3.3. La sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti

3.3.1. I problemi ancora aperti
Uno degli argomenti di maggiore rilievo affrontati nell’inchiesta della Commissione è quello della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti, della quale si è parlato a lungo anche nelle precedenti relazioni annuali. La questione è ormai nota: anche se le disposizioni vigenti proibiscono espressamente di effettuare ribassi sui costi per la sicurezza nelle gare d’appalto, proprio al fine di garantire le massime tutele per i lavoratori, nella pratica questo divieto viene spesso aggirato, soprattutto attraverso la catena dei subappalti, che quanto più si allunga tanto più rende difficili i controlli. La situazione si riscontra soprattutto negli appalti del settore privato, per il quale la legge non impone procedure di gara o meccanismi di selezione degli appaltatori, essendo tutto basato sulla libera contrattazione delle parti: la conseguenza è che normalmente i committenti scelgono le imprese appaltatrici che offrono i prezzi più competitivi, magari a scapito della qualità o di altri aspetti come le tutele della sicurezza sul lavoro.
Sfortunatamente, queste anomalie si ritrovano anche nel settore pubblico: nonostante qui esistano procedure e controlli più severi, le norme sono spesso disattese e molte aziende, per offrire prezzi più bassi nelle gare d’appalto, cercano di risparmiare proprio sui costi per la sicurezza, accrescendo i rischi per i lavoratori. Come si è più volte evidenziato anche in passato, una delle principali cause che determina questo meccanismo è il fatto che molte amministrazioni appaltanti utilizzano come criterio di valutazione delle offerte quasi esclusivamente il massimo ribasso d’asta che, pur del tutto legittimo, può però creare una serie di inconvenienti. Questo criterio è infatti previsto dalla normativa vigente (che è poi quella di derivazione comunitaria) insieme a quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa e dovrebbe aiutare le pubbliche amministrazioni a contenere i costi a parità di prestazioni. Come tale, il suo utilizzo dovrebbe essere privilegiato per quel tipo di lavori che presentano livelli di qualità abbastanza standardizzati e dove quindi la valutazione dell’affidamento può essere basata interamente sulla differenza di prezzo. Nella pratica, tuttavia, molte pubbliche amministrazioni appaltanti tendono ad adottare il criterio del massimo ribasso in modo pressoché sistematico e, per così dire, acritico. Le ragioni sono fondamentalmente due: il desiderio di risparmiare sui costi degli appalti, specialmente in una fase come l’attuale di forte restrizione e revisione della spesa pubblica, e la maggiore semplicità amministrativa, in quanto molte amministrazioni non hanno le competenze sufficienti per utilizzare formule contrattuali più sofisticate, specialmente per quanto riguarda la gestione degli eventuali contenziosi con le ditte.
La conseguenza, come la stessa Commissione d’inchiesta ha potuto verificare, è che in molti appalti, specie di valore inferiore, si determina una fortissima compressione dei costi, con ribassi anche superiori al 50 per cento sia nella fase di progettazione che in quella di esecuzione. È chiaro che situazioni di questo tipo compromettono inevitabilmente non solo la qualità del lavoro appaltato, ma anche il rispetto di tutte le procedure e le garanzie, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. Ciò è testimoniato drammaticamente dall’alto numero di infortuni, anche mortali, che funestano tale settore e che riguardano più spesso ditte subappaltatrici di piccole o piccolissime dimensioni, che hanno omesso in tutto o in parte le prescritte tutele dei lavoratori per poter risparmiare e spuntare offerte più competitive, in un tragico scambio tra lavoro e sicurezza che non dovrebbe mai verificarsi.
Infatti, mentre le ditte appaltatrici sono in genere più controllate e affidabili, la maggiore preoccupazione riguarda la catena dei subappalti e dei subaffidamenti che, quanto più si espande, tanto più rischia di diventare opaca e meno controllabile, specie considerando che, a seconda dei settori, gli affidamenti possono assumere le forme più svariate: dal subappalto alla subfornitura, dai noli «a caldo» o «a freddo» al cottimo e ai vari contratti di collaborazione e consulenza. La situazione diventa poi ancora più complessa quando alcuni soggetti affidatari si presentano in forme «collettive», come nel caso dei consorzi o dei raggruppamenti temporanei di imprese.
Si tratta, è bene precisarlo, di istituti giuridici perfettamente legittimi, pensati per consentire una maggiore flessibilità nella gestione di lavori o servizi più complessi e per favorire la partecipazione anche di imprese di minori dimensioni. Tuttavia, sono evidenti i pericoli insiti in un abuso di questi strumenti, sia per il ricorso al lavoro sommerso o irregolare, sia per l’abbassamento delle tutele della sicurezza del lavoro, sia per quanto riguarda i rischi di penetrazione della criminalità organizzata. Ad esempio, in un rapporto del 2008 curato dal CNEL sul problema dell’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, si legge espressamente, a proposito della proliferazione normativa e contrattualistica avvenuta in questo settore: «Il primo punto di criticità è quindi rappresentato dal notevole aumento di forme di contrattazione tra il pubblico e il privato, che vanno dal più regolamentato appalto a forme con meno regole certe, come la formazione di contratti societari.» 23.
Il comparto più interessato da queste situazioni è naturalmente quello delle costruzioni, ma negli ultimi anni, sull’onda di un generale processo di esternalizzazione di una serie di attività che ha coinvolto sia il settore pubblico che quello privato, forme più o meno complesse di appalto si ritrovano anche in ambiti che un tempo ne erano esclusi, come i servizi: manutenzioni, pulizie, movimentazioni di merci, attività di montaggio e smontaggio, e così via. In questa catena di successivi affidamenti si annidano spesso i maggiori rischi per la sicurezza, sia per il taglio ai relativi investimenti legato alla necessità di risparmiare sui costi, sia per la difficoltà di coordinare tra loro i diversi lavori, creando i cosiddetti rischi di interferenza, che sono stati alla base di numerosi e gravi incidenti sul lavoro, anche mortali.
Anche nel corso del 2012, purtroppo, la Commissione ha avuto modo di interessarsi di alcuni di questi casi. Dei primi si è già accennato nel paragrafo 2.3: si tratta di due incidenti nei quali hanno trovato la morte alcuni giovani operai impegnati nel montaggio di grandi palchi per concerti, uno avvenuto a Trieste il 12 dicembre 2011 e l’altro a Reggio Calabria il 5 marzo 2012. Il primo – del quale la Commissione si è occupata direttamente chiedendo informazioni alla competente Procura – è avvenuto all’interno del Palasport: intorno alle ore 14, quando i lavori di montaggio del palco erano stati quasi completati, una delle impalcature ha improvvisamente ceduto ed è crollata, uccidendo sul colpo un giovane operaio, Francesco Pinna, e ferendone altri nove, di cui alcuni in modo grave.
