Incontro di studio, organizzato dall'Osservatorio Olympus in collaborazione con Or.S.A Ferrovie su:

Innovazioni nel trasporto ferroviario e sicurezza sul lavoro: l'applicazione del D.M. n. 388/2003 al personale a bordo treno

(Urbino, 17 novembre 2007)



Paolo Pascucci, Luciano Angelini, Manuela Marini

Riflessioni sulla gestione delle procedure di pronto soccorso aziendale per gli operatori a bordo treno

 

 

Sommario: 1. Le questioni sollevate da ORSA-Ferrovie. – 2. Sulle fonti di disciplina applicabili, tra sistema prevenzionale e precetti penali. – 3. I principi del sistema prevenzionale di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nel diritto comunitario. – 4. I principi del sistema prevenzionale di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nell’ordinamento nazionale: il d.lgs. n. 626 del 1994. – 5. D.lgs. n. 626 del 1994 ed imprese ferroviarie: chiarimenti sulle nozioni controverse di “unità produttiva” e di “luogo di lavoro”. – 6. Le disposizioni specifiche del d.lgs. n. 626 del 1994 in materia di pronto soccorso. – 6.1. Il d.m. 15 luglio 2003, n. 388. – 7. Applicazione ed osservanza delle disposizioni per il pronto soccorso nelle imprese ferroviarie: le “normative interne”. – 7.1. Disposizioni aziendali e pronto soccorso del macchinista. – 8. Tutela dei lavoratori e strategie organizzative. – 9. Considerazioni conclusive.

1. Le questioni sollevate da ORSA-Ferrovie

Il presente studio – sollecitato da una richiesta di ORSA-Ferrovie – riguarda l’applicazione, nei confronti dei lavoratori, macchinisti ed agenti, che operano a bordo dei treni, del d.m. 15 luglio 2003, n. 388, entrato formalmente in vigore il 3 febbraio 2005, recante disposizioni in materia di pronto soccorso[1].

Secondo ORSA-Ferrovie, la questione, già di per sé molto delicata, dell’applicazione delle specifiche disposizioni del predetto decreto ad una realtà complessa e variegata qual è quella delle imprese ferroviarie italiane, si è ulteriormente complicata a seguito della decisione di Rete ferrovie italiane (RFI), gestore dell’infrastruttura, di consentire l’introduzione di una significativa modifica alla tradizionale composizione (due macchinisti in cabina) ed alle mansioni degli equipaggi: nei convogli attrezzati con sistema di controllo della marcia del treno (SCMT), l’agente di accompagnamento (capotreno) all’unico macchinista abilitato alla guida può essere legittimato a svolgere le normali incombenze di sua spettanza su tutto il convoglio, senza dunque doversi necessariamente trattenere all’interno della cabina di guida.

ORSA-Ferrovie ritiene che la decisione di RFI, determinando di fatto l’introduzione del c.d. “agente solo” (su cui v. infra) alla guida dei treni, non abbia considerato con attenzione i riflessi che una simile modificazione organizzativa inevitabilmente comporta sugli standard di sicurezza operativa dei lavoratori, macchinisti ed agenti – in particolare, in questo caso, sotto il profilo delle garanzie connesse al primo soccorso in caso di infortunio o malore del macchinista – oltre che, inevitabilmente, sul livello complessivo di sicurezza garantita agli utenti del servizio di trasporto ferroviario. La stessa ORSA-Ferrovie ritiene altresì, sotto il profilo di un’attenta valutazione dei nuovi rischi determinati dalla stessa modificazione organizzativa, che si debba provvedere ad individuare, attraverso le procedure partecipative previste per legge, soluzioni che tengano in debito conto la multiforme realtà della rete ferroviaria italiana e le specifiche condizioni delle risorse umane addette alla guida, visto che il gestore dell’infrastruttura si è limitato ad un generico rinvio alle imprese ferroviarie della responsabilità di dotarsi di un’organizzazione per il soccorso ai treni, finalizzata prioritariamente ai tempi di efficacia del freno continuo e allo sgombero della linea (vedi prescrizione RFI n. 949 del 3 aprile 2006) e non al soccorso del personale[2].

Per l’esatta comprensione della situazione indagata occorre fin da subito precisare che, rispetto alla normale condotta del treno a doppio agente, l’introduzione del sistema di esercizio ad “agente unico” prevede l’eliminazione, a determinate condizioni (su cui v. infra), dell’utilizzo del secondo macchinista da parte delle imprese ferroviarie. In cabina di guida, con funzione di secondo agente, è prevista la presenza permanente dell’agente di accompagnamento (capotreno) con obbligo di coadiuvare il macchinista nel rispetto dei segnali e nel controllo della massima velocità ammessa. Tale modulo di equipaggio, riducendo significativamente le condizioni di sicurezza operativa, ha indotto le parti a definirne un utilizzo limitato, con orari di lavoro e di guida contenuti (rispetto ai normali standard), escludendone l’utilizzo nel periodo notturno.

L’introduzione del modulo di condotta ad “agente solo” contempla un’ulteriore modifica agli equipaggi: nei convogli attrezzati con sistema di controllo della marcia del treno (SCMT), esso comporta, per quanto riguarda gli attuali equipaggi ad agente unico, la presenza di un solo operatore in cabina di guida e l’allontanamento del capotreno per svolgere le mansioni di sua spettanza su tutto il convoglio. ORSA-Ferrovie afferma che le disposizioni emanate da RFI si spingono fino a prevedere la possibilità di utilizzare l’agente solo anche sui treni (merci compresi) privi di passaggio intercomunicante tra il convoglio e la cabina di guida.

Pur con differenze non irrilevanti sotto il profilo prevenzionale, entrambe le descritte modalità di equipaggio a bordo treno realizzano moduli di condotta dei treni con un solo agente in grado di guidare il treno. Nell’ipotesi di un suo malore, il capotreno non è abilitato a sostituirsi al macchinista, ma dovrà necessariamente limitarsi a provocare l’arresto del convoglio.

È di tutta evidenza come le condizioni di perfetta efficienza psico-fisica del macchinista addetto alla conduzione del treno rappresentino la migliore garanzia per mantenere sempre elevatissimi i livelli di sicurezza del sistema di trasporto ferroviario. A tale proposito può menzionarsi il lungo ed assai controverso dibattito accesosi in merito all’introduzione del dispositivo Vacma (Vigilanza automatica a controllo del mantenimento dell’appoggio), indicato comunemente come “Vigilante”, destinato al controllo della presenza e vigilanza dell’agente di condotta (Disposizione n. 35 del 22.11.2002 RFI). Secondo un’analisi, detto dispositivo non sarebbe stato in grado di aggiungere alcun elemento di sicurezza rispetto all’errore umano legato allo stato di vigilanza[3]; al contrario, esso avrebbe contribuito a ridurre pericolosamente i livelli di attenzione a causa della ripetitività del meccanismo che impone di rispettare: in molte circostanze, infatti, dovendo costantemente mantenere attivo il Vacma, l’attenzione del macchinista verrebbe riportata all’interno della cabina di guida, mentre condizione essenziale per la sicurezza intrinseca del sistema dovrebbe essere la percezione degli eventi esterni e dei segnali. Inoltre, il dispositivo non sarebbe in grado di rilevare eventuali errori del macchinista, limitandosi a verificarne la presenza, e a provocare l’arresto del treno entro 60 secondi dall’assenza di risposta al sistema[4]. Del resto, nessun sistema tecnologico di sicurezza potrebbe, allo stato, risolvere il problema del soccorso ad un convoglio immobilizzato lungo linea, magari su tratti (che sono molto frequenti) difficilmente raggiungibili dai mezzi di soccorso ordinari[5].

Peraltro, sempre ad avviso di ORSA-Ferrovie, vari sarebbero gli aspetti relativi all’esercizio ferroviario di cui tenere conto: in particolare, che il macchinista è l’unico soggetto abilitato alla condotta del treno; che la rete ferroviaria italiana attraversa tratti di linea inaccessibili ai comuni mezzi di soccorso; che in caso di arresto del treno in galleria i dispositivi di comunicazione in dotazione al personale di macchina (PDM) molto spesso non sono in condizione di ricevere né trasmettere alcun segnale, né pertanto di comunicare con alcun presidio a terra; che in caso di malore dell’unico agente abilitato alla guida, in galleria o su linee ferroviarie irraggiungibili dai mezzi di soccorso, il capotreno, oltre all’impossibilità di comunicare l’emergenza, non è in grado di condurre il treno in zona abilitata alle comunicazioni telefoniche e/o raggiungibile dai soccorsi, né, spesso, ha ricevuto adeguata formazione al fine di garantire un primo efficace soccorso.

Tale specifico contesto risulterebbe aggravato dal fatto che, sempre secondo ORSA-Ferrovie, le imprese ferroviarie non avrebbero provveduto ad individuare, come richiesto dalla normativa vigente, i lavoratori da formare quali addetti al pronto soccorso – in particolare, nel caso qui indagato, tutti i capitreno e tutti i macchinisti, dovrebbero essere adeguatamente formati – né avrebbero assicurato efficaci misure di raccordo con il Servizio sanitario nazionale. Al contrario, esse avrebbero assimilato i macchinisti a “lavoratori isolati”, operando, tra l’altro, una inaccettabile riduzione dei presidi sanitari a bordo treno per sostituirli con il “pacchetto di medicazione” da assegnare individualmente ai singoli lavoratori, dimostrando in tal modo di non considerare le esigenze di primo soccorso degli operatori né delle persone trasportate, né mettendo in grado gli equipaggi, com’è loro obbligo, di fornire all’utenza un’adeguata assistenza in caso di emergenza.

