Relazione del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Trieste Dott. Beniamino Deidda

Sono state dette parecchie cose e credo di potermi permettere a questo punto una serie di pensieri in libertà sui fenomeni e sui temi che sono oggetto di un Osservatorio.

Vorrei cominciare a chiedermi subito, in maniera forse più impertinente ma anche realistica, se sia utile un Osservatorio dedicato alla sicurezza e all’igiene sul lavoro e soprattutto a cosa serva: abbiamo visto in passato numerose altre iniziative, devo dire spesso velleitarie, che non hanno influito molto né sull’applicazione diffusa delle norme di sicurezza, né sulla riduzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, né sulla diffusione di una consapevolezza più matura della cultura della sicurezza, cioè non sono servite a quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di un Osservatorio. Se tra quelli che ascoltano, c’è qualcuno che ha in sé dello scetticismo, il suo atteggiamento è assolutamente giustificato!

Vorrei tuttavia ricordare anche, lo ha già fatto Pascucci, che nell’Università di Urbino, soprattutto nella Facoltà di Giurisprudenza, l’interesse per la salute dei lavoratori non nasce, non si improvvisa ora: è un impegno che dura da anni, che ha visto tutte quelle iniziative che il prof. Pascucci ha indicato. Non si contano gli interventi, le lezioni, le occasioni di formazione!

Di tutto questo ho esperienza personale, non soltanto perché molto generosamente il prof. Pascucci mi conferma annualmente un incarico di docenza. Tra le tante iniziative di formazione tenute ad Urbino ne ricordo in particolare una, in tema di sicurezza nell’Università. Per ore il Rettore è stato ad ascoltare un magistrato parlare: qualcuno potrebbe pensare ad un atto di grande cortesia, ed invece, si vedeva il suo interesse dalla partecipazione, dagli occhi, dall’attenzione che prestava.

Dunque, ad Urbino ormai c’è una sorta di tradizione verso i temi della sicurezza dei lavoratori che sarebbe inutile tacere. Da qui la certezza abbastanza rassicurante che questa iniziativa non cade nel vuoto, perché il vuoto, come diceva Pascucci, non c’è, non c’è da anni; ed anche che essa avrà interlocutori interessati, perché ormai c’è una “cultura circolare” della sicurezza.

Ma naturalmente questo non dice ancora nulla sulla necessità di avere un Osservatorio!

Proviamo allora a guardarci intorno: dopo l’intervento del direttore dell’Inail, sappiamo qual è l’incidenza degli infortuni in Italia. Mi permetto di aggiungere, che dovremmo leggerli in rapporto alle ore lavorate; allora i dati sono un po’ meno entusiasmanti, anche come trend, se confrontati con la situazione di altri paesi che non sono quelli citati, ma il cui numero infortunistico è notevole. Ad esempio, gli infortuni in Inghilterra, rispetto a quello italiano, hanno un andamento assolutamente più favorevole!

Quanto avviene in Italia, non è cosa di oggi; i dati che il direttore ci forniva non sono dati che trovano una verifica soltanto da pochi lustri, ma la situazione si è determinata così dagli anni ’60, dal miracolo economico, da quando l’Italia ha cominciato la sua ricostruzione.

Da questa situazione, su cui non voglio intrattenermi, si può uscire solamente attraverso una permanente, attenta analisi dei problemi, una valutazione oggettiva non soltanto dei dati Inail, ma degli interventi di vigilanza, di controllo, di repressione, formazione, informazione messi in campo dalle istituzioni, dai protagonisti del processo produttivo - perché dopo il 626/94 i datori di lavoro fanno sicurezza nelle aziende - dagli organi dello Stato, dagli organi delle Regioni, dalle organizzazioni dei lavoratori, qualche volta purtroppo assenti nel processo della prevenzione.

A questo può, ma vorrei dire deve, servire un Osservatorio: ad analizzare in forma non improvvisata i problemi esistenti, partendo certo dai dati statistici e non, perché i dati non sono solo quelli delle statistiche, ma anche dalle norme esistenti, dalle interpretazioni che di esse danno i giudici, per orientare gli interventi che le varie istituzioni sono incaricate di attivare.