A crollare è stata la struttura denominata in gergo «ground support», una impalcatura di metallo che copre il palco e alloggia gli altoparlanti e i riflettori, utilizzata per i concenti in quegli edifici (come appunto il Palasport di Trieste) in cui non è possibile appendere le luci e l’amplificazione direttamente al soffitto. Alla fine delle indagini, la Procura di Trieste ha ipotizzato i reati di omicidio colposo, di lesioni personali colpose e di violazione delle norme antinfortunistiche a carico del titolare e dei tecnici della società incaricata della fornitura, posa e rimozione del «ground support», che in sostanza non avrebbero valutato correttamente i carichi che dovevano essere sopportati dalla struttura, la quale non sarebbe stata quindi adeguatamente rinforzata e sarebbe poi collassata su sé stessa, abbattendosi sugli sfortunati operai.
Una dinamica molto simile si è avuta nell’altro incidente di Reggio Calabria, avvenuto all’interno del locale palazzetto dello sport, il Palacafiore. Intorno alle 2 di notte, mentre erano in corso le attività di allestimento del palco, è crollata anche in questo caso la struttura metallica del «ground support» sovrastante il palco. Le pesanti tubature si sono abbattute sulle gradinate e su alcuni operai, intenti a fissare le luci sul tetto del palco. Uno di loro, Matteo Armellini, di 31 anni, è stato colpito in pieno ed è morto sul colpo. Altri due suoi colleghi, rimasti feriti in maniera non grave, sono stati portati in ospedale.
Le analogie tra i due episodi sono dunque elevate e pongono una serie di interrogativi sulle modalità di organizzazione del lavoro nel settore del montaggio dei palchi. Al di là degli esiti delle indagini e dei procedimenti giudiziari, quel che preme mettere in evidenza è che si tratta di un settore che, come molti altri, fa un ampio uso di appalti e subappalti, con ritmi di lavoro molto intensi. Il ricorso frequente per i concerti e gli altri spettacoli a strutture sempre più grandiose e complesse impone infatti la presenza di numerosi operai, che lavorano a ritmo continuo per trasportare, montare e smontare a tempo di record i palchi e le attrezzature di supporto, che spesso devono essere spostati nel giro di pochi giorni da una località all’altra per seguire le tournée degli artisti.
Come anche molte inchieste giornalistiche hanno evidenziato, il personale che cura l’allestimento è fornito da ditte specializzate, le quali però a loro volta fanno ricorso per le attività accessorie (tipicamente i servizi di facchinaggio) ad altre ditte, che impiegano lavoratori generici meno qualificati (ad esempio a Trieste c’erano tre di queste ditte subappaltatrici). Questo implica la necessità, ai fini delle garanzie di sicurezza, di un’attenta pianificazione sia del progetto di realizzazione del palco dal punto di vista statico, sia del coordinamento delle diverse figure chiamate ad operare nella zona di lavoro. Esistono al riguardo normative e regole tecniche molto precise, che però talvolta sono disattese: in primo luogo non vi è sempre un’adeguata formazione/informazione degli addetti, in secondo luogo i ritmi molto veloci cui si accennava prima vanno spesso a discapito del rispetto delle necessarie cautele. Non si vuole naturalmente generalizzare: nella maggior parte dei casi queste attività sono svolte da professionisti qualificati e con un alto grado di specializzazione, tuttavia le irregolarità sono assai diffuse, soprattutto tra le ditte subappaltatrici. Ad esempio, dopo i gravi incidenti di cui si è appena detto, nei mesi di marzo e aprile 2012 le forze dell’ordine e i servizi ispettivi degli enti preposti hanno fatto una serie di ispezioni congiunte in varie località italiane (Caserta, Livorno, Napoli, La Spezia) sulle attività di allestimento di alcuni concerti e spettacoli, ai fini di controllo e di prevenzione. In tutti i casi sono emerse violazioni delle norme sulla sicurezza e la presenza di un alto numero di lavoratori irregolari o totalmente in nero, quasi tutti impiegati in imprese subappaltatrici.
Le procedure del settore prevedono che le ditte responsabili dell’allestimento debbano presentare i progetti alle competenti Commissioni di vigilanza prefettizie o comunali, mentre i controlli sono affidati ai servizi tecnici delle ASL e delle Direzioni territoriali del lavoro, nonché ai Vigili del fuoco per la parte relativa alla prevenzione incendi. Purtroppo la cronica carenza di personale di questi enti rende spesso molto difficile controllare accuratamente tutti i numerosi concerti, spettacoli ed eventi vari che si succedono nel corso dell’anno, in particolare in estate.
Attualmente i controlli sul settore si sono però intensificati e anche l’INAIL, attraverso il Dipartimento Tecnologie della sicurezza (l’ex ISPESL) ha attivato dei corsi di qualificazione e formazione specifici per gli operatori del settore su base regionale (ad esempio in Toscana), proponendo altresì di prevedere anche per le attrezzature provvisorie (come sono classificati appunto i palchi dei concerti) la presentazione preventiva, da parte delle imprese, di idonei schemi tipo – in analogia a quelli previsti per i ponteggi metallici fissi – a partire dai quali dovrebbe discendere ogni specifico progetto. Lo stesso Dipartimento Tecnologie della sicurezza dell’INAIL ha suggerito anche di introdurre una validazione preventiva, per esempio a livello regionale, facilitando in tal modo il compito delle Commissioni di vigilanza che spesso ricevono le documentazioni tecniche in tempi molto ravvicinati rispetto all’evento. A livello generale, occorrerebbe garantire un’azione di controllo più severa e prevedere in modo più attento i carichi di lavoro che questo genere di eventi comporta, facendo in modo che i progetti di montaggio, che oggi sono eseguiti in maniera abbastanza generica, siano maggiormente dettagliati.
Un altro incidente sul lavoro legato a lavorazioni in appalto del quale la Commissione si è occupata direttamente è stato quello occorso al signor Luigi Termano, un operaio di 26 anni morto il 29 febbraio 2012 in uno dei cantieri della Metro C di Roma (precisamente quello situato in Via Casilina angolo Via Colombi) durante alcuni lavori di manutenzione. L’8 marzo una delegazione della Commissione ha effettuato un sopralluogo nel cantiere in questione, per meglio rendersi conto delle circostanze dell’incidente, e ha poi proceduto ad una serie di audizioni informative in Senato, con tutti i soggetti interessati: sono stati ascoltati i rappresentanti del Comune di Roma, i rappresentanti della Magistratura e dei Carabinieri che si sono occupati delle indagini, i tecnici della Direzione territoriale del lavoro di Roma e della ASL Roma B, competenti per zona, e infine le parti sociali, datori di lavoro e sindacati, delle aziende coinvolte nell’infortunio.
