TRIBUNALE DI URBINO

sentenza del 19 maggio 2005

est. SPAZIANI – L.M. (Avv. D.L.) c. E. s.s. (Avv. P.F.B.)


 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 3 marzo 2004, L. M. ha convenuto in giudizio l'E. s.s., in persona del legale rappresentante pro tempore , deducendo che:

- era dipendente della società convenuta con mansioni di operaio, ed espletava la sua prestazione lavorativa nella sede di I., ove era svolta l'attività di allevamento dei polli;

- in data 5 ottobre 2000, durante l'espletamento delle proprie mansioni, aveva subìto un infortunio sul lavoro, venendo colpito da una pesante porta di ferro, uscita dai cardini in seguito ad un'errata manovra sulla macchina c.d. “carica polli” ad opera di altro dipendente;

- in seguito all'infortunio, era stato immediatamente ricoverato presso il nosocomio di F., ove gli erano stati riscontrati “frattura delle vertebre D7 e D8, trauma cranico, lunga ferita lacero-contusa al cuoio capelluto e trauma alla spalla destra”, nonché, all'esito di ulteriori accertamenti, “esiti consolidati di frattura somatica anche al livello della vertebra D6”;

- in ragione di tali lesioni, aveva riportato un'inabilità temporanea totale per 180 giorni ed una inabilità temporanea parziale per ulteriori 60 giorni (valutabili, in termini monetari, in complessivi Euro 7.591,80), un danno biologico da invalidità permanente di grado pari al 16% (valutabile in termini monetari, e secondo le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, in Euro 26.466,45) e un danno morale (liquidabile in Euro 11.352,75);

- del danno da lui subìto in seguito all'infortunio (comprensivo di tutte le componenti risarcibili) doveva ritenersi oggettivamente responsabile la società convenuta, ai sensi dell'art.2049 c.c., atteso, da un lato, che tale danno era stato cagionato dal fatto illecito colposo (errata manovra sulla macchina c.d. “carica polli”) commesso da altro operaio, e considerato, dall'altro lato, che il fatto medesimo era stato posto in essere da soggetto legato alla società da un rapporto di subordinazione, e nell'espletamento delle mansioni affidategli dalla datrice di lavoro, il cui esercizio si era posto in rapporto di occasionalità necessaria con l'evento lesivo;

- in seguito alle sue richieste, peraltro, egli – dopo avere ottenuto dall'INAIL la somma di Euro 5.765,88 a titolo di indennità per inabilità temporanea per complessivi 232 giorni, e la somma di Euro 3.759,81 a titolo di indennizzo in capitale per il danno biologico di grado pari al 10%, valutato secondo le tabelle previste dall'art.13, comma 3, D.Lgs. n.38/2000, ed emanate con DM 12 luglio 2000 – aveva ricevuto dalla società che assicurava la responsabilità civile dell'E. s.s. soltanto la somma complessiva di Euro 13.279,00, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale ( sub specie di danno emergente derivante dalle spese mediche sostenute), del danno morale e del danno biologico da invalidità temporanea, mentre nessuna somma gli era stata erogata a titolo di differenza tra il danno biologico da invalidità permanente valutato secondo le tabelle INAIL (10%) e il danno biologico da invalidità permanente misurabile secondo le tabelle adottate in sede civilistica (16%).

