Tribunale di Milano, Sez. Lav., 27 febbraio 2012 - Mancanza del documento di valutazione rischi con riferimento al CSI, illegittimità del termine del contratto di lavoro stipulato ai sensi dell'art. 2, co. 1 bis, del D.Lgs. n. 368/01






REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO

Il dott. NICOLA DI LEO in funzione di giudice del lavoro ha pronunciato la seguente

SENTENZA



nella causa civile di I Grado iscritta al n. 12391/2011 R.G. promossa da:

GI.DI., con il patrocinio dell'avv. MO.PA. e con elezione di domicilio in VIALE (...) 20122 MILANO presso e nello studio dell'avv. MO.PA.

ATTORE

contro:

POSTE ITALIANE S.p.A. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. DE.GI., con elezione di domicilio in VIA (...) POSTE IT. DIREZ. AFFARI LEGALI 20123 MILANO, presso e nello studio dell'avv. DE.GI.

CONVENUTO

OGGETTO: mancanza del documento di valutazione rischi con riferimento al CSI, illegittimità del termine del contratto di lavoro stipulato ai sensi dell'art. 2, co. 1 bis, del D.Lgs. n. 368/01, domanda riammissione e di risarcimento danni.




Fatto



Con ricorso al Tribunale di Milano, quale giudice del lavoro, depositato in cancelleria il 9.8.11, GI.DI. ha esposto di essere stato assunto dalle POSTE ITALIANE S.p.A. il 31.1.08, con un primo e unico contratto di lavoro a tempo determinato stipulato ai sensi dell'art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 368/2001.

Ha, in particolare, allegato la parte attorea come la novella legislativa di cui si tratta sarebbe da disapplicarsi per il contrasto con la Direttiva 99/70/CE o, altrimenti, si rivelerebbe incostituzionale per la violazione degli artt. 3, 10, 11, 41, 76, 87 e 117 Cost.

Per asseverare le proprie tesi, la parte ha dedotto che la disciplina della successione dei contratti a termine, contenuta nell'art. 5 del dlgs. 368/01, non sarebbe applicabile ai contratti contemplati nell'art. 2.

Inoltre, la stessa parte ha rilevato come, quand'anche la norma si dovesse reputare conforme all'ordinamento costituzionale e comunitario, non sarebbe, ad ogni modo, stata rispettata dalla POSTE ITALIANE S.p.A. la soglia massima del "15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono" stabilita dallo stesso art. 2, co. 1 bis ed, inoltre, non sarebbero state effettuate la valutazione rischi di cui al D.Lgs. n. 626/94 e le comunicazioni delle richieste di assunzione alle organizzazioni sindacali provinciali di categoria previste dalla medesima disposizione.

In particolare, con riferimento alla percentuale del 15% di cui alla norma in parola, la difesa di parte ricorrente ha osservato come non potrebbe essere riferita all'intero organico aziendale, ma dovrebbe rinvenire una base di calcolo solo nell'ambito del personale effettivamente dedicato al settore postale, visto che la convenuta si occuperebbe anche di altre attività commerciali che si porrebbero come ulteriori e non pertinenti per tale disposizione.

Secondo la stessa parte, infatti, una soluzione ermeneutica differente verrebbe a determinare che presso la POSTE ITALIANE S.p.A. il canone per cui il contratto a tempo indeterminato è la regola, mentre quello a termine e' l'eccezione, verrebbe invertito, con impossibilità della previsione di cui all'articolo 2, comma 1 bis di produrre alcun effetto, poiché sarebbe invocata in una situazione di abuso del diritto.

Ancora, nello stesso senso, secondo la tesi attorea, si profilerebbe un caso di abuso di posizione dominante, vietato ai sensi dell'articolo 82 del Trattato CE, qualora si ammettesse, che la convenuta, pur operando anche in settori diversi da quello postale, possa assumere ai sensi dell'articolo 2, co. 1 bis, nella percentuale del 15% riferita all'intero organico aziendale, con, cioè, violazione dei diritti di libera concorrenza delle altre aziende che, parimenti, come la POSTE ITALIANE S.P.A., trattino i prodotti differenti da quelli postali.

Infine, il ricorrente ha sostenuto che poiché sarebbe stato adibito presso il CSI di Milano e poiché detta unità produttiva, costruita ex novo alla fine del mese di ottobre 2007 affinché vi venisse svolta la lavorazione della posta estera, sarebbe stata priva del documento di valutazione rischi, la apposizione del termine al contratto sarebbe stata illegittima ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 368 del 2001.