Al riguardo occorre fare una premessa per chiarire l’organizzazione dei lavori legati alla realizzazione della linea C della Metropolitana di Roma. Nel 2005 il Comune di Roma ha costituito la società Roma Metropolitane S.r.l. (di cui detiene per intero il capitale sociale), che svolge il ruolo di stazione appaltante e controlla tutta la parte amministrativo-giuridica inerente ai lavori che interessano le linee metropolitane della città, tra le quali rientra appunto la nuova linea C attualmente in corso di realizzazione, uno dei cantieri di metropolitane più grandi d’Europa. Roma Capitale svolge un ruolo di direzione e coordinamento, mentre Roma Metropolitane ha il ruolo di stazione appaltante; nella fattispecie, la linea C ha una serie di supervisioni, poiché ha tre soggetti finanziatori: lo Stato, che è intervenuto con il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) per il 70 per cento, il Comune di Roma, che interviene con il 18 per cento, e la Regione Lazio, che interviene con il 12 per cento. Oltre al ruolo di Roma Metropolitane, un commissario governativo è delegato a controllare i lavori della linea C, infine vi è una supervisione da parte dell’ente che ha approvato il progetto, ovvero il CIPE.
L’esecuzione dei lavori per la realizzazione della linea C è affidata a un contraente generale, la Metro C s.c.p.a., una società di progetto formata dalle società Astaldi, Vianini Lavori, Ansaldo STS, Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi, Consorzio Cooperative Costruzioni. Il contraente generale si avvale poi, per eseguire alcune fasi della lavorazione, di una serie di subappaltatori, tra i quali la ditta CO.GE.DI. S.r.l., che operava nel cantiere dell’incidente e alla quale apparteneva la vittima, il signor Termano.
Essendo l’opera inserita nella legge obiettivo, il contraente generale è responsabile di tutta la filiera della sicurezza e della direzione lavori. Roma Metropolitane svolge l’attività di alta sorveglianza su tutti i 37 cantieri attualmente attivi, su cui operano circa 1.500 operai e un numero considerevole di imprese, attraverso controlli periodici sugli aspetti tecnici e sulla qualità dell’appalto.
Per quanto riguarda la dinamica dell’incidente, intorno alle ore 20 Luigi Termano e un altro operaio stavano lavorando all’interno di un pozzo, profondo 28 metri, sotto il livello del suolo. I due erano impegnati nel taglio di una trave metallica, seduti su un ponteggio provvisorio il cui piano di calpestio era posto a oltre 2 metri da terra. Il ponteggio non aveva parapetti per impedire la caduta nel vuoto; a 70 centimetri vi era invece un parapetto posto sul bordo del pozzo, alto però solo 115 centimetri, ossia circa un metro inferiore all’altezza del piano di calpestio del ponteggio. Secondo le ricostruzioni della Magistratura, i due operai erano altresì sprovvisti delle cinture di sicurezza. Quando l’altro operaio ha terminato di tagliare la trave, il moncone, che era legato con una catena, è ondeggiato all’indietro e il signor Termano, che si trovava a fianco al collega, per evitare di essere colpito si è sbilanciato all’indietro e ha perso l’equilibrio, cadendo nel pozzo. Benché subito soccorso, è purtroppo deceduto il giorno seguente per i traumi riportati.
Al termine delle indagini, la Magistratura ha chiesto il rinvio a giudizio per i dirigenti di Roma Metropolitane, di Metro C esercitanti le funzioni di datori di lavoro e di responsabili, a vario titolo, del procedimento e dei controlli della sicurezza nel cantiere interessato, nonché per il responsabile e i preposti della ditta CO.GE.DI., con l’accusa di concorso in omicidio colposo e violazione delle norme antinfortunistiche.
Lasciando da parte quello che sarà l’esito del procedimento giudiziario e l’effettivo accertamento delle responsabilità, il caso è emblematico di molti problemi che si riscontrano spesso nei cantieri delle grandi opere pubbliche, dove la complessità dei lavori e il numero stesso degli operatori crea potenziali situazioni di rischio per la salute e la sicurezza che devono essere opportunamente gestite. Manca spesso però un efficace coordinamento tra le diverse fasi della lavorazione e tra le diverse ditte chiamate ad operare, che si traduce anche nell’assenza di un’informazione/formazione completa agli operai. Nella vicenda della Metro C, le indagini della Magistratura hanno accertato che i due lavoratori non erano stati adeguatamente informati sui rischi e quindi sulle precauzioni da assumere per l’esecuzione di quel lavoro. Inoltre, è di tutta evidenza che il ponteggio era assolutamente irregolare, mancando sia i parapetti che le cinture di sicurezza prescritte, il che pone il problema sia di chi ha organizzato e autorizzato il lavoro, sia di chi doveva vigilare sul rispetto delle norme antinfortunistiche.
I controlli effettuati nei cantieri della Metro C sia dal committente, sia dalle autorità preposte sono stati numerosi: nel 2011 Roma Metropolitane ha svolto e verbalizzato oltre 1.200 sopralluoghi nei diversi cantieri e oltre 170 nel periodo di gennaio-febbraio 2012 immediatamente precedente all’infortunio, i tecnici della Direzione provinciale del lavoro tra il 2010 e il 2011 hanno controllato 4 cantieri, mentre la ASL Roma B tra il 2008 e l’inizio del 2012 ha eseguito 100 sopralluoghi, comminando 62 prescrizioni per varie violazioni. Ciononostante, l’ampiezza dei lavori è tale che i controlli risultano comunque insufficienti, anche a causa degli organici ridotti dei servizi ispettivi. Durante le audizioni svolte sull’incidente sono stati evidenziati, in particolare da parte dei sindacati, molti problemi relativi all’organizzazione dei cantieri e alla formazione dei lavoratori, ai quali però non fa riscontro una vigilanza ampia e soprattutto tempestiva. Allorquando viene segnalato una carenza o una irregolarità in un cantiere, infatti, passano a volte molti giorni prima che arrivi l’ispezione e nel frattempo la scena è completamente cambiata.
Questi problemi si riscontrano purtroppo in tutta Italia negli appalti pubblici, non solo delle grandi opere, ma anche e in modo ancora più evidente nei cantieri più piccoli: mentre infatti le grandi opere vanno avanti per lunghi periodi e quindi anche un controllo meno tempestivo può comunque rilevare eventuali disfunzioni, nei cantieri di minori dimensioni (per fare un tipico esempio, il rifacimento della facciata di un edificio pubblico) che hanno una durata assai più breve un sopralluogo tardivo rischia di arrivare quando il cantiere è ormai chiuso e diventa sostanzialmente inutile. In alcune circostanze a ciò si aggiungono poi inefficienze e sovrapposizioni tra le pubbliche amministrazioni competenti, che rendono la situazione ancora più difficile.