2. Sulle fonti di disciplina applicabile, tra sistema prevenzionale e precetti penali

Una volta esposte le questioni che ORSA-Ferrovie ritiene meritevoli di essere esaminate alla luce dei principi dell’ordinamento giuridico, l’analisi di tali questioni può prendere le mosse da una agevole constatazione: nonostante comprensibili perplessità dovute alla particolare attività dalle stesse svolta, è fuori di dubbio che anche alle imprese ferroviarie si applichino integralmente le disposizioni prevenzionali sulla salute e sicurezza dei lavoratori dettate nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 626 del 1994; diversamente dal trasporto aereonavale, per il quale il legislatore ha emanato una disciplina specifica, quello ferroviario è stato infatti assoggettato alla disciplina comune[6].

Riconoscere ciò non esime l’interprete dalla necessità di riflettere con prudenza ed attenzione sulla natura propria del servizio di trasporto ferroviario e sulle sue oggettive specificità, soprattutto per le conseguenze rilevanti che possono determinarsi in merito all’applicazione del complesso delle garanzie preordinate ad assicurare gli standard di sicurezza della circolazione ferroviaria. Nel fare questo non ci si potrà neppure limitare a considerare i soli lavoratori, ma si dovrà necessariamente tener conto anche dell’enorme massa di utenti del trasporto ferroviario cui occorre garantire – attraverso un sistema efficiente di gestione della sicurezza interna delle imprese ferroviarie – condizioni di elevata tutela e protezione.

Rinviando la valutazione di tutti i profili prevenzionistici implicati dal caso indagato al prosieguo dell’analisi, va qui ricordato come la gran parte degli adempimenti imposti alle imprese ferroviarie in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, non disgiuntamente da quelli più strettamente connessi alla sicurezza dell’intero sistema di circolazione ferroviaria, sia assistita da sanzioni penali.

Come è ovvio, il vincolo della sicurezza concerne l’esercizio ferroviario nel suo complesso: funzioni, compiti e limiti di iniziativa degli operatori del servizio sono indicati in un ampio quadro normativo (su cui v. infra) che costituisce la regolamentazione d’esercizio del trasporto ferroviario[7], la quale esige che tutto il personale non solo svolga con la necessaria diligenza il proprio servizio, ma intervenga, in casi di emergenza, anche in settori di non specifica competenza, quando sia in pericolo la sicurezza della circolazione. Inoltre, essendo la circolazione dei treni un’attività indubbiamente rischiosa, la colpa professionale rileva in quanto colpa specifica, ovvero va apprezzata in rapporto alle mansioni esercitate ed al mancato rispetto di prescritte cautele atte a contenere i rischi dell’attività entro limiti socialmente tollerabili. Il rispetto di quell’ampio quadro normativo che costituisce la regolamentazione d’esercizio è dunque essenziale e costituisce primario elemento di sicurezza: da ogni pur piccolo errore può infatti derivare un incidente, fonte potenziale di disastro[8].

La legge non individua mezzi e modalità causativi di un “disastro” ferroviario colposo[9]; quello che conta sottolineare è che oggetto della tutela penale è il bene giuridico della pubblica incolumità nell’esercizio del servizio di pubblico trasporto ferroviario, e che per la configurazione della fattispecie – rientrante nella categoria dei delitti (colposi) di pericolo (articolo 450 c.p.) – la condotta dell’agente risulti idonea (a norma dell’articolo 40 c.p. e secondo i principi della causalità adeguata) a determinare il disastro, a prescindere dalla circostanza che questo non si sia verificato per intervento di una causa esterna o fortuita[10].

Nella maggior parte dei casi di disastro, come rilevano le massime giurisprudenziali, la colpa finisce per identificarsi nella negligente inosservanza di prescrizioni regolamentari vincolanti per il personale addetto e di cautele atte a contenere i rischi dell’attività entro limiti socialmente tollerabili[11]. Tuttavia, in queste stesse sentenze, la ratio del giudizio si spinge ben oltre il quadro della mera repressione di condotte poste in essere in violazione di prescrizioni regolamentari vincolanti, rivelando piuttosto un orizzonte più ampio, “un modello circolare di prevenzione, in cui ogni obbligo, ogni comportamento si lega con quello degli altri soggetti tenuti alla prevenzione”, ed in cui all’errore umano del singolo, causa cronologicamente finale dell’evento dannoso, è possibile rimediare attraverso la predisposizione strategica di quel complesso di misure organizzative che nell’attuale ordinamento si definiscono appunto come sistema di prevenzione[12].

Se così è, l’indagine che attiene più specificamente alla responsabilità del singolo per non avere adottato le cautele necessarie a salvaguardare la propria ed altrui incolumità, deve inevitabilmente aprirsi a verificare l’adozione di quel complesso di procedure alla fonte che non possono essere omesse e la cui violazione prevede, accanto alla più generica tutela assicurata da sanzioni di carattere contravvenzionale (su cui v. infra), una più immediata tutela garantita da rilevanti disposizioni del Codice penale, in particolare agli artt. 437 e 451[13]. Premessa la distinzione tra condotta “commissiva”, realizzabile in ipotesi da “chiunque”, e condotta “omissiva”, che presuppone l’inosservanza di un obbligo giuridico di “fare”, il datore di lavoro che non garantisca adeguatamente la sicurezza del posto di lavoro[14], oltre ad incorrere negli estremi del delitto di cui all’articolo 437 c.p., può vedersi contestare anche il reato previsto all’articolo 451 c.p. nel caso ometta colpevolmente di collocare “cautele o difese” destinate al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro[15].

3. I principi del sistema prevenzionale di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nel diritto comunitario

La definizione di un nuovo modello prevenzionale di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro va originariamente ricondotta ai principi ed ai contenuti della direttiva “quadro” n. 89/391/CE. Infatti, con l’obiettivo di “evitare o diminuire i rischi professionali”, tale direttiva detta i principi generali relativi alla prevenzione dei rischi professionali ed alla protezione della sicurezza e della salute, all’eliminazione dei fattori di rischio e di incidente, all’informazione, alla consultazione, alla partecipazione equilibrata, alla formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti; inoltre, essa definisce ruoli ed obblighi rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, disponendo l’istituzione di specifici servizi di prevenzione, protezione ed emergenza sul luogo di lavoro[16].

La direttiva interviene espressamente anche in materia di pronto soccorso (art. 8.1): essa prevede che il datore di lavoro prenda tutte le misure necessarie, adeguate alla natura delle attività ed alle dimensioni dell’impresa e/o dello stabilimento, e tenga conto di altre persone presenti, organizzando i necessari rapporti con servizi esterni, in particolare in materia di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza. Nella stessa disposizione, al successivo punto 2, al datore di lavoro viene inoltre chiesto di designare i lavoratori incaricati di applicare le misure di pronto soccorso previste, assicurandosi che siano adeguatamente formati, presenti in numero sufficiente e dotati di attrezzatura adeguata, in considerazione delle dimensioni e/o dei rischi specifici dell’impresa e/o dello stabilimento.

“L’“approccio globale” delineato dalla direttiva 89/391/CE deve tradursi nella realizzazione di un sistema organico di programmazione, pianificazione e controllo dell’attività di prevenzione nei suoi diversi e complessi profili e, pertanto, in interventi integrati e di natura preventiva”[17]. Nella stessa ottica, ai fini della riflessione che s’intende qui compiere, si collocano molte altre direttive successive che condividono con la direttiva “quadro” del 1989 sia la base giuridica sia alcuni principi cardine, tra i quali merita sicuro rilievo quello dell’adeguamento del lavoro alla dimensione dell’uomo (art. 6). Tra questi provvedimenti comunitari, un richiamo opportuno meritano i contenuti della direttiva 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell’orario di lavoro, in particolare l’art. 12 che, disponendo in ordine alla protezione in materia di sicurezza e di salute dei lavoratori notturni, chiede agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché i lavoratori notturni e i lavoratori a turni beneficino di un livello di protezione in materia di sicurezza e di salute adattato alla natura del loro lavoro.

Da richiamare sono anche i principi espressi nella direttiva 04/49/CE, relativa alla sicurezza delle ferrovie comunitarie, soprattutto là dove si indica di disciplinare i tempi di guida e di riposo dei macchinisti e di tutto il personale viaggiante, considerato il forte impatto che ciò può avere sui livelli di sicurezza dell’intero sistema ferroviario (20° considerando): incidenti ed inconvenienti di vario genere determinati da condizioni lavorative non adeguatamente valutate potrebbero essere precursori significativi di incidenti gravi, o comunque creare situazioni di emergenza da governare con molta attenzione per evitare tutte le conseguenze che potrebbero altrimenti derivarne (23° considerando)[18].

4. I principi del sistema prevenzionale di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nell’ordinamento nazionale: il d.lgs. n. 626 del 1994

I principi ed i contenuti della citata direttiva 89/391/CE, nonché di un nutrito numero di altre importanti direttive comunitarie, sono stati attuati nell’ordinamento italiano con il d.lgs. n. 626 del 1994, ampiamente e ripetutamente integrato e modificato nel corso degli anni, il quale ha delineato in modo compiuto un sistema gestionale interno per assicurare un’efficace tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

Non è ovviamente questa la sede neppure per tentare di richiamare i molti principi che informano un provvedimento tanto complesso quanto articolato. Tuttavia, ai fini della riflessione che va qui compiuta, diventa rilevante rimarcare la novità che, in attuazione delle direttive comunitarie, il d.lgs. n. 626 del 1994 introduce nell’ordinamento italiano. Rispetto al sistema previgente[19], nel quale era il legislatore ad assumersi il compito e la responsabilità di individuare e valutare i rischi connessi al processo produttivo, il d.lgs. n. 626 del 1994 responsabilizza pienamente il datore di lavoro, al quale spetta il compito di adeguare il sistema prevenzionale fissato per legge alle specifiche peculiarità della propria azienda.

