Il Testo Unico per la riforma ed il riassetto normativo della salute e sicurezza sul lavoro

Quartiere Fieristico - Bologna, 6 giugno 2007

La vigilanza nei luoghi di lavoro

di Beniamino Deidda



1. Dei tanti, importanti strumenti di cui si è parlato questo pomeriggio, certamente la vigilanza sui luoghi di lavoro è quello che solleva maggiori perplessità e qualche volta contrapposizioni di non poco conto.

E si capisce che sia così, dal momento che la vigilanza è ritenuta da molti uno strumento di controllo molto invasivo nei confronti delle aziende e quasi l’anticamera del processo penale per le sue indubbie potenzialità repressive. Non è raro, e lo abbiamo sentito molte volte durante i dibattiti sul nuovo TU della sicurezza, che i datori di lavoro reclamino una svolta nel rapporto tra i servizi pubblici di controllo e le aziende: più che le contestazioni si vorrebbe un approccio più dolce; insomma più bonari avvertimenti e meno contravvenzioni.

Devo dire che chi abbia una certa età e anche qualche esperienza non può che restare sorpreso dell’insofferenza che si manifesta per l’azione di vigilanza degli organismi pubblici. Perché la storia della prevenzione sui luoghi di lavoro in Italia, se considerata con il necessario distacco, ci dice che da sempre, e certamente dalla metà degli anni ’50, esiste nel nostro Paese una grossa questione nazionale: il problema della vigilanza. La quale non è mai stata adeguatamente praticata dagli organismi pubblici, sia quando spettava all’Ispettorati provinciali del Lavoro, sia quando è passata ai Servizi di Prevenzione sui luoghi di lavoro delle USL e poi delle ASL. Intendiamoci, non voglio dire che nessuna azienda sia mai stata visitata: il punto è quante lo siano state e in quali occasioni e con quali criteri.

C’è stato un lungo periodo nel quale la competenza generale per il controllo e la vigilanza sui luoghi di lavoro è appartenuta agli Ispettorati Provinciali del Lavoro, strutture periferiche del Ministero del Lavoro, dirette da un apparato centrale che regolava le modalità del controllo attraverso circolari vincolanti per la periferia. Gli Ispettorati provinciali agivano sul territorio con pochissime unità, assolutamente insufficienti per programmare razionalmente qualsiasi attività di vigilanza. Ricordo che in provincia di Firenze negli anni ’60 c’erano sette Ispettori del Lavoro, pari ad un terzo del personale oggi appartenente ad una delle quattro zone in cui è divisa la città di Firenze. Ebbene i sette erano perennemente ingolfati nelle indagini sugli infortuni che la magistratura gli affidava. Dunque sostanzialmente gli Ispettori potevano recarsi nelle aziende solo quando si verificava un infortunio, e in quell’occasione avevano modo di contestare anche violazioni che non fossero legate da nesso causale con l’infortunio, soprattutto per quanto riguardava il DPR 547/55. Molto meno si esercitava la sorveglianza sulle violazioni del DPR 303/56 sull’igiene del lavoro, le cui logiche erano in qualche modo lontane dalla cultura corrente degli ispettorati. Dunque la vigilanza era sporadica, non programmata e, per lo più, occasionalmente legata al verificarsi dei numerosi infortuni sul lavoro che, allora come ora, caratterizzavano il nostro paese.

Si aggiunga che quel poco di vigilanza che veniva fatta vedeva il frequente ricorso alla diffida, interpretata dal Ministero del lavoro come alternativa all’obbligo di comunicare al Pretore la notizia di reato: interpretazione eversiva, non rispettosa dei principii generali del nostro ordinamento penale e giustificata solo dalle scarse conoscenze giuridiche del Ministero del Lavoro.

Quanto alle malattie professionali, era proprio la composizione degli Ispettorati che permetteva di escludere che essi potessero in qualche modo occuparsene. Negli Ispettorati non c’era nessun medico, la fonte delle notizie di reato in materia era l’Inail, quando lo era, e comunque molto tempo dopo che fosse conosciuta la diagnosi di malattia professionale. Credo che sarebbe interessante una ricerca sul numero dei processi celebrati in Italia per malattia professionale dall’Unità d’Italia al 1982. Personalmente ricordo che negli anni ’60 e ’70 c’erano colleghi sinceramente persuasi che avere cagionato una malattia professionale ad un lavoratore dipendente non potesse costituire un motivo sufficiente per promuovere un processo penale. Per questo complesso di fattori, dunque, la genesi delle malattie professionali e la prevenzione delle stesse non faceva parte dell’ordinario bagaglio degli Ispettorati del Lavoro.