Naturalmente, in questi contesti non vi sono soltanto rischi per le condizioni di sicurezza dei lavoratori, ma aumentano anche i tentativi di infiltrazione del lavoro sommerso o in nero o addirittura di aziende legate alla criminalità organizzata, che ha da sempre negli appalti pubblici una delle sue principali attività, specie nelle Regioni del Mezzogiorno. Come ricorda infatti una recente relazione della Commissione antimafia, «Nelle quattro Regioni ad alta densità mafiosa, le risultanze delle indagini e delle attività processuali dimostrano che il condizionamento della pubblica amministrazione si esercita principalmente sugli appalti pubblici, sui finanziamenti comunitari, sullo smaltimento dei rifiuti e, con particolare insistenza, sul settore sanitario, dove si concentra gran parte della spesa pubblica in capo alle Regioni» 24.
A questi problemi si sta cercando da tempo di porre rimedio organizzando delle strutture centralizzate – in genere coordinate dalle Prefetture – sia per quanto riguarda la gestione amministrativa degli appalti, sia per quanto concerne le operazioni di vigilanza e controllo, le quali stanno dando ottimi risultati non solo per il contrasto all’illegalità e alle infiltrazioni della criminalità organizzata, ma anche sul fronte della prevenzione degli infortuni. Si tratta però di strumenti che dovrebbero avere una maggiore diffusione, non limitata soltanto alle grandi opere pubbliche.
Si è ritenuto opportuno dilungarsi su questi episodi di infortuni sul lavoro legati agli appalti non solo per dare conto del lavoro di approfondimento svolto dalla Commissione, ma anche perché, come si è visto, si tratta di vicende che assumono carattere emblematico rispetto ai problemi della sicurezza sul lavoro negli appalti e subappalti, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico. Di tali aspetti e delle possibili soluzioni si parlerà in maniera diffusa nel prossimo paragrafo.

3.3.2. Le iniziative di prevenzione e controllo
Nella precedente relazione intermedia, si sono segnalate alcune iniziative e possibili soluzioni per cercare di migliorare i livelli di salute e sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti. Come si è più volte sottolineato, uno dei fattori maggiormente problematici, soprattutto nelle gare ad evidenza pubblica, è il ricorso sistematico al massimo ribasso d’asta come criterio per la valutazione delle offerte, nei casi in cui questo determina una eccessiva compressione dei costi che poi si riverbera, inevitabilmente, anche sulle spese per la sicurezza. Si tratta di un tema richiamato più volte con preoccupazione da varie istituzioni e parti sociali incontrate dalla Commissione in tutto il Paese, sollecitando interventi per eliminare o quanto meno limitare il ricorso a questo criterio. Sollecitazioni analoghe sono venute anche dal Parlamento, che in proposito ha approvato anche vari atti di indirizzo, accolti dal Governo: da ultimo, la risoluzione n. 6-00122 approvata il 7 febbraio 2012 dall’Assemblea del Senato dopo il dibattito sulla terza relazione intermedia della Commissione d’inchiesta.
In sostanza, occorre trovare sistemi (come il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che la legge già consente in alternativa a quello del massimo ribasso), che valutino l’offerta non solo attraverso parametri meramente economici, ma anche qualitativi, così da garantire anche una selezione delle imprese più qualificate e capaci, che sono in genere anche quelle che rispettano maggiormente le regole, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. La Commissione si è impegnata a fondo per approfondire la questione, molto complessa anche dal punto di vista tecnico, per una serie di ragioni che è opportuno ricordare. In primo luogo, il criterio del massimo ribasso, come tutta l’attuale disciplina in materia di contratti pubblici, è di derivazione comunitaria e non può dunque essere derogata, se non in misura molto limitata. Il criterio del massimo ribasso ha inoltre una serie di indubbi vantaggi, configurandosi come un parametro di valutazione oggettivo, immediatamente misurabile e di facile utilizzo per le gare ad evidenza pubblica: oltre ad essere (in linea di principio) più trasparente, esso consente maggiori risparmi per le pubbliche amministrazioni, aspetto tutt’altro che trascurabile in un periodo di forte contrazione della spesa pubblica come l’attuale. Il problema è che se questo criterio, come spesso accade, viene applicato in modo per così dire acritico, in assenza di controlli e di una adeguata selezione delle offerte, si può arrivare alle degenerazioni di cui si è parlato, con ribassi abnormi che compromettono la qualità della prestazione e la sicurezza sul lavoro.
Peraltro, come si è accennato nel paragrafo precedente, anche i criteri di valutazione basati su parametri di tipo qualitativo presentano degli svantaggi, in quanto rendono più complessa e onerosa da gestire la procedura di gara, accrescono la discrezionalità delle stazioni appaltanti (e dunque il rischio di irregolarità o illeciti) e possono ridurre i margini di risparmio per le stesse.
Su quest’ultimo aspetto, però , occorre fare un po’ di chiarezza: secondo la Relazione annuale 2011 presentata al Parlamento dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), negli appalti pubblici di lavori il ribasso medio di aggiudicazione rispetto alla base d’asta è del 21,6 per cento per le gare assegnate con il criterio del massimo ribasso e del 16,8 per cento per quelle assegnate con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Per quanto riguarda gli appalti pubblici di servizi, il ribasso di aggiudicazione è in media del 18,6 per cento con il massimo ribasso e del 16,5 per cento con l’offerta economicamente più vantaggiosa, mentre nel caso delle forniture le percentuali sono rispettivamente del 17,3 e del 15,8 per cento 25.
Quindi, gli appalti pubblici aggiudicati con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa determinano un ribasso rispetto alla base d’asta che è in media solo del 2-4 per cento inferiore a quello conseguito con il criterio del massimo ribasso: si tratta di differenze che nei contratti di grande valore possono essere certo importanti, ma che in molti casi non sembrano tali da giustificare da sole la scelta di ricorrere sistematicamente al massimo ribasso. Ciononostante, questo è comunque in assoluto il criterio più utilizzato: sempre secondo i dati della Relazione annuale dell’AVCP, infatti, esso viene adottato dalle stazioni appaltanti per oltre l’87 per cento dei lavori, più del 65 per cento dei servizi e la quasi totalità delle forniture.
A questa scelta concorrono, come già osservato, le croniche ristrettezze di bilancio di molte pubbliche amministrazioni, che incoraggiano il tentativo di ricercare il maggior risparmio possibile, nonché il fatto che molte amministrazioni spesso non hanno la capacità tecnica per gestire procedure di gara più sofisticate come quelle basate sull’offerta economicamente più vantaggiosa, né per effettuare i controlli che pure sarebbero necessari e affrontare l’eventuale contenzioso con le ditte che partecipano agli appalti (si pensi ad esempio ai piccoli Comuni).
