;
avverso la sentenza della corte di appello di Torino dell'08-06-1994;
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Mariano Battisti
Udito il Pubblico Ministero in persona del dott. Giovanni Palombarini che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito, per la parte civile, l'Avv. -
Uditi i difensor l'avv. che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

Fatto


1 - La corte di appello di Torino, con sentenza dell'08-06-1994, confermava, nei confronti di G. G., nella sua qualità di direttore tecnico del "Consorzio di Bonifica del bacino dello Scrivia", la sentenza del pretore di Tortona in data 02-12-1991, che ne aveva affermato la responsabilità penale per il reato di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche, accertato in Castelnuovo Scrivia il 29-06-1990, in danno di E. Z., P. T., F. B., nonché, nelle stesse circostanze di tempo e luogo, del reato di lesioni colpose in danno di L. A., D. S. e N. M..

2 - La corte di appello accertava che, la mattina di quel giorno, verso le 9,30, nella vasca di sollevamento dei liquami dell'impianto di depurazione di Castelnuovo di Scrivia, tre operai, il B., il T. e lo Z., erano caduti nel piano grigliato protettivo, che si trovava a tre metri di profondità rispetto al piano di campagna, ed erano morti per annegamento.

Altri tre operai, l'A., il S. e il M., che si erano calati nella vasca, raggiungendo il piano grigliato, in soccorso di coloro che erano caduti nel liquame, avevano perduto coscienza e, soccorsi e portati in ospedale, erano stati ritenuti affetti da intossicazione da metano.

3 - Quella mattina - precisava la corte di merito - "a lavorare nella vasca di sollevamento o nei pressi di essa c'erano diversi operai, dei quali alcuni dipendenti del Consorzio, M. Del P., lo Z. il T., l'A., il S. e tale T., mentre erano dipendenti dell'impresa che stava eseguendo dei lavori in quella vasca il B. e il M.".

"I primi avrebbero dovuto verificare, per richiesta del direttore tecnico del consorzio, il G., il funzionamento delle pompe di sollevamento, immerse nel liquame sotto il grigliato, nel settore della vasca di maggior ampiezza - la vasca era stata divisa in due parti -; per i secondi c'era da lavorare ad un ponteggio nel settore di minore ampiezza della stessa vasca".

"Il lavoro dei primi era cominciato alle 8,30 quando Del P. era sceso da solo nella vasca mentre l' A., in superficie, manovrava il carroponte per sollevare le pompe".

"Il Del P. aveva tolto una delle griglie: il compito di rimetterla a posto, dopo la rimozione delle altre e il controllo delle pompe, sarebbe spettato allo stesso Del P. o allo Z.".

La caduta dei tre operai nel liquame e la perdita di coscienza degli altri tre, nel tentativo di soccorrere i compagni, si erano verificate nel corso di queste operazioni.

4 - La corte, fatte queste premesse, si poneva il problema della sequenza delle cadute, che il pretore aveva risolto nell'ordine "Z., T., B.", disattendendo la tesi della difesa, la quale aveva sostenuto che, alla luce degli atti, doveva ritenersi che era caduto per primo, per imprevedibile imprudenza, il B., seguito dalla Z. e dal T., accorsi ad aiutarlo.

Secondo la corte, la tesi della difesa, non poteva essere esclusa, sicché "doveva ammettersi la possibilità che B. fosse caduto dall'alto del setto divisorio e che Z. e T., cercando di salvarlo, fossero caduti nel pozzo dal piano grigliato".

"Certo - aggiungeva - nessuno aveva visto B. avventurarsi sulla sommità del muro e precipitare; ma, era più comprensibile ciò del fatto che, dopo la caduta di Z. e di T., B. non fosse stato visto scendere nella vasca, avesse oltrepassato M., S., e A. scesi nel frattempo a dare una mano, avesse cercato di salvare T. e Z. e fosse, a sua volta, caduto nel liquame".

5 - La corte di appello, poi, affermava che "la presenza nella vasca di sollevamento di gas deleteri era stata ammessa da tutti nel processo, avendo tutti riconosciuto che:

- sul pelo del liquame, in un ambiente aperto, galleggia uno strato di CO2 che va dai 15 ai 35 cm. di spessore;

- agitando la massa liquida si sprigiona una maggior quantità di CO2;

- la presenza di CO2 è da ritenersi costante se pur variabile per spessore;- muovendo la massa del liquame il livello di CO2 non supera i 45, 50 cm. di spessore;

- è possibile che in circostanze estreme lo spessore di CO2 aumenti ancora.