Il “nuovo” metodo imposto dal decreto legislativo del 1994 si basa sulla programmazione rigorosa degli interventi e sulla successiva puntuale attuazione, grazie all’utilizzo della tecnologia adeguata al tipo di lavorazione ed al supporto offerto da personale esperto ed opportunamente formato. Un metodo che non si fonda sulla imposizione di nuovi adempimenti specifici, bensì sull’individuazione di nuovi obblighi di carattere generale – individuazione e valutazione dei rischi; individuazione ed attuazione dei rimedi più idonei ad eliminarli o ridurli; limitazione delle conseguenze potenzialmente dannose dei sinistri attraverso una efficiente gestione delle emergenze (tra cui, rientra il pronto soccorso) –, sulla riaffermazione degli obiettivi di tutela già delineati nell’art. 2087 c.c., sulla previsione di nuove procedure di approccio al problema della sicurezza rispondenti ai principi della programmazione e dell’organizzazione scientifica.

Una caratteristica importante del modello, pur indubbiamente costruito sull’immagine dell’impresa di medie e grandi dimensioni, è che gli adempimenti imposti presentano un alto tasso di elasticità, esigendo energie e risorse direttamente proporzionate alla rilevanza dei rischi individuati nello specifico ambiente lavorativo. Pertanto, saranno la valutazione dei rischi[20] ed il conseguente piano di sicurezza, elaborati ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 626 del 1994, a definire l’entità e la qualità degli interventi da adottare, adeguati e tarati sulle specifiche caratteristiche aziendali e, in particolare, sulla valenza dei rischi da fronteggiare.

Beninteso, il sistema delineato dal d.lgs. n. 626 del 1994 non richiede all’imprenditore alcun impegno eccezionale e tanto meno sproporzionato; piuttosto, egli deve affrontare il problema sicurezza con la stessa serietà organizzativa con cui dovrebbe affrontare ogni problematica aziendale, attraverso procedure di razionalizzazione e di ottimizzazione organizzativa, concorrendo in modo qualificato ad elevare il sistema-qualità dell’intera azienda.

Peraltro, pur imperniate sul datore di lavoro, l’efficacia e l’effettività del modello prevenzionale dipendono non poco anche dal “ruolo attivo” assegnato al lavoratore. Ciò traspare limpidamente dal dettato dell’art. 5 – norma chiave del modello di gestione partecipativa della sicurezza voluta dal legislatore comunitario – là dove recita (comma 1) che “ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.

Rispetto a quanto risultante dai testi normativi precedenti, il fatto che ciascun lavoratore, individualmente, abbia un “dovere di fare” implica un’attenzione specifica, un comportamento più consapevole ed impegnato rispetto alla salute e sicurezza aziendale. L’utilizzo, in particolare, dell’espressione “prendersi cura” evoca un concetto più complesso ed impegnativo della semplice osservanza delle disposizioni e comporta un’attenzione consapevole circa le conseguenze che possono derivare dal proprio comportamento.

Stando così le cose, come è stato autorevolmente ribadito in dottrina[21], sarebbe irragionevole che l’incremento dei doveri e, più in generale, del livello di impegno richiesto al lavoratore non sia preceduto ed accompagnato dalle necessarie basi conoscitive e “culturali” in ordine all’organizzazione della sicurezza individuale e collettiva[22]. Di tale esigenza il legislatore si era reso ben conto: la portata degli obblighi posti a carico del lavoratore e la verifica del loro adempimento vanno infatti valutati “conformemente alla sua formazione alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”; se formazione, istruzioni e mezzi ricevuti sono carenti, la responsabilità del lavoratore potrà scemare fino a risultare inesistente.

Peraltro, informazioni, istruzioni e mezzi insufficienti finiscono per incidere negativamente anche su di un altro precetto posto in capo al lavoratore (art. 5, comma 2, lett. h), anch’esso penalmente sanzionato[23]: egli deve contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti, “all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro”. Al di là dei molti profili che meriterebbero di essere presi in considerazione, posto che la gran parte di tali obblighi è rimessa ad un’attività integrativa e specificativa del datore di lavoro (o delle altre figure aziendali), è a tutti evidente come l’impegno del lavoratore di contribuire all’adempimento degli obblighi di sicurezza (così come formulato) rischi di rappresentare, anche se non è il profilo che maggiormente preoccupa ai nostri fini, una “vera e propria norma penale in bianco”.

Se così è, i lavoratori sono più che legittimati, sia individualmente sia collettivamente rappresentati, a pretendere che il datore di lavoro assolva, compiutamente ed adeguatamente, tutti quegli obblighi che costituiscono una fase preliminare e necessaria rispetto all’assolvimento di quelli che sono i doveri loro spettanti in materia di salute e sicurezza. Nell’ipotesi qui indagata – l’esercizio del trasporto ferroviario e gli equipaggi a bordo treno – tale questione interpretativa assume una rilevanza ancora maggiore: basti pensare che tra gli obblighi a cui è tenuto il lavoratore, nel caso specifico il macchinista o il capotreno, rientra quello di prendersi cura anche delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, siano essi lavoratori o terzi, sui quali possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, dunque anche di tutti i passeggeri[24].

5. D.lgs. n. 626 del 1994 ed imprese ferroviarie: chiarimenti sulle nozioni controverse di “unità produttiva” e di “luogo di lavoro”

Ribadita l’applicazione del sistema delineato dal d.lgs. n. 626 del 1994 a tutte le imprese ferroviarie, non può essere tuttavia sottaciuta l’esistenza di alcune questioni controverse e, dunque, molte dibattute, che assumono un valore interpretativo assolutamente dirimente ai fini della soluzione del caso indagato. Tra queste rientra certamente quella relativa alla corretta qualificazione del treno sia come luogo di lavoro sia come unità produttiva, da apprezzarsi nel senso di “sede dell’azienda con diversa ubicazione territoriale”.

Sul punto, il Coordinamento tecnico interregionale – incaricato di redigere le linee guida all’applicazione del d.m. n. 388 del 2003, con cui si è dato attuazione al rinvio del comma 3 dell’art. 15 d.lgs. n. 626 del 1994 in tema di disposizioni sul pronto soccorso aziendale (v. infra) – si è espresso ritenendo assimilabile ad unità produttiva ogni sede dell’azienda con diversa ubicazione territoriale, utilmente precisando che il personale a bordo degli aerei e dei treni (di macchina e viaggiante) non rientra tra le categorie di lavoratori che prestano la propria attività lavorativa in luoghi isolati diversi dalla sede aziendale o unità produttiva.

Sulla nozione di unità produttiva in materia di salute e sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, la dottrina ha messo in evidenza come essa si identifichi correttamente nell’articolazione aziendale nell’ambito della quale vanno valutati i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori e conseguentemente adempiuti svariati obblighi di prevenzione posti a carico del datore di lavoro e degli altri responsabili della sicurezza, inclusi i lavoratori.

La stessa definizione (di unità produttiva) contenuta nel d.lgs. n. 626 del 1994 – “agli effetti delle disposizioni” di cui al decreto, si intende per “unità produttiva lo stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale” (art. 2, comma 1, lett. i, così modificato dal d.lgs. n. 242 del 1996) – è strettamente funzionale al contesto normativo in cui è inserita; come tale, se ne rimarca condivisibilmente il carattere esplicitamente convenzionale, e quindi, se si vuole “relativo”, influenzato dallo “stile” legislativo proprio della normativa comunitaria, che premette sistematicamente alle specifiche discipline di settore di volta in volta emanate una o più norme a carattere definitorio[25]. Peraltro, se la nozione di “unità produttiva” dettata dal d.lgs. n. 626 del 1994 non sembra utilizzabile al di fuori di quel contesto, non può allo stesso modo dubitarsi, contrariamente a quanto avvenuto nel caso dello Statuto dei lavoratori, della sua unitarietà all’interno di quel contesto[26].

In tal senso, pare difficilmente controvertibile che nelle norme del d.lgs. n. 626 del 1994, l’unità produttiva rivesta un’accezione “topografica”, intendendosi per tale che i luoghi fisici cui le norme fanno riferimento devono far parte dell’unità produttiva. Nello specifico delle imprese ferroviarie, una tale accezione si rivela utile a ben valutare che un treno (materialmente inteso come un convoglio ferroviario composto dal c.d. materiale rotabile), nel momento in cui, muovendosi su di una determinata tratta, si configura come necessario “strumento” atto ad erogare il servizio pubblico essenziale di trasporto previsto per tale tratta, non può che essere a tutti gli effetti parte integrante della unità produttiva che eroga e gestisce il servizio di trasporto nell’ambito considerato, a nulla rilevando, ad esempio, la mutevole distanza fisica del treno dalla sede amministrativa dell’unità produttiva. Il fatto che il treno faccia parte integrante dell’unità produttiva non significa, peraltro, che quel treno costituisca un’autonoma unità produttiva: infatti, essendo l’attività di trasporto pubblico (svolta mediante la circolazione dei treni) l’obiettivo finale cui è preordinata l’attività posta in essere dall’impresa ferroviaria, liberamente organizzata secondo unità produttive distinte, appare evidente, da un lato, che né il treno (nel complesso) né il locomotore (nello specifico) costituiscano di per sé un’unità produttiva autonoma, e, dall’altro lato, che essi non possano neppure essere considerati luogo di lavoro isolato solo perché distanti dall’ubicazione dell’azienda o dell’unità produttiva di cui fanno parte ed a cui afferiscono.

È evidente che se si conviene (come pare inevitabile) che il treno non è luogo isolato di lavoro bensì è parte integrante dell’unità produttiva che gestisce il servizio di trasporto (erogato anche tramite quel treno), i lavoratori che prestano la propria attività a bordo del treno sono assoggettati a tutte le norme protettive previste dall’attuale disciplina legislativa in tema di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Per altro verso, quegli stessi lavoratori andranno computati nell’organico dell’unità produttiva a cui afferiscono.

Invero, sotto questo specifico profilo, ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, la nozione di unità produttiva “interagisce” con l’altrettanto controversa nozione di luogo di lavoro, soprattutto quando, come nel caso qui analizzato, il luogo di lavoro sia rappresentato da un mezzo di trasporto, con tutte le conseguenze che ciò comporta sia dal punto di vista del sistema aziendale di sicurezza sia da quello dell’organizzazione del lavoro.