Si impone allora l’esigenza di rafforzare il regime dei controlli da parte delle pubbliche amministrazioni appaltanti, soprattutto nella fase preliminare di valutazione delle eventuali anomalie di offerta. Questo potrebbe essere realizzato prevedendo meccanismi di verifica più pregnanti in presenza di offerte con ribassi eccessivi (ad esempio oltre una certa soglia) e obbligando le imprese a fornire adeguati giustificativi. Un altro elemento importante è quello della verifica della congruità dei costi delle singole voci di spesa, specialmente per quanto riguarda quelli della manodopera, che andrebbero indicati in modo distinto nei bandi di gara, così da consentire controlli più approfonditi sulle offerte dei concorrenti.
Questa operazione deve però necessariamente accompagnarsi ad un potenziamento delle strutture amministrative, con una maggiore capacità tecnica del personale addetto alla gestione delle gare, che dovrebbe essere adeguatamente formato, ma anche meglio tutelato, per evitare (come accade ora) di essere eccessivamente esposto alle pressioni delle aziende che partecipano alle gare. Il problema riguarda in particolare quelle decisioni, come l’esclusione per anomalie, che possono dare origine a contenziosi: talvolta, anche quando ci sarebbero i presupposti, molti funzionari amministrativi esitano a procedere, perché non hanno una preparazione idonea o temono di essere poi lasciati soli a fronteggiare certe responsabilità. Occorre infatti ricordare che coloro che prendono queste decisioni non solo sono esposti nei confronti delle aziende che partecipano alla gara, ma devono anche rispondere all’amministrazione appaltante, che potrebbe insistere – per vari motivi – per accorciare i tempi della procedura, impedendo una più accurata valutazione delle offerte.
È da segnalare che sul tema è stato presentato in Senato un apposito disegno di legge (Atto Senato n. 3176, intitolato «Nuove norme per la limitazione del ricorso ai ribassi elevati nelle gare pubbliche, a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori»), su iniziativa del senatore Vincenzo De Luca e di altri parlamentari, tra i quali vari componenti della Commissione d’inchiesta. Il disegno di legge infatti raccoglie molte delle indicazioni scaturite dall’inchiesta e prevede una serie di misure atte ad introdurre nella disciplina vigente degli appalti pubblici alcuni correttivi orientati a limitare il ricorso ai ribassi elevati, a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, oltre che della dignità delle prestazioni di manodopera e professionali.
Si propone, in particolare, un sistema di valutazione delle offerte anomale in grado di vincolare le imprese a valutare in forma congrua l’importo da offrire, così da scoraggiare la pratica dei ribassi sui costi della sicurezza relativi alla manodopera. A tal fine, è disposta una modifica del Codice dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che introduce nuovi criteri e requisiti per lo svolgimento delle gare e la selezione dell’offerta migliore, applicabile a tutti i settori, per qualunque importo. In più , si prevede che, nel caso di offerte anormalmente basse, la verifica venga effettuata da un soggetto il quale, a garanzia dei rischi che potrebbero derivare dallo svolgimento della propria attività di competenza, sia munito di una polizza di responsabilità civile professionale per tutta la durata dell’appalto.
Per scoraggiare i ribassi eccessivi, è inoltre prevista la prestazione di garanzie più alte per chi propone appunto ribassi elevati, superiori al 20 per cento, e non possiede certificazioni di qualità. Il disegno di legge introduce poi penali a carico dell’impresa esecutrice per le violazioni dei piani di sicurezza dei lavori oggetto dell’appalto, fino alla risoluzione del contratto nelle ipotesi più gravi. Viceversa, per incentivare le condotte virtuose, si prevede un premio per le imprese affidatarie che non hanno commesso infrazioni alle norme di sicurezza nell’esecuzione delle opere ed un premio per quelle che, certificate per il sistema di gestione della sicurezza, utilizzano in cantiere solo imprese dotate di tale certificazione.
Infine, oltre a definire in maniera più precisa compiti e responsabilità del coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione e di vigilanza, il disegno di legge rinvia ad un regolamento – da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentite la Conferenza unificata e le associazioni datoriali e sindacali del settore edile – l’individuazione dei requisiti di idoneità tecnica e professionale per lo svolgimento, in qualunque forma, dell’attività d’impresa nel settore dei lavori edili o di ingegneria civile, nonché la fissazione degli oneri di comunicazione posti a tal fine a carico degli imprenditori edili in sede di partecipazione alle gare.
Iniziative normative di tenore analogo sono state assunte anche da alcune amministrazioni regionali. Ad esempio la Regione Umbria ha emanato la legge regionale 21 gennaio 2010, n. 3 («Disciplina regionale dei lavori pubblici e norme in materia di regolarità contributiva per i lavori pubblici»), il cui funzionamento è stato illustrato alla Commissione nel corso del sopralluogo svolto a Perugia il 12 marzo 2012.
L’articolo 23 della legge regionale, relativo ai costi della sicurezza nell’affidamento dei lavori pubblici, prevede che i soggetti aggiudicatari in tutti i documenti relativi alle gare d’appalto per lavori pubblici debbano indicare in maniera specifica e separata, oltre al costo della sicurezza e dell’intervento, anche l’onere della quota parte delle spese generali per la sicurezza, che esula dal Codice degli appalti, ed il costo presunto della manodopera specializzata, ugualmente non previsto nel Codice degli appalti. Deve anche essere distinto il costo presunto per il personale, se il ribasso incide su di esso: questo fatto non comporta l’anomalia della gara, perché il codice nazionale non lo prevede, ma determina una serie di controlli previsti dalla legge regionale. Infatti i cantieri dove ciò si è verificato sono oggetto di un monitoraggio specifico obbligatorio in capo alle stazioni appaltanti. Allo stesso modo, se l’incremento della media del ribasso è superiore ad una certa media aritmetica, scattano automaticamente maggiori controlli.
La legge regionale n. 3 del 2010 ha inteso quindi rafforzare i controlli nel settore degli appalti, in una Regione dove – come accade del resto un po’ in tutta Italia – gli affidatari sono spesso piccole e medie imprese, anche attraverso il meccanismo del subappalto e della concessione. La legge peraltro è stata anche oggetto di un ricorso da parte dello Stato, sul quale si è pronunciata la Corte costituzionale con un’apposita sentenza, ma le norme in questione sono state fatte salve 26. Su di esse infatti vi è la piena condivisione della associazioni delle imprese, perché rappresenta uno strumento per controllare non solo le gare anomale, ma anche quelle con ribassi eccessivi, che determinano distorsioni anche sul mercato delle imprese. L’osservatorio regionale sugli appalti pubblici, previsto dalla legge, conferma il buon risultato dell’iniziativa.