Sulla base di queste deduzioni – ed assumendo altresì in diritto che l'obbligo di indennizzo del danno biologico previsto a carico dell'INAIL dal D.Lgs. n.38/2000 non escluderebbe la perdurante responsabilità risarcitoria del datore di lavoro in relazione al c.d. danno biologico “differenziale” nell'ipotesi in cui, come nel caso di specie, il medesimo danno sia valutato diversamente nelle tabelle INAIL e nelle tabelle civilistiche ordinariamente utilizzate dal Tribunale, in ragione sia della diversa funzione assolta dal sistema di assicurazione obbligatoria (rispondente all'esigenza sociale di garantire al lavoratore mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita, in conformità con il principio espresso dall'art.38 Cost.) rispetto alla responsabilità di diritto comune (rispondente all'esigenza di realizzare l'integrale risarcimento del danno subìto dalla vittima dell'illecito), sia della diversità delle nozioni di danno biologico civilistica e previdenziale (la quale ultima, a differenza della prima, non contemplerebbe gli aspetti attinenti al disagio personale e soggettivo non suscettibili di valutazione medico-legale) – L. M. ha dunque domandato che la E. s.s. fosse condanna a corrispondergli la somma di Euro 22.706,64, quale differenza tra la somma di Euro 3.759,81 (già ricevuta dall'INAIL a titolo di indennizzo per il danno biologico da invalidità permanente valutato di grado pari al 10% in base alle tabelle approvate con DM 12 luglio 2000) e la somma di Euro 26.466,45 (corrispondente alla liquidazione del danno biologico da invalidità permanente, valutabile nella misura del 16%, in base alle comuni tabelle civilistiche).

Si è costituita in giudizio la società convenuta, la quale ha resistito alla domanda, deducendo che, in seguito all'entrata in vigore del D.Lgs. n.38/2000, il datore di lavoro, nell'ipotesi di infortuni comportanti un danno biologico in misura non inferiore al 6%, potrebbe essere chiamato a risarcire soltanto il danno morale e il danno biologico da invalidità temporanea, mentre il danno biologico da invalidità permanente sarebbe interamente coperto dalla tutela INAIL. Di conseguenza, poiché il ricorrente (come risultava dalle sue stesse ammissioni) aveva debitamente ricevuto dalla società di assicurazione le prestazioni volte al risarcimento del danno morale e del danno biologico da invalidità temporanea, nessuna ulteriore pretesa avrebbe potuto avanzare nei suoi confronti, mentre, ove avesse ritenuto di contestare la valutazione espressa dall'INAIL in ordine al danno biologico da invalidità permanente, avrebbe avuto l'onere di agire nei confronti dell'Istituto nelle competenti sedi amministrative e giurisdizionali.

Istruita mediante l'esperimento di una prova per testimoni, all'odierna udienza (nella quale la difesa di parte ricorrente non solo ha invocato l'accoglimento della domanda già formulata in ricorso, ma ha chiesto altresì l'acquisizione, ai sensi dell'art.421 c.p.c., degli atti del processo penale svoltosi a carico del legale rappresentante della società convenuta per il reato di cui all'art.590 c.p.c., ed ha sollevato l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art.13 D.Lgs. n.38/2000, in riferimento agli artt.1, 3 ,4 e 35 Cost., per l'ipotesi in cui il giudice avesse ritenuto non consentita un'interpretazione della norma volta a riconoscere la risarcibilità, da parte del datore di lavoro, del c.d. danno biologico “differenziale”, rispetto a quello indennizzato dall'INAIL), la causa è stata discussa e decisa nei termini di cui al dispositivo, del quale si è data lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda formulata da L.M. è infondata.

1. Occorre anzitutto individuare l'esatta natura dell'azione esercitata dal ricorrente nel presente giudizio.

Al riguardo deve premettersi che allorché il lavoratore, nel formulare una domanda risarcitoria contro il datore di lavoro, deduca di aver subìto il danno in ragione dell'insussistenza o dell'inidoneità degli strumenti protettivi che l'impresa avrebbe dovuto adottare, o in ragione del mancato controllo dell'imprenditore sull'uso effettivo di tali strumenti da parte dei dipendenti, l'azione si qualifica come azione di responsabilità contrattuale , fondata sull'inosservanza, da parte del datore di lavoro, del dovere di sicurezza previsto dall'art.2087 c.c., il quale si specifica, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, in due obbligazioni distinte, l'una consistente nell'obbligo di adozione delle misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (da eseguirsi tenendo conto della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica), l'altra consistente nell'obbligo di vigilanza sull'effettiva osservanza di tali misure da parte del lavoratore medesimo (cfr., da ultimo, Cass.17 febbraio 2003 n.2357; tra le precedenti v. Cass.13 ottobre 2000 n.13690 e Cass.17 febbraio 1998 n.1687).