2. Le cose sono certamente cambiate con il passaggio delle funzioni dagli Ispettorati provinciali ai servizi delle USL, avvenuto con il 1 luglio 1982.

Il cambiamento è stato sostanzioso sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo. In molte zone del nostro paese i servizi delle Usl sono stati costruiti sull’esperienza ancora viva dei Consorzi socio-sanitari, esperienza che vedeva impegnato un personale di notevoli capacità e animato dallo spirito dei pionieri. Dove c’è stato questo terreno fertile i servizi si sono sviluppati con grande attenzione alle mappe di rischio, ai piani mirati, ma con scarse attitudini alla vigilanza; dove invece queste esperienze mancavano i servizi hanno stentato sotto il profilo della programmazione dell’azione di prevenzione e si sono dedicati ad una disordinata azione di vigilanza, magari accompagnati da qualche volenteroso ispettore del lavoro che aveva scelto di passare alle USL.

Sia nel primo che nel secondo caso i controlli, le visite e le ispezioni nelle aziende sono stati certamente più numerosi di quanto non fossero quando la competenza era degli Ispettorati, ma hanno rappresentato una quota irrisoria se paragonati al numero delle aziende che operano in Italia. Si è aggiunto a questa endemica insufficienza un fenomeno scandaloso. In qualche regione d’Italia le USL hanno omesso di istituire i Servizi di prevenzione sui luoghi di lavoro, senza che l’autorità centrale e la Magistratura intervenissero (salvo qualche caso raro) per porre fine alla continuata omissione di atti dovuti per legge. Le funzioni relative sono state illegittimamente assunte dagli ispettorati del lavoro, cui i magistrati hanno continuato a rivolgersi per gli atti di competenza della polizia giudiziaria.

La storia, ancora giovane, delle ASL è dunque piena di chiaroscuri e di contraddizioni, di passaggi talora esaltanti e di scandalose omissioni. Ma su un punto essa perpetua una tradizione tipicamente italiana: la vigilanza sulle aziende è scarsa, copre percentuali irrisorie, consolida nei datori di lavoro la sensazione, e qualche volta la certezza, che con un po’ di fortuna le violazioni della legislazione vigente possono allegramente continuare.

Insomma la vigilanza sui luoghi di lavoro in questo paese è storicamente mancata nel suo complesso. Perché questo sia avvenuto almeno negli ultimi 50 anni, e soprattutto negli ultimi 25, sarebbe troppo lungo discutere. Saranno stati i Direttori Generali che erano più attenti alle vicende dei luoghi di diagnosi e cura e che si infischiavano della prevenzione; sarà stato che il personale di molti servizi è stato lasciato in situazioni di grave insufficienza; sarà stato il clima di “collaborazione” con i poteri forti che ha indotto alcune Regioni a non disturbare il manovratore: certo è che anche i più sprovveduti sanno che nulla nell’ambito del sociale accade a caso e che dunque questo indubbio risultato va ascritto a scelte precise e costanti nei decenni.

Ma, a completare il quadro occorre segnalare che in questi 25 anni dal passaggio delle funzioni alle ASL vi è stato il costante tentativo da parte delle strutture centrali del Ministero del Lavoro di erodere le competenze dei servizi delle ASL, con i più svariati pretesti: una legislazione speciale, precedente al 1982, che conserverebbe i suoi effetti anche dopo (ad es, la sorveglianza congiunta con i servizi sanitari delle ferrovie), oppure la permanenza delle funzioni di PG in capo agli ispettori del Lavoro anche ai fini della vigilanza nei luoghi di lavoro, opinione che contraddice inequivocabilmente il disposto del 3° comma dell’art. 57 cpp; oppure dopo l’entrata in vigore del D.L.vo 758/94, la pretesa di impartire la ‘prescrizione’ anche fuori dei casi in cui le norme attribuiscono alle DPL la vigilanza. Tutto ciò ha prodotto una rincorsa dannosa e a volte un po’ puerile, dal momento che sono note le difficoltà delle DPL di svolgere efficace vigilanza nelle materie loro attribuite, specie per quanto riguarda il cd ‘lavoro nero’.


