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Cassazione Civile, 29 marzo 2012, n. 5086 - Morte di un operaio generico addetto alla conduzione di forni per mesotelioma pleurico correlato alla esposizione all'amianto


 

 

 


Fatto




Con ricorso depositato il 24-6-2004 T.R., I. B. e T. B.. quali eredi di M. B., esposero che il proprio dante causa aveva lavorato alle dipendenze della S. s.p.a. dal maggio 1961 al settembre 1986 quale operaio generico addetto alla conduzione di forni; che il 21-12-2000 gli era stato diagnosticato un mesotelioma pleurico da cui era derivata la morte il 23-8-2002; che l’INAIL aveva costituito in loro favore la rendita per malattia professionale, dal momento che la patologia era correlata alla esposizione all'amianto presente nell'ambiente lavorativo ed in particolare nelle guarnizioni dei portelloni dei forni; che sussisteva responsabilità della S. s.p.a. per violazione delle norme generiche e specifiche in materia di sicurezza del lavoro.

Le ricorrenti chiesero quindi la condanna della S. s.p.a. al pagamento della somma di euro 516.053,00 a titolo di risarcimento del danno biologico da invalidità permanente e temporanea e per danno esistenziale, oltre alla rifusione delle spese sanitarie.

La S. si costituiva eccependo l’'inammissibilità della domanda di risarcimento del danno biologico, perché già risarcito dall’INAIL ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 38/2000. Eccepiva altresì il proprio difetto di legittimazione passiva assumendo: che la (prima) S. era stata incorporata in T. s.p.a. nel 1983, che a sua volta aveva conferito il proprio complesso aziendale a S. s.p.a. (seconda S.), da cui il B. dipendeva al momento della cessazione del rapporto di lavoro; che il 1-9-1987 la S. s.p.a. aveva conferito il complesso industriale di Venezia alla Nuova S. s.r.l.. divenuta poi Nuova S. s.p.a, e successivamente di nuovo S. s.p.a (terza S.): che nel contempo la seconda S. aveva mutato denominazione in L. s.r.l. e poi in F. s.r.l., poi incorporata in S. s.p.a., a sua volta incorporata in F. partecipazioni s.p.a.. poi scissa con conferimento del patrimonio a B.s.p.a; che pertanto il rapporto di lavoro del signor B. era cessato un anno prima del conferimento dell'azienda alla (terza) S.. alle cui dipendenze egli non aveva mai lavorato e che non poteva conoscere la pretesa risarcitoria. ai sensi dell'art. 2560 c.c.

Nel merito la convenuta deduceva: che la seconda S. aveva installato negli anni 60 impianti di aspirazione per captare le polveri libere nell'ambiente e che tali impianti erano stati ottimizzati nel periodo tra il 1972 e il 1976; che l'azienda aveva sempre scrupolosamente osservato le nonne di prevenzione; che il B. non era mai stato addetto alla conduzione o alla manutenzione dei forni di cottura, ma al controllo delle sfornate, al collaudo, alla termoretrazione presso il reparto magazzino o collaudo, mansioni queste che non lo ponevano in contatto con l'amianto; che non poteva escludersi che l'assunzione della dose innescante la patologia potesse riferirsi a precedenti rapporti di lavoro del B.; che la nocività dell'amianto non era di comune dominio all'epoca dei fatti; che la pretesa risarcitoria era eccessiva nel quantum e che non era risarcibile il danno morale.

Nel corso del giudizio si costituiva la F. Partecipazioni s.p.a., chiamata in causa su istanza della S. s.p.a., evidenziando come fosse la resistente a essere succeduta nella universalità dei rapporti giuridici attivi e passivi della prima S. e confermando nel merito le difese svolte dalla società convenuta.

Con sentenza n. 40/2008 il Giudice del lavoro dei Tribunale dì Venezia accoglieva la domanda condannando la S. s.p.a. al risarcimento del danno in favore delle ricorrenti determinato in euro 61.000.00.