Per queste ragioni, asserendo, così, a tal punto, la illegittimità della durata determinata del rapporto, la parte istante ha chiesto il relativo accertamento giudiziale della nullità parziale del negozio, con la conseguente dichiarazione che tra le parti sia sorto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall'inizio. Con accessori e vittoria di spese.

Costituendosi ritualmente in giudizio, con articolata memoria difensiva, la POSTE ITALIANE S.p.A. ha contestato la fondatezza delle domande, chiedendone il rigetto. Con vittoria di spese.

Al riguardo, ha, in primo luogo, sostenuto che poiché il ricorrente avrebbe atteso due anni e otto mesi senza effettuare alcuna contestazione alla convenuta, la sua condotta inerte dovrebbe essere qualificata come idonea a configurare un mutuo consenso dei contraenti alla cessazione del rapporto di lavoro.

Poi, ha dedotto come il contratto di lavoro di cui si tratta sarebbe stato stipulato legittimamente ai sensi dell'art. 2, co. 1 bis, del D.Lgs. 368/01 che regola la materia ed affermato che, alla stregua di tale disciplina e dell'art. 5, co. 4 bis del D.Lgs. 368/01, dovrebbe ritenersi legittima la apposizione di un termine di durata al rapporto anche in assenza della specificazione delle causali di cui all'art. 1 dello stesso decreto delegato, non contrastando la disposizione con alcun precetto costituzionale o comunitario.

Inoltre, la convenuta ha osservato come sarebbe stata effettuata la "valutazione dei rischi" del CMP Milano CSI, unità produttiva di applicazione del ricorrente e che, comunque, le lavorazioni della CSI e del CMP sarebbero state identiche, con l'unica differenza che il primo riguarderebbe la corrispondenza internazionale, mentre il secondo quella nazionale. In più, il CSI non sarebbe stato una autonoma unità produttiva per cui sarebbe stata necessaria la valutazione rischi, potendo essere sufficiente per il CSI quella già effettuata per il CMP, nel quale sarebbero espletate attività identiche, con macchine identiche.

Con riferimento a una diversa argomentazione del ricorrente, ancora la POSTE ITALIANE SPA, dopo aver sostenuto come, nell'ipotesi, non vi sarebbe alcun caso di abuso del diritto o di posizione dominante, ha, infine, eccepito come, anche in caso di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, le retribuzioni dovute dovrebbero, comunque, considerarsi dalla costituzione in mora della convenuta (secondo l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale), tenendosi altresì conto dell'aliunde perceptum dal lavoratore da altri datori di lavoro dopo la scadenza del contratto a termine in parola.

All'udienza di discussione, tentata inutilmente la conciliazione, uditi alcuni testimoni, la causa è stata oralmente discussa e decisa come da dispositivo pubblicamente letto.





Diritto

 



Le domande attrici sono risultate fondate per la violazione dell'articolo 3 del decreto legislativo 368 del 2001, non ritenendosi dimostrato che la convenuta abbia effettuato una "valutazione rischi" per il Centro di Smistamento di posta Internazionale (CSI) per cui ha lavorato il ricorrente.

Non è, infatti, in contestazione che il ricorrente abbia lavorato presso il CSI e che questo costituisse un edificio, costruito ex novo nel quale veniva trattata la corrispondenza internazionale, con attività iniziata alla fine dell'anno 2007.

Neppure è controverso che, precedentemente, detta corrispondenza internazionale veniva gestita all'interno del CMP e che, dopo la costruzione dell'edificio del CSI, i lavoratori dedicati alla posta internazionale si sono trasferiti nel nuovo stabile.

Parimenti, non è in contestazione che fino al maggio del 2008 non sia stato realizzato un autonomo documento di valutazione rischi per il CSI (datato, peraltro novembre 2008, prodotto quale doc. 5 res.).

Dunque, fino al maggio (o novembre) del 2008, in un intero edificio della convenuta, quello del CSI, si è operato senza che risulti provato che sia stata effettuata la valutazione dei rischi ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo 626 del 1994.

Non appare, poi, di rilievo il fatto che detto edificio costituisse una "unità operativa", posto come l'articolo 4 del D.Lgs. 19-09-1994, n. 626 preveda che "il datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, valuta tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro.

2. All'esito della valutazione di cui al comma 1, il datore di lavoro elabora un documento contenente:

a) una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella quale sono specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;

b) l'individuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale, conseguente alla valutazione di cui alla lettera a);

c) il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.