3. Oggi la vigilanza sui luoghi di lavoro appartiene, secondo l’art. 23 del D. 626 ad una miriade di organi alcuni dei quali di fatto non l’esercitano: penso agli uffici di sanità aerea e marittima, alle autorità marittime portuali ed aeroportuali, ai servizi sanitari e tecnici delle Forze Armate e di Polizia e a quelli delle strutture penitenziarie, che dovrebbero servire anche agli uffici giudiziari. Insomma una serie di attribuzioni inutili che hanno una sola funzione: quella di sottrarre una buona fetta di amministrazioni pubbliche alle norme comuni con il pretesto che la loro attività spesso si svolge in aree riservate ed operative, le uniche in cui sarebbe ragionevole evitare l’accesso dell’organo di vigilanza generale.

Forse sarebbe giusto cogliere l’occasione del Testo Unico per semplificare davvero la materia della vigilanza, per evitare sovrapposizioni e per abolire competenze che in realtà lasciano privi di tutela migliaia di lavoratori, per lo più incaricati di svolgere attività rischiose. Il Testo Unico potrebbe dunque con grande chiarezza ribadire che l’organo generale addetto alla vigilanza è quello appartenente ai servizi delle ASL, con pochissime eccezioni che siano giustificate da esigenze di specializzazione. Certamente i Vigili del Fuoco per quanto riguarda il rischio incendio e, come è opinione generalmente condivisa, la Direzione provinciale del Lavoro, per quanto riguarda i rischi rilevanti e i lavori in edilizia in particolare, caratterizzati da un rilevante numero di lavoratori irregolari: in questo caso sarebbe certo inopportuno attribuire diverse competenze esclusive in una materia nella quale si incrociano fenomeni assai complessi. Tutto il resto dovrebbe essere eliminato attraverso una riscrittura dell’art. 23 del D. 626, che faccia salve solo le aree coperte dal segreto militare o di Stato, minuziosamente elencate con DPCM.

E’ chiaro che, anche con questa riscrittura, si porrebbe il problema di possibili sovrapposizioni o di duplicazioni della vigilanza. Si impone dunque la necessità del coordinamento, già previsto dalla legge, ma quasi mai funzionante. Sarebbe dunque opportuno che il Testo Unico prevedesse un rimedio al mancato coordinamento, che finora è stato inefficace soprattutto per la scarsa disponibilità degli organi centralizzati a farsi coordinare dalle Regioni.


4. Questa dunque sembra essere la realtà odierna che non induce certo all’ottimismo e che si potrebbe compendiare in un giudizio assai crudo: da cinquant’anni questo Paese, per le ragioni che si sono elencate, non ha conosciuto un’adeguata vigilanza sui luoghi di lavoro. E non certo per responsabilità degli organi che erano incaricati di esercitarla e, anzi a volte, nonostante l’impegno e la professionalità di alcuni dei servizi incaricati: certo pochi e quasi tutti concentrati in aree che si possono dire socialmente evolute. E francamente, a vedere certi emendamenti apportati allo schema di legge delega, si potrebbe pensare che la partita non presenta vie d’uscita.

Abbiamo finora detto che la vigilanza sui luoghi di lavoro rappresenta una grossa questione tuttora aperta. Ma io credo che dovremo allargare il nostro orizzonte per accorgerci che in Italia esiste un’altra questione, forse più grave ed irrisolta: la questione della prevenzione, che comprende in sé, come proverò a dimostrare, anche il problema della vigilanza.

L’attività di prevenzione è disciplinata dalla legge di riforma sanitaria n° 833/78 e non starò a ricordare a voi il contenuto degli articoli 20 e 21. Ma mi chiedo: in quale parte d’Italia si è compiutamente realizzata la previsione della legge 833?. Dove sono stati costruiti i servizi capaci di adempiere alle diverse funzioni e ai molteplici compiti voluti dalla legge?. Dove sono stati istituiti servizi a regime, e senza gravarli di altri incarichi che con la prevenzione non sono strettamente connessi? Dove è stato gelosamente custodito lo spirito della legge 833? La risposta a queste domande, lo sappiamo, è deludente. La riforma sanitaria dopo trent’anni è ancora largamente inattuata, in molti casi volutamente elusa, nei casi migliori solo parzialmente attuata.