Certo si fa presto a dire “Osservatorio”, perché poi a volte i nomi sono portatori di suggestioni, ma occorre guardare un po’ dentro questo Osservatorio.

Ed allora proviamo ad entrare nel dettaglio, anche se questo non è sempre possibile farlo. Innanzitutto, nessun Osservatorio in Italia può prescindere da un progetto generale, per coordinare funzionalmente, naturalmente nel rispetto delle competenze dei vari Enti che intervengono, una fattiva collaborazione istituzionale senza coinvolgere le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, senza coinvolgere le Regioni, senza coinvolgere gli organi dello Stato e degli altri Enti pubblici, attraverso la valorizzazione degli interventi che ciascuno riuscirà a mettere in campo.

Infatti, molto spesso si ignora cosa fanno i vari Enti. Io conosco per esempio l’impegno della regione Marche e delle altre istituzioni. Io so che spesso le parole servono a coprire con la retorica il velleitarismo delle proposte vuote; so che le parole non riescono a rendere l’urgenza e la necessità di istituire un Osservatorio. Ma il fatto serissimo è che un Osservatorio come Olympus coinvolge fenomeni che nella nostra società non occupano un posto marginale, e non solo per i circa 30mila miliardi di euro che “pantalone” sborsa ogni anno.

Noi stiamo parlando dell’attuazione di una parte fondamentale dei diritti della nostra Costituzione, quella che attiene alla salvaguardia dei diritti più sacri della persona: il diritto alla vita, il diritto all’incolumità, il diritto al benessere, alla dignità del lavoro. Di questo si tratta e su queste cose si respira un’aria, una cultura vorrei dire, che non mi piace, che ha come sottofondo una convinzione diffusa: se qualcuno si fa male o si ammala sul lavoro, o muore, non è colpa di nessuno; è il caso, o la fatalità o meglio, come dicevano i Procuratori, prima che lo diventassi io, è “il tributo necessario al progresso”.

Ed invece no: ci sono precise responsabilità delle istituzioni, delle organizzazioni industriali, delle organizzazioni dei lavoratori, dello Stato, degli organi di prevenzione, degli organi che sono preposti alla formazione e informazione, della magistratura, e sono certo di aver lasciato fuori dall’elenco qualche altro Ente o soggetto coinvolti.

Ebbene, nessun “terreno” come quello della sicurezza ha bisogno dell’intervento di molti, cioè dell’opera paziente dei singoli e delle organizzazioni, perché un fenomeno come quello infortunistico italiano non si sradica nel giro di pochi mesi, perché affonda le sue radici, le sue ragioni più remote in inerzie, in prassi, in disinteresse che sono di antica data. Dunque, c’è bisogno più che mai che ognuno faccia la sua parte e ci attendiamo che tutti quelli che sono coinvolti nell’Osservatorio forniscano la loro esperienza ed il loro contributo.

La regione Marche presenta delle caratteristiche che sono simili a quelle di un’altra regione che io conosco meglio, la Toscana: un tessuto produttivo fatto di piccole e piccolissime imprese, una vivacità economica piena di intraprendenza, di voglia di fare, che registra, però, un numero impressionante - ce lo confermava Passamonti - di infortuni sul lavoro, nonostante un notevole impegno degli organi regionali di coordinamento di fornire strumenti di formazione, di ricerca e di unità di indirizzo. Dunque una Regione che non sta a guardare, che non sta con le mani in mano.

Anche per le Marche, sarebbe sbagliato illudersi, si può ripetere ciò che a me è capitato di dire per la Toscana: che nonostante tutto l’impegno profuso, non è ancora riconoscibile una chiara opera di programmazione della prevenzione. Non si tratta di fare accuse o censure, dico quello che da spettatore mi pare di osservare: la mancanza di una programmazione in grado di coinvolgere tutti i soggetti in modo non episodico e non casuale; ripeto, “tutti i soggetti”, non soltanto le élites, perché quelle sono già sensibili, cioè sono già portatrici di contributi e di sensibilità, son già attive, cioè, sul fronte della prevenzione.