3. Il documento è custodito presso l'azienda ovvero l'unità produttiva (...)".

Il contenuto di detta norma, infatti, appare chiaro nel senso che il datore di lavoro valuta tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori analizzando, tra l'altro, la "sistemazione dei luoghi di lavoro".

Ciò è da intendersi, con interpretazione teleologica volta a porre in rilievo lo scopo della tutela della sicurezza dei lavoratori, nel senso che "ogni luogo" di lavoro, sia che faccia parte del complessivo ambito aziendale o di un'unità produttiva (non importa, cioè, la distinzione tra ambito aziendale complessivo e unità produttiva e in tal senso va inteso il riferimento di cui al comma uno dell'articolo 4 citato alla "attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva"), deve essere esaminato per la "sistemazione concreta di luoghi di lavoro", senza escludere alcuna parte.

Cioè, ogni luogo dove operano i lavoratori deve essere sottoposto a "valutazione rischi" e, con riferimento all'analisi del medesimo, deve essere redatto il relativo documento attestante l'effettuazione di detto esame.

Per dette osservazioni, quand'anche la lavorazione svolta nel CSI fosse stata prospettata con modalità identiche a quelle consone ai lavoratori del CMP (riguardando l'uno la posta internazionale e l'altro quella nazionale) e con macchinari identici, rimarrebbe, comunque, che non è stato esaminato lo stato dei luoghi di un intero edificio della convenuta, quello del CSI in cui lavorava il ricorrente.

La resistente, infatti, non ha potuto produrre alcun documento di valutazione rischi che fosse successivo alla costruzione dell'edificio del CSI (non potendo contemplare un esame di detto palazzo, evidentemente, i documenti di valutazione rischi anteriori alla sua costruzione e, perciò, neppure quello del CMP di Milano) e precedente a quello del novembre del 2008, che, tra l'altro, con la sua formazione, viene a confermare come per detto immobile fosse necessaria un'apposita valutazione rischi (cfr. i doc. 5 e 5/1 res.).

La esposta soluzione ermeneutica, del resto, corrisponde al disposto dell'articolo 29 del D.Lgs. 09-04-2008, n. 81 (ossia, la normativa che è seguita al decreto legislativo 626 del 1994, che pur regola la fattispecie, per cui è possibile confrontare l'art. 63, co. 5) che prevede che "la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità".

Non vi è chi non veda, infatti, come non si possa che considerare una "significativa modifica del processo produttivo" il fatto che addirittura si costruisca un palazzo a fianco a quello di origine e si trasferiscano nello stesso i lavoratori con nuovi macchinari, tanto che, anche qualora si considerasse il CSI come parte del CMP, la valutazione rischi sarebbe stata da rielaborare con riferimento all'intero nuovo edificio, non potendosi riferire la precedente (dedicata al solo CMP) al CSI e restando identica la violazione dell'articolo 3 del decreto legislativo 368 del 2001.

Dunque, la convenuta non ha dimostrato che, per il periodo di operatività del contratto a termine di cui si tratta, fosse stato elaborato un documento di valutazione rischi con riferimento all'attività svolta nel CSI dove lavorava il ricorrente e il negozio a tempo determinato in parola deve, perciò, essere considerato illegittimo per la violazione dell'articolo 3 del decreto legislativo 368 del 2001.

Per ciò si deve dichiarare l'illegittimità del contratto a termine stipulato tra le parti e la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato tra le stesse fin dall'origine.

B) L'ECCEZIONE DI SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO PER MUTUO CONSENSO.

Una volta valutata l'illegittimità del termine e che tra le parti si doveva reputare esistente un rapporto a tempo indeterminato, per decidere la presente causa, è necessario, ancora, procedere ad esaminare l'eccezione di scioglimento del rapporto per mutuo consenso proposta dalla convenuta.

Tale eccezione deve essere rigettata.

Per meglio chiarire, occorre ricordare che è ormai consolidato orientamento della giurisprudenza del Supremo Collegio il principio secondo cui (in un giudizio instaurato per il riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per la nullità del termine del contratto di lavoro) per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, è necessario accertare - sulla base del lasso di tempo lasciato trascorrere dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali altre significative circostanze - che sia presente una volontà chiara e certa delle stesse di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (cfr. Corte di Cassazione sent. n. 15403 del 2.12.00).