Senza poter meglio qui argomentare, in una prospettiva sistemica tutta la regolazione nazionale ed europea non lascia dubbi in merito alla conclusione che i mezzi di trasporto debbano essere soggetti alla valutazione dei rischi. Ciò è per altro verso confermato dal fatto che la prestazione lavorativa che ha ad oggetto la conduzione di un mezzo di trasporto va resa in un “posto di lavoro” (ovviamente collocato in un “luogo di lavoro”) e che tale prestazione non può, in quanto tale, non richiedere la garanzia di interventi migliorativi delle condizioni lavorative sul “posto di lavoro” (profili ergonomici, microclima adeguato, controlli trimestrali amianto e rischio rumore, etc.).

Nessun particolare dubbio interpretativo/applicativo dovrebbe suscitare la nozione di luogo di lavoro dettata dall’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994. Solo a considerarne l’ampiezza[27], specie là dove indica i luoghi di lavoro in quanto atti a contenere posti di lavoro, appare intuitivo farvi rientrare senza difficoltà anche la prestazione resa a bordo del treno[28]; tuttavia, è lo stesso legislatore che, al successivo comma 2, esclude l’applicazione di tutte le disposizioni dettate dal Titolo II del d.lgs. n. 626 del 1994 esplicitamente per i mezzi di trasporto (art. 30, comma 2, lett. a)[29].

Il senso da attribuire al combinato disposto dei primi due commi dell’art. 30 d.lgs. n. 626 del 1994 non può che essere quello di riconoscere che, sebbene il mezzo di trasporto sia innegabilmente un luogo di lavoro, tuttavia a tale specifico luogo di lavoro, per la peculiarità che lo distinguono, non devono essere applicate le disposizioni dettate dal titolo II del d.lgs. n. 626 del 1994, destinate invero a stabilimenti od edifici.

Stante questa previsione, potrebbe allora ipotizzarsi che, nel caso di un luogo di lavoro coincidente con un mezzo di trasporto, non sia applicabile alcuna disciplina in tema di sicurezza sul lavoro?

Ovviamente, la risposta ad una simile domanda non può che essere negativa. Infatti, ferma restando l’“esenzione” prevista dal suddetto art. 30, comma 2, d.lgs. n. 626 del 1994, ben dovranno nel caso di specie applicarsi tutte le altre norme di tutela della salute e sicurezza previste dal d.lgs. n. 626 del 1994, fra cui non solo quelle generali di cui al Titolo I, ma anche tutte quelle specifiche, come ad esempio quelle contenute nel Titolo III, riferite alle attrezzature di lavoro, intendendosi per tali “qualsiasi macchina, apparecchio, utensile od impianto destinato ad essere usato durante il lavoro”(art. 34, d.lgs. n. 626 del 1994)[30].

Premesso che le attrezzature devono essere adeguate ed idonee all’attività lavorativa cui sono connesse, viene ribadito in capo al datore di lavoro l’obbligo di ridurre i rischi connessi all’uso delle stesse attrezzature (art. 35 d.lgs. n. 626 del 1994), obbligo da assolversi correttamente operando un’ulteriore specificazione delle previsioni generali inerenti alle misure di tutela di cui agli articoli 3 e 4 del d.lgs. n. 626 del 1994. Tale specificazione delle misure di tutela dovrà riguardare la correttezza dell’impiego delle attrezzature e l’interazione tra esse ed i rischi derivanti dall’ambiente in cui le stesse si trovano e dovrà altresì prevedere un’adeguata formazione dei lavoratori che dovranno utilizzarle, soprattutto quando si tratti di attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari (art. 38, lett. b, d.lgs. n. 626 del 1994).

Quest’ultima disposizione riveste un’importanza specifica ai fini del caso indagato, rispetto al quale, senza alcun dubbio, le attrezzature di lavoro rinvenibili in un locomotore non possono non essere annoverate tra quelle che richiedono conoscenze e responsabilità particolari: i lavoratori che le utilizzano dovranno pertanto ricevere un addestramento adeguato e specifico che li metta in grado di usarle in modo idoneo e sicuro, anche in relazione ai rischi causati ad altre persone. Un inciso, quest’ultimo, da tenere bene a mente nel prosieguo dell’analisi, essendo intuibili fin da ora le possibili interazioni di tale disposizione sia con l’individuazione delle procedure che dovranno essere definite per assicurare un adeguato primo soccorso del conducente del treno in caso di malore, sia con le garanzie di tutela degli utenti del servizio di trasporto ferroviario[31].

 

6. Le disposizioni specifiche del d.lgs. n. 626 del 1994 in materia di pronto soccorso

Nell’ambito delle prescrizioni generali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori indicate all’art. 3 del d.lgs. n. 626 del 1994 rientra anche la valutazione delle misure di emergenza da attuare in caso di pronto soccorso, indicate congiuntamente alle misure da adottare in caso di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave ed immediato (art. 3, comma 1, lett. p). Il modello prevenzionale disegnato nel d.lgs. n. 626 del 1994 dispone che:

- il datore di lavoro designi preventivamente i lavoratori (che non si possono rifiutare) incaricati dell’attuazione delle misure di pronto soccorso (art. 4, comma 5, lett. a) e organizzi i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti (art. 12, comma 1, lett. a);

- il datore di lavoro valuti i rischi connessi alle attività lavorative svolte e prenda i provvedimenti necessari in materia di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto anche delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro (artt. 4 e 15, comma 1);

- il medico competente collabori con il datore di lavoro alla predisposizione del servizio (art. 17, comma 1, lett. i);

- il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sia consultato in merito alla designazione ed alla formazione degli incaricati (art. 19, comma 1, lett. c).

Pur nella sua essenziale schematicità, la descrizione effettuata richiama tutte le norme del d.lgs. n. 626 del 1994 che intervengono più o meno direttamente sulla gestione del pronto soccorso aziendale. Tuttavia, per l’esatta comprensione del modello delineato dal legislatore, è opportuno rimarcare quanto già sopra soltanto accennato, ovvero che, ai fini degli adempimenti di cui all’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994, le disposizioni sul pronto soccorso aziendale sono dettate nell’ambito del Capo III del Titolo I, congiuntamente a quelle sulla prevenzione incendi e sulla evacuazione dei lavoratori. Ancora più in particolare, prevenzione incendi, evacuazione dei lavoratori e pronto soccorso condividono alcune disposizioni comuni – quelle disposte nell’art. 12 – cui si aggiungono, distinte per articoli, discipline specifiche per ciascuna delle possibili situazioni da gestire.

Attraverso la configurazione del Capo III del Titolo I, il legislatore del 1994 manifesta in modo chiarissimo il perseguimento di alcuni obiettivi di sicura rilevanza, tra cui si segnala quello di estendere in capo al datore di lavoro l’obbligo di pianificare, all’interno del proprio sistema di sicurezza aziendale, la gestione delle c.d. emergenze, allargandone il campo di applicazione a tutte le attività lavorative in cui si possano manifestare eventi di rischio superiori alle possibilità di contenimento e non prevenibili[32]. In attuazione di ciò, il datore di lavoro dovrà dunque redigere un piano di emergenza, dandone opportuna informazione ai lavoratori[33].

Valutati gli eventi di rischio che possono dar luogo a situazioni di emergenza, il piano deve prevedere l’insieme delle misure, delle azioni e/o delle procedure da porre in essere per fronteggiare e ridurre i possibili danni che potrebbero derivarne per la salute e sicurezza dei lavoratori e di tutte le persone che possano essere più o meno direttamente coinvolte. Uno strumento di azione che sia in grado di adattarsi alle diverse realtà lavorative e, nel contempo, indichi riferimenti precisi per verificare, organizzare e gestire la situazione, con l’obiettivo di ridurre i pericoli alle persone, prestare soccorso, circoscrivere e contenere adeguatamente l’evento[34].

Il legislatore non ha peraltro rinunciato ad individuare quali siano i compiti che il datore di lavoro deve assolvere per adottare correttamente un piano di emergenza: organizzare i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti; designare preventivamente, in considerazione delle dimensioni dell’azienda e dei rischi specifici che ne caratterizzano l’attività, i lavoratori incaricati di attuare le misure, predisponendo la loro adeguata formazione; informare i lavoratori che possono essere coinvolti; programmare gli interventi ed assumere tutti i provvedimenti necessari affinché qualsiasi lavoratore, in caso di pericolo grave ed immediato per la propria sicurezza o per la sicurezza di altre persone, possa opportunamente decidere come intervenire[35].

Ricondotta formalmente nell’ambito delle emergenze, la disciplina dettata dall’art. 15 del d.lgs. n. 626 del 1994 in materia di pronto soccorso, al di là dei profili di specifica complessità che la distinguono, si caratterizza per il fatto che, oltre a prevedere azioni da attivare nell’ambito del piano di emergenza, nella maggior parte dei casi contempla interventi destinati a gestire un singolo infortunio o malore del lavoratore, conseguenza di un evento accidentale o di una procedura errata.

Richiamando in parte le disposizioni generali dell’art. 12, l’art. 15 del d.lgs. n. 626 del 1994 pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di prendere tutti i provvedimenti necessari in materia di pronto soccorso e di assistenza medica di emergenza. Rispetto all’adempimento di tale obbligo, il datore di lavoro deve tenere conto della natura dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, sentire il medico competente, valutare attentamente la presenza di altre persone sui luoghi di lavoro e stabilire i necessari rapporti con i servizi esterni[36]. Inoltre, nel caso non intenda provvedervi personalmente, il datore di lavoro potrà delegare lo svolgimento effettivo delle attività di pronto soccorso designando uno o più lavoratori.

