CONVEGNO NAZIONALE SUL “PROGETTO RSPP – EXPERT”

Responsabilità del RSPP dopo il decreto legislativo n. 195/2003

Bologna, 14 settembre 2005

di Beniamino Deidda


- Premessa.

La recente disciplina contenuta nel d. l.vo 195/03 ha riportato l’attenzione sulla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e ha stimolato la riflessione sul ruolo che egli svolge in azienda e sulle sue responsabilità.
Secondo l’art. 2 lett. c) del decreto 626/94, il servizio di prevenzione e protezione dai rischi è “l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali nell’azienda, ovvero nell’unità produttiva”. Queste sono le finalità esclusive che la legge assegna al Servizio, né si può pensare che il servizio o il suo responsabile possano perseguire altri fini, pure importanti per l’azienda, quali la produttività, il contenimento delle spese, ecc.
La legge fissa anche i limiti e le funzioni attraverso i quali tale fine viene perseguito: i membri del servizio, come stabilisce l’art. 9 d. l.vo n. 626/94, hanno compiti di consulenza e promozione che vengono svolti a servizio del datore di lavoro. Essi non hanno compiti di intervento diretto per attuare le norme di prevenzione e pertanto la legge non riserva ad essi nessuna delle sanzioni che sono previste per tutte le altre figure incaricate di attuare i precetti imperativi in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.

1. Le questioni poste dalla nuova disciplina.

Nonostante che questi principi siano stati più volte ricordati, stenta a farsi strada l’idea che chi venga incaricato di compiti di consulenza non si sostituisce al soggetto obbligato che gli ha conferito l’incarico. Né sembra che assuma un gran significato il fatto che il servizio di prevenzione non sia sanzionato penalmente in caso di inosservanza dei compiti che gli sono affidati. Anzi, per qualche recente commentatore, il fatto che il d. l.vo 195/03 abbia fissato requisiti di maggiore professionalità per gli RSPP, porterà con sé una maggiore responsabilità penale, dal momento che non potrà più essere tollerata una sua parziale o errata valutazione dei rischi.
Si è anche detto che la recente disciplina introdotta con il d. l.vo 195/03, sotto la spinta della sentenza della Corte Europea, finirà per assimilare il RSPP al medico competente sotto il profilo della responsabilità penale. Secondo questa tesi, l’alta specializzazione del medico competente troverebbe riscontro nel fatto che egli viene sanzionato penalmente per la commissione di alcuni reati propri. Ma il parallelo non regge. Proprio l’attento esame della disciplina relativa al medico competente consente di rilevare che egli viene sanzionato solo in relazione agli obblighi di cui, come medico, è direttamente responsabile e mai è prevista una sanzione a suo carico per i compiti di consulenza che egli è chiamato a svolgere a favore del datore di lavoro.
Più acutamente alcuni ritengono che, ora che il d. l.vo 195/03 ha costruito la figura del RSPP come corrispondente ad una precisa qualifica professionale, non possono mancare ripercussioni sul principio dell’affidamento del datore di lavoro. Di questa avviso, per esempio, è Pierguido Soprani, il quale, muovendo dalla considerazione che è il SPP che procede alla valutazione dei rischi ed elabora le misure preventive e protettive, ritiene che l’impianto del decreto legislativo debba essere indirizzato verso modelli di “affidamento pagante”. E cioè il datore di lavoro deve valutare le capacità tecniche del RSPP, informarsi sui rischi esistenti in azienda, verificare che il documento di valutazione dei rischi affronti adeguatamente il tema della sicurezza dei lavoratori; ma, una volta fatto tutto questo, egli potrà rimettersi per le scelte tecniche (per le quali occorra una specializzazione che non ha) alle conclusioni del RSPP.
Altri autori hanno osservato che, certo, vi è nel nostro ordinamento il principio della penale irresponsabilità dei componenti il servizio di prevenzione e protezione. La ragione di tale principio sarebbe nel fatto che il servizio, e soprattutto il suo responsabile, non è dotato dei necessari poteri d’intervento e dunque, non avendo poteri, è impensabile che gli si possano addossare i relativi doveri giuridici. Dunque tale irresponsabilità non deriverebbe intrinsecamente dai compiti di consulenza assegnati dalla legge, ma solo dalla accidentale circostanza che il soggetto è privo di poteri d’intervento diretto. Tanto è vero – si aggiunge – che, ove tali poteri vengano conferiti con apposita delega operativa, la responsabilità penale di tali soggetti, come per incanto, riaffiora.