Avverso la detta sentenza proponeva appello la S. s.p.a. chiedendone la riforma con il rigetto di ogni domanda nei suoi confronti e ribadendo la eccezione di carenza di legittimazione passiva ovvero la richiesta di manleva nei confronti di F. Partecipazioni s,p.a..

Le eredi di M. B. si costituivano resistendo all'appello principale e proponendo appello incidentale relativo al capo della sentenza di primo grado in punto di entità del risarcimento.

Si costituiva altresì la F. Partecipazioni s.p.a. resistendo all'appello principale e chiedendone il rigetto.

La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza depositata il 3-12-2009, in parziale accoglimento dell'appello incidentale, condannava la S. s.p.a. al risarcimento del danno non patrimoniale in favore delle eredi B. liquidato in euro 90.000.00 oltre rivalutazione e interessi dalla data della domanda al saldo. La Corte inoltre dichiarava F. Partecipazioni s.p.a. obbligata a tenere indenne S. s.p.a. di quanto dalla stessa corrisposto alle eredi di B. M. in forza del precedente capo. Infine compensava per metà le spese tra S. s.p.a. e eredi B.. condannando la società al pagamento della residua metà, e condannava F. Partecipazioni s.p.a. al pagamento delle spese del doppio grado in favore di S. s.p.a..

In sintesi la Corte territoriale rilevava che, in base al contratto di cessione d'azienda (in specie clausole n. 2 e 6) andava affermata la legittimazione passiva della società appellante, quale soggetto succeduto, in base alla chiara volontà delle parti stipulanti, nel complesso dei rapporti attivi e passivi inerenti al ramo di azienda ceduto, anche al di là di quanto previsto dall'art. 2560 cc. (senza alcun riferimento cioè alle risultanze contabili o contenute nei libri obbligatori).

La Corte aggiungeva che, in ogni caso, "anche a voler ritenere applicabile la disciplina di cui agli artt. 2112 c.c. nella sua formulazione all'epoca, e 2560 c.c." correttamente il primo giudice aveva ritenuto la conoscibilità della pretesa risarcitoria de qua, stante la ampia conoscenza della pericolosità dell'amianto all'epoca di stipulazione dei contratto.

La Corte dì merito accoglieva invece il motivo di gravame riguardante la domanda di manleva fondata sulla clausola n. 7 del contratto di cessione di ramo dì azienda, interpretando la stessa "nel senso di ritenere che essa comprenda la garanzia per evizione e ribadisca il principio per cui la cedente risponda, nei rapporti interni, delle obbligazioni riferibili al proprio periodo di gestione".

La Corte territoriale, poi, respingeva il motivo di gravame riguardante il capo della responsabilità della società appellante per la malattia professionale contratta dal B. sulla base delle conclusioni della CTU e della prova testimoniale.

Infine sull'entità del risarcimento la Corte d'Appello, in considerazione della differenza tra tutela indennitaria e tutela risarcitoria e dell'esigenza di garantire il pieno e integrale risarcimento dell'effettivo danno subito dall'infortunato, riteneva del tutto legittimo il riconoscimento dell'intero danno biologico ed in particolare del risarcimento del danno differenziale. In particolare, poi, sul quantum, valutando la somma di 4.500,00 euro al mese come "imporlo unitario di liquidazione del complessivo danno non patrimoniale", liquidava l'importo complessivo in ragione della durata dì 20 mesi della inabilità totale.

Per la cassazione di tale sentenza la F. Partecipazioni s.p.a. ha proposto ricorso con due motivi.

La S. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato con quattro motivi.

Le eredi di B. M. hanno resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale con un unico motivo, eccependo altresì la inammissibilità del ricorso incidentale tardivo della S...

In fine la F. Partecipazioni s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c


Diritto




Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c.