C’è una ragione di questa carenza di programmazione, e la ragione non è misteriosa, e sta nel fatto che le risorse dedicate alla prevenzione sono assolutamente insufficienti, non solo qui nelle Marche, ma in tutto il nostro Paese. Questo è il terreno in cui si sconta la mancanza di cultura delle istituzioni: se un terremoto, per insistere sull’esempio che faceva Pascucci, fa 1000 vittime, ci si attiva per la ricostruzione dei centri colpiti, c’è una gara di solidarietà fra i cittadini; ma se sul lavoro muoiono 1500 persone ogni anno, non succede niente. Da quando è entrato in vigore il 626/94, e sono 10 anni, si contano circa 17mila morti: una strage! Rispetto a tali dati, non mi pare ci sia stato, lo diceva Pascucci, un grande allarme!

Una strage silenziosa a cui noi opponiamo la nostra indifferenza, o meglio, poche righe di giornale, scritte nell’immediatezza dell’infortunio e il giorno dopo più nulla: questa, purtroppo, è la realtà.

La percezione che l’opinione pubblica ha del rischio infortunistico è assolutamente sottodimensionata rispetto alla realtà e non è solo colpa dei giornali o della TV. Visto che si è citato l’impegno dell’Inail nelle scuole, chiedo: in quali scuole della Repubblica, dalle elementari all’Università, l’educazione alla sicurezza costituisce davvero uno dei punti irrinunziabili della formazione dell’uomo e del cittadino? Sembrano retoriche le parole, ma il fine indicato dalla nostra Costituzione è la formazione dell’uomo e del cittadino. Questo è, invece, il Paese dove il buon cittadino prende la macchina, si scapicolla a 140 all’ora, mette a repentaglio la propria e l’altrui incolumità; oppure, è il Paese dove il lavoratore, basandosi solo sulla propria abilità o fortuna, mette a repentaglio la propria incolumità e l’incolumità degli altri lavoratori.

Ma ancora questo è un Paese - e qui vorrei dire una parola di autocritica nei confronti dei magistrati - dove in un anno accade circa un milione di infortuni, un terzo dei quali dovrebbe andare a processo penale; ci si attenderebbe, allora, che una magistratura che ogni anno deve affrontare circa 350mila processi penali per infortunio o per malattia professionale abbia maturato al suo interno una discreta specializzazione in materia, cioè che si sia costituito un folto gruppo di magistrati capaci di padroneggiare una specialissima legislazione antinfortunistica. Ebbene, non è così: i magistrati specialisti, dico i magistrati davvero specialisti, si contano sulle dita di due mani, forse, in Italia. Gli altri, poi, fanno i processi e fanno “certi arrosti”, come si dice in Toscana!

Dunque, siamo di fronte ad un fenomeno sociale gravissimo e la magistratura non è in grado di affrontarlo seriamente; e questo non avviene per nessun’altra materia specializzata. Tutto questo non può essere frutto di un caso, anzi, io ne sono convinto da anni, è il frutto di precise scelte politiche. Ed è anche per contrastare queste precise scelte politiche che deve nascere un Osservatorio: siccome questo non è un terreno dove non si scontrano gli interessi, per contrastare questo tipo di cultura , questo tipo di tendenza, deve nascere un Osservatorio.

Io vorrei indicare, assumendomi tutta la responsabilità di quello che dico, quelle che sono le linee fondamentali di un Osservatorio:

- organizzazione sistematica dei messaggi sia generali che particolari per una consapevolezza diffusa dei rischi sul lavoro; se noi non riusciamo ad investire tutti gli strati della popolazione di questa necessità, di questa consapevolezza, un Osservatorio non serve;

- un piano specifico di informazione, di aggiornamento permanente dei lavoratori, dei datori di lavoro, degli RLS, dei magistrati (che non guasterebbe), dei lavoratori stranieri, degli apprendisti, dei responsabili dei servizi della sicurezza, dei loro addetti, dei medici competenti; tutti questi hanno bisogno di essere coinvolti da un Osservatorio;

- valorizzazione, coordinamento e collegamento strategico degli interventi di ogni soggetto coinvolto, naturalmente nel rispetto delle competenze di ciascuno.

