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Cassazione Civile, Sez. Lav., 23 febbraio 2012, n. 2711 - Comportamenti datoriali di dequalificazione e di "mobbing"


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. AMOROSO Giovanni - Presidente

 

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere

 

Dott. FILABOZZI Antonio - Consigliere

 

Dott. TRIA Lucia - Consigliere

 

Dott. BERRINO Umberto - rel. Consigliere

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 26408-2009 proposto da:

 

V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, V. GIULIA DI COLLOREDO 46/48, presso lo studio dell'avvocato DE PAOLA GABRIELE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALESSANDRO IANDELLI, MATTEO CAVALLINI, giusta delega in atti;

 

- ricorrente -

 

contro

 

P.E. S.P.A.;

 

- intimata -

 

avverso la sentenza n. 500/2008 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 06/12/2008 r.g.n. 142/08;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/11/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

 

 

Fatto

 

 

Con sentenza del 27/11/08 - 27/1/09 la Corte d'appello di Brescia ha respinto l'appello proposto da V.F. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Mantova che gli aveva rigettato la domanda che aveva avuto ad oggetto le seguenti richieste: liquidazione dei danni alla professionalità e all'immagine, del danno morale e di quello biologico, in conseguenza dei lamentati comportamenti datoriali di dequalificazione e di "mobbing", nonchè dei danni scaturenti dal licenziamento, nella misura della retribuzione globale di fatto dal momento della risoluzione a quella della reintegra, previo accertamento della illegittimità dello stesso atto espulsivo.

 

La Corte territoriale ha spiegato il proprio convincimento nei seguenti termini: i capitoli di prova erano stati articolati dalla difesa dell'appellante in maniera insufficiente ai fini della dimostrazione del lamentato demansionamento; i comportamenti datoriali denunziati come ostili, che avrebbero dovuto rappresentare il contenuto del lamentato fenomeno di "mobbing", non erano stati provati; non era stata più messa in discussione la tempestività di tre delle quattro contestazioni disciplinari poste a base del licenziamento (una di esse era stata, infatti, ritenuta intempestiva già dal primo giudice); non era stata più contestata la veridicità dei fatti che avevano giustificato la risoluzione del rapporto; era nuova l'eccezione di "exceptio inadimpleti contractus" ed era insussistente quella del "ne bis in idem" riferita alle contestazioni del 15 maggio e del 30 giugno del 2003, in quanto non si era consumato, all'atto del suo esercizio, il potere datoriale disciplinare, posto che le sanzioni erano state annullate dal Collegio di conciliazione ed arbitrato solo per un vizio di forma; la sanzione inflitta del licenziamento era proporzionata alla gravità degli episodi contestati di insubordinazione e di manifestato atteggiamento di spregio avverso le direttive aziendali e le disposizioni di servizio.

 

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il V., il quale affida l'impugnazione a tre motivi di censura.

 

Rimane solo intimata la società P.E. s.p.a..

 

 

 

Diritto

 

 

1. Col primo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 414 c.p.c., n. 4, artt. 420 e 421 c.p.c. e degli artt. 2049, 2087 e 2103 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) In pratica, attraverso il relativo quesito di diritto, vengono sottoposte al vaglio di questa Corte le seguenti questioni giuridiche: - Anzitutto, si chiede di accertare se il giudice del lavoro ha il dovere di esplicitare in maniera congrua e logica i motivi per i quali ha disatteso le richieste istruttorie, nonostante la specifica richiesta di una delle parti (nella fattispecie la richiesta di prova testimoniale finalizzata alla dimostrazione della lamentata dequalificazione); se l'uso dei poteri istruttori di cui all'art. 421 c.p.c. da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere - dovere del cui esercizio o del cui mancato esercizio il medesimo è tenuto a darne conto; se, infine, il giudice ha il dovere, a pena di illegittimità della sentenza, di dar corso alla richiesta di consulenza medico-legale d'ufficio in relazione alla prova del lamentato danno biologico o di esplicitare in maniera congrua e logica i motivi per i quali ha disatteso una tale istanza. Il motivo è infondato.