Con il primo motivo del ricorso principale (indicato nell'atto come secondo in quanto successivo alla "premessa") la F. Partecipazioni s.p.a., denunciando violazione degli art. 1362, 1363, 1364 e 1367 cc. in riferimento all'art. 1482 c.c. e all’'atto di apporto" del 1-9-1987 tra S. s.p.a. e Nuova S. s.r.l., in sostanza deduce che l'art. 7 del detto contratto "è chiaro, sin dal suo tenore letterale che esprime univocamente l'intenzione dei contraenti, nel vincolare la società apportante alla sola garanzia per evizione relativa al complesso aziendale; dunque anche gli impegni economici connessi che l'apportante si impegnava a sopportare sono appunto relativi alla titolarità del diritto reale sul complesso aziendale conferito" e rileva che tutti i capoversi del detto articolo si sviluppano dalla garanzia per evizione prevista, evidenziando come l'oggetto e la ratio dell'intera clausola "è il trasferimento del diritto di proprietà e del possesso, quindi del diritto reale nella sua pienezza, e I"approntamento di tutti gli strumenti giuridici rivolti a garantire l'effettività, la pienezza e l'esclusività del diritto in capo alla società "concentrataria" in quanto, nella sostanza giuridica, acquirente del diritto reale".

In particolare, poi, la ricorrente principale lamenta che la interpretazione accolta nel l'impugnata sentenza non solo travolge il significato letterale delle parole, ma in sostanza annulla gli effetti del meccanismo della successione universale viceversa voluta dalle parti all'art. 2, senza spiegare la ragione per cui a tale articolo "i contraenti avrebbero inteso eccettuare dal conferimento "le sole partite concordemente stabilite dalle parti", quando poi le stesse parti avrebbero sottratto all'indicata clausola qualsiasi valenza economica, stabilendo che delle passività si sarebbe fatta carico l'apportatile, qualunque fosse la natura e l'oggetto delle passività stesse".

La F. rileva quindi che la Corte di merito, violando gli artt. 1362 e 1363 c.c.., e disattendendo il tenore complessivo dell'atto, ha frazionato il contenuto della clausola contrattuale ritenendo che la stessa "contemplasse al proprio interno due distinte ed autonome obbligazioni di significato diverso Tra loro" ed altresì, in violazione dell'art. 1364 c.c., ha attribuito all'espressione generale "onere e gravame" un significato estraneo all'oggetto sul quale le partì si erano proposte di contrattare e di regolare i reciproci rapporti.

Con il secondo motivo (indicato come terzo in quanto successivo alla "premessa" e al precedente) la ricorrente principale lamenta la contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata in quanto "se vi è stato un apporto che ha implicato il subentro della società conferitaria nell'universalità dei rapporti attivi e passivi, giuridici e di fatto, ad eccezione delle sole partile escluse, allora non ha senso compiuto affermare che con la clausola sub art. 7 dell'atto di apporto ciascuna parte si sarebbe accollata i debiti relativi alla propria gestione dell'azienda ceduta".

1 motivi, che strettamente connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano fondati.

La Corte d'Appello ha fondato la decisione sul punto interpretando la prima espressione della clausola dell'art. 7 dell’atto de quo, attraverso una lettura che nella sostanza da un lato è avulsa sia dal restante contenuto della clausola stessa sia dal contenuto complessivo dell'atto (ed in specie dalle clausole n. 2 e 6) e dall'altro risulta scomporre l'espressione esaminata frazionandola oltre modo, a fronte dell'unica manifestazione di volontà, con violazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cc. e senza peraltro una sufficiente spiegazione al riguardo.

In particolare la Corte di merito, pur premettendo la necessità di una interpretazione complessiva, in effetti ha, poi, trattato del tutto separatamente la interpretazione delle clausole n 2 e 6 da quella della clausola n. 7.

Sulla prima, per quanto riguarda in sostanza la legittimazione passiva della S., dopo aver esaminato il contenuto dei citati numeri 2 e 6, la Corte territoriale ha affermato che la lettura complessiva degli stessi evidenzia '"la piena successione dell'acquirente in tutti i rapporti, anche obbligatori, facenti capo al ramo d'azienda ceduto, indipendentemente dalle risultanze dei libri contabili e obbligatori", cosi palesando la "comune volontà delle parti di trasferire all'acquirente ogni rapporto, giuridico e di fatto, inerente all'azienda ceduta, andando oltre la previsione normativa di cui all'art. 2560 c.c.".