2. La giurisprudenza sulla responsabilità del RSPP.

Il fatto singolare è che quest’opinione è in larga parte tuttora condivisa dalla giurisprudenza, che, salvo qualche dissonante pronunzia, si è orientata verso la condanna del responsabile del servizio di prevenzione tutte le volte che fossero provate le deleghe che gli conferivano compiti operativi in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro.
In varie sentenze la Corte di Cassazione si è occupata dell’attribuzione e dello svolgimento di compiti prevenzionali attivi da parte del Rspp e ne ha tratto conclusioni non sempre univoche.
Mi pare tuttavia che si possano individuare alcune linee nella giurisprudenza per quanto riguarda il ruolo del RSPP.
La prima riguarda la questione se il RSPP possa esse considerato come un sostituto del datore di lavoro e del dirigente o se abbia, invece, un ruolo di consulenza e di ausilio tecnico che svolge al servizio del datore di lavoro.
La questione è affrontata in maniera sorprendente dalla sentenza in data 9.1.2002 in causa Di Grezia, relativa ad un procedimento penale in cui il RSPP era stato condannato per la violazione degli artt. 35 d. l.vo 626/94 e 132 DPR 547/55. Il condannato aveva lamentato nel suo ricorso “la non riferibilità del contesto delle norme violate alla persona del Responsabile della sicurezza, dovendosi esso rapportare esclusivamente al datore di lavoro”.
Ma la Suprema Corte ha replicato che “una compiuta lettura della normativa anche a mezzo dell’integrazione del decreto 626/94 con il successivo d. l.vo 242/96 consente di affermare che i precetti normativi in argomento hanno per destinatario oltre il datore di lavoro anche il responsabile della sicurezza, in posizione di solidarietà e dunque di compartecipazione concorrente”.
Dello stesso tenore è la decisione della Sezione IV della Corte in data 17.6.2003, n. 25944 che in un caso di infortunio mortale accaduto ad uno psicologo dell’ASL che era precipitato dalla scala esterna di un edificio del Servizio tossicodipendenze, ha riformato la sentenza del Tribunale che aveva condannato il Direttore Generale, il responsabile del servizio acquisti e l’ingegnere dell’Ufficio tecnico responsabile anche del SPP. La Corte ha deciso per la condanna del solo RSPP sulla base della circostanza, ritenuta decisiva, che egli si era occupato dell’edificio destinato a SerT ignorando il pericolo costituito dall’altezza del parapetto della scala in oggetto.
Del tutto diversa è la decisione della Cassazione, IV Sezione, del 29.7.2004 in causa Torti, la quale con decisione afferma che la nomina degli operatori del servizio non può trasformarsi in un atto di delega con il quale il datore di lavoro trasferisce i propri obblighi al servizio di prevenzione e protezione. Per i giudici della Suprema Corte è assolutamente chiaro che il servizio di prevenzione è chiamato a svolgere il ruolo di consulente del datore di lavoro, ma non di sostituzione del medesimo nello svolgimento dei suoi compiti.