Diversamente, allorché il lavoratore, nel formulare la sua domanda risarcitoria contro il datore di lavoro, deduca di aver subìto il danno in seguito al fatto colposo di altro dipendente, commesso da quest'ultimo nell'espletamento delle incombenze alle quali era stato preposto dall'imprenditore, l'azione si qualifica come azione di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art.2049 c.c., il quale configura in capo al preponente una responsabilità oggettiva che prescinde dalla colpa e che trova il suo fondamento nell'esigenza che chi dispone dell'attività lavorativa altrui per i propri fini assuma le conseguenze dannose di tale attività.

Si tratta dunque di due figure di responsabilità assolutamente diverse, in quanto la prima richiede l'inadempimento (o l'inesatto adempimento) del datore di lavoro del proprio obbligo di sicurezza, mentre la seconda non presuppone l'inosservanza di tale obbligo ma richiede la compresenza di altre tre condizioni, consistenti nel rapporto di preposizione (che trova la sua ipotesi tipica e principale nel lavoro subordinato), nel fatto illecito posto in essere dal preposto (tipicamente dal lavoratore subordinato) e nella connessione tra le incombenze di quest'ultimo e il danno subìto dal terzo (connessione che richiede un nesso di “occasionalità necessaria”, nel senso che l'esercizio delle incombenze esponga il terzo all'ingerenza dannosa del preposto).

La prima responsabilità, inoltre, essendo fondata sulla colpa dell'imprenditore, ne ammette la prova liberatoria (arg. ex art.1218 c.c.), mentre la seconda prescinde da ogni valutazione di colpa, la cui rilevanza può al più residuare soltanto nei rapporti interni tra il preposto e il preponente, ove quest'ultimo decida di rivalersi nei confronti del primo.

Tenendo presenti le suesposte considerazioni, deve ammettersi che L.M. ha esercitato nei confronti della E. s.s., non già l'azione di responsabilità contrattuale fondata sulla violazione dell'obbligo di sicurezza di cui all'art.2087 c.c., ma l'azione di responsabilità extracontrattuale fondata sui rischi connessi con l'utilizzazione dell'altrui attività, prevista dall'art.2049 c.c..

Egli infatti, nel ricorso introduttivo, non solo ha formalmente richiamato quest'ultima disposizione, ma ha vigorosamente sostenuto che aveva subìto il danno in seguito al fatto colposo commesso da altro dipendente (fatto colposo che sarebbe consistito nell'errata manovra sulla macchina c.d. “carica polli”), e che tale fatto colposo era stato occasionato dall'esercizio delle mansioni a cui il dipendente era stato adibito dalla società datrice di lavoro.

2. Identificata la natura della pretesa esercitata dal ricorrente, si pone il problema di accertare se siano stati provati i fatti costitutivi della stessa, alla luce dell'istruttoria richiesta ed espletata.

Al riguardo, l'unico teste escusso, S. S., altro dipendente della società convenuta, ha riferito che, al momento dell'infortunio (al quale aveva personalmente assistito), si trovava insieme al ricorrente in prossimità del capannone dell'impresa, ove stava operando la c.d. macchina “carica polli”.

Questa macchina – ha precisato il teste – era di grandi dimensioni ed era poggiata su ruote pneumatiche che si trovavano appena al di fuori del capannone.

Su di essa – ha ulteriormente riferito il teste – era montato un lungo canale, contenente un nastro trasportatore per il trasporto dei polli, il quale era stato introdotto all'interno del capannone attraverso la porta dello stesso.

In tal modo – ha chiarito il teste – i polli venivano trasportati, attraverso l'apposito nastro, dall'esterno all'interno del capannone ove poi venivano ingabbiati.