Sulla seconda, per quanto concerne la domanda di manleva a carico di F. Partecipazioni s.p.a.. la Corte d'Appello, dopo aver esaminato il astenuto della clausola n. 7 (peraltro nella sola prima parte) ha affermato che la stessa "contiene specificamente la garanzia per evizione nel primo periodo del primo comma, distinguendola dall'impegno della cedente a sopportare ogni onere e gravame di sua competenza fino alla data del trasferimento".

In tal modo la Corte di merito in primo luogo ha distinto nettamente due "periodi", che in realtà risultano espressi in modo formalmente e sostanzialmente, unitario ("la apportante S. s.p.a. presta espressa garanzia per evizione.....e si impegna a sopportare ogni e qualsivoglia onere e gravame...").

La Corte ha, poi, del tutto ignorato il contenuto ulteriore della stessa clausola n. 7, che, disponendo di seguito che "la Nuova S. s.r.l. potrà, dalla data di effetto del presente alto, godere e liberamente disporre del complesso aziendale industriale ad essa apportato, con l'obbligo di pagare, pure da tale data, tutte le imposte, tasse in genere, afferenti il complesso stesso" e che "a tale effetto la società concentrante immette e surroga la società concentratala in tutti i propri diritti ed oneri di proprietà e di possesso inerenti il medesimo complesso aziendale apportato", sembra riguardare pur sempre la garanzia per evizione e la pienezza ed esclusività dei diritti di proprietà e di possesso trasferiti.

Infine la Corte di merito trascurando, sul punto, ogni considerazione rispetto a quanto già affermato in sede di interpretazione delle clausole n. 2 e 6, non ha spiegato come potesse conciliarsi la volontà della piena successione della Nuova S. s.r.l. in tutti i rapporti, anche obbligatori, facenti capo al ramo di azienda ceduto ("con esclusione delle sole partile concordemente stabilite tra le parti"), con la (ritenuta) volontà delle parti di attribuire, in definitiva, a ciascuna parte i debiti relativi alla propria gestione dell'azienda ceduta.

Del resto, anche l'espressione ''ogni e qualsivoglia onere e gravame, anche fiscale" è stata letta di per sé, sostanzialmente estrapolala dalla previsione unitaria contemplata dalla clausola in esame ed altresì senza alcun coordinamento logico con l'intero contesto dell'atto, ed in specie con le clausole n. 2 e 6.

Essendo in tal modo incorsa la sentenza impugnata nei vizi denunciati, il ricorso principale va pertanto accolto.

Passando, quindi, all'esame del ricorso incidentale condizionato proposto dalla S. s.p.a. in liquidazione (già Nuova S. s.p.a.), preliminarmente va respinta l'eccezione di inammissibilità dello stesso avanzata dagli eredi di B. M..

Tale ricorso incidentale, infatti, seppure tardivo (rispetto al termine breve decorrente dalla notifica della sentenza effettuata alla S. s.p.a. a cura dei detti eredi) deve ritenersi ammissibile.

Come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass, SU. 27-11-2007 n. 24627. v. anche Cass. 9-4-2008 n. 9264. Cass. 30-4-2009 n. 10125, Cass. 26-6-20U9 n. 15050, Cass. SU. 4-8-2010 n. 18049, Cass. 3-3-2011 n. 5146) "sulla base del principio dell'interesse all'impugnazione, l'impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, tutte le volte che l’impugnazione principale metta in discussione l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale (in quel caso) il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza".