È appena il caso di notare, perché l’uditorio non ha sicuramente bisogno di queste precisazioni, che l’operatività complessiva di un Osservatorio come questo è condizionata dalla progressiva acquisizione dei dati oltre che dalla conoscenza delle iniziative di tutti i soggetti che sono coinvolti nell’adempimento dei loro compiti istituzionali. Ora, se fossimo in astratto d’accordo che quelle descritte sono le linee fondamentali di cui deve vivere un Osservatorio, per perseguire quelle finalità l’Osservatorio dovrebbe proporsi alcune cose, molte di queste già anticipate da Pascucci:

Primo: monitorare la produzione legislativa, perché certo non se ne può fare a meno. Aggiungo che la produzione legislativa è ormai comunitaria, nazionale e regionale, anche se poi non sappiamo come andrà a finire quella regionale, dopo la riforma costituzionale. Sul punto, ha ragione Pascucci quando afferma che non basta far tenere un elenco aggiornato delle norme vigenti comunitarie e nazionali: monitorare significa scoprire, specie nella caotica situazione normativa italiana, le linee di fondo del disegno legislativo, cioè riuscire a cogliere quali innovazioni legislative sono in linea con i principi generali dell’ordinamento e di prevenzione e quali, invece, se ne discostano, come molte volte è successo! Ma, attenzione, significa ancora riuscire a cogliere e portare all’attenzione di tutti le linee fondanti l’Ordinamento, che non possono essere abbandonate senza compromettere il disegno di fondo dell’intera impalcatura legislativa.

Aggiungo io che se questo monitoraggio legislativo ci fosse stato, sono pronto a scommettere che nessuno avrebbe avuto il coraggio di presentarci quella bozza di Testo Unico a cui faceva riferimento il prof. Pascucci! Perché quella era una bozza che attaccava le linee fondanti della prevenzione, cioè minacciava di travolgere quel poco di buono che si era cercato di costruire in 50 anni.

Secondo: il monitoraggio della giurisprudenza. Vedete, la giurisprudenza è materia su cui mettono le mani in molti, e a qualcuno bisognerebbe tagliarle!

Non si tratta di elencare pedantemente le pronunzie dei giudici a mano a mano che vengono pubblicate. In Italia ci sono già le riviste specialistiche che pubblicano le sentenze, in base alla valutazione dei commentatori. Purtroppo, la scelta delle sentenze da pubblicare viene fatta valutando se sono sentenze curiose e, soprattutto, se sono folkloristiche, cioè se sono in qualche modo devianti rispetto agli orientamenti consolidati.

Invece, un Osservatorio serio, dovrebbe avere un’ambizione diversa: scoprire, nella fitta trama delle sentenze di legittimità e di merito – e qui è più difficile farlo – gli sviluppi interpretativi intorno ai quali, in materia di sicurezza, si costruiscono le prassi virtuose. Si tratta, cioè, di individuare ciò che conta, gli insegnamenti costanti, oppure il cambio di indirizzi della giurisprudenza nell’interpretazione delle norme, perché questo è un formidabile aiuto per chi voglia orientarsi in una materia che non è sempre accessibile a tutti.

Sappiamo che nel vario, articolato albero della giurisprudenza molti rami sono secchi e, vorrei dire, nascono secchi, da quando vengono pronunziate le sentenze. Sono sentenze che si possono ignorare, altre bisogna additarle all’opinione pubblica perché contengono le “bischerate”, o perché non si reggono: questa è la scelta che un Osservatorio deve fare.