Nel mentre si svolgevano tali operazioni – ha continuato il teste – la porta del capannone si era improvvisamente aperta, forse per una folata di vento, ed aveva urtato violentemente contro il canale del macchinario.

In seguito all'urto – ha ulteriormente dichiarato il teste – era uscita dai cardini, era stata proiettata all'esterno del capannone e, dopo aver battuto contro uno dei pneumatici della macchina, aveva colpito di rimbalzo il ricorrente (che era situato nelle vicinanze per controllarne il regolare funzionamento), provocandogli le lesioni.

In seguito all'incidente – ha concluso il teste – il M. era stato trasportato all'ospedale con una grande ferita alla testa (cfr. verbale d'udienza del 15 ottobre 2004).

Alla luce delle risultanze istruttorie, è agevole rilevare che non vi è alcuna prova della sussistenza dei presupposti della responsabilità oggettiva del preponente ai sensi dell'art.2049 c.c..

Dalla prova testimoniale espletata, infatti, non è emerso in alcun modo che il ricorrente avesse subìto il danno in seguito al fatto colposo di altro dipendente durante lo svolgimento, da parte di quest'ultimo, delle incombenze affidategli dalla società datrice di lavoro.

La sussistenza del fatto illecito del preposto (presupposto fondamentale della responsabilità di cui all'art.2049 c.c.) deve essere anzi persino esclusa, in quanto il teste S., diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non ha parlato di alcuna manovra errata sulla c.d. macchina “carica polli”, ma ha chiarito che l'evento lesivo si era verificato in seguito all'uscita dai cardini della porta del capannone, dopo che la stessa, verosimilmente a causa di una folata di vento, aveva violentemente urtato contro il canale del macchinario.

3. Esclusa la sussistenza dei presupposti della responsabilità (extracontrattuale) per il fatto dei preponenti, ai sensi dell'art.2049 c.c., deve peraltro pur sempre ammettersi che, alla luce delle risultanze istruttorie, residua il problema se sia possibile individuare, in capo alla società convenuta, la diversa responsabilità (contrattuale) fondata sull'inosservanza dell'obbligo di sicurezza di cui all'art.2087 c.c., per mancata adozione delle cautele necessarie a tutelare l'integrità del prestatore di lavoro, in occasione dello svolgimento delle mansioni connesse con il controllo del funzionamento della c.d. macchina “carica polli”.

Tale problema non può tuttavia essere affrontato in questa sede, senza incorrere nel vizio di extrapetizione.

In proposito deve osservarsi che nella giurisprudenza di legittimità, con riguardo alla necessità di rispettare il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato in relazione alle domande di risarcimento del danno (e, in particolare, in relazione ai rapporti tra azione contrattuale e azione extracontrattuale), si sono manifestati due diversi orientamenti.

Secondo quello più rigoroso, ribadito anche recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione, quando il risarcimento può essere richiesto con due distinte azioni (l'una proposta a titolo di responsabilità contrattuale e l'altra a titolo di responsabilità extracontrattuale), la scelta tra le due azioni e l'eventuale loro esercizio cumulativo nel processo rientrano nel potere dispositivo della parte, con la conseguenza che, ove la parte opti per una sola di esse, non è consentito al giudice, in violazione dell'art.112 c.p.c., sostituirsi all'attore nella scelta che avrebbe potuto operare, ed accogliere la domanda in base ad un titolo diverso (v., ad es., Cass. 3 ottobre 1996 n.8656 e Cass.6 agosto 2002 n.11766; con particolare riguardo ai rapporti tra l'art.2087 c.c. e l'art.2049 c.c., v. Cass. 26 gennaio 1979 n.604).

Secondo altro orientamento dovrebbe invece tenersi conto del potere del giudice di procedere autonomamente alla qualificazione giuridica della domanda anche in termini diversi dalla prospettazione della parte, potere che, peraltro, trova il suo limite nella necessità che la domanda rimanga fondata sugli stessi fatti dedotti dalla parte medesima.