Nell'enunciare tale principio il Supremo Collegio, sottoponendo a revisione il precedente orientamento dominante, "messo in crisi dalla enorme casistica con la quale viene valorizzata, in conformità con le prospettazioni della più recente dottrina, un diverso elemento, e cioè la ricerca dell'interesse all'impugnazione", ha affermato che "questo viene ravvisato tutte le volte che, anche nelle cause scindibili, esso sorga dall'impugnazione di uno solo dei coobbligati soccombenti in considerazione del fatto che tale impugnazione, se accolta, comporterebbe una modifica dell'assetto delle situazioni giuridiche accettate dall'altro coobbligato rimasto inerte poiché darebbe luogo ad una soccombenza totale o più grave di quella derivante dalla sentenza impugnata, soccombenza che era stata in origine ritenuta accettabile tenuto conto dell'onere economico e della durata del giudizio di impugnazione". Al riguardo, in specie, le Sezioni Unite hanno altresì affermato che "può valere per tutti l'esempio desumibile dalle fattispecie di garanzia impropria, che costituisce sicuramente un'ipotesi di causa scindibile, allorquando la sentenza. che abbia accolto sia la domanda principale sia quella di rivalsa, venga impugnata dal terzo chiamato in garanzia poiché ciò comporta necessariamente il risorgere dell'interesse del convenuto a impugnare a sua volta la sentenza in quanto l'impugnazione del terzo rende incerto in tutto o in parte l'esercizio del diritto di rivalsa spiegato nei confronti del terzo garante".

Tale ipotesi (ritenuta esempio significativo dalle Sezioni Unite) ricorre nella fattispecie, di guisa che il ricorso incidentale condizionato tardivo della S. s.p.a. in liquidazione deve considerarsi ammissibile.

Passando, quindi, all'esame del detto ricorso, con il primo motivo la S.. denunciando violazione degli artt. 2560 e 2112 c.c., nel ribadire la propria carenza di legittimazione passiva, in sostanza, richiamando la giurisprudenza dì legittimità fin specie Cass. 14-2-2005 n. 2922), deduce che "la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda presuppone comunque la vigenza del rapporto di lavoro, e quindi non è riferibile ai crediti maturati nel corso di rapporti di lavoro cessati ed esauriti anteriormente al trasferimento d'azienda, salva in ogni caso l'applicazione dell'art. 2560 c.c., che contempla in generale la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta (tra i quali rientrano anche i crediti del lavoratori a prescindere, in tal caso dall'eventuale risoluzione del rapporto prima della cessione), ove risultino dai libri sociali obbligatori". Pertanto la S.. "subentrata nell'universalità dei rapporti attivi e passivi della cedente con decorrenza dalla data dell'atto di acquisto, non era quindi legittimata a rispondete in ordine alle domande avanzate da un dipendente che aveva cessato il rapporto oltre un anno prima dell'acquisizione".

Peraltro, secondo la S., erroneamente la Corte territoriale ha affermato che, anche a voler ritenere applicabile la disciplina dell'art. 2112 nella sua formulazione in vigore nei 1987, ciò non di meno, doveva ritenersi "conoscibile" la pretesa risarcitoria e ciò sul rilievo che all'epoca il concetto di pericolosità dell'amianto era già diffuso.

Al riguardo la ricorrente incidentale rileva che essa "aveva acquistato l'azienda tramite conferimento nel 1987 e non poteva in alcun modo "conoscere" le pretese risarcitorie avanzate per la prima volta nel 2003 dagli eredi di un dipendente che aveva cessato il proprio rapporto nel 1986. atteso che nulla risultava dai libri sociali obbligatori e comunque la pretesa risarcitoria non era obiettivamente "conoscibile"", non essendosi peraltro manifestata alcuna patologia professionale di natura asbestosica presso il complesso aziendale de quo.

Il motivo in parte è inconferente e in parte è inammissibile.

Come si è già detto, infatti, la Corte di merito ha affermato la legittimazione passiva e la responsabilità della S. s.p.a. sulla base della interpretazione delle clausole n. 2 e 6 del contratto del 1-9-1987, che "andando oltre" la previsione di legge, hanno stabilito "la piena successione dell'acquirente in lutti i rapporti, anche obbligatori, facenti capo al ramo di azienda ceduto, indipendentemente dalle risultanze dei libri contabili obbligatori".