Le descritte disposizioni dell’art. 15 sul pronto soccorso sono perfettamente coerenti con i principi del diritto comunitario e del diritto nazionale che delineano il modello prevenzionale della sicurezza nei luoghi di lavoro. L’obbligo di valutare e predisporre le misure è sì posto in capo al datore di lavoro, ma il legislatore non rinuncia a fissare alcuni elementi di fondamentale importanza che condizionano l’attività di valutazione e di decisione del datore di lavoro e che possono sicuramente concorrere alla definizione di un modello aziendale adeguato ed efficace. La natura dell’attività, le dimensioni dell’azienda, le persone presenti sui luoghi di lavoro, il rapporto con i servizi esterni, il coinvolgimento del medico competente costituiscono dunque termini di confronto essenziali che l’interprete dovrà utilizzare per verificare se le disposizioni dettate dalle aziende in materia di pronto soccorso – nel caso qui indagato, dalle imprese ferroviarie – rispondano a quanto imposto dal legislatore.

In verità, il legislatore non si è fermato qui, ma è andato oltre, nel comprensibile tentativo di definire in modo ancora più stringente i contorni di un sistema di sicurezza interno all’azienda che abbia tutti i crismi per poter raggiungere gli obiettivi di tutela a cui è finalizzato. Infatti, il terzo comma del citato art. 15 dispone espressamente che “le caratteristiche minime delle attrezzature di pronto soccorso, i requisiti del personale addetto e la sua formazione sono individuati in relazione alla natura dell’attività, al numero dei lavoratori occupati ed ai fattori di rischio con decreto dei Ministri della sanità, del lavoro e delle politiche sociali, della funzione pubblica e dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentita la Commissione consultiva permanente e il Consiglio superiore di sanità”.

Il senso della disposizione è chiaro: il decreto fissa alcune caratteristiche minime del modello di gestione delle procedure di pronto soccorso aziendale, relativamente alle attrezzature di pronto soccorso, ai requisiti del personale addetto e alla sua formazione: caratteristiche minime che non esimono il datore di lavoro da un’attenta valutazione della situazione aziendale e dalla conseguente definizione di altre misure aggiuntive se necessarie a raggiungere gli obiettivi chiaramente indicati dal legislatore nel primo comma. E ciò è tanto più doveroso nelle ipotesi in cui l’azienda – ed è sicuramente il caso delle imprese ferroviarie – abbia molti dipendenti, l’attività svolta sia particolarmente rischiosa per la salute e la sicurezza, e molte persone (oltre ai lavoratori) siano presenti sui “luoghi di lavoro” (passeggeri a bordo treno). Detto altrimenti, pur essendo obbligatorio, il rispetto puntuale della disciplina dettata nel decreto non esaurisce il “pacchetto” di adempimenti che incombono sul datore di lavoro relativamente alla predisposizione delle misure relative al pronto soccorso aziendale.

6.1. Il d.m. 15 luglio 2003, n. 388 In attuazione del citato comma 3 dell’art. 15 del d.lgs. n. 626 del 1994, è stato emanato il d.m. 15 luglio 2003, n. 388 (regolamento recante disposizioni sul pronto soccorso aziendale): come previsto, esso fissa i principi che regolano l’organizzazione del pronto soccorso aziendale, stabiliscono la dotazione minima dei presidi sanitari indispensabili per prestare le prime cure ai lavoratori feriti o colpiti da malore improvviso e le modalità di impiego da parte degli addetti.

Rispetto ai precetti del d.m. n. 388 del 2003, il datore di lavoro è tenuto ad intraprendere una serie di azioni tra loro funzionalmente concatenate: identificazione della classificazione dell’azienda; comunicazioni alle AA.SS.LL.; installazione di cassette di pronto soccorso e/o di pacchetti di medicazione; messa a disposizione di strumenti di comunicazione; formazione degli addetti al pronto soccorso; eventuale istituzione di un servizio di pronto soccorso interno.

Per quanto riguarda la prima delle azioni indicate, ovvero la classificazione delle aziende, l’art. 1, comma 1, del d.m. n. 388 del 2003 dispone che le aziende e/o le unità produttive siano classificate in tre distinti gruppi, tenuto conto della tipologia di attività svolta, del numero dei lavoratori occupati e dei fattori di rischio[37]. Ai fini di tale classificazione dell’azienda, particolare rilievo è dato alla figura del medico competente, il quale va sentito, ove previsto, e ad un raccordo con le AA.SS.LL. territorialmente competenti, cui il datore di lavoro deve comunicare se l’azienda o l’unità produttiva rientri tra quelle del gruppo A[38].

La classificazione delle aziende è determinante anche ai fini degli adempimenti inerenti all’installazione di cassette di pronto soccorso o di pacchetti di medicazione[39]; infatti, ai sensi dell’art. 2 del d.m. n. 388 del 2003, le aziende o unità produttive di gruppo A e B devono poter disporre di una cassetta di pronto soccorso, mentre nelle aziende o unità produttive di gruppo C il datore deve garantire (soltanto) la dotazione del pacchetto di medicazione. Cassette di pronto soccorso e pacchetti di medicazione, tenuti presso ciascun luogo di lavoro, devono essere adeguatamente custoditi e facilmente individuabili[40].

Indipendentemente dalla classificazione, tutte le aziende o unità produttive devono possedere un idoneo mezzo di comunicazione in grado di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio sanitario nazionale.

Come già detto in precedenza, al di là del rispetto delle disposizioni minimali del d.m. n. 388 del 2003, il datore di lavoro, in ogni caso, deve individuare e rendere disponibili le attrezzature minime di equipaggiamento ed i dispositivi di protezione individuale per gli addetti al primo intervento interno ed al pronto soccorso: attrezzature e dispositivi che devono essere appropriati rispetto ai rischi specifici connessi all’attività lavorativa dell’azienda, mantenuti in condizioni di efficienza e di pronto impiego e custoditi in luogo idoneo e facilmente accessibile (art. 4 del d.m. n. 388 del 2003). Un’obbligazione di “risultato” che la pur rigorosa osservanza delle disposizioni del decreto ministeriale potrebbe non consentire di soddisfare.

Un’attenzione particolare è quella che il legislatore dedica alla formazione. Gli addetti al pronto soccorso, designati ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 626 del 1994 e sul cui numero il d.m. n. 388 del 2003 nulla prevede, devono essere adeguatamente formati con istruzione teorica e pratica per l’attuazione delle misure di primo intervento interno e per l’attivazione degli interventi di pronto soccorso. La formazione deve essere impartita da personale medico qualificato, in collaborazione, ove possibile, con il sistema di emergenza del Servizio sanitario nazionale[41]. L’importanza di tale formazione può cogliersi sol che si pensi al fatto che gli addetti al pronto soccorso prestano aiuto immediato ai lavoratori che hanno subito un infortunio o patito un malore durante lo svolgimento dell’attività lavorativa e che spesso i primi ed immediati soccorsi sono fondamentali per salvare la vita dell’infortunato: dato che gli incaricati non sono né medici né infermieri, essi devono sapere esattamente cosa fare, ma anche cosa non fare per non pregiudicare le condizioni dell’assistito[42].

Il d.m. n. 388 del 2003, prevede una durata minima della formazione di 16 ore per le aziende del gruppo A e di 12 ore per le aziende dei gruppi B e C: moduli, obiettivi didattici e contenuti minimi non presentano variazioni e contemplano anche la trattazione dei rischi specifici dell’attività svolta. Il corso deve essere ripetuto con cadenza triennale, almeno per quanto attiene alla capacità di intervento pratico.

7. Applicazione ed osservanza delle disposizioni per il pronto soccorso nelle imprese ferroviarie: le “normative interne”

Al di là delle norme dettate dall’ordinamento in materia di pronto soccorso, occorre allargare l’ambito della riflessione alle disposizioni destinate alle imprese ferroviarie attualmente in vigore che, pur non sempre emanate specificamente a tale fine, possono tuttavia incidere, positivamente o negativamente, sulle tutele assicurabili ai lavoratori a bordo treno in caso di malore del conducente. Solo alla luce di tale indagine pare possibile esprimere una valutazione ponderata, in termini non soltanto formali ma anche sostanziali, in merito al rispetto della normativa prevenzionistica sopra illustrata nell’ambito di un settore particolarissimo qual è il trasporto ferroviario. Non si deve fra l’altro dimenticare che il gestore dell’infrastruttura ferroviaria (RFI)[43] può revocare il certificato di sicurezza rilasciato alle imprese ferroviarie, informandone immediatamente l’autorità che ha rilasciato la licenza, nel caso accerti la perdita dei “requisiti tecnici e operativi specifici per i servizi ferroviari e i requisiti di sicurezza relativi al personale, al materiale rotabile e all’organizzazione interna dell’impresa ferroviaria, con particolare riguardo agli standard in materia di sicurezza della circolazione ed alle disposizioni e prescrizioni emanate per le singole linee e per i singoli servizi”[44].

Del tutto comprensibilmente, il forte vincolo dettato dal più rigoroso rispetto degli standard di sicurezza, alla base delle peculiari esigenze connesse all’esercizio ferroviario, ha indotto nel tempo l’emanazione di copiose disposizioni a cura di RFI volte ad arginare le molteplici criticità che incidono sulla circolazione in sicurezza dei treni.

Per quanto attiene agli aspetti che maggiormente incidono sui profili oggetto di questa riflessione, occorre innanzitutto ricordare che il modulo tradizionale di condotta dei treni prevede la presenza contemporanea in cabina di guida di due macchinisti con pari responsabilità in ordine alla circolazione ed al rispetto delle norme regolamentari. Come dispone la direttiva RFI D. 07/2001 del 16/03/01[45], i due macchinisti, “d’intesa svolgeranno il servizio assegnato e le operazioni inerenti la preparazione ed il controllo del mezzo, nonché le operazioni amministrative ed adotteranno le decisioni tecniche concernenti il servizio medesimo”. Il secondo conduttore vigila sull’operatività del primo, controlla la corretta individuazione e il rispetto della segnaletica in ordine a condizioni di pericolo lungo linea, verifica la presenza cosciente del macchinista alla guida del treno.