Sulla stessa scia si pone la Sezione IV della Cassazione con sentenza in data 31.3.2003 in causa Morsa. In primo grado il Tribunale aveva condannato il datore di lavoro per un infortunio occorso ad un operaio caduto da una scala durante le operazioni di pulizia di una colonna, infortunio per il quale non aveva ravvisato alcuna responsabilità del RSPP sostenendo che questi “non si identifica tout court con il responsabile della sicurezza che, in quanto tale, è solo l’imprenditore”. Mentre il RSPP è “semplicemente un consulente del datore di lavoro, un soggetto debole, privo di poteri autonomi, tanto da non essere nemmeno ritenuto dalla dottrina prevalente destinatario delle sanzioni a livello contravvenzionale”.
Sentenza questa assai lucida che rischia però di rimanere isolata nel panorama giurisprudenziale, anche perché altre pronunzie, che apparentemente sembrano dello stesso segno, nascondono in realtà più di un’insidia. Valga per tutte la sentenza della IV Sez. Pen. della Cassazione in data 2.10.2003, ric. Garbin, che tratta il caso di un grave infortunio in danno di un dipendente per il quale erano stati condannati i consiglieri delegati di una S.p.A.. Costoro hanno sostenuto a propria discolpa l’esistenza di una delega nei confronti di persona idonea e qualificata che era stata designata quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
La Corte nega che la designazione del RSPP, sia pure comunicata alla competente USL, costituisca una delega effettiva e liberatoria, dal momento che non vi era alcuna indicazione specifica che consentisse di ritenere che l’ingegnere designato curasse il sistema antinfortunistico della società.
E aggiunge che “pur aderendo all’interpretazione giurisprudenziale di valutare la delega in base alla realtà effettiva”, nel caso non si ravvisa alcuna indicazione specifica che consenta di stabilire quali siano stati i compiti delegati.
Decisione preoccupante, giacché dalla motivazione si ricava agevolmente che, ove ci fosse stata effettiva delega di compiti operativi al RSPP, egli sarebbe stato sicuramente condannato.

3. I recenti contrasti della giurisprudenza.

Una seconda questione è relativa all’ipotesi che il Rspp assommi ai compiti consultivi propri del suo incarico anche compiti operativi di attuazione delle misure di sicurezza necessarie.
Un notevole esame della questione è contenuto nella sentenza della Cassazione Penale Sez. III del 23.5.01, ric. Cinquia. Il caso è il seguente: il giudice di merito aveva condannato il RSPP del comune di Lucera, che ricopriva anche l’incarico di dirigente del settore tecnico comunale, in ordine ad alcune violazioni di norme sull’igiene del lavoro negli uffici giudiziari. La Cassazione annulla con rinvio affermando che il soggetto destinatario degli obblighi è il datore di lavoro individuato ai sensi dell’art. 2 lett. b) e dunque, nella specie, il capo dell’ufficio giudiziario. Aggiunge poi che, se costui avesse fatto la segnalazione prevista dal 12° comma dell’art. 4 del D. 626, competente a provvedere sarebbe stata l’amministrazione comunale e, all’interno di questa, il soggetto delegato in via amministrativa per l’attuazione dell’intervento richiesto. “Infatti”, continua la Corte, “il responsabile per lo stesso intervento potrà essere il sindaco, o l’assessore delegato al patrimonio immobiliare del comune, o il direttore dell’ufficio tecnico dotato del potere di decisione e di spesa, secondo i principii generali che regolano l’attribuzione delle competenze nelle pubbliche amministrazioni. Ma non può essere in quanto tale il responsabile del servizio di prevenzione e protezione di cui all’art. 8 del D. Lgs 626/94 il quale, a norma dell’art. 9 dello stesso decreto, è utilizzato dal datore di lavoro per compiti di valutazione dei fattori di rischio, di individuazione delle misure prevenzionali, di informazione e formazione dei lavoratori, sempre entro l’ambito dell’azienda o dell’amministrazione di appartenenza. Inoltre – e la considerazione è dirimente – gli obblighi gravanti sul responsabile del servizio non sono penalmente sanzionati”.
La motivazione sopra riportata chiarisce dunque che il RSPP non può esser ritenuto responsabile ‘in quanto tale’; ma non esclude affatto che potrebbe esserlo, tanto è vero che affida al giudice del rinvio proprio l’accertamento sugli incarichi o le eventuali deleghe ricevute dal RSPP. Dunque la Suprema Corte, pur escludendo che il RSPP possa essere il destinatario delle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza, in quanto incaricato di compiti di mera consulenza, rimanda eventuali responsabilità all’accertamento di merito che egli avesse anche compiti operativi in relazione all’attuazione delle misure di prevenzione.
Di notevole importanza sul punto è la sentenza n. 20604 della Cassazione penale Sezione IV in data 1° giugno 2005, causa Storino. Nella specie, risultava che “l’imputato non era solo il RSPP della società, ma anche il delegato dell’amministratore unico S.p.A. con compiti di vigilanza sull’efficienza e sicurezza degli impianti e con incarico di provvedere alla puntale esecuzione di tutte le norme dirette alla prevenzione degli infortuni ne diversi stabilimenti e cantieri della società ….. con facoltà molto ampie e disponibilità finanziarie adeguate ai molteplici obblighi delegati”.
Osserva la Cassazione che “la struttura verticistica dell’organizzazione poneva l’imputato a capo della struttura della sicurezza dei lavoratori con compiti non solo di vigilanza e di controllo, ma anche esecutivi di una delega scritta, precisa e circostanziata, oltre che accettata dallo stesso”.
Conclusione non del tutto pacifica, tanto che i giudici della Corte sentono il bisogno di spiegarne il senso. E aggiungono che “i compiti meramente consultivi e non operativi del RSPP e la mancanza di una espressa sanzione in caso di inadempimento assumono rilievo ….. solo quando il consulente non assuma, come nella fattispecie, il ruolo di delegato con procura scritta in tutta la materia prevenzionale e non esista alcuna ingerenza del datore di lavoro”.
La Cassazione conclude che l’imputato è stato condannato non perché responsabile della sicurezza in quanto tale, ma perché garante delegato alla salvaguardia della salute dei lavoratori; sicché non rileva il suo ruolo istituzionale all’interno della società, ma i poteri conferitigli con la delega.