Terzo: Olympus deve essere un punto di incontro tra l’Università, le istituzioni e tutti coloro che si occupano di sicurezza sul lavoro. Naturalmente tutto molto giusto: tuttavia, se non si vuole che questo incontro sia un incontro sterile, l’Università deve rivedere la tavola dei propri interessi e obiettivi da perseguire. Se alla Facoltà di Giurisprudenza il diritto penale del lavoro, nonostante l’impegno ammirevole di molti, resta tutto sommato marginale, perché il programma previsto indulge su altri temi; se a Medicina, lo spazio dell’igiene del lavoro è quello che è; se a Ingegneria si sfornano ingegneri che della sicurezza sul lavoro non sanno proprio nulla, senza eccezioni, allora qualcosa non va. Al contrario, se l’Università saprà porsi alla testa di un progetto che si fa carico di creare, di alimentare, di far crescere la cultura della sicurezza; se saprà licenziare buoni conoscitori del diritto e delle tecniche della sicurezza; se saprà condurre l’elaborazione che è necessaria per la fondamentale opera di formazione di professionisti capaci, allora l’Università potrà davvero essere il luogo dove si incontrano tutti coloro che fanno della sicurezza sul lavoro non soltanto un momento di cultura ma anche un momento di impegno civile, perché è questo che manca in Italia.

È naturale che per questa opera di trascinamento non sarà sufficiente mettere a disposizione degli utenti newsletters, banche dati ecc., strumenti sicuramente fondamentali, ma insufficienti di per se stessi! Occorre quella cosa misteriosa che è la forza di produrre cultura, e la cultura, massima quella della sicurezza, non si produce nello splendido isolamento delle aule universitarie, ma soltanto attraverso questo coinvolgimento, cui accennavo prima, paziente, costante, delle istituzioni interessate, dei singoli, anche esterni all’Università. In un impegno in cui ciascuno fa quello che sa fare, senza velleitarismi, senza personalismi, senza fughe in avanti, che come sappiamo sono solo concreti passi indietro.

Quarto: la banca dati. Abbiamo tutti convenuto che la Banca dati non è sufficiente, ma è necessaria. I dati, quelli che contano, sono solo il punto di partenza di ogni progetto, perché nessuno dei messaggi generali o mirati che l’Osservatorio elargirà poi al pubblico può essere mandato se non poggia statisticamente, scientificamente su dati certi e inequivocabili. La nostra inerzia, da tempo, ci induce a pensare che i dati ce li dà l’Inail, perché l’Inail è l’Ente che ha tra i suoi obiettivi istituzionali proprio quello di fornirci i numeri. Tuttavia, ci vuol poco a capire che l’Osservatorio non può vivere abbarbicato ai numeri che l’Inail redige per le sue statistiche nel perseguimento, aggiungo, dei propri fini istituzionali, che sono quelli di definire le pratiche assicurative. In tal senso, è indiscutibile che le modalità con cui ce li fornisce risentono fortemente dell’evasione perpetuata. Può accadere, ed è accaduto, che la meritoria opera dell’Inail, può avere come effetto quello di fornire all’opinione pubblica messaggi che qualche volta possono essere non correttamente interpretati. Ad esempio, si dice che il trend infortunistico in Italia è talmente positivo che sarà possibile venire a capo fra poco. È vero, per fortuna, che il numero assoluto di infortuni è diminuito fortemente: nel 1963, quando abbiamo toccato la punta massima, gli infortuni erano 1.360.000, ossi sono invece scesi di 400.000 unità! Ma, se organizzassimo la statistica per ore lavorate, dovremmo considerare che nel 1963 erano molti di più impegnati in lavori rischiosi, che oggi sono invece impiegati altrimenti.

Quindi, resta la necessità di fare riferimento all’elaborazione statistica dell’Inail, ma un Osservatorio non può vivere solo di quella. Abbiamo bisogno di conoscere il contesto produttivo, l’andamento globale degli infortuni, compresi gli infortuni mancati, quelli che non emergono, territorio per territorio, le situazioni lavorative che li hanno provocati, i comparti, i macchinari, le sostanze. Se vogliamo parlare ai lavoratori, ai datori di lavoro, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ai tecnici aziendali, abbiamo bisogno di sapere dagli organi di vigilanza – una cosa allo stato impossibile – abbiamo bisogno di sapere quanti controlli, quanti interventi, quante prescrizioni sono state impartite, quante adempiute e quante non osservate; insomma, abbiamo bisogno di caratterizzare il nostro intervento, i nostri messaggi, per il rigore scientifico dei dati cui facciamo riferimento, per la loro fonte, per i metodi nella raccolta, nella restituzione dei risultati; questa è l’enorme opera che deve fare l’Osservatorio.