Orbene la ricorrente incidentale non censura tale interpretazione né sotto il profilo della violazione di canoni ermeneutici né sotto il profilo di vizi di motivazione, ma si limita a ribadire la propria carenza di legittimazione passiva in base alla disciplina di legge, senza così scalfire in alcun modo la statuizione della Corte di merito fondata sulla disciplina contrattuale specifica.

Per il resto la censura (circa la asserita non conoscibilità delle pretese risarcitone del B.) in quanto rivolta contro una argomentazione chiaramente svolta ad abundantiam dalla Corte d'Appello, risulta inammissibile (v. Cass. 22-11-2010 n. 23635, Cass. 23-11-2005 n. 24591, Cass. 17-2-2004 n. 3002, Cass. 4-8-2000 n. 10241).

Con il secondo motivo la S., denunciando vizio di motivazione in ordine al nesso causale "attività lavorativa/malattìa", in sostanza sostiene che "l'esposizione ad amianto patita da B. in attività precedenti l’assunzione presso S. era di per sé autonomamente sufficiente a determinare la patologia in oggetto", essendo state stimate le occasioni dì esposizione successive al 1961 dall'organo di vigilanza "Contarp" "lievi e sporadiche", a fronte delle "medie e gravi" occorse negli anni precedenti.

In particolare lamenta che la motivazione della Corte di merito al riguardo risulta insufficiente e contraddittoria e deduce che, in specie con riferimento al periodo successivo al 1961, dall'istruttoria era emerso:

che il B. operava solo il controllo del materiale che usciva dai forni e che la presenza di amianto era riscontrabile solo nelle flange dei carrelli e nelle guarnizioni dei forni;

che la manutenzione dei carrelli era effettuata da ditte esterne e che i lavoratori addetti intervenivano solo sulla parte superiore del carrello dove non vi era amianto, di guisa che il B. in effetti non aveva mai avuto alcun confatto con gli sporadici manufatti in amianto presenti in azienda;

che (come da parere "Contare") "nessuna figura professionale che abbia lavorato all'interno di S. può essere stata esposta a polveri di amianto aereodisperse in valore superiore a 0,1 ff/cc.

Con il terzo motivo la S. denuncia altresì insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla conoscenza della nocività dell'amianto, deducendo, in sostanza, che 'l'amianto è stato fino a metà degli anni ottanta, un materiale praticamente ubiquitario, presente in rilevante quantità anche nelle civili abitazioni ed è stato dichiarato fuori legge solo nel 1992 con la legge n. 257"' e che "i primi limiti indicati dal legislatore in tema di esposizione ad amianto sono stati fissati cinque anni dopo che M. B. aveva cessato qualsiasi attività lavorativa presso S. ( 1986, anno pensionamento B.. 1991, anno emissione d.lgs 277/1991)", mentre anteriormente il T.U. 1124 del 1965 all'art. 153 stabiliva che il premio supplementare per silicosi ed asbestosi era dovuto in relazione ai lavoratori esposti "ad inalazioni di amianto in concentrazioni tali da determinare il rischio" (caso che non ricorreva nella fattispecie".

Con il quarto motivo la ricorrente incidentale, denunciando insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla responsabilità datoriale, in sostanza censura la affermazione della Corte d'Appello, secondo cui le risultanze testimoniali (ed in specie la testimonianza S.) avrebbero confermato l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro (mancanza di sistemi di aspirazione).

In particolare la S. deduce: che fin dagli anni 60 aveva predisposto tutti i sistemi di sicurezza idonei in base alle cognizioni dell'epoca; che nel corso delle ispezioni effettuate dall'Asl non era mai stata riscontrata una polverosità superiore alla norma; che non vi era alcuna evidenza né della nocività dell'ambiente né soprattutto di violazioni della normativa antinfortunistica e preventiva da parte della società datrice di lavoro; che in ogni caso "neppure ora (e tanto meno negli anni sessanta-settanta) sì hanno certezze sulla soglia minima di esposizione al di sotto della quale possa escludersi ogni rischio di contrazione delle patologie asbestosiche, ed in particolare del mesotelioma, con la conseguenza che risulta impossibile stabilire con certezza se l'infermità sia stata cagionata per effetto dell'amianto inalato nell'ambiente di lavoro o altrove".