"La quantità dei gas irrespirabili non era, dunque, immutabile, anche se era stato osservato dalle difese che nel passato non si era verificato mai un inconveniente".

"Era intuitivo che su tale quantità influissero parecchie variabili: dalla quantità dei liquami stessi alla loro composizione, dalla intensità del cosiddetto "effetto camino" alla ampiezza della vasca di sollevamento, che proprio in quei giorni era stata divisa con la costruzione di un muro".

"Uno dei difensori - puntualizzava la corte - muovendo dalla tesi che il primo a cadere nel liquame fosse stato, appunto, il B., aveva affermato che lo Z. e il T., calatisi nel pozzo per aiutare chi vi era caduto, caddero a loro volta perché, essendosi il liquame agitato per i corpi che vi si dibattevano, si era formato, sul pelo del liquido, una consistente coltre di anidride carbonica".

"Se tale era la variabilità della quantità dei gas deleteri presenti nella vasca di sollevamento - così la corte - e se la patologia rilevata sull'A. era da collegarsi ad una carenza di ossigeno quale l'espandersi di quei gas provocava, pareva giustificato concludere che a causare gli eventi era stato semplicemente un aumento della quantità di gas deleteri ordinariamente presenti nel detto ambiente".

6 - Se tutto questo era vero, occorreva dire - secondo la corte - che la "presenza di anidride carbonica e di gas similari, in quantità soggetta a variare secondo le circostanze già indicate, riconduceva la vasca di sollevamento alla categoria, prevista dall'articolo 25 del D.P.R. n. 306-1956, degli ambienti caratterizzati dalla pericolosità dell'atmosfera".

"In tale vasca i lavoratori, in mancanza di pratiche con cui si accertasse preventivamente le condizioni necessarie per la vita e di mezzi che garantissero il sicuro risanamento dell'atmosfera, dovevano scendere legati con cinture di sicurezza ed essere vigilati per tutta la durata del lavoro".

"Ciò si trovava riaffermato nel manuale per la gestione e la manutenzione degli impianti consortili, ove, a pag. 75 e ssgg., si leggeva, tra l'altro, che "prima di scendere nel pozzetto i lavoratori avrebbero dovuto indossare l'imbracatura o cintura di sicurezza e legarla ad una fune molto robusta e farsi assistere per tutta la durata dell'intervento da almeno una persona" e che "in caso di incidenti in ambienti chiusi i soccorritori non si sarebbero dovuti precipitare all'interno del pozzetto, in quanto la causa del malore potrebbe essere stata l'asfissia per la presenza di miscele gassose, ma avrebbero dovuto fare risalire l'infortunato con l'aiuto della corda assicurata alla cintola".

"Non si erano, invece, dati ordini in tal senso e tanto meno ci si era preoccupati di ottenere una prassi conforme alle esigenze di sicurezza".

"Ciò va confermato anche con riferimento alla ipotesi, non esclusa dalla corte, che B., fosse caduto per primo, precipitando nel pozzetto dal colmo del muro, perché Z. e T., se la prassi fosse stata quella anzidetta, non sarebbero scesi sul grigliato senza indossare la cintura di sicurezza, che avrebbe dovuto essere già pronta presso la vasca, in cui gli operai si erano già calati e avrebbero dovuti ancora calarsi".

7 - Non v'era dubbio, infine, che la violazione della norma dell'articolo 25 e di quella dell'articolo 4 del D.P.R. n. 547-1955, dovesse essere attribuita al G., il quale, "nell'organigramma dell'ente, aveva mansioni tali che includevano l'ambito della sicurezza del lavoro, cosa, del resto, confermata anche testimonialmente".

Era stato il G., quindi, che aveva avallato quella prassi deleteria, che aveva omesso di controllare, che non aveva impartito direttive e offerto mezzi idonei ai lavoratori.

8 - Ricorre per cassazione il difensore chiedendo l'annullamento della sentenza.