Nel caso di improvvisa mancanza o malore del macchinista, ai sensi dell’art. 40, comma 23, dell’Istruzione per il servizio del personale di condotta delle locomotive (IPCL), il treno verrà condotto dall’aiuto macchinista sino alla prima stazione utile. L’Istruzione precisa che tale malore “deve considerarsi come caso di guasto di locomotiva”; così disponendo, l’Istruzione richiama il rispetto e l’osservanza dell’insieme di precise e ormai standardizzate procedure, dettate dallo stesso gestore, che disciplina puntualmente le situazioni d’emergenza connesse al soccorso dei locomotori guasti in linea. Tale disposizione non è stata mai modificata e va dunque tenuta in seria considerazione per le importanti garanzie che è in grado di fornire per lo svolgimento in sicurezza dell’esercizio ferroviario.

Nel corso degli anni, molteplici e rilevanti condizionamenti di ordine economico e produttivo hanno indotto il gestore e le imprese ferroviarie, nell’ambito delle rispettive incombenze, a disporre, l’uno, nuove modifiche alla struttura organizzativa del lavoro, e a dotarsi funzionalmente, le altre, di nuove tecnologie, nel comune intento di rispondere sia alle esigenze di efficienza gestionale del servizio sia al mantenimento, anzi al costante progressivo aumento, dei livelli di sicurezza connessi alla complessità del sistema di circolazione ferroviaria. In tale contesto, va correttamente inquadrata la disposizione della direzione tecnica di RFI n. 35 del 22/11/2002, che, modificando l’articolo 3 dell’Istruzione per il servizio del personale di condotta delle locomotive (IPCL), ha previsto la possibilità di effettuare la conduzione del treno con un solo agente addetto alla condotta (AU), in deroga al modulo a due macchinisti di cui sopra.

Questa importante modifica nella composizione dell’equipaggio di bordo è tuttavia condizionata al rispetto di alcuni essenziali requisiti: che i mezzi di trazione – locomotive e carrozze pilota – siano dotati di apparecchiatura radiotelefonica per il collegamento terra-treno/bordo-bordo (allegato XIII dell’IPCL); che la cabina di guida sia dotata di intercomunicante con il comparto viaggiatori; che sia funzionante il freno continuo su tutto il treno (oltre a limitazioni imposte agli ordinari tempi di guida e di lavoro: quindi la disposizione impone alle imprese di trasporto ferroviario di inserire i servizi effettuati con un solo macchinista addetto alla condotta in turni dedicati che ne garantiscano le peculiari condizioni di svolgimento: articolo 12, comma 4). Si condiziona inoltre l’utilizzazione dell’agente unico di macchina alla presenza permanente del capotreno in cabina di guida in sostituzione del secondo macchinista (articolo 3, comma 1, IPCL), fatte sempre salve specifiche eccezioni che ne consentono l’assenza (articolo 3 bis, comma 1, IPCL): come precisato a livello ministeriale[46], sulle tratte della rete principale non ancora servite da apparati di sicurezza (SCMT), il modulo di condotta può essere ad agente unico a condizione che il secondo agente (capotreno abilitato) sia vincolato al suo posto in cabina di guida durante la marcia del treno e non si allontani per svolgere i compiti commerciali, i quali potranno invece essere svolti a treno fermo, prima della partenza dello stesso o durante le fermate[47].

7.1. Le disposizioni per il pronto soccorso del macchinista

A fronte della descritta evoluzione del contesto organizzativo si collocano le normative “interne” al sistema ferroviario destinate a gestire situazioni di emergenza, tra cui rientra il pronto soccorso dei lavoratori a bordo treno. Occorre perciò verificare se tali norme “interne”, quand’anche dettate ad altri scopi, possano in concreto produrre effetti sotto il profilo della tutela dei lavoratori a bordo treno – in particolare del macchinista – ove questi siano colti da malore e, dunque, necessitino di un idoneo intervento di primo soccorso.

Come sottolineato dal Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro, il d.m. n. 388 del 2003 prevede l’obbligo in capo al datore di lavoro di elaborare procedure documentabili frutto di un’attenta analisi delle specifiche attività lavorative, della loro ubicazione e più in generale delle condizioni di rischio[48]. In relazione a ciò, l’art. 40, comma 23, dell’IPCL – norma che regola il caso del malore del macchinista delle ferrovie – ha statuito, come già ricordato, che tale malore “deve considerarsi come caso di guasto di locomotiva”. Tale norma, ancora pienamente in vigore e che si riferisce al modello “tradizionale” in cui siano presenti due macchinisti, prescrive la definizione di specifiche procedure standardizzate a cura del gestore dell’infrastruttura e prevede che, nel caso in cui il malore avvenga in linea, il secondo operatore presente in cabina di guida lo sostituisca nella condotta del treno fino alla prima stazione utile, dove garantire il più efficace soccorso[49].

Senonché, a seguito delle modifiche alla struttura organizzativa degli equipaggi a bordo treno che hanno introdotto l’agente unico, quanto sopra previsto in termini di garanzie per il macchinista bisognoso di assistenza diviene di fatto inattuabile. C’è da chiedersi allora se il problema possa risolversi adottando procedure come, ad esempio, quelle previste da Trenitalia nella scheda tecnica n. 172 (facente parte del manuale dell’agente di accompagnamento dei treni), la quale prevede che se il macchinista unico avverte malore, il capotreno che lo assiste in cabina: deve innanzitutto verificare la presenza di un medico a bordo treno; in assenza del medico deve verificare la presenza di un macchinista a bordo treno abilitato al mezzo di trazione (locomotiva) per condurre il treno in un’opportuna stazione per le cure del caso; in assenza di un medico o di un macchinista a bordo treno, il capotreno deve chiedere l’invio di una locomotiva di soccorso o l’invio con altro treno di un macchinista abilitato “se possibile”.

Confrontate con i rigorosi principi contenuti nel d.lgs. n. 626 del 1994 e nel d.m. n. 388 del 2003, procedure di questo tipo non sembrano in grado di garantire un accettabile livello di tutela per i lavoratori, anche perché dipendenti dal verificarsi di condizioni del tutto incerte; non foss’altro, tali procedure non garantiscono affatto lo stesso livello di tutela che risulta invece assicurato in caso di presenza di due agenti alla guida del treno.

La verità è che – al di là della sua astratta ammissibilità e compatibilità con la sicurezza della circolazione – l’introduzione del modello ad agente unico alla guida del treno pone comunque nuovi problemi in ordine alla tutela della salute dei lavoratori che vi sono addetti. In particolare, l’introduzione di tale modello configura comunque una di quelle “modifiche del processo produttivo significative ai fini della sicurezza e della salute dei lavoratori” che, comportando una alterazione dei rischi, impone necessariamente – ex art. 4, comma 7, d.lgs. n. 626 del 1994 – di rielaborare la valutazione ed il relativo documento di cui allo stesso art. 4, commi 1 e 2 (con ciò che ne consegue, ovviamente, sul piano sanzionatorio in caso di eventuale inottemperanza a tale prescrizione legislativa). Si tratta di un obbligo che trova poi ulteriore completamento nella previsione di cui al comma 5, lett. b, dello stesso art. 4 d.lgs. n. 626 del 1994, che obbliga il datore di lavoro ad aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi rilevanti ai fini della salute e della sicurezza del lavoro. Né, per quanto concerne gli aspetti qui in questione, va trascurato che la norma da ultimo menzionata, alla lett. q, prevede che le misure per fronteggiare le emergenze debbono essere adeguate, tra l’altro, “al numero delle persone presenti”: il che, a ben guardare, non comporta soltanto un adeguamento delle misure di emergenza in senso “quantitativo/proporzionale”, vale a dire in relazione al numero dei soggetti da proteggere, ma anche una attenta considerazione di come le misure di emergenza possano essere davvero efficaci là dove – come nel caso in esame – il numero di coloro che le possono realizzare sia così… esiguo!

Peraltro, la situazione tende poi oggettivamente ad aggravarsi, sotto il profilo dei rischi, sia per i lavoratori a bordo treno sia per gli utenti, in seguito all’introduzione del modulo di condotta ad “agente solo” (che vede la presenza in cabina del “solo” agente abilitato alla guida, mentre il capotreno è impegnato, normalmente, a svolgere le mansioni di sua spettanza su tutto il convoglio).

Un’ulteriore criticità riguarda il fatto che la disponibilità di un mezzo di comunicazione idoneo ai fini dell’invio della richiesta di soccorso – apparecchiatura radiotelefonica di comunicazione per il collegamento terra-treno/bordo-bordo – espressamente richiesta come condizione legittimante l’utilizzazione dell’agente unico, e indicata nell’art. 3 dell’IPCL (come modificato dalla disposizione n. 35 del 22/11/2002) non è più attiva[50]. Oggi, l’art 4 della disposizione n. 27 del 7/6/2006 di RFI, avente ad oggetto norme di esercizio per il collegamento via radio terra-treno, bordo-bordo e terra-terra (telefonia mobile), dispone che le cabine di guida devono essere attrezzate con terminali GSM-R[51], rete esclusivamente dedicata e non accessibile, per ora, ad operatori esterni. Tale sistema mette a disposizione funzionalità orientate alle specifiche esigenze ferroviarie fra le quali anche l’emissione e il ricevimento della chiamata d’emergenza. In caso di mancata copertura radio GSM-R è assicurato il roaming con le reti GSM di operatori pubblici. Senonché, a quanto consta, non tutti i tratti delle linee ferroviarie sarebbero raggiunti da tale servizio; inoltre, nelle zone in cui il GSM-R funziona in roaming, la specifica funzione chiamata di allarme generalizzato non sarebbe operativa, conseguendone che i GSM-R in dotazione sui treni circolanti nella zona non riceverebbero alcuna segnalazione. Né va sottovalutato il fatto che su molte linee ferroviarie con gallerie (ma non solo) sarebbe spesso impossibile comunicare con le reti GSM normali per mancanza di installazione di sistemi di guida d’onda (ripetitori o cavi fessurati) e/o copertura di rete[52].