La mia convinzione molto netta è che dovremo tornare allo spirito della legge 833 per cogliere ed attuare quelle potenzialità che non si sono ancora tradotte in pratica. La legge era tutta incentrata su un concetto di salute, che è ancora di straordinaria modernità sulla linea dell’art. 32 della Costituzione. La salute della persona al centro dell’intervento pubblico, come diritto personalissimo che si declina senza variazioni di sostanza in tutti i luoghi in cui si svolge e si completa la personalità di ogni cittadino: non dunque un concetto di salute per il luoghi di lavoro, uno per gli ambienti di vita, un altro per i luoghi pubblici, per la vita familiare e così via. Intorno a questo concetto unitario di salute non si poteva che costruire un servizio in grado di gestire la complessità delle funzioni che ne derivavano. Ed ecco l’azienda sanitaria chiamata a mettere in campo le molteplici funzioni che garantiscono la salute delle persone, compresa quella dei lavoratori, attraverso i vari momenti della conoscenza, dell’informazione, della prevenzione e della cura. E sta proprio qui la ragione del passaggio delle funzioni di prevenzione dagli Ispettorati del lavoro alle Unità sanitarie locali, in questa necessità di gestire unitariamente i vari momenti che caratterizzano la salute di ciascuno. Penso con tristezza a quei miei colleghi che oltre vent’anni fa stramaledicevano il passaggio delle funzioni alle Usl e che per anni, come un disco rotto, hanno ripetuto che i servizi non funzionano. Vorrei ricordare che spettava anche a loro di farli funzionare, nella precisa misura in cui spetta ai magistrati di garantire la legalità.

Ma la legge 833 ha fatto anche un altro passo che poneva una grande scommessa, di fronte alla quale molti nutrivano molti dubbi: ha stabilito che le funzioni di vigilanza dovessero essere svolte dallo stesso organo incaricato di fare prevenzione. Anzi, ha stabilito che a fare le due attività dovessero essere le stesse persone fisiche appartenenti al servizio pubblico di prevenzione, dopo avere ottenuto la nomina del Prefetto.

Con questo passaggio, forse da principio sottovalutato anche dai migliori funzionari delle USL (ricordo nell’82 la ribellione nel mio ufficio di un gruppo di valentissimi medici fiorentini che si rifiutavano di controllare le aziende e di contestare le contravvenzioni), prendeva corpo un nuovo e inedito concetto di vigilanza: da anticamera della repressione e del processo penale ad attività di controllo e di stimolo per realizzare condizioni di sicurezza e salute sul lavoro. Era l’effetto di una scelta lungimirante del legislatore: creare un servizio che garantisse la complementarietà di tutte le funzioni e di tutti i compiti necessari per realizzare la salute nei luoghi di lavoro. Da quel momento la vigilanza, da attività per sceriffi, è diventata un’attività complessa che involge contemporaneamente attività conoscitive, dispositive e di controllo. Se davvero si vuole realizzare un’attività di prevenzione sistematica e razionale non si può prescindere da una fase conoscitiva, da una fase propositiva, da una fase di controllo e, quand’è il momento, da una fase di contestazione delle violazioni e di denuncia dei reati. Dunque la vigilanza a pieno diritto diventa una componente fondamentale della più vasta attività di prevenzione, anzi forse lo strumento più delicato e più necessario.

Penso di avere elencato bastanti ragioni per dire che è tramontata per sempre l’idea di creare un corpo separato di vigilantes, dediti solo all’attività ispettiva e repressiva. Sarebbe un salto all’indietro di trent’anni e il tradimento di una delle poche autentiche rivoluzioni culturali capaci di attuare lo spirito della Costituzione. Con buona pace di coloro che pensano che bisogna restituire la vigilanza al Ministero del Lavoro o che bisogna assegnarla ad altri organismi. Altri, al contrario, sostengono che i servizi delle ASL debbano fare solo ‘vigilanza’, che è con tutta evidenza un concetto assai vecchio. Se queste cose le dicono i datori di lavoro o i loro rappresentanti, pazienza: non si può pretendere che studino la legge 833/78. Se le dicono i politici, occorre molta attenzione e grande costanza nel ricordare loro quali sono i capisaldi del nostro ordinamento di prevenzione.


5. Ecco, queste sono le cose che mi aspetterei fossero ricordate nella redazione del TU nel senso che si presenta un’occasione da non perdere per costruire un progetto normativo unitario, capace di amalgamare norme nate prima e norme nate dopo la riforma sanitaria, che restituisca trasparenza alle funzioni di ciascun soggetto e nello stesso tempo sia capace di costruire un modello di prevenzione nei luoghi di lavoro che tenga conto dei fondamentali motivi ispiratori della legge 833.