Diritto

1 - Con l'unico motivo si deduce:

a - "Mancanza e manifesta illogicità della motivazione risultanti dal testo stesso del provvedimento impugnato", rilevandosi che "nell'occasione di cui al presente processo l'innalzamento del livello dell'anidride carbonica ristagnante sul liquame fu provocato dalla fortuita e improvvisa caduta del B., cioè da un fatto assolutamente eccezionale e imprevedibile", il che significa anche che "la stessa sentenza offre elementi i quali dimostrano che la vasca di sollevamento in questione non era affatto una fossa pericolosa necessitante le cautele di cui all'articolo 25 del D.P.R. 303-1956".

b - "Violazione di legge penale sostanziale in relazione all'articolo 41, II comma, c.p.", sostenendosi che "la rapidità del succedersi degli eventi e l'immediatezza di ciascuna decisione di portare aiuto avrebbero, comunque, impedito a ognuna delle vittime di adottare le misure e usare le apparecchiature di sicurezza prescritte dall'articolo 25 dello stesso D.P.R.", il che vuol dire che "si ebbe un'interruzione del nesso causale tra mancata predisposizione delle cautele ed eventi idonea ad escludere la responsabilità a norma dell'articolo 41, II comma, c.p.".

a - La tesi della interruzione del nesso di causalità - il rigore logico impone di iniziare da questo secondo tema - è priva di pregio giuridico.

I - Si è già detto che la corte di appello, dopo aver posto in rilievo che gli operai erano stati sempre abbandonati a se stessi, che nelle operazioni di controllo delle pompe della vasca e in tutte le altre che li portavano a scendere in quella fossa si lasciavano guidare dalla "prassi", da una pericolosa prassi, ha precisato che sarebbe stato possibile evitare che era successo "anche con riferimento all'ipotesi, non esclusa dalla corte, che B. fosse caduto per primo, precipitando nel pozzetto dal colmo del muro, perché Z. e T., se la prassi fosse stata quella anzidetta - quella imposta dall'articolo 25 del D.P.R. 306-1956 - non sarebbero scesi nel grigliato senza indossare la cintura di sicurezza, che avrebbe dovuto essere già pronta presso la vasca, in cui gli operai si erano già calati e nella quale avrebbero dovuto calarsi ancora".

II - Il pretore sulla "prassi in uso" è stato più largo di informazioni di quanto lo sia stata la corte di appello, la quale si è potuta limitare all'essenziale anche per la dovizia di notizie, accompagnata da appropriate considerazioni, offerta dal pretore, sicché è utile, prima di fare alcuni rilievi, soffermarsi un attimo su quanto ha sottolineato il primo giudice.

Questi, dopo essersi intrattenuto sulla norma dell'articolo 25 e aver sottolineato, tra l'altro, che a nulla valeva obiettare, come aveva fatto la difesa, che in precedenza nulla era mai successo, visto che era innegabile che la zona, la vasca, fosse a rischio e che "proprio in previsione di siffatto rischio la norma era stata dettata", ha osservato che "non era risultato che qualcuno dei responsabili della azienda o dei preposti si fosse mai preoccupato di controllare periodicamente le condizioni necessarie per la vita per chi accedeva all'interno della vasca; come non era risultato che ci si fosse preoccupati di rendere i lavoratori coscienti del rischio".

"Ma, stupefacente, poi, era la carenza, sul piano lavorativo, di una costante e mirata attenzione per la salvaguardia dei lavoratori". "Basterà, sotto tale aspetto, esaminare la scarsa attrezzatura antinfortunistica sequestrata dai carabinieri presso l'impianto dopo l'infortunio: una maschera a carboni attivi, cinque mascherine bianche di carta, monouso, due cinture di sicurezza piuttosto rudimentali, 15 metri circa di corda senza ganci, nè moschettoni, nè funi di trattenuta; il tutto giacente presso gli uffici del depuratore, a prescindere dall'attrezzatura a disposizione degli elettricisti in dotazione del loro autofurgone".

"L'unica maschera a carboni attivi era stata richiesta dal Del P., della gestione impianti, per la verniciatura".

"Le mascherine di carta monouso rappresentavano un presidio antinfortunistico pressoché simbolico, di nessuna utilità pratica in presenza di gas deleteri".

"Insomma, un'attrezzatura specifica, funzionale e ben differenziata per le svariate esigenze, non era stata neppure presa in considerazione".