 

Come ha avuto già modo di precisare questa Corte (Cass. sez. lav. n. 19785 del 1779/2010) "in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale." (In senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 29832 del 19/12/2008) Orbene, la Corte territoriale ha fatto corretto uso di tali principi nella verifica del governo degli oneri probatori ed ha adeguatamente motivato il proprio convincimento di rigetto della domanda risarcitoria. Infatti, la medesima ha ben evidenziato che i capitoli di prova dedotti dal lavoratore, cioè quelli sull'essere stato lasciato quest'ultimo in una situazione di inattività e sull'essere stato il medesimo assegnatario di un tavolo senza mezzi per il lavoro, per come costruiti non erano sufficienti a tracciare i contorni di una situazione di demansionamento ex art. 2103 c.c., che presupponeva (a completa descrizione del reparto e della mansione cui era in precedenza adibito il ricorrente, dei contenuti lavorativi e della professionalità acquisita dal medesimo.

 

In maniera altrettanto congrua la Corte d'appello ha evidenziato che la norma processuale invocata di cui all'art. 421 c.p.c. non dispensava il ricorrente dall'onere di allegare e provare i fatti dedotti a sostegno della domanda, mentre un tale scopo non poteva ritenersi raggiunto solo per il tramite della indicazione lacunosa delle due predette circostanze, nè una tale carenza probatoria poteva essere supplita dalla richiesta di espletamento della consulenza tecnica, che avrebbe potuto rappresentare solo un mezzo di ausilio tecnico di valutazione del materiale probatorio raccolto.

 

D'altronde, la stessa Corte ha posto in rilievo che non poteva trascurarsi la circostanza per la quale la datrice di lavoro aveva allegato, senza essere stata contestata, che in più occasioni, dopo la ristrutturazione dei reparti produttivi, aveva cercato di attribuire ulteriori mansioni al ricorrente, il quale sistematicamente aveva rifiutato di adempiere la sua prestazione passando il tempo asserragliato nel reparto dismesso e pretendendo di renderla secondo un orario unilateralmente determinato. In effetti, come si è già affermato (Cass. sez. lav. n. 5878 dell'11/3/2011) "nel processo del lavoro, l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze:

 

l'insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l'opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l'indispensabilità dell'iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorchè la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato".

 

Nè va dimenticato che "il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di fondamento. (Cass. Sez. 3, n. 11457 del 17/5/2007).

 

Nella fattispecie si evince agevolmente dalla lettura della sentenza impugnata che la genericità e lacunosità delle circostanze oggetto della prova testimoniale richiesta erano tali da non consentire di tracciare i contorni di una situazione di demansionamento, per cui deve logicamente dedursi che le stesse circostanze non sarebbero di certo servite ad invalidare l'efficacia delle altre risultanze istruttorie.

 

Si è, infatti, statuito (Cass. sez. 3, n. 24221 del 17/11/2009) che "qualora, con il ricorso per cassazione, venga censurata la mancata ammissione, da parte del giudice di merito, di un'istanza probatoria senza adeguata motivazione (nella specie, istanza di esibizione), la parte non può limitarsi ad indicare di aver fatto una tempestiva richiesta poi respinta, ma deve dimostrare - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso - che detta istanza avrebbe potuto avere rilievo decisivo ai fini della soluzione di un punto parimenti decisivo della controversia". 2. Col secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087 e 2697 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

 

Si chiede, in sintesi, di accertare, una volta considerato che le condotte antigiuridiche configuranti la fattispecie del mobbing (anch'essa oggetto di doglianza ai fini della pretesa risarcitoria) costituiscono un inadempimento contrattuale degli obblighi in capo al datore di lavoro previsti dall'art. 2087 c.c., se spetti al lavoratore, in applicazione del principio derivante dal combinato disposto degli artt. 1176, 1218, 1223, 1225, 1228 e 2087 c.c., l'onere di allegare l'inadempimento della parte datoriale e di documentare i fatti costitutivi o se spetti, invece, a quest'ultima l'onere di dimostrare di aver tutelato l'integrità psico-fisica e la personalità morale del dipendente. Si chiede, altresì, di accertare se, in caso di di richiesta di danni dipendenti dal fenomeno di "mobbing", il lavoratore sia esonerato dall'onere di provare il relativo "fumus persecutionis", inteso come volontà e coscienza datoriale specifica di nuocere al lavoratore.

 

Il motivo è infondato.