Dunque l’esame della giurisprudenza nel suo complesso impone una domanda semplice ma essenziale per sciogliere il nodo che si è formato intorno alla definizione del ruolo del RSPP: è lecito conferire al RSPP una delega a contenuto operativo, cioè relativa all’attuazione delle norme di igiene e sicurezza dei lavoratori?

4. Gli equivoci sull’applicazione dell’art. 8 del D. Lgs 626/94.

Su questo punto la mia impressione è che il sistema delle responsabilità delineato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (per non parlare di alcune pasticciate sentenze dei giudici di merito) non regge ad una critica serrata, condotta tenendo presente la lettera e ancor più lo spirito delle norme contenute nel D. Lgs. 626.
La giurisprudenza non ha avvertito la contraddizione esistente tra il considerare il servizio di prevenzione come estraneo all’applicazione delle norme e il ritenerlo poi responsabile più o meno diretto della mancata attuazione degli adempimenti di prevenzione o anche del conseguente infortunio che eventualmente si verifichi.
La verità è che vi sono remore culturali e psicologiche a considerare “estraneo” alla prevenzione un servizio cui la legge affida delicati compiti in materia di salute dei lavoratori, come la valutazione dei rischi, l’individuazione delle misure atte a fronteggiarli, la formulazione dei programmi di formazione ed informazione dei lavoratori ecc. Anzi molti ritengono che il servizio, nel sistema strategico voluto dal legislatore, sia uno degli strumenti fondamentali della prevenzione di cui il datore di lavoro non può e non deve fare a meno, anche se poi fanno derivare da questa affermazione conseguenze giuridiche non corrette.

Questa convinzione, unita forse al desiderio di liberarsi di delicati compiti relativi alla sicurezza dei lavoratori, ha indotto molti datori di lavoro (stavo per dire la generalità dei datori di lavoro) ad una pratica assai equivoca: quella cioè di affidarsi ad una figura di tecnico già presente in azienda con funzioni per lo più dirigenziali che viene spesso designato quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Questa pratica, oggi diffusissima, ha fatto sì che nulla si muova in azienda in materia di sicurezza che non sia prima stato apprezzato, deciso e attuato, anche materialmente, dal responsabile del servizio di prevenzione. In questo senso è davvero difficile continuare a considerare il servizio come un soggetto non attivo in materia di prevenzione, sfornito di obblighi e non destinatario delle norme in materia, al quale, per conseguenza non sono applicabili sanzioni di alcun genere in materia di prevenzione.
Ma è stata soprattutto la giurisprudenza che, prima timidamente e poi con sempre maggiore frequenza, ha addossato la responsabilità delle carenze antinfortunistiche sulle spalle del responsabile del servizio di prevenzione.
Durante la fase di prima applicazione delle norme contenute nel decreto 626 si è riconosciuto che la legge esonerava da qualsiasi obbligo il servizio di prevenzione e protezione aziendale, dal momento che era il datore di lavoro e i suoi collaboratori ad avere l’onere di individuare le carenze in materia di sicurezza e di eliminarle.
Si è poi passati all’ovvia affermazione che l’esonero della penale responsabilità dei componenti del servizio di prevenzione come soggetti attivi della sicurezza non significa che essi siano al riparo da ogni responsabilità, soprattutto nel caso in cui dalla violazione dei compiti loro affidati dalla legge derivi ai lavoratori un infortunio o una malattia professionale. Si è parlato in proposito di responsabilità per colpa professionale; altri hanno parlato di responsabilità per colpa generica; altri ancora hanno ritenuto che si dovesse parlare di colpa specifica in relazione alla violazione dei compiti attribuiti specificamente al servizio di prevenzione dall’art. 9 del D. 626/94.