"Ma, soprattutto colpiva come quel poco di apparecchi di protezione - tanto per usare un eufemismo - giaceva indisturbato nella palazzina; vale a dire negli uffici, senza mai che alcuno dei lavoratori vi facesse ricorso".

"E ciò coerentemente, del resto, con tutta la "filosofia" antinfortunistica praticata, ai vari livelli, all'interno del depuratore, ove di tutto ci si poteva preoccupare meno che di sottrarre i lavoratori ai rischi inerenti a quel tipo di attività".

"I vari operai, sentiti al dibattimento, hanno unanimemente affermato di non aver mai usato, nè visto usare, cinture di sicurezza".

"L'A. ha aggiunto "nessuno ci ha mai detto di utilizzare cinture di sicurezza, nè ho mai visto cartelli che indicavano di utilizzarle; che io ricordi non ho mai visto utilizzare, da operai del depuratore, cinture o maschere".

"Analoghe affermazioni fecero il S. e il Del P., il quale aggiunse, altresì: credo che dipendesse da noi usare i sussidi antinfortunistici".

"Il T., dopo aver dichiarato "nessuno mi ha mai informato di eventuali rischi nascenti dal lavorare in quella vasca", aggiunse "nessuno mi indicava di volta in volta se e quali strumenti antinfortunistici dovessi usare, era lasciato alla mia discrezione"; e disse che gli era stato dato un manuale che aveva "solo sfogliato". III - Ebbene, se tutto questo è vero, lo Z. e il T. han fatto quello che han fatto - precipitarsi nella vasca senza prendere la minima precauzione - perché colui sul quale gravava, ex lege, l'obbligo di garantirli, di proteggerli dalla "fonte di pericolo", rappresentata dalla vasca, non li aveva, secondo quanto hanno accertato i giudici di merito, mai garantiti, mai protetti.

È noto che la giurisprudenza di questa suprema corte, interpretando il testo fondamentale in tema di norme antinfortunistiche - il D.P.R. n. 547-1955 - ha costantemente affermato che il compito del datore di lavoro, o del dirigente cui spetta "la sicurezza del lavoro" - che sono coloro che debbono, ex lege, garantire la incolumità psico fisica del lavoratore - è un compito molteplice, articolato, che va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e sulla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure e, quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, al mettere queste cose, questi strumenti a portata di mano del lavoratore e, soprattutto, al controllo, continuo, pressante per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alle misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle.

In altri termini, il datore di lavoro o il "direttore della sicurezza del lavoro" debbono avere la cultura, la forma mentis del garante di un bene prezioso qual è certamente l'integrità del lavoratore; ed è da questa doverosa cultura che deve scaturire il dovere di educare il lavoratore a far uso degli strumenti di protezione e il distinto dovere di controllare assiduamente, a costo di essere pedanti che il lavoratore abbia appreso la lezione e abbia imparato a seguirla.

Questa cultura, a ben vedere, è imposta, richiesta, dalla Carta Costituzionale, la quale, se nell'articolo 32 vede nella salute, nella integrità dell'individuo, un bene costituzionalmente rilevante in quanto interesse, si, del singolo, ma anche interesse della collettività, negli articoli 2 e 3 pone le premesse teoriche, culturali appunto, di questa rilevanza assegnata al diritto alla salute, alla integrità, dicendo, nell'articolo 2, che "la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo.... e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà sociale, oltre che politica ed economica, e nell'articolo 3 aggiunge che "è compito della Repubblica.... assicurare lo sviluppo della persona umana".

IV - Stando alle sentenze di merito, il G. non ha fatto nulla di tutto ciò, non ha mostrato di avere quella cultura o forma mentis, ché tutto il suo adoperarsi non è andato aldilà del mettere tra le mani degli operai un "manuale con le istruzioni", che gli operai, per nulla educati e stimolati, hanno distrattamente sfogliato.

Se avesse avuto quella cultura o forma mentis, se avesse, quindi, accuratamente illustrato agli operai i pericoli cui sarebbero andati incontro, se avesse preteso che la superficialità venisse bandita, se avesse educato e costretto gli operai a tenere a portata di mano cinture di sicurezza e maschere, se avesse insegnato e ribadito che il liquame, se agitato, poteva diventare pericolosissimo, gli operai, quel giorno - questa la evidente conclusione dei giudici di merito - avrebbero avuto la sensibilità necessaria per rendersi conto di non potersi calare sic et simpliciter nella vasca, ma vi si sarebbero calati dopo essersi posti nelle condizioni - munendosi di cinture e maschere - di non nuocere a se stessi, consapevoli anche che, solo non nuocendo a se stessi, sarebbero stati in grado di aiutare il B., consapevoli che la fretta di scendere nella vasca senza usare i dovuti accorgimenti a nulla sarebbe servita.