 

Invero, questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 3785 del 17/2/2009) che " per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo mistamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio". Orbene, la Corte territoriale ha congruamente motivato la propria decisione di rigetto della domanda risarcitoria basata su tale asserito fenomeno persecutorio, ponendo in evidenza che attraverso la stessa domanda non si descriveva un elemento intenzionale della parte datoriale, non si rendevano i nomi delle persone autrici di comportamenti illeciti e non si delineava un insieme di atteggiamenti ostili, idoneo per la quantità, qualità e ripetitività degli stessi ad integrare la lamentata situazione di "mobbing". In definitiva è stato correttamente posto in rilievo che era preciso onere del lavoratore, il quale lamentava di aver subito un danno alla salute per effetto del supposto comportamento datoriale persecutorio, provare l'esistenza di un tale danno ed il nesso causale tra lo stesso e la denunziata condotta datoriale, vale a dire i fatti ostili che avrebbero dovuto caratterizzarla, oltre che la loro sistematicità.

 

Senonchè, anche per quel che concerne il dedotto clima di ostilità all'interno del luogo di lavoro, la Corte territoriale analizza compiutamente le rilevate carenze probatorie, spiegando che gli atteggiamenti intolleranti dei colleghi dell'appellante erano stati solo genericamente indicati, i colleghi gerarchicamente superiori non erano stati individuati nominativamente e gli episodi non erano stati decritti nei tempi e nelle concrete modalità di svolgimento in maniera tale da poter espletare in merito agli stessi una prova testimoniale.

 

Al riguardo, è il caso di ricordare che si è avuto già modo di affermare (Cass. sez. lav. n. 19053 del 29/9/2005) che "in tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi". 3. Col terzo ed ultimo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2697 c.c., degli artt. 329, 345 e 346 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè della violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell'art. 2106 c.c..

 

 

Si sostiene, preliminarmente, che l'atteggiamento di grave insubordinazione posto a base del licenziamento era, in realtà, giustificato dall'applicazione del principio "inadimplenti non est adimplendum", quale effetto della reazione alla illegittimità del comportamento datoriale, e che quest'ultima eccezione non poteva essere considerata nuova, come erroneamente affermato dal giudice d'appello, dovendo ritenersi come già formulata in primo grado, nel senso che dalla lettura dei fatti e dei motivi del ricorso introduttivo del giudizio poteva evincersi che il suo rifiuto di prestare la collaborazione era dipeso proprio dai denunziati fenomeni di dequalificazione e mobbing. Tanto esposto il ricorrente pone i seguenti quesiti di diritto: "Possono o meno considerarsi nuove e, in quanto tali, tardive perchè proposte per la prima volta in appello, quelle domande e/o eccezioni basate su fatti costitutivi, modificativi o estintivi che erano stati già compiutamente portati all'attenzione del giudice nei precedenti gradi del giudizio; il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettanti può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 c.c., sempre che il titolo sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede".

 

Il motivo è, sotto tale primo aspetto, infondato.

 

Invero, la conferma della esattezza della novità dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., così come colta correttamente dalla Corte di merito, discende proprio dalla circostanza che il medesimo ricorrente tenta di sostenere nella presente sede l'opposta tesi della sua rituale proposizione assumendo, in maniera inammissibile, che il giudice d'appello avrebbe potuto desumerla dal tenore dei fatti narrati nel ricorso introduttivo, tralasciando, in tal modo, di considerare che l'efficacia paralizzante dell'avversa pretesa datoriale, propria dell'eccezione in esame, esigeva sin dall'inizio una sua esplicita formulazione ed una puntuale indicazione dei mezzi di prova atti a sostenerla, circostanze, queste ultime, non rilevabili nella fattispecie. Ne consegue l'inammissibilità della proposizione delle questioni poste a base della suddetta eccezione. Nel corpo dello stesso motivo il ricorrente pone un ulteriore quesito diretto a sostenere la tesi che l'onere probatorio delle vessazioni e degli atteggiamenti integranti il lamentato fenomeno del mobbing ricadeva sul datore di lavoro e a tal fine ricorre all'argomentazione per la quale si era in presenza di una ipotesi di responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c..

 

Tale censura è infondata per le ragioni già espresse in precedenza in occasione della disamina del secondo motivo, allorquando si è affrontato il problema del riparto degli oneri probatori in materia di accertamento di denunziate situazioni di "mobbing", pervenendosi al risultato che la prova dell'intento persecutorio, quale asserita causa della lesione del diritto alla salute del quale si chiede il ristoro in termini risarcitori, non può che ricadere sul lavoratore che lo invoca, essendo il medesimo tenuto a fornire la dimostrazione degli elementi posti a base del preteso diritto asseritamente violato.