Nondimeno, quand’anche fosse attivo su tutte le linee ferroviarie, il sistema GSM-R potrebbe non garantire tempi “fisiologicamente accettabili” (come invece prescrive il d.m. n. 388 del 2003) per prestare assistenza all’unico macchinista addetto alla condotta del treno eventualmente colto da malore. Infatti, nell’eventualità di infortunio o malore del macchinista, nei casi in cui si tratti dell’unico agente abilitato alla condotta del treno, il convoglio resterebbe bloccato senza possibilità di avvicinarsi alla prima stazione utile per gli interventi di emergenza. Se poi – come è possibile – il treno rimanesse bloccato su di un tratto di linea ferroviaria inaccessibile ai comuni mezzi di soccorso, i tempi dell’intervento risulterebbero assolutamente incompatibili con il diritto alla tutela della salute del lavoratore coinvolto (si pensi a quei tratti di linea ferroviaria, non certo infrequenti specialmente nelle zone appenniniche, che attraversino zone impervie in cui non esistano strade o su cui non possa atterrare un’eliambulanza).

Un ennesimo aspetto di forte criticità concerne la formazione da assicurare ai lavoratori. Sul punto, come si è visto, il d.m. n. 388 del 2003 nulla dice circa il numero di addetti da formare ed adibire al pronto soccorso. Per il Coordinamento tecnico delle Regioni, da tale silenzio “si deve dedurre che il datore di lavoro debba prevedere la formazione di un numero di lavoratori tale da garantire la copertura di tutti i turni di lavoro e che a tale copertura sia addetto un numero di persone formate che garantisca l’effettiva efficienza e funzionalità del sistema di emergenza in funzione dei rischi specifici valutati per ciascuna azienda o unità produttiva”[53]. Si tratta, dunque, di un obbligo di risultato, cui si aggiunge l’auspicio, espresso dal medesimo Coordinamento, che nell’ambito dei corsi che dovranno essere organizzati, si dia maggior spazio possibile agli interventi di primo soccorso realmente effettuabili da personale non sanitario.

Nel caso degli equipaggi a bordo treno è evidente come sia i macchinisti sia i capitreno debbano necessariamente effettuare i corsi previsti, dovendo essere posti, ciascuno, nelle condizioni di prestare soccorso all’altro. Per quanto riguarda il capotreno, poi, questi dovrebbe essere in grado di intervenire anche a tutela dei passeggeri. Tale esigenza comporterebbe la possibilità per il capotreno di allontanarsi dalla cabina di guida: nei casi di emergenza passeggeri, dunque, la composizione dell’equipaggio ad agente unico si trasformerebbe necessariamente… nella modalità ad agente solo: di ciò, ovviamente, occorre tenere conto nell’ambito delle procedure di valutazione dei rischi e delle misure da adottare.

8. Tutela dei lavoratori e strategie organizzative

Nell’ottica sistemica delineata dal d.lgs. n. 626 del 1994, il perseguimento di un adeguato livello di sicurezza dell’esercizio ferroviario richiede che gestore dell’infrastruttura, imprese ferroviarie, operatori, enti incaricati delle azioni di soccorso, nell’ambito delle rispettive competenze e responsabilità, diano attuazione ad un modello partecipato di gestione della sicurezza, in linea con gli standard di settore e nel rispetto dei requisiti nazionali in materia di tutela della salute, sicurezza, diritti dei lavoratori e dei consumatori.

L’organizzazione delle azioni e l’adozione delle misure necessarie a garantire un intervento efficace in situazioni di emergenza non può prescindere da una pregressa valutazione dei rischi connessi alle peculiarità dell’esercizio, all’infrastruttura, al materiale rotabile, all’utenza e ad ogni altro aspetto che possa condizionare la gestione del servizio stesso[54]. Come già rilevato, ogni significativa modifica del processo produttivo che incida sulle condizioni di sicurezza e di salute dei lavoratori impone necessariamente una rielaborazione dell’originario documento di valutazione dei rischi che tenga conto dei riflessi inevitabili che tali modifiche hanno sulla gestione della sicurezza e garantisca la reale attuazione di quell’organizzazione modulata degli interventi prevista, nel caso del pronto soccorso, sia dagli artt. 12 e 15 del d.lgs. n. 626 del 1994, sia dal d.m. n. 388 del 2003, arrivando alla predisposizione di un “protocollo articolato” nel quale indicare attribuzioni, ruoli e procedure (il “chi”, il “cosa”, il “come”) dell’azione di gestione delle emergenze[55].

Qualunque modifica del processo produttivo che alteri i livelli di sicurezza (in virtù dell’insorgenza di nuovi e rilevanti rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori) senza che sia stata preventivamente realizzata tale procedimentalizzazione partecipata” (conformemente al dettato legislativo) espone il datore di lavoro alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 626 del 1994.

Per altro verso, molto chiari in tal senso appaiono anche gli accordi sindacali in essere, in specie l’accordo stipulato il 23 giugno 2005 da Trenitalia, in cui si contempla la possibilità di modificare gli attuali equipaggi (2 macchinisti o 1 macchinista + 1 capotreno) soltanto previo accordo stipulato tra le parti; il che esclude a priori qualsivoglia ulteriore modifica ai moduli di condotta comportante un innalzamento del livello di rischio per operatori ed utenti del servizio di trasporto ferroviario[56].

Tutte le considerazioni fin qui svolte portano dunque ad una chiara conclusione: il modulo tradizionale (con 2 macchinisti) appare ancora il più efficace per sopperire alle molteplici criticità in tema di salute e sicurezza insite nell’esercizio del trasporto ferroviario: ciò almeno fino a che i nuovi moduli (con un unico macchinista) non siano adeguatamente supportati da tutte le adeguate misure preventive di cui si è parlato. In tal senso si è espresso, del resto, anche il punto 3 del documento del Coordinamento tecnico delle Regioni del 6/7/2004 ove, con riferimento al dispositivo “Vigilante”, si sottolinea che “in caso di malore del macchinista l’assenza di altro operatore abilitato alla conduzione di treni determinerebbe la impossibilità di spostare il convoglio e quindi di recare soccorso al macchinista medesimo in tempi rapidi, nel caso in cui il convoglio fosse fermo in una località isolata, oltre che di spostare il treno, qualora lo stesso si trovasse in zona pericolosa (ad esempio all’interno di una galleria)”[57]. Dunque, soltanto la presenza di un secondo agente abilitato a condurre il treno fino alla prima stazione utile potrebbe scongiurare il rischio che, in caso di infortunio o malore dell’unico macchinista alla guida, il treno resti bloccato e impossibilitato a raggiungere o ad essere raggiunto dai mezzi di soccorso del Servizio sanitario nazionale.

Ne consegue che, per risultare adeguata sotto il profilo della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e degli utenti, ogni organizzazione degli equipaggi a bordo treno diversa da quella “tradizionale” richiede che siano attentamente valutati i rischi aggiuntivi che ne derivano e che siano conseguentemente adottate tutte le misure idonee ad eliminarli o a ridurli in modo congruo.

Così, a titolo esemplificativo, nell’ottica di predisporre misure “articolate” di gestione dell’emergenza che prevedano il “chi”, il “cosa”, il “come” dell’azione di gestione, non potrà non tenersi conto di quanto è stato a suo tempo opportunamente segnalato, e cioè: che nei luoghi di lavoro, un intervento in caso di infortunio o malore si configura come un “primo soccorso” e richiede, in quanto tale, una formazione del soccorritore quantomeno sufficiente a garantirne l’efficacia; che il capotreno, come lo stesso macchinista, deve ricevere la formazione adeguata a garantire in “tempi fisiologicamente accettabili” un primo reciproco soccorso, tenendo conto che potrebbe essere necessario offrire assistenza anche ai viaggiatori; che è assolutamente fondamentale (pur se potrebbe non essere sufficiente) la messa a disposizione di un sistema di comunicazione che attivi il sistema di allarme e possa servire a gestire l’intera fase dell’emergenza[58].

Ancora a titolo di esempio, con riferimento alle esigenze di “primo soccorso” delle persone trasportate, non potrà non prevedersi un adeguamento dei presidi sanitari a bordo treno che tenga conto dei rischi specifici connessi all’esercizio della circolazione, in particolare della raggiungibilità del potenziale infortunato con i mezzi di emergenza comunemente disponibili, in rapporto anche alle caratteristiche di ricezione del servizio territoriale di pubblica emergenza”[59]. Molto chiaramente, il Coordinamento tecnico delle Regioni, in apposite “Linee Guida per l’applicazione del Decreto 15 luglio 2003 n° 388 per Trenitalia e le imprese ferroviarie in genere” del 19 ottobre 2006, ha evidenziato l’opportunità che “su ogni convoglio ferroviario passeggeri dovrà essere presente almeno una cassetta di medicazione e che, nel caso in cui il locomotore non sia direttamente comunicante con quella porzione di convoglio nel quale è allocata la cassetta, sia disponibile almeno il pacchetto di medicazione posto sullo stesso locomotore (…). Qualora esigenze tecniche o particolari circostanze (…) non consentano di raggiungere la parte di convoglio ove è conservata la cassetta, dovrà essere prevista l’ubicazione di più di una cassetta (…)”[60].

9. Considerazioni conclusive

Nel contesto di una ricerca giuridica come questa, lo sforzo da ultimo compiuto, di proporre alcune possibili soluzioni per dare risposta alle criticità evidenziate dall’indagine delle discipline interne al sistema ferroviario rispetto a quanto imposto dall’esatto adempimento della legislazione prevenzionale, è sicuramente irrituale. L’intendimento che ha animato queste riflessioni è stato soltanto quello di dimostrare che il rispetto della disciplina prevenzionistica non implica la rinuncia preventiva ad alcuna modifica organizzativa del processo produttivo o del servizio erogato che dovesse rendersi necessaria per esigenze di produttività e di maggiore efficienza, ma piuttosto che una tale modifica va attentamente valutata alla luce delle ripercussioni che possa produrre in termini di maggiori rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e, nel caso del trasporto ferroviario, anche dei passeggeri. In questa prospettiva, la questione del primo soccorso del macchinista, nella situazione dell’agente unico e in quella ancor più delicata dell’agente solo addetto alla conduzione del treno, è soltanto una delle molte problematiche che chiedono di essere attentamente gestite secondo i principi anche qui ampiamente descritti che governano l’attuale sistema prevenzionale nel nostro ordinamento giuridico.

