Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 agosto 2012, n. 14561 - Illegittimità del trasferimento e mobbing



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. ROSELLI Federico - Presidente -

 

Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere -

 

Dott. BRONZINI Giuseppe - Consigliere -

 

Dott. ORILIA Lorenzo - rel. Consigliere -

 

Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 17622/2009 proposto da:

 

C.L. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato MARTELLI Roberto, giusta delega in atti;

 

- ricorrente -

 

contro

 

TO.DIS. S.R.L. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell'avvocato MAGRINI Sergio, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DAMOLI CLAUDIO, CANTONE LORENZO, DELL'OMARINO ANDREA, giusta delega in atti;

 

- controricorrente -

 

avverso la sentenza n. 613/2008 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 03/07/2008 R.G.N. 280/2008;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/07/2012 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

 

udito l'Avvocato MAGRINI SERGIO;

 

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l'inammissibilità in subordine infondatezza del ricorso.

 

 

Fatto

 

La Corte d'Appello di Torino, con sentenza 3.7.2008, in parziale accoglimento del gravame proposto contro la decisione del Tribunale di Aosta da C.L. nei confronti della TO.DIS. srl, dichiarò illegittimo il suo trasferimento a (OMISSIS) e l'illegittimità del mutamento di mansioni (che in origine erano quelle di responsabile del reparto macelleria del Supermercato Despar di Morgex, gestito dalla TO.DIS.); condannò pertanto l'appellata società al risarcimento dei danni nella misura di Euro 2.000,00 oltre rivalutazione ed interessi e al rimborso delle spese del giudizio di appello; confermò, nel resto, la pronuncia del primo giudice, che aveva invece respinto tutte le domande del lavoratore, tra cui quella di reintegrazione nel posto di lavoro (per effetto di illegittimità del licenziamento per supermanto del periodo di comporto) e di risarcimento del danno per mobbing. Ricorre per cassazione il C..

 

La società ALVER srl (nella more succeduta alla TO.DIS. srl per effetto di fusione per incorporazione) resiste con controricorso illustrato da memoria.

 

 

Diritto

 

 

Con l'unico motivo di ricorso, sviluppato in una duplice articolazione, il C., richiamando l'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deduce la "violazione o falsa applicazione di norme diritto e l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio".

 

Dopo avere riportato parte delle argomentazioni svolte dalla Corte di Torino ed in particolare - per quanto qui interessa - l'affermazione secondo cui nel giudizio di impugnazione non è stata riproposta la domanda di danni per mobbing (fonte di depressione reattiva), il C. afferma invece di avere espressamente richiamato nell'atto di appello tutte le argomentazioni svolte nell'ambito del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed in particolare quelle inerenti il dedotto mobbing, l'insorgenza della malattia professionale in dipendenza dell'illegittimo comportamento tenuto nei suoi confronti dalla datrice di lavoro e l'illegittimità del trasferimento quale elemento finale comprovante la volontà dell'azienda di espellere il ricorrente costringendolo alle dimissioni o all'assenza per malattia.

 

Trascrive quindi ampi brani del ricorso di primo grado in ordine al licenziamento disposto per superamento del periodo di comporto, alla malattia professionale subita, al danno da mobbing e al suo trasferimento (pagg. 23 e ss). Riporta le specifiche conclusioni da lui formulate nell'atto di appello, addebitando alla Corte torinese di avere errato nel ritenere abbandonate le domande e argomentazioni inerenti l'accertamento del mobbing, non avendovi affatto rinunciato.

 

Secondo il ricorrente, infatti, per ritenere avvenuta la riproposizione di domande, è sufficiente la loro indicazione nelle conclusioni dell'atto di appello e la ritrascrizione delle argomentazioni proposte in primo grado, integrate con argomentazioni e critiche alla sentenza di primo grado (cfr. quesito formulato a pag. 43).

 

La norma di diritto violata - indicata solo a pag. 43 del ricorso, nella parte conclusiva del lungo motivo - è l'art. 346 c.p.c., che disciplina, appunto, la riproposizione delle domande ed eccezioni in appello.

 

Sotto il primo profilo (violazione di norme di diritto) il ricorso è inammissibile per violazione dell'art. 366 c.p.c., n. 6.

 

L'art. 346 c.p.c., stabilisce che "le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate".

 

Ebbene, come già affermato da questa Corte (Cass. sez. L. 12.9.2008 n. 23563; Cass. sez. L. 17.5.2005 n. 10290; "anche nel rito del lavoro, il giudizio di appello ha per oggetto la medesima controversia decisa dalla sentenza di primo grado, entro i limiti della devoluzione, quale risulta dagli specifici motivi di appello...".