Tutto ciò non ha - appare chiaro - nulla a che fare con l'interruzione del nesso di causalità.

b - Venendo al secondo tema, quello della "mancanza e della contraddittorietà della motivazione", che è il tema della posizione del G. rispetto alla morte del B., è innegabile che questa morte si presti ad essere presentata, prospettata, come fatto eccezionale, imprevedibile", da solo sufficiente a produrre l'evento.

Ma, se la si considera con attenzione, così non è, sicché la sentenza impugnata non è incorsa in nessuna manifesta illogicità, risultante dal testo stesso del provvedimento impugnato, nel momento in cui, ritenuta più attendibile la tesi della difesa, che aveva sostenuto che era stato il B. il primo a cadere, ha manifestato la responsabilità del G. anche per la morte del B..

I - Se si riflette per un attimo su tutto ciò che l'imputato, stando alle sentenze di merito, non aveva mai fatto per istruire, educare, controllare gli operai addetti a quella insidiosissima vasca; e se si medita bene sul fatto che, come si legge a pagina 24 della sentenza della corte di appello, gli operai avrebbero dovuto verificare il funzionamento delle pompe "per richiesta del dirigente tecnico del consorzio, del G., mentre altri operai, tra cui il B., non dipendenti del consorzio, dovevano eseguire, in quella stessa vasca, altri lavori, il problema del B. ha, sul piano giuridico, la strada obbligata percorsa dai giudici di merito.

Il datore di lavoro, o il dirigente della sicurezza del lavoro, qual era il G., è garante, ex lege, nel senso già visto, non solo dei suoi dipendenti, ma di tutti coloro che sono terzi rispetto alla propria impresa e, quindi, anche di coloro che vi prestino lavoro alle dipendenze di altri, da lui chiamati, e che, per quel lavoro, debbano intervenire, come è successo nella specie, su strutture pericolose, costituenti "oggettive fonti di pericolo", strutture, fonti, che egli, datore di lavoro o responsabile della sicurezza del lavoro, è tenuto, come si è detto a controllare, a presiedere o a far efficacemente presiedere nell'interesse della integrità dei lavoratori.

Ne consegue che il datore di lavoro o il responsabile della sicurezza del lavoro dell'impresa, se ha uno specifico onere di informazione e un diuturno onere di efficace controllo nei confronti dei suoi dipendenti, lo ha, a maggior ragione, nei confronti di coloro che, estranei, vengano a contatto per la prima o per le prime volte con quella struttura e con quella fonte per renderli edotti delle possibili insidie e per assicurarsi- affidando magari ad altri il relativo compito - che non si avvicinino se non in condizioni di totale sicurezza a quella struttura o fonte di pericolo.

Consegue, allora, che, ove si accerti che il datore di lavoro o il responsabile della sicurezza del lavoro di una impresa è mancato completamente ai suoi compiti, è stato completamente assente, nulla ha fatto per richiamare l'attenzione di tutti, specialmente dei nuovi, sui pericoli propri della struttura sulla quale avrebbero dovuto operare, deve affermarsi che quel datore di lavoro o dirigente della sicurezza del lavoro non può invocare il fortuito solo perché un operaio, non suo dipendente, da lui per nulla informato sui rischi connessi a quella vasca, alla quale era da accostarsi con tutte le cautele possibili, vi si è avvicinato, in assenza di qualsiasi controllo, con disinvoltura, con superficialità precipitandovi.

Il principio, secondo il quale non può invocare il caso fortuito, cioè non può far valere che l'evento era stato non previsto, nè prevedibile, colui che si sia posto in condizioni illegittime, che versi in colpa, è principio proprio sia della dottrina, sia della giurisprudenza di questa suprema corte (Sez. IV, 20-092-190; sez. IV, 11-03-1986, ecc) ed è principio che non può non essere ribadito nel caso di specie.

3 - Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

PQM


La corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 03-03-1995.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 3 GIU. 1995