Costruire questo modello nuovo che si contrapponga a quello finora uscito dalle interpretazioni che della legge fornisce il Ministero del Lavoro, (anziché, come dovrebbe, quello della Salute), non è poi così difficile se si presta orecchio ai messaggi contenuti nei due decreti legislativi più importanti per la prevenzione sui luoghi di lavoro che sono il D. 626 e il D. 758, che hanno visto la luce nello stesso anno 1994. Si tratta di messaggi omogenei, a patto che se ne sappia cogliere il senso più profondo.

Innanzitutto vediamo il D. 758, che spesso viene scambiato per un testo normativo che si limita a disciplinare un, pur importante, rito processuale per le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. In realtà le norme di questa legge introducono novità tali da modificare decisamente il ruolo dei servizi pubblici di prevenzione.

Intanto la legge contiene un principio di grande importanza. Lo Stato rinunzia alla potestà punitiva penale a condizione che il contravventore autore del reato elimini la condizione di rischio per i lavoratori e consente l’estinzione del reato dietro il pagamento di una somma pari al quarto dell’ammenda massima. Non succede per nessun altro tipo di reati nel nostro ordinamento. Se ne deve perciò ricavare un messaggio prezioso: l’azione degli organismi pubblici riceve una forte spinta verso la prevenzione che viene indicata come il fondamentale traguardo, cui è possibile, pur nel rispetto del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, sacrificare l’esigenza della repressione dei reati e della punizione dei colpevoli.

Vi è poi nella legge un secondo punto che assegna una funzione essenziale ai servizi di prevenzione e vigilanza: solo gli UPG appartenenti ai servizi sono abilitati ad impartire la prescrizione. Non, dunque, il pubblico ministero che non può impartirla né revocarla. Inoltre solo gli organi dei servizi, attraverso il momento della verifica, possono giudicare dell’adempimento della prescrizione e dell’esatta modalità e tempestività dell’ adempimento. Infine solo gli UPG dell’organo di vigilanza possono definire le modalità tecniche con le quali la prescrizione deve essere adempiuta. Come si vede, si tratta di un procedimento, a forte carattere amministrativo, il cui dominus non è il magistrato (tanto è vero che il procedimento penale è sospeso), ma l’organo di vigilanza, indicato dal legislatore come l’unico detentore delle necessarie cognizioni tecniche e specialistiche, sulle cui conclusioni si eserciterà certo il controllo giuridico formale del PM e del GIP, ma che è l’unico abilitato a concludere.

Da questa centralità dell’organo di vigilanza discendono conseguenze irrinunziabili che hanno cambiato il ruolo svolto dai servizi fino al 1994, anche se per la verità in molte zone del nostro paese si stenta a percepire questo cambiamento. Dal decreto 758 in poi per vigilanza deve intendersi soprattutto un percorso teso a riportare a norma le situazioni di rischio nei luoghi di lavoro, attraverso la prescrizione da adempiere in un congruo periodo di tempo, sotto il penetrante controllo degli UPG, i quali valutano le modalità dell’adempimento secondo i criteri della discrezionalità tecnica. La vigilanza, così concepita, non può dunque prescindere dalla funzione di assistenza, così come descritta dal 1° comma dell’art. 24 del D. 626, verso tutti i soggetti che devono essere messi nella condizione di adempiere al meglio ai loro obblighi.

C‘è un altro punto che concorre a trasformare il ruolo dei servizi. Se, a norma dell’art. 20 del D. 758, essi possono indicare le modalità tecniche dell’adempimento, è inevitabile che i servizi si mettano in condizioni di indicare modalità di indiscutibile validità. I servizi dunque devono diventare un centro di permanente elaborazione dei migliori standards di sicurezza: centro pubblico, gratuito e autorevole sulla scia delle agenzie operanti in paesi più avanzati del nostro.


6. C’è infine il contenuto del decreto legislativo 626 che costringe i servizi ad un’ulteriore revisione del loro ruolo, per quanto attiene alle modalità con cui si esplica l’azione di vigilanza. I servizi infatti non possono ignorare l’autentica rivoluzione culturale che il D. 626 ha prodotto nel nostro ordinamento, rispetto al tempo in cui l’attività di prevenzione era disciplinata solo dai DPR degli anni ’50.