Nel paragrafo 3.8 si darà conto della missione svolta in Emilia-Romagna dalla Commissione tra il 16 e il 18 settembre 2012 nei luoghi colpiti dal recente sisma. Come si vedrà meglio in quella sede, esistono molti problemi legati agli appalti della ricostruzione, tra i quali quello di garantire che gli stessi si svolgano nella maniera più corretta e trasparente possibile. Al riguardo, nel corso della missione la Commissione ha appreso di una importante iniziativa assunta dalla Regione Emilia-Romagna proprio al fine di prevenire alcuni di questi problemi. Nel luglio del 2012, infatti, la Regione ha stipulato un apposito Protocollo per la legalità con tutte le associazioni sindacali e d’impresa che, in relazione alle attività di ricostruzione del dopo terremoto, esclude il ricorso al criterio del massimo ribasso negli appalti. Si tratta naturalmente degli appalti pubblici, posto che nell’edilizia privata questo può essere soltanto un auspicio, ma è un segnale molto importante, volto a prevenire i rischi di infiltrazione della criminalità nel business della ricostruzione ma che ha evidenti ricadute anche ai fini della tutela della sicurezza dei lavoratori.
Questi esempi dimostrano come, senza derogare alla disciplina generale sui contratti pubblici di origine comunitaria, siano comunque possibili alcuni interventi normativi o più semplicemente amministrativi in grado di limitare il ricorso indiscriminato al massimo ribasso e più in generale di garantire un maggiore livello di prevenzione e di controllo nelle procedure ai fini della legalità e della sicurezza sul lavoro.
Una formula che si è richiamata anche nella precedente relazione è quella della creazione delle stazioni appaltanti uniche per varie amministrazioni pubbliche, ad esempio per i Comuni di una stessa Provincia, così da poter avere una «massa critica» maggiore e realizzare una gestione centralizzata e più efficiente degli appalti, anche a livello di controlli. Tale modalità operativa è già stata sperimentata con successo in diverse realtà italiane, spesso sotto la gestione delle Prefetture, anche in questo caso soprattutto per contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata. Nella già citata relazione della Commissione antimafia del 25 gennaio 2012 si osserva espressamente a questo proposito: «La riduzione del numero delle stazioni appaltanti è un altro degli interventi da tempo richiesto per limitare i rischi di infiltrazione criminale. L’elevato numero (attualmente circa 18.000) costituisce un elemento di debolezza del sistema: il concentramento in strutture più ampie, a livello provinciale o regionale, avrebbe l’effetto di scongiurare i rischi di condizionamenti locali e consentire una migliore lettura dei dati a fini decisionali» 27.
La relazione della Commissione antimafia cita in proposito una serie di esempi di Regioni e Province che hanno attivato questo modello. Naturalmente esso non è sempre generalizzabile, ma l’idea di associare più enti nella gestione degli appalti è sicuramente valida, non soltanto nelle gare che hanno per oggetto lavori o forniture ma anche in quelle dei servizi, un settore in cui l’esternalizzazione è sempre più diffusa e dove i problemi della qualità della prestazione e della tutela della sicurezza sul lavoro sono ormai molto sentiti, visto anche l’alto numero di infortuni.
L’altro aspetto è quello del rafforzamento dei poteri di controllo da parte delle stazioni appaltanti nei confronti non solo dell’appaltatore principale, ma anche e soprattutto dei subappaltatori. È bene ripetere che è proprio nell’allungamento della catena degli affidamenti all’interno dell’appalto che si creano le maggiori violazioni della sicurezza sul lavoro e i più gravi incidenti, spesso mortali. Nel paragrafo precedente si è spiegato come ormai esista una vera e propria giungla di formule contrattuali che rendono quanto mai complessi gli affidamenti al di sotto del primo livello (cioè dell’appaltatore principale), creando una stratificazione a più livelli, in senso verticale e perfino orizzontale, con i raggruppamenti o i consorzi di imprese.
La perdita di controllo e di coordinamento sulle varie ditte che partecipano al progetto in queste situazioni è quasi inevitabile e sempre causa di gravi inconvenienti. Infatti, mentre il rapporto tra committente e contraente principale è più controllato e tutelato, quello con i subappaltatori diventa molto più sfumato o a volte perfino inesistente, poiché molte stazioni appaltanti non controllano i successivi livelli di attività (gli ultimi anelli della catena, per così dire), spesso volutamente per non avere complicazioni. In molti casi, tuttavia, sono le stesse norme del bando di gara che limitano la capacità di intervento della stazione appaltante nei confronti delle imprese subappaltatrici: a tale situazione occorre dunque porre rimedio, mediante una stesura più attenta dei bandi.
Si è già vista, inoltre, l’importanza dell’anomalia di gara nella selezione delle offerte, un meccanismo che, se ben applicato, potrebbe evitare anche molte distorsioni del sistema del massimo ribasso. Anche in questo caso, però , occorre una più solida organizzazione da parte delle pubbliche amministrazioni per gestire questi aspetti, che potrebbe essere ottenuta proprio con i meccanismi associativi prima richiamati.
Infine, è opportuno richiamare ancora una volta l’attenzione sul problema della sicurezza del lavoro negli appalti del settore privato. In questo comparto, l’assenza delle procedure e dei controlli più severi previsti per il settore pubblico rende la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro molto più frequente e difficile da arginare: gli episodi richiamati nel precedente paragrafo della morte dei giovani operai addetti al montaggio dei megapalchi per i concerti a Trieste e a Reggio Calabria dimostrano la rilevanza della questione. Le maggiori preoccupazioni riguardano il settore delle costruzioni e si legano strettamente al tema della regolamentazione della professione di imprenditore edile. Nella precedente relazione si è ricordato come le organizzazioni di categoria (a cominciare dall’Associazione nazionale costruttori edili) abbiano più volte denunciato le carenze dell’attuale normativa che non prevede per l’accesso a tale professione particolari requisiti di esperienza, preparazione tecnica e struttura organizzativa, essendo sufficiente, nella maggior parte dei casi, una semplice iscrizione alla Camera di commercio.