E’ appena il caso di sottolineare che ciascuna di queste opinioni comporta diverse e rilevanti conseguenze di ordine giuridico, quali la possibilità di ritenere che il reato di lesioni colpose o di omicidio colposo siano aggravati dalla violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni, oppure che il reato di lesioni sia o non procedibile a querela. Non è difficile riconoscere che il contrasto che ha animato (e anima tuttora) la dottrina e la giurisprudenza trova il suo fondamento nella diversità di vedute circa il ruolo e la collocazione in azienda del servizio di prevenzione e del suo responsabile.
Da un lato si riconosce che il responsabile del servizio di prevenzione non è destinatario di obblighi penalmente sanzionati e dall’altro si finisce con l’affermare che, tuttavia, se le sue errate valutazioni cagionano un infortunio risponde in concorso, se del caso, con altri soggetti della linea operativa; e si è perfino concluso che, quando la incapacità od inesperienza del RSPP abbiano determinato il datore di lavoro a violare una norma di prevenzione, egli debba essere chiamato a risponderne, se non altro per avere accettato l’incarico malgrado la propria impreparazione!

5. Il ruolo del servizio di prevenzione del nuovo sistema del D. 626/94.

Credo che queste posizioni non colgano il senso profondo che il decreto 626 attribuisce alla presenza necessaria del servizio di prevenzione e protezione e del suo responsabile nelle aziende.
Molto semplicemente il legislatore, sulla spinta della direttiva quadro 391 della Comunità Europea, ha ritenuto che a garantire l’efficacia delle norme di prevenzione non fosse più sufficiente la triade tradizionale composta dalle figure del datore di lavoro, del dirigente e del preposto. E, pur lasciando sulle spalle di questi soggetti l’onere di garantire l’attuazione delle norme di prevenzione, ha loro affiancato obbligatoriamente un servizio tecnico di prevenzione, composto da persone esperte e capaci, con compiti di mera consulenza del datore di lavoro. E, per marcare in maniera inequivocabile la diversità di funzioni cui i nuovi soggetti erano chiamati, li ha esonerati da ogni obbligo di attuazione della normativa di prevenzione. Con ciò il legislatore ha voluto chiaramente tenere distinti i compiti del consulente stabilendo a chiare lettere che la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione non avrebbe esonerato da responsabilità il datore di lavoro.
Il senso inequivoco, dunque, da attribuire agli artt. 8 e 9 del D. 626 è che il datore di lavoro non può operare in materia di prevenzione se non viene affiancato dal servizio di prevenzione dedito esclusivamente a compiti di consulenza.