Tali motivi, connessi fra loro, risultano in parte inammissibili ed in parte infondati.

In effetti la ricorrente incidentale non censura i principi di diritto ai quali la Corte territoriale si è conformata ma lamenta insufficienze e contraddittorietà nella motivazione in ordine all'applicazione dei detti principi nella fattispecie concreta, ribadendo, peraltro la propria valutazione delle risultanze istruttorie.

Orbene come è stato affermato da questa Corte (v. fra le altre Cass. 20-4-2006 n. 9234) e va qui ribadito: "il disposto dell'art 360, primo coma, n. 5 cod. proc. civ., non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliale ogni singolo elemento, o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che. sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata"'.

Del resto, come pure è staio precisato "il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte dì procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa" (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

In particolare con riferimento al nesso causale tra il mesotelioma pleurico da cui il B. era affetto e la esposizione all'amianto presente nell'ambiente lavorativo, la Corte territoriale sulla scorta delle conclusioni della CTU ha operato l'accertamento secondo una valutazione fondata su un "elevato grado di probabilità".

Al riguardo la Corte, valutando le considerazioni della S. circa l'esposizione di grado medio dal 1952 al 1959 e alto dal 1960 al 1961 e di grado medio e sporadico dal 1962 al 1986. sulla base delle osservazioni del CTU e dei richiami alla dottrina scientifica e allo studio epidemiologico del Registro Regionale del Veneto, ha affermato che "'sul piano scientifico la tesi dell'appellante è infondata, non essendo possibile escludere la rilevanza causale della esposizione ad una minore quantità di amianto, ma durata complessivamente 25 anni, attribuendola esclusivamente a periodi più brevi caratterizzati da esposizione più rilevante".

Pertanto, applicando i principi della "probabilità qualificata" e della "equivalenza causale" più volte affermati in materia da questa Corte (v. fra le altre Cass. 11-6-2004 n. 11128, Cass. 12-5-2004 n. 9057. Cass. 21-6-2006 n. 14308. Cass. 8-10-2007 ti. 21021, Cass. 26-6-2009 n. 15080. Cass. 10-2-2011 n. 3227, nonché Cass. 3-5-2003 n. 6722, Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 4-6-2008 n. 14770, Cass. 17-6-2011 n. 13361) la Corte di merito, sulla base delle risultanze della prova testimoniale ha accertato in particolare "la presenza dì amianto nei rivestimenti della struttura dei forni dì cottura, nei cui pressi il B. operava, nonché nelle sconnessure dei circa 1.000 carrelli sui quali il materiale refrattario veniva collocato e nei materassini usati dai fuochisti nonché l'inquinamento ambientale, provocato dallo sfarinamento delle guarnizioni delle porte dei forni e dalla presenza dei residui di amianto nel l'ambiente di lavoro tino alle pulizie dei locali".

La Corte inoltre, quanto alle contestazioni svolte dalla S. ha rilevato che "le Relazioni dello "Spisal" e del "Contarp", attentamente valutate dal CTU non hanno affatto escluso l'esposizione del lavoratore all'amianto, ma hanno compiuto solo valutazioni relative all'entità della stessa".

Alla stregua, pertanto di tali risultanze e delle conclusioni del CTU, la Corte territoriale ha attribuito rilevante efficienza causale alla esposizione per oltre 25 anni presso la S..

Tale accertamento, conforme ai richiamati principi di diritto, risulta ampiamente e congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente incidentale, la quale del resto si risolve in una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio", non sussumibile nel "controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n. 5 c.p.c. (v., fra le altre, Cass, n. 11789/2005 e n. 4766/2006 citate).