 

Quindi, il "thema decidendi" nel giudizio di secondo grado è delimitato dai motivi di impugnazione, la cui specifica indicazione è richiesta, ex artt. 342 e 434 cod. proc. civ., per l'individuazione dell'oggetto della domanda d'appello e per stabilire l'ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata (Cass. 16.5.2006 n. 11372).

 

Nel caso di specie, la Corte di appello ha rilevato che "nel ricorso introduttivo il C. iscriveva la vicenda del trasferimento e della connessa dequalificazione professionale in uno spettro più ampio di comportamenti aziendali, caratterizzati, a suo dire, da un atteggiamento ostile assunto nei suoi confronti dai responsabili della TO.DIS., e configurante la fattispecie del "mobbing"; secondo la prospettazione del lavoratore, il comportamento aziendale, in aperta violazione dell'art. 2087 c.c., aveva determinato l'insorgere della patologia denunciata (depressione reattiva), che risultava quindi connotata da natura professionale; conseguiva l'illegittimità del licenziamento, in quanto il comporto non maturava in presenza di malattia professionale e la fondatezza della pretesa risarcitoria per danno biologico, morale, patrimoniale ed esistenziale.

 

Nonostante l'atto d'appello mantenga intatte le conclusioni già formulate nel ricorso introduttivo, la complessiva ed ampia prospettazione sopra delineata risulta di fatto abbandonata e, come si è detto, i profili di doglianza si concentrano unicamente sulla questione della legittimità del trasferimento; ora, anche nel caso di ritenuta illegittimità di tale provvedimento, la limitazione della materia del contendere determina una ricaduta significativa nella valutazione della fondatezza delle pretese riproposte conclusivamente nella loro formulazione iniziale; ma di ciò, più ampiamente infra" (cfr. pagg. 10 e 11).

 

Il C. denunzia che il giudice di appello ha considerato come non riproposta (e quindi ha omesso di esaminare), la domanda di danni da mobbing. Ritiene però il Collegio che in presenza di una tale censura, e a fronte della motivazione fornita dal giudice di merito, era assolutamente necessario che nel ricorso per cassazione fossero riportati, seppur succintamente, i motivi di appello, non essendo sufficiente la mera trascrizione, sotto forma di narrativa, della tesi difensiva adottata dal C. nel ricorso di primo grado, da cui non emergeva - nè poteva logicamente emergere - alcuna critica specifica alla sentenza del Tribunale. E parimenti, non era sufficiente richiamare genericamente le argomentazioni del primo giudice senza contemporaneamente contrapporvi, neanche in tal caso, una specifica critica e senza riproporre, attraverso i motivi, le domande disattese in primo grado.

 

Del resto, nel ricorso per cassazione, a pag. 19, il C., nel richiamare il contenuto dell'appello, riferisce di avere ivi definito le motivazioni del primo giudice "illogiche, contraddittorie e errate" sulla base delle risultanze istruttorie, che pero1 non sono state specificate.

 

E parimenti, nel riportare le motivazioni della sentenza di primo grado, non offre alcun elemento per ricostruire quelli che erano stati i motivi specifici su cui la Corte era stata chiamata a pronunciarsi (cfr. pagg. 17 e ss).

 

In tal modo non risulta se e in che maniera siano state riproposte in appello le domande non accolte dal primo giudice e di cui oggi si assume l'omesso esame da parte della Corte di merito.

 

In applicazione dell'art. 384 c.p.c., comma 1, va pertanto riaffermato il seguente principio di diritto (cfr. Cass. 2.12.2005 n. 26234):

 

"il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell'autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l'esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte.

 

Solo nel caso della deduzione del vizio per omessa pronuncia su una o più domande avanzate in primo grado è, invece, necessario, alfine dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, la specifica indicazione dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato, essendo in tal caso indispensabile la conoscenza puntuale dei motivi di appello".

 

Quanto al dedotto vizio di motivazione, (riguardante, a dire del C., le argomentazioni adoperate dalla Corte di Torino per giustificare la mancata riproposizione in appello di tali domande), rileva il Collegio che il giudice del merito, con motivazione immune da vizi logici, ha dato conto della propria ratio decidendi individuandola, attraverso una compiuta interpretazione dell'atto di appello - ad esso istituzionalmente demandata (Cass. 6.10.2005 n. 19513; Cass. 20 ottobre 2003, n. 15643) - nella mancata riproposizione di alcune domande nei motivi di impugnazione ed in particolare nella mancata prospettazione in appello del quadro di mobbing e di discriminazione (cfr. pagg. 10 e ss e 15 della sentenza): dunque la pronuncia della Corte torinese si sottrae alla critica anche sotto tale profilo.

 

Consegue il rigetto del ricorso.

 

Le spese di questo giudizio seguono la soccombenza.


P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per onorario oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.