Una situazione molto frequente, nella quale la Commissione d’inchiesta si è imbattuta anche in quest’ultimo anno, è quella dei lavoratori autonomi che si iscrivono come imprenditori edili senza avere intorno a sé alcuna struttura organizzativa stabile e, una volta ottenuto un appalto, eseguono il lavoro avvalendosi di altri lavoratori autonomi reclutati per l’occasione con il meccanismo del subappalto. Spesso si tratta di ex titolari di imprese edili che utilizzano surrettiziamente i loro ex dipendenti, ma altre volte si tratta di persone senza esperienza specifica che mettono insieme squadre di lavoranti più o meno raccogliticce. In entrambi i casi i collaboratori figurano anch’essi come liberi professionisti, pur agendo di fatto come veri e propri dipendenti dell’appaltatore: sono i cosiddetti pseudoartigiani, la cui presenza sempre più diffusa nei cantieri pone vari problemi. In primo luogo vi è un discorso di elusione fiscale e contributiva, in quanto le imposte e i contributi pagati come lavoratori autonomi sono più bassi di quelli che le imprese pagherebbero per dei lavoratori dipendenti; in secondo luogo, mentre i lavoratori dipendenti sono soggetti ad una serie di obblighi sotto il profilo della sicurezza, la cui organizzazione e responsabilità compete al datore di lavoro, i lavoratori autonomi hanno meno vincoli e non sono tenuti ad osservare le stesse regole, anche se nel caso di specie si tratta in realtà di falsi lavoratori autonomi.
Il rischio oggettivo dunque è che, in assenza di una regolamentazione specifica, anche imprese o lavoratori autonomi privi di adeguata formazione e organizzazione possano svolgere determinati lavori edili, anche di notevole rilievo, a prezzi assai più bassi delle imprese meglio organizzate, nei cui confronti praticano una vera e propria concorrenza sleale.
Questi soggetti offrono in molti casi prestazioni di qualità inferiore e, soprattutto, non adottano tutte le necessarie cautele per garantire la sicurezza dei loro lavoratori, sia perché hanno una formazione inadeguata, sia perché, al fine di spuntare prezzi più bassi, tendono spesso a tagliare proprio le spese per la sicurezza.
D’altra parte, se il problema si pone soprattutto nel settore dell’edilizia privata, come si è visto anche nei contratti pubblici, attraverso il sistema dei subappalti, possono crearsi spazi in cui si inseriscono imprese poco serie e meno qualificate. A ciò si aggiunge la crisi economica che sta attanagliando anche il settore edile e che induce molte imprese a operare con margini economici ridottissimi o addirittura in maniera irregolare o sommersa, azzerando i costi e le tutele per la sicurezza dei lavoratori.
Come si è visto nel paragrafo 2.3, questo problema potrebbe essere risolto attraverso l’istituzione del sistema della qualificazione delle imprese, con l’attribuzione di un punteggio che misura l’idoneità degli operatori sotto il profilo della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, rispetto ad una serie di parametri (livello di formazione, assenza di violazioni di legge, ecc.). In edilizia ciò si realizzerebbe attraverso la cosiddetta «patente a punti» che però è ancora in corso di elaborazione nell’ambito della Commissione consultiva permanente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La Commissione consultiva, sollecitata dallo stesso Ministro, ha assunto l’impegno come prioritario, ma è difficile ipotizzare una rapida conclusione dell’iter: si tratta infatti di una materia complessa e sulla quale esistono opinioni diverse, anche tra le associazioni di categoria.
Sul tema non sono mancate anche iniziative parlamentari, che non hanno però trovato seguito: al riguardo si possono ricordare l’Atto Senato n. 2663 («Disciplina dell’attività professionale di costruttore edile e delle attività professionali di completamento e finitura edilizia»), approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati e, più recentemente, il già citato Atto Senato n. 3176 che, come si è accennato, oltre ad intervenire in materia di appalti prevede anche una regolamentazione della figura del costruttore.
Purtroppo la fine della legislatura rende assai improbabili novità significative su questo fronte. Resta in ogni caso l’esigenza di regolamentare l’attività di imprenditore edile, sollecitata anche questa nella citata risoluzione al Governo approvata dal Senato il 7 febbraio 2012: senza voler limitare la libertà d’iniziativa privata o la concorrenza del settore, è necessario assicurare una maggiore qualificazione degli operatori e quindi un maggiore rispetto delle regole della sicurezza sul lavoro. Malgrado gli innegabili progressi degli ultimi anni, quello edile resta infatti il settore con il più alto numero di incidenti, sia nel complesso che come casi mortali, nonché uno dei settori dove si concentrano le maggiori quote di lavoro irregolare e sommerso.
Tuttavia, i problemi degli appalti e subappalti non si pongono solo nel settore edile. Si è già osservato infatti che la moderna attività industriale tende ad esternalizzare fasi sempre più ampie del processo produttivo, facendo ricorso alle prestazioni di soggetti terzi. Questo fenomeno si verifica soprattutto presso le grandi imprese, che affidano ad aziende più piccole il compito di eseguire lavorazioni secondarie o servizi accessori (ad esempio attività di manutenzione o di pulizia), spesso all’interno degli stessi stabilimenti del committente. Si crea così il problema della gestione della sicurezza dei lavoratori delle imprese affidatarie, che non è sempre curata con la stessa solerzia e attenzione riservata ai dipendenti dell’azienda committente. Mentre questi ultimi ricevono generalmente una formazione di buon livello, i dipendenti delle aziende appaltatrici e subappaltatrici hanno talvolta una preparazione inferiore o che non è specifica per le esigenze e l’ambiente nel quale sono chiamati ad operare.
Quest’ultima circostanza è purtroppo molto frequente, posto che i grandi committenti, una volta affidato l’appalto, spesso si disinteressano dell’organizzazione della ditta affidataria (e quindi anche degli aspetti relativi alla gestione della sicurezza), omettendo di fornire tutte le informazioni necessarie sul lavoro da eseguire e soprattutto sull’ambiente nel quale lo stesso avviene. Questa disfunzione crea notevoli inconvenienti ed è spesso all’origine di molti gravi incidenti sul lavoro, anche mortali: un esempio tipico sono gli infortuni nei cosiddetti ambienti «confinati» (silos, pozzi, cisterne, ecc.), che hanno causato autentiche tragedie, di alcune delle quali si è occupata purtroppo in questi anni anche la Commissione.
In questi casi uno dei fattori ricorrenti alla base dell’infortunio è la mancata o incompleta informazione da parte dell’azienda principale alle persone che debbono operare nell’ambiente confinato riguardo alla presenza di sostanze tossiche o nocive (gas, vapori, ecc.) e alle relative precauzioni da adottare. Quasi sempre, le vittime sono operai (magari non adeguatamente addestrati) che lavorano per ditte appaltatrici o subappaltatrici, che non si erano coordinate bene tra loro e con il committente. Per questa ragione, come si è ricordato nel paragrafo 2.3, nel 2011 dopo l’ennesima tragedia di questo tipo presso la DSM di Capua, è stato emanato un apposito regolamento con decreto del Presidente della Repubblica n. 177 del 2011, che ha esteso il sistema di qualificazione delle imprese alle lavorazioni che si svolgono in ambienti confinati, prevedendo un notevole innalzamento del livello dei requisiti organizzativi e professionali degli operatori e un più forte coordinamento tra il committente e le imprese affidatarie.