Per quanto riguarda, poi, la conoscenza all'epoca della nocività dell'amianto e la responsabilità del datore di lavoro per la omessa predisposizione di efficaci misure di prevenzione, parimenti la ricorrente incidentale denuncia vizi di motivazione in ordine alla applicazione nella fattispecie concreta dei principi in materia affermati da questa Corte (con riferimento specifico al mesotelioma da esposizione all'amianto, risalente agli anni dal 1968 al 1981, circa l'obbligo del datore di lavoro ex art. 2087 cc, "anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato"' v. Cass. 23-5-2003 n. 8204; con riguardo ad una esposizione dal 1959 al 1970 v. Cass. 9-5-1998 n. 4721, dal 1959 al 1971 v. Cass. 14-1-2005 n. 644 e dal 1975 al 1995 v. Cass. 1-2-2008 n. 2491; per un periodo dal 1975, da ultimo, v. anche Cass, 11-7-2011 n. 15156).

Sul punto la Corte di merito, sulla scorta della CTU ha accertato che la pericolosità dell'amianto "era conosciuta dalla comunità scientifica già agli inizi del 1000 mentre la conoscenza del rapporto causale tra amianto e mesotelioma pleurico risale quanto meno agli inizi degli anni 60" e che, nella fattispecie, dalla prova testimoniale (in specie testimonianza S.) è risultata esclusa 1a presenza, nel locale dove operava il signor B., di sistemi di aspirazione delle polveri o l'esistenza di direttive aziendali che rendessero obbligatorio l'uso di strumenti di aspirazione nel caso di sostituzione delle guarnizioni in amianto, che comportavano la dispersione di polveri nell'ambiente di lavoro".

Da tanto, a parte la considerazione che in ogni caso dovevano adottarsi, ex art. 21 d.P.R. n. 303/1956, le necessarie cautele per proteggere i lavoratori dalla diffusione delle polveri di qualunque natura nell'ambiente di lavoro, sulla base comunque dell'obbligo di adottare le misure generiche di prudenza e diligenza e le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e dì esperienza, a tutela dell'integrità fisica dei lavoratori stessi, la Corte di merito, nella fattispecie, ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro.

Anche tale accertamento, conforme ai principi affermati da questa Corte di legittimità, risulta congruamente motivato e resiste alla censura della S., il cui ricorso incidentale va così respinto.

Infine parimenti va respinto il ricorso incidentale degli eredi di B. M., con il quale gli stessi hanno censurato la statuizione sulla compensazione per metà delle spese di entrambi i gradi tra gli stessi e la S., operata dalla Corte d'Appello, nonostante "la conferma della pronuncia di primo grado nella parte in cui accoglie le domande" delle eredi B. e "la assenza di alcuna specifica censura sul punto dell'appellante" e nonostante il rigetto dell'appello principale a fronte della parziale vittoria delle appellanti incidentali "per oltre un terzo delle somme richieste".

Al riguardo "l'art, 92 secondo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall'art. 2, comma I, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione" (v. fra le altre Cass. 30-5-2008 n. 14563, Cass. 3-11-2009 n. 23265, Cass. 20-10-2010 n. 21521).

Ciò posto, come è stato affermato da questa Corte, 'in materia di procedimento civile, il potere del giudice d'appello di procedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all'esito complessivo della lite", con criterio dì individuazione della soccombenza, anche parziale, "unitario e globale" (cfr.. Cass. 11-6-2008 n. 15483, Cass. 23-8-2011 n, 17523).

Nella fattispecie la sentenza impugnata, attenendosi a tali principi, con valutazione unitaria e globale, ha congruamente motivato la statuizione sulle spese in oggetto affermando che "l'accoglimento solo parziale della domanda, in misura inferiore a quella oggetto tanto del ricorso in primo grado che dell'appello incidentale, comporta la compensazione in ragione della metà delle spese legali" tra S. s.p.a. e le eredi del signor B..

Anche il ricorso incidentale di queste ultime va pertanto respinto.

In conclusione, la impugnata sentenza va cassata in relazione al ricorso accolto, con rinvio alla Corte d'Appello di Trento, la quale provvedere al riesame relativo, attenendosi ai canoni ermeneutici e alle indicazioni di cui sopra, e statuirà anche sulle spese di legittimità.




P.Q.M.



Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta i ricorsi incidentali, cassa la impugnata sentenza in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Trento.