Il giudice, in altre parole, non è vincolato dalla prospettazione giuridica delle parti purché la diversa qualificazione giuridica da lui adottata resti contenuta nei limiti dei fatti prospettati dalle parti stesse. Non gli è invece consentito di sostituire la causa petendi dedotta in giudizio con una differente, basata su fatti diversi da quelli allegati dalle parti, poiché una tale sostituzione si tradurrebbe non in una diversa qualificazione giuridica, ma in un mutamento sostanziale della domanda, con conseguente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (cfr., sul punto, tra le tante, Cass.7 ottobre 1998 n.9911 e Cass.20 marzo 1999 n.2574).

Ne consegue, con particolare riguardo alle domande di risarcimento del danno, che, se la pretesa risarcitoria viene fondata su uno specifico titolo di responsabilità (ad es. extracontrattuale), il giudice può accogliere la domanda sulla base di un titolo diverso (ad es. di responsabilità contrattuale) soltanto se il diverso titolo di responsabilità risulti fondato sugli stessi fatti dedotti dalla parte, e non anche nell'ipotesi in cui a fondamento del diverso titolo di responsabilità devono essere posti fatti diversi, non allegati dalla parte (cfr., in termini, già Cass. 8 gennaio 1969 n.28).

Nella vicenda in esame, sia che si accolga l'orientamento più rigoroso sia che si accolga l'orientamento meno rigoroso, deve escludersi che possa essere affrontato il problema dell'eventuale responsabilità dell'E. s.s. per violazione del dovere di sicurezza di cui all'art.2087 c.c., con conseguente irrilevanza della richiesta istruttoria formulata all'odierna udienza di discussione, in cui si è invocata l'acquisizione degli atti del processo penale svoltosi nei confronti del legale rappresentante della società convenuta per il reato di cui all'art.590 c.p..

Benvero, infatti, quand'anche non si volesse attribuire importanza alla scelta operata dalla parte di agire esclusivamente a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art.2049 c.c., dovrebbe pur sempre ammettersi che l'ipotetico diverso titolo di responsabilità sarebbe fondato su fatti diversi (inadempimento del datore di lavoro) rispetto a quelli allegati dalla parte (fatto illecito del preposto), con ciò determinandosi una indebita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

4. Esclusa la sussistenza della dedotta responsabilità extracontrattuale per il fatto dei preponenti, ex art.2049 c.c., ed esclusa la possibilità di affrontare la questione circa la sussistenza della (non dedotta) responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di sicurezza, ex art.2087 c.c., la domanda formulata da L. M. deve essere rigettata, senza necessità di affrontare il problema se, successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n.38/2000 (il cui art.13 ha posto in capo all'INAIL l'obbligo di indennizzare le menomazioni dell'integrità psico-fisica derivanti da infortuni sul lavoro e valutate, sulla base delle tabelle emanate con DM 12 luglio 2000, in misura pari o superiore al 6%), residui in capo al datore di lavoro l'obbligo di risarcire il c.d. danno biologico “differenziale”, così come appare del tutto irrilevante, nel presente processo, la questione di legittimità costituzionale del citato art.13, sollevata dalla difesa di parte ricorrente all'odierna udienza di discussione, in riferimento agli artt.1, 3, 4 e 35 Cost., per l'ipotesi in cui non sia consentita una interpretazione della norma medesima che ammetta la risarcibilità del predetto danno biologico “differenziale”.

5. Attesa la natura dei diritti di cui si è invocata la tutela, sussistono giusti motivi, ai sensi dell'art.92, 2°co., c.p.c., perché le spese del giudizio siano integralmente compensate tra tutte le parti.

P.Q.M.

Il Giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, così provvede:

1- rigetta la domanda formulata da L. M. nei confronti della E. s.s.;

2- compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

Urbino 19 maggio 2005

IL GIUDICE

Paolo Spaziani