In queste situazioni l’elemento chiave della prevenzione è infatti proprio l’adeguato coordinamento tra i diversi soggetti chiamati a collaborare ad una stessa attività complessa o anche semplicemente a lavorare all’interno di uno stesso spazio fisico. Dal punto di vista della sicurezza l’attenzione si concentra sui cosiddetti rischi da interferenze di lavorazione, che il decreto legislativo n. 81 del 2008 espressamente impone di prevenire redigendo il cosiddetto DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi da interferenze). L’articolo 26, comma 3, recita infatti: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze.».
Si tratta di un passaggio essenziale proprio all’interno degli appalti e subappalti, sia nel settore pubblico che in quello privato. In certi luoghi di lavoro (grandi cantieri edili, siti di imprese industriali, ospedali, scuole, ecc.) si ha spesso la presenza contemporanea di centinaia o addirittura migliaia di persone appartenenti a imprese diverse, che lavorano a poca distanza tra loro, a volte letteralmente contendendosi gli spazi fisici. In tali condizioni è indispensabile assicurare un ordinato svolgimento dei lavori, non solo per quanto concerne la qualità della prestazione, ma anche ai fini della tutela della sicurezza e dell’incolumità delle persone. Esistono al riguardo normative e procedure ben collaudate, che se correttamente applicate possono senz’altro aiutare a controllare e prevenire eventuali incidenti o disfunzioni: nella maggior parte dei casi fortunatamente è così.
Tuttavia, in molte situazioni purtroppo accade diversamente e questi argomenti sono affrontati dagli interessati in modo distratto e, per così dire, senza grande convinzione, a causa di una insufficiente preparazione e sensibilità sugli aspetti della sicurezza. La conseguenza è che i vari adempimenti sono eseguiti in modo formale o superficiale, senza prestare la necessaria attenzione, salvo poi dolersi quando si verificano incidenti o tragedie.
Così spesso la redazione del DUVRI e dei piani di sicurezza diventa l’ennesimo passaggio burocratico, magari fatto copiando una documentazione già predisposta o addirittura scaricabile da internet. Come segnalato più volte alla Commissione sia dai rappresentanti degli organi ispettivi che da quelli delle parti sociali nel corso delle numerose audizioni svolte in tutta Italia, esiste infatti al riguardo un fiorente commercio di documenti preconfezionati, offerti alle aziende da consulenti privi di scrupoli che tendono a privilegiare gli aspetti più formali e burocratici anziché aiutare realmente le imprese a costruire un efficace sistema di prevenzione e di formazione degli addetti.
In molti casi la responsabilità ricade anche sui committenti, che non si curano sempre a sufficienza di organizzare e coordinare il lavoro complessivo di tutti i soggetti che operano per loro conto, sia come dipendenti che come appaltatori esterni. In genere si tratta di grandi organizzazioni come imprese multinazionali o pubbliche amministrazioni, che quindi hanno anche un potere contrattuale più forte nei confronti delle aziende affidatarie, per lo più piccole ditte. Naturalmente non si intende con questo generalizzare, posto che la maggior parte delle situazioni sono gestite in maniera corretta, ma il problema è comunque molto diffuso.
In questo senso assume grande importanza la corretta valutazione dei rischi da interferenze, che deve essere fatta in maniera appropriata e tenendo conto delle concrete esigenze di ciascun processo e ambiente di lavoro, per poter adottare poi le necessarie misure preventive, a cominciare da un adeguato coordinamento delle varie attività. Questo significa che il DUVRI non deve essere interpretato come un mero adempimento burocratico, ma con un approccio di tipo sostanziale, in quanto parte integrante della complessiva azione di prevenzione e gestione della sicurezza.
Al riguardo alcune associazioni di categoria hanno spesso obiettato, anche nei vari incontri con la Commissione, che la redazione di questo documento sarebbe di per sé eccessivamente complessa (specie per le piccole e medie imprese) e non risulterebbe neanche giustificata nel caso di appalti di piccola entità e con un livello di rischio tendenzialmente basso. Le associazioni hanno pertanto chiesto di razionalizzare questo adempimento, adottando modelli semplificati del DUVRI o affidando la valutazione dei rischi da interferenza ed il relativo coordinamento a un professionista dotato di adeguata preparazione. In linea di principio ciò è senz’altro possibile e anche il Governo ha fatto proposte in questo senso, ad esempio nel già citato disegno di legge n. 5610 recentemente presentato alla Camera dei deputati. Ove correttamente impostate, le misure di semplificazione potrebbero anzi elevare il livello della prevenzione, privilegiando un approccio di tipo sostanziale rispetto ad uno più burocratico-formale.
Qualunque processo di snellimento amministrativo è sempre positivo, a condizione però che non si traduca in un indebolimento dei presidi posti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, tanto più necessari in contesti come quelli degli appalti in cui interagiscono contemporaneamente una pluralità di soggetti diversi. Soprattutto, è essenziale formare adeguatamente tutti i lavoratori che partecipano all’appalto, da quelli dell’azienda committente a quelli delle ditte affidatarie. Inoltre, occorre responsabilizzare maggiormente il committente, pubblico o privato che sia, attribuendogli contestualmente più penetranti poteri di coordinamento e di controllo anche nelle attività e nell’organizzazione dei vari appaltatori e subappaltatori.
Le autorità di vigilanza sono fortemente impegnate in questo settore, come testimoniato dalle varie ispezioni congiunte che si effettuano sempre più spesso, specialmente nei cantieri delle grandi opere. Accanto all’attività di controllo è tuttavia fondamentale una sempre maggiore consapevolezza da parte di tutti gli operatori e una maggiore capacità di collaborazione e di sinergia rispetto al comune obiettivo di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Conclusivamente, si può senz’altro affermare che, pur rispettando le normative comunitarie e tenendo conto delle esigenze generali del sistema, esiste comunque lo spazio per interventi di carattere legislativo e amministrativo tesi a prevenire e meglio controllare il fenomeno degli infortuni sul lavoro nel settore degli appalti e dei subappalti. Alcune delle soluzioni indicate in queste pagine sono del resto già operative, anche se a volte per iniziativa di singole amministrazioni, statali o locali, più attente e solerti. La Commissione, al termine del suo mandato, auspica quindi una maggiore diffusione di queste iniziative ed un maggiore sforzo da parte di tutti i soggetti istituzionali e sociali, per ovviare agli inconvenienti che ancora si registrano e salvaguardare in maniera sempre più efficace il bene primario della salute e della sicurezza dei lavoratori.