6. La questione della delega di compiti operativi al RSPP.

Questo sistema non solo non ha mai trovato compiuta applicazione, ma rischia di essere smontato, anche teoricamente, da una giurisprudenza tuttora fortemente influenzata dalla logica dei DPR degli anni ’50.
E’ utile aggiungere che questa giurisprudenza, non si sa quanto consapevolmente, si pone nella scia di quelle prassi applicative che innanzi abbiamo definito distorte ed equivoche. Prassi che si traducono quasi sempre nel designare una persona tecnicamente capace quale responsabile del servizio di prevenzione e nel conferirgli contemporaneamente piena delega per l’attuazione delle norme di sicurezza e igiene.
Personalmente sono convinto che queste prassi applicative siano contrarie allo spirito della norma e, forse, anche alla lettera. Si è già rilevato che l’art. 8 del decreto 626 pretende che il datore di lavoro obbligatoriamente istituisca il servizio di prevenzione e ne designi il responsabile. E’ fuori di dubbio che quest’organismo abbia compiti di mera consulenza, il che significa che il legislatore lo ha voluto sganciato da compiti operativi per i quali stabilisce la responsabilità di altri soggetti. Se tutto questo ha un senso, significa che non è possibile attribuire compiti operativi e compiti di consulenza alla stessa persona. Se fosse lecito attribuire responsabilità operative e di attuazione delle misure prevenzionali a colui che è stato designato come titolare esclusivamente di compiti di consulenza, si vanificherebbe la novità introdotta con il D. 626, che consiste nell’istituzione del servizio di prevenzione come una fondamentale linea portante del nuovo sistema di prevenzione. Altrimenti quale sarebbe la novità rispetto al passato? Anche prima nelle aziende vi erano i dirigenti con compiti operativi attinenti alla sicurezza. Se si potessero cumulare i compiti operativi e quelli consultivi, la “rivoluzione” prevista dal decreto si ridurrebbe all’aggiunta di una targhetta sulla porta del dirigente, con la scritta ‘responsabile del servizio di prevenzione’!
La riprova del fatto che il legislatore ha voluto separare nettamente le funzioni operative da quelle di consulenza sta nella previsione di un’unica eccezione a questa regola generale: quella contenuta nell’art. 10 del decreto secondo cui il datore di lavoro in un numero limitato di casi può, a determinate condizioni, direttamente svolgere le funzioni di responsabile del servizio.
E’ significativo che l’assunzione delle funzioni da parte del datore di lavoro si riferisca alle aziende che presentano minori dimensioni e una scarsa complessità organizzativa, a dimostrazione del fatto che nelle aziende più complesse il legislatore ha ritenuto sempre necessaria una rigida separazione tra la linea operativa, destinata ad attuare condizioni di sicurezza, e la linea consultiva che, come recita l’ultimo comma dell’art. 9, può essere utilizzata solo dal datore di lavoro. Nessuna eccezione invece le norme prevedono per le figure dei dirigenti e dei preposti. Costoro non possono svolgere funzioni di responsabili del servizio di prevenzione neppure se abbiano seguito un corso di formazione o possiedano curricula che ne attestino specifiche capacità.
Naturalmente nella scelta del responsabile del servizio il datore di lavoro, nei limiti previsti dagli artt. 8 e 8 bis, è libero di comportarsi come crede e può benissimo assegnare un dirigente al servizio di prevenzione a condizione che egli non faccia più parte della linea operativa. Occorre dunque scegliere: o si appartiene alla linea consultiva o a quella operativa. La mancata scelta impone di considerare illegittima la nomina del RSPP e anzi di equipararla ad una mancata designazione.
Solo se si restituisce trasparenza e chiarezza alle diverse funzioni che le varie figure sono chiamate a svolgere nell’ambito del decreto 626, si potrà effettuare quel salto qualitativo che finora non si è verificato e che, dopo l’approvazione del d. l.vo 195/03, tutti auspichiamo.
Voglio concludere con il riferimento ad un articolo del collega milanese L. Poniz, il quale, constatando come la realtà offra cospicui esempi di RSPP gravati da compiti di dirigente, preposto e altri ruoli operativi, così si esprime: “ove il responsabile del servizio di prevenzione rivesta esclusivamente tale funzione – cosa che, lo dico chiaramente, mi sembrerebbe la più corretta e coerente col sistema, come nel suo insieme immaginato dal legislatore – dovrebbe dirsi che – esclusa l’esistenza di obblighi in capo al servizio di prevenzione e protezione – non sia dato configurarne responsabilità almeno in ordine all’attuazione delle norme di prevenzione”.
E più oltre aggiunge: “ ….. il datore di lavoro che faccia coincidere in un’unica figura funzioni così radicalmente distinte, in sostanza rinunzia ad avvalersi di un organismo dotato di un’evidente funzione consultivo-propulsiva, in tanto utile in quanto diversa da colui o da coloro che hanno obblighi attuativi, gestionali e di controllo della sicurezza”.