 

Sotto un diverso aspetto il ricorrente censura la sentenza impugnata anche per non aver il giudice d'appello indagato sul requisito della immediatezza delle contestazioni disciplinari, per non aver rilevato l'insussistenza della proporzionalità tra il provvedimento di licenziamento comminato e la ritenuta insubordinazione e per non aver colto la genericità del contenuto delle contestazioni. Il principio di diritto che viene proposto in relazione a tale di tipo di censura è il seguente: "Il licenziamento disciplinare può dirsi validamente irrogato a condizione che stano pienamente rispettati i principi di specificità ed immediatezza della contestazione e di proporzionalità tra fatti addebitati e sanzione irrogata".

 

Anche tale parte dell'ultimo motivo è infondata, atteso che la congruità della motivazione adottata nella sentenza impugnata con riferimento alla specificità ed immediatezza della contestazione, da una parte, ed alla proporzionalità della sanzione per la irrimediabile rottura del vincolo fiduciario, dall'altra, non risulta essere scalfita dall'astrattezza e genericità dei rilievi mossi nella presente sede di legittimità attraverso il richiamo ai generali principi in materia di licenziamento disciplinare che non risultano essere stati affatto derogati dalla Corte di merito. Il giudice d'appello ha, infatti, adeguatamente evidenziato, con argomentazioni immuni da vizi logico-giuridici, che il ricorrente non aveva più contestato in seconde cure la tempestività di tre delle quattro contestazioni contenute nella lettera del 25/11/03 (una era stata ritenuta intempestiva ed annullata dallo stesso giudice di primo grado), nè la veridicità dei fatti posti a fondamento delle stesse; inoltre, i dati di fatto dettagliatamente esposti in tali contestazioni, il cui contenuto è riportato in sentenza, avevano consentito il vaglio giudiziario, sia in ordine alla gravità delle mancanze addebitate che agli aspetti soggettivi della vicenda;

 

infine, la proporzionalità della sanzione inflitta discendeva dalla dimostrata insubordinazione, dallo spregio manifestato verso le direttive aziendali e le disposizioni di servizio da parte del dipendente, oltre che dal suo rifiuto di ricevere le raccomandate da parte dell'azienda, cioè da forme di inadempimento che per la loro gravità minavano alla radice il vincolo fiduciario, per cui ricorrevano, a giudizio della Corte di merito, i presupposti per l'applicabilità dell'art. 52 del c.c.n.l. dei chimici che per fatti simili prevedeva il licenziamento.

 

Il terzo motivo si conclude, infine, con la formulazione del quesito di diritto col quale si mira ad accertare se il datore di lavoro, una volta esercitato il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni, possa o meno esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto, a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, u.c., di tenere conto della sanzione eventualmente applicata, entro il biennio, ai fini della recidiva. In sostanza è contestata la decisione del giudice d'appello il quale ha sul punto ritenuto che il potere datoriale disciplinare non poteva considerarsi consumato per il solo fatto che le sanzioni disciplinari del 15/5/03 e del 3/6/03 erano state annullate dal Collegio di conciliazione, in quanto un tale provvedimento era stato adottato esclusivamente per un vizio di forma, per cui restava impregiudicato nel merito il potere del datore di lavoro di procedere nuovamente alla contestazione.

 

Anche quest'ultima censura è infondata.

 

Invero, è corretta sul punto la decisione della Corte territoriale, in quanto la tesi caldeggiata dal ricorrente della asserita violazione del principio dei "ne bis in idem" presuppone l'avvenuto valido esercizio del potere datoriale disciplinare, la qual cosa non è dato rilevare nella fattispecie: infatti, l'annullamento delle prime due sanzioni disciplinari, il cui contenuto fu poi trasfuso nella più ampia contestazione preordinata al licenziamento, fu determinato esclusivamente da un vizio di forma rilevato dal Collegio di conciliazione, per cui rimaneva impregiudicato il potere del datore di lavoro di contestare il merito dell'addebito, non travolto da quel provvedimento.

 

In definitiva il ricorso va rigettato.

 

Non va adottata alcuna statuizione sulle spese essendo rimasta la società P.E. s.p.a. solo intimata.

 

 

P.Q.M.

 

 

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.