Si ricorda, oltremodo poi, che la Corte di Cassazione nella sentenza n. 13370 del 2003 ha precisato che è configurabile la risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 1372, comma primo, cod. civ., anche in presenza non di dichiarazioni, ma di "comportamenti significativi" tenuti dalle parti.

In particolare, e' suscettibile di una siffatta qualificazione il comportamento delle stesse che, alla scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, determinino la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto per una durata e con modalità tali da evidenziare il loro completo disinteresse alla sua attuazione.

In via generale, quindi, si può intendere che la Suprema Corte ha affermato che un primo indice per interpretare la volontà delle parti è ravvisabile nel lungo tempo lasciato trascorrere dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine e prima di tentare di ottenere il riconoscimento di un rapporto a tempo indeterminato, chiarendo, altresì, che tale dato di per sé solo non è però sufficiente: al fine di accertare il mutuo consenso dei contraenti alla risoluzione del vincolo, oltre al decorso del tempo dalla scadenza del termine, si deve ritenere necessaria la sussistenza di ulteriori elementi idonei a far qualificare in tal senso la mera inerzia delle parti, dovendosi valutare il complessivo comportamento significativo tenuto dalle stesse (cfr., tra le altre, Cass. 29 marzo 1995, n. 3753; Cass. 14 marzo 1997, n. 2290 e Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665).

Venendo, allora, all'esame del caso in parola, è da rilevare che, in seguito alla disdetta del 31.3.08, la parte ricorrente ha atteso due anni otto mesi senza effettuare alcuna contestazione alla convenuta, avvenuta, poi, con la costituzione in mora del 27/11/10 (cfr. doc. 15 di parte attorea).

Nel caso in esame, è stato provato (cfr. la scheda professionale del ricorrente) che il dipendente ha intrattenuto, in questo periodo, unicamente due brevissimi rapporti di lavoro (di meno di un mese uno, e di tre giorni l'altro) con altri datori di lavoro e si deve rilevare come questo non possa costituire una prova sufficiente per denotare un disinteresse verso una qualsiasi forma di prosecuzione del rapporto di lavoro con le POSTE ITALIANE S.p.A. (cfr., anche, l'interrogatorio del ricorrente nel verbale di causa che ha giustificato detta attesa nel costituire in mora la convenuta, tra l'altro, con seri problemi familiari).

La brevità e la precarietà degli impieghi assunti dal lavoratore non può, così, esprimere una sua volontà di rinunciare al precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la resistente, ma solo la necessità di trovare una momentanea e brevissima occupazione per far fronte alle proprie quotidiane esigenze di vita.

L'eccezione della convenuta deve, quindi, essere rigettata e deve riconoscersi, stante la nullità del termine apposto al contratto del 2008 e l'impossibilità di riscontrare una volontà di interruzione del rapporto di lavoro, la continuità dello stesso e la sua natura indeterminata a far data dal 31/1/08.

C) LE CONSEGUENZE GIURIDICHE.

In accoglimento del ricorso, deve essere, pertanto, dichiarata la nullità del termine finale apposto al contratto stipulato e, conseguentemente, che tra le parti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far tempo dal 31/1/08 (cfr. doc. 2 ric.) e mai cessato.

Quanto alle conseguenze economiche a favore della parte attorca, in applicazione dell'art. 32 della legge n. 183/10, accertata la conversione a tempo indeterminato del rapporto, si deve condannare la POSTE ITALIANE S.p.A. a corrispondere alla ricorrente 3,5 retribuzioni mensili globali di fatto, considerata la breve durata della relazione lavorativa e il numero di dipendenti della convenuta, oltre rivalutazione ed interessi di legge dalla sentenza al saldo.

La convenuta, da ultimo, deve essere condannata, in ragione della soccombenza, a rimborsare al ricorrente le spese di lite determinate in Euro 1.600,00, oltre accessori di legge, in virtù della durata e del valore del giudizio.



P.Q.M.



Dichiara la nullità del termine finale apposto al contratto stipulato tra le parti il 31.1.08; dichiara che tra le parti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data; condanna la convenuta a ripristinare il rapporto di lavoro ed a corrispondere al ricorrente, ex art. 32 della legge n. 183/10, 3,5 retribuzioni globali di fatto, oltre rivalutazione ed interessi di legge dalla sentenza al saldo; condanna la società convenuta a rimborsare al ricorrente le spese di lite che liquida in Euro 1.600,00, oltre accessori di legge. Sentenza esecutiva e motivazione a 60 giorni.