Del resto, non esistono soluzioni a “prescindere” dal particolare contesto organizzativo aziendale[61]; è il legislatore che decide di lasciare alla razionale e ragionevole discrezionalità di tutti gli attori del sistema di gestione della sicurezza aziendale – ovviamente, senza confonderne poteri e connesse responsabilità, tanto diverse tra loro – la valutazione delle conseguenze relative a modifiche organizzative e produttive e l’individuazione delle misure da adottare per farvi fronte, che comunque non possono determinare arretramenti delle condizioni di sicurezza e di tutela della salute dei lavoratori[62]. Una ragionevole e razionale discrezionalità di individuazione ed attuazione delle misure che può considerarsi tale, dunque senza sconfinare nell’arbitrarietà o nell’omissione, se esercitata coerentemente con i principi generali di prevenzione (art. 3 del d.lgs. n. 626 del 1994), entro le linee generali e specifiche dell’intero quadro legislativo costituito dalle misure già previste o dai principi-guida, fino a ricorrere ai criteri dettati dall’art. 2087 c.c.[63].

Punti di riferimento importanti per l’esercizio di una tale discrezionalità, tra i tanti forniti dalla normativa prevenzionistica, sono ad esempio offerti dall’art. 4, comma 2 (individuazione e programmazione delle misure da inserire nel “piano di sicurezza”, conseguenti alla valutazione dei rischi, e ritenute opportune per migliorare le condizioni di tutela); dall’art. 5, lett. b (adozione delle misure e loro aggiornamento in relazione al mutamento di vari fattori) e lett. q; dall’art. 12, comma 1, lett. e; dall’art. 35, commi 2 e 4 del d.lgs. n. 626 del 1994.

Diversi sono i termini utilizzati dal legislatore per qualificare l’azione prevenzionale da compiere: prevale il riferimento a misure “adeguate”, anche se viene a volte utilizzato in alternativa quello di “idonee”, “appropriate”, “efficaci”, “atte a”, con riguardo allo scopo specifico da perseguire[64]. A volte il concetto di adeguatezza è risolto con riferimento ai parametri di legge (ad esempio per le macchine, i componenti, le attrezzature e i dispositivi di protezione individuale); nella maggior parte dei casi, ci si deve invece adeguare allo sviluppo tecnologico: in questa ipotesi entra in gioco l’interpretazione del noto principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile (art. 2087 cc.).

Il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile – immanente in tutta la legislazione degli anni cinquanta, confermato anche dal 14° considerando, in combinazione con l’art 6, comma 1, secondo periodo della direttiva 89/391/CE, attuato compiutamente dalle citate disposizioni del d.lgs. n. 626 del 1994 – impone che il datore di lavoro programmi l’adozione di misure di sicurezza “progredite” allo stato delle conoscenze tecnologiche del momento e che le adegui agli ulteriori stadi evolutivi della tecnologia. Sulla portata di questo principio nessun effetto riduttivo può essere determinato da criteri di fattibilità economica o produttiva, o dall’inerzia e/o tolleranza degli organi ispettivi, assodata l’indiscutibile subordinazione del fattore economico-produttivo alla tutela della salute che emerge nitidamente anche sul piano costituzionale (cfr. artt. 32 e 41 Cost.). Ovviamente, il dovere di sicurezza che ne deriva, da attuarsi con tutti gli strumenti previsti e servendosi dello sviluppo tecnologico, non può escludere la permanenza di una certa soglia di rischio che bisogna tendere a ridurre, adeguandosi agli stadi più elevati[65].

Senza dover indicare, qui ed ora, le misure prevenzionali che potrebbero essere adottate per realizzare in concreto il necessario contemperamento nell’ambito del trasporto ferroviario, fra le esigenze di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori – non disgiunte da quelle degli utenti del servizio – e gli obiettivi di efficienza organizzativa, gestionale e produttiva delle imprese ferroviarie, ciò che la presente indagine ha acclarato è la necessità che un tale contemperamento vada effettuato nel doveroso rispetto della legislazione comunque vigente, da collocarsi tuttavia nell’ambito di una metodologia di azione dinamica, che attui il modello di partecipazione gestionale puntualmente delineato dal legislatore italiano del 1994 e che è stato ampiamente illustrato in precedenza.

In forma sinteticamente conclusiva, rispetto al caso qui affrontato, che chiede di assicurare al macchinista del treno un’adeguata assistenza di primo soccorso, soprattutto quando l’equipaggio sia strutturato secondo le modalità dell’agente unico o dell’agente solo, occorre procedere:

- alla valutazione dei maggiori rischi che l’adozione delle diverse forme di equipaggio a bordo treno può comportare per le procedure di primo soccorso del macchinista che abbia subito un malore o un infortunio tale da impedirgli di continuare la guida. Tale valutazione va compiuta con la partecipazione attiva di tutti i soggetti del sistema di prevenzione aziendale, in particolare con la consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e con il contributo assolutamente qualificante del medico competente, tenendo conto, tra l’altro della tipologia del servizio, della pericolosità della tratta, dei mezzi di comunicazione installati, degli orari di lavoro;

- all’adeguamento del piano di sicurezza e delle misure prevenzionali che dovranno essere adottate per affrontare le situazioni di emergenza, ai sensi degli artt. 12-15 del d.lgs. n. 626 del 1994, con particolare attenzione all’individuazione del personale addetto alla messa in atto delle procedure predisposte;

- alla formazione idonea, in materia di pronto soccorso, degli equipaggi a bordo treno, che riguardi sia i macchinisti sia i capitreno, non dimenticando la presenza dei necessari presidi sanitari, anche per garantire una altrettanto doverosa tutela dell’utenza.

La complessità delle valutazioni sui rischi organizzativi e la difficoltà di individuare le misure più adeguate, l’ampiezza degli adempimenti e la notevole rilevanza delle responsabilità civili e penali che incombono sui datori di lavoro, le legittime richieste di una circolazione ferroviaria sempre più sicura, il progressivo costante miglioramento delle tutele dei lavoratori e degli utenti del servizio di trasporto ferroviario sono tutti fattori che inducono a ritenere che un efficace sistema di relazioni sindacali, attraverso un percorso di costruttiva concertazione, nel rispetto delle reciproche funzioni e competenze, possa rappresentare un utile strumento per concorrere alla definizione ed alla attuazione delle disposizioni prevenzionali nell’ambito della realtà delle imprese ferroviarie, cui devono essere specificamente destinate.

Urbino, 18 settembre 2007

Paolo Pascucci

professore straordinario di diritto del lavoro nella Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Urbino “Carlo Bo”

Luciano Angelini

ricercatore di diritto del lavoro e docente di diritto comunitario del lavoro

nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Urbino “Carlo Bo”

Manuela Marini

avvocato e collaboratrice della cattedra di diritto del lavoro

della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Urbino “Carlo Bo”




[1] Per precisione, occorre ricordare che l’espressione “pronto soccorso” utilizzata nei testi legislativi e regolamentari sta ad indicare più propriamente un “primo soccorso”, assicurato direttamente da lavoratori privi di specifiche competenze sanitarie, laddove il vero e proprio “pronto soccorso” non può non essere gestito che dai sanitari (medici ed infermieri).

[2] In tal senso, si veda il recente Piano di sicurezza 2007 di Trenitalia che, pur caratterizzato da un’analisi complessa ed articolata, non sembra prendere in considerazione gli aspetti relativi al primo soccorso degli operatori a bordo treno, né evidenziare i profili di connessione causale che legano le procedure di primo soccorso con i rischi di incidente ferroviario. L’unico elemento meritevole di rilievo è il riferimento, pur tuttavia anch’esso generico, all’importanza della formazione di sicurezza del personale in servizio.

[3] Cfr. Università degli studi di Roma "Tor Vergata", Cattedra di medicina del lavoro e Azienda ospedaliera universitaria Policlinico "Tor Vergata", Servizio di medicina dellavoro, Relazione su applicazione del dispositivo VACMA (Veille Automatique Controle par Maintien d’Appui) e sicurezza, salute, benessere del personale di guida Trenitalia.

[4] Proprio per le descritte criticità, la direttiva ministeriale sulla sicurezza della circolazione ferroviaria del 20 ottobre 2006 ha previsto la disattivazione del dispositivo “Vigilante”. In assenza di protezione ETCS/SCMT/SSC a bordo o a terra, è assolutamente indispensabile la presenza in cabina di guida di due agenti, come già stabilito dalla direttiva sulla sicurezza del 9 marzo 2006.

[5] Sulla tempestività del pronto soccorso e quindi dell'intervento del 118, il comunicato n. 87 –G.U. n° 126 del 30 maggio 1992 – della Presidenza del Consiglio dei Ministri (al punto b) ha stabilito i tempi per il soccorso primario: 8 minuti nei centri urbani, 20 minuti nei centri extra-urbani (salvo particolari situazioni di complessità orografica).

[6] In tal senso, il legislatore si era chiaramente pronunciato già con la legge 26 aprile 1974, n. 191: fatte salve le specifiche disposizioni nella stessa dettate, all’art. 1, per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle attività tipicamente industriali nonché nelle attività proprie dell’esercizio ferroviario ed in quelle ad esso strettamente connesse svolte dall’Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato, si dovevano applicare (fatta eccezione per esclusioni espressamente indicate) le norme di cui ai d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, d.P.R. 19 marzo 1956, n. 302, d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, d.P.R. 20 marzo 1956, n. 320, d.P.R. 20 marzo 1956, n. 321, d.P.R