Questi decreti contenevano una serie di norme il cui contenuto e la cui struttura hanno inevitabilmente comportato l’adozione di modelli di controllo e vigilanza che hanno risentito del carattere frammentario del testo di legge. Una serie di precetti, senza alcun filo che li leghi, gravavano “a pioggia” sul datore di lavoro ed i suoi collaboratori, distinguendosi solo per il contenuto tecnico e per la natura delle misure obbligatorie: di un certo tipo per le presse, di un altro per le seghe circolari, per i mezzi di sollevamento, per la viabilità, ecc. L’inevitabile riflesso di questa frammentarietà è stato la separatezza fra gli obblighi dei vari soggetti tenuti all’adozione delle misure di sicurezza. Ciascuno di essi, alla luce del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, rispondeva, com’è giusto, solo della propria azione od omissione. E così è rimasto in ombra il legame sistematico fra gli obblighi dei diversi soggetti ed il necessario collegamento fra le azioni di coloro che erano obbligati a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori. Troppe volte, fino ad anni molto recenti, abbiamo visto contestare le violazioni dei preposti o dei lavoratori, colpevoli delle negligenze o dell’imprudenza che costituivano l’ultimo anello causale dell’infortunio, senza che l’organo di vigilanza dedicasse la necessaria attenzione alla complessiva organizzazione del lavoro che quelle negligenze e quella imprudenza aveva consentito.

L’entrata in vigore del d. lgs. 626/94 non consente più uno schema di controllo e vigilanza di questo genere. Com’è noto, il d. lgs. 626 non ha introdotto nel nostro sistema di prevenzione nuovi precetti tecnici, ma ha mutato il modo stesso di concepire la prevenzione. Il tratto più saliente del decreto è infatti il legame sistematico che tiene uniti gli adempimenti di prevenzione dei vari soggetti attraverso procedure e interrelazioni la cui violazione è penalmente sanzionata. Tali procedure introducono nel nostro ordinamento un modello circolare di prevenzione in cui ogni obbligo, ogni comportamento è tenuto insieme e si lega con quello degli altri soggetti obbligati. Dunque la prevenzione e la sicurezza sui luoghi di lavoro sono in definitiva il risultato dell’apporto di più contributi sistematicamente legati tra loro. Datore di lavoro, dirigenti, medico competente, RSPP devono dare vita ad una serie di relazioni (le procedure, appunto) la cui esistenza e correttezza sono essenziali per il sistema di sicurezza.

Se tutto questo è vero, inevitabilmente il modello dell’azione ispettiva e di controllo sarà fortemente influenzata da questa impronta “sistematica” che l’ordinamento ha ormai ricevuto dal d. lgs. 626/94. Nessun obbligo sarà più solo sé stesso, ma dovrà essere letto nell’ottica interrelazionale che emerge dal d. lgs. 626/94.

Sarà perciò necessario orientarsi verso un modello di vigilanza anch’esso, per così dire, “circolare”, che tenga conto, cioè, del fatto che i comportamenti dei vari soggetti si inseriscono in un contesto organizzativo e, appunto, sistematico che deve anch’esso essere adeguatamente valutato.

Per fare degli esempi: se si accerta che più lavoratori effettuano una certa manovra tutti in modo rischioso e ciò determina un infortunio ad uno di essi, sarà necessario chiedersi se i lavoratori hanno avuto la formazione necessaria, chi ha dato loro le istruzioni, se il rischio insito nella manovra era stato adeguatamente valutato e così via. Cioè, diversamente da quanto avveniva alla stregua delle sole norme dei DPR 547 e 303, oggi è necessario inquadrare le condotte di ciascuno nell’ambito delle procedure obbligatorie di valutazione dei rischi, di informazione e formazione degli addetti, di adozione delle misure organizzative e procedurali.

Solo così forse sarà possibile indurre i vari soggetti della prevenzione a dare priorità a quei comportamenti che si rivelano come essenziali per la tenuta del sistema. Ma questo avverrà solo se i servizi si convinceranno che le violazioni e le contravvenzioni non sono tutte uguali e che il D. 626 ci costringe a distinguere tra i fondamentali elementi organizzativi e sistematici e quelli meno importanti e un po’ più formali.


Non sono in grado di dire se il Governo e il Parlamento, impegnati nell’elaborazione del nuovo TU, siano in grado di cogliere quanto siano insostituibili queste funzioni dei servizi introdotte attraverso un percorso normativo su cui, temo, hanno poco riflettuto. Ma so che c’è un patrimonio di conoscenze e di professionalità che va custodito, salvaguardato, sviluppato e valorizzato e che il Testo Unico sulla sicurezza è lo strumento ideale per farlo.

Beniamino Deidda