Dobbiamo sapere in dettaglio quali sono i comparti, quali sono le tipologie produttive, dove sono avvenuti gli incidenti più gravi; oppure, quali sono i comparti che oggettivamente, per esperienza e per i processi produttivi, si possono definire a maggior rischio. Sono tutti dati che possiamo ottenere non più dall’Inail o solo dall’Inail, ma dai vari soggetti che aderiscono all’Osservatorio, che dovrebbero impegnarsi a fornire notizie sugli interventi svolti, evitando possibilmente le duplicazioni.

C’è un settore in cui i dati mancano del tutto, dove regna il buio più assoluto ed è quello relativo al numero di processi penali che si celebrano per infortunio e per malattia professionale: quante condanne, quante le assoluzioni che ne derivano!

Nessuno finora ha saputo fornire su scala nazionale dati che siano appena credibili. È risaputo che, anzi, non è possibile averli se non altro perché alcune Procure non sono in grado di distinguere quali procedimenti per lesioni colpose riguardino gli incidenti stradali, quali le colpe mediche, quali gli infortuni sul lavoro, quali le malattie professionali!

Mi chiedo se nell’epoca del computer e delle comunicazioni e rilevazioni in tempo così detto reale, se questa totale assenza di dati non sia una cosa fantastica, perché dalle Procure non si riesce ad avere niente! Nei momenti di malumore, non vi nascondo che mi dico che forse nemmeno questo succede a caso. Tutti capiscono, per un Osservatorio, quanto sia importante sapere se lo Stato sia in grado o no di organizzare una risposta repressiva ad un fenomeno infortunistico di questa gravità; eppure, non è dato sapere se la repressione esista e se abbia benefici risvolti pedagogici!

Per le malattie professionali le cose sono fortunatamente diverse, qualcosa si sa. Per esempio, si sa per certo che le malattie professionali da lavoro non vengono denunziate, perché i luoghi di diagnosi e cura hanno l’abitudine di non inviare il referto di malattia professionale o di sospetta malattia professionale al magistrato, come la legge imporrebbe. Sembra impossibile, ma è difficilissimo convincere i medici a rispettare un obbligo penalmente sanzionato; si sono fatti, è vero, anche alcuni processi, a carico di questi medici inadempienti, ai quali non è seguito praticamente niente. Per i medici di diagnosi e cura sembra funzionare, ma al contrario, un vecchio adagio della rivoluzione parolaia che è stata il ’68: “ne colpisci uno per educarne cento”. Qui ne colpisci cento, e se ne educhi due è già una gran cosa! Che fine facciano poi quei pochi referti di malattia professionale che arrivano nelle Procure, questo non è facile sapere; le mie conoscenze sono parziali, limitate a quelle Procure dove ho lavorato.

Eppure, abbiamo bisogno di conoscere il fenomeno sommerso delle malattie professionali! L’Inail ci fornisce dei dati, ma questa volta – mi permetto di dire – assolutamente incredibili, perché se si confrontano questi dati con gli eventi attesi dagli epidemiologi, c’è uno scarto da uno a dieci volte tanto. Dunque, se i dati di cui abbiamo bisogno, né le Procure né i medici ce li danno, noi ce li dobbiamo andare a cercare: questo fa un Osservatorio!

Come si vede le cose da fare sono molte e non si corre il rischio di annoiarsi! Ma, non dobbiamo nemmeno illuderci; sappiamo che sarà un lavoro duro, che troverà resistenze, che troverà certamente indifferenza e sordità. Per questo tipo di cose, del resto, non esiste la bacchetta magica per invertire la tendenza; occorreranno una fatica e una costanza di cui altre volte questa Università ha dato prova. Noi saremo contenti se con il nostro lavoro potessimo salvare anche solo una vita, un po’ sicuri come siamo che, come dice il vecchio proverbio, chi salva un uomo salva l’umanità intera.

Urbino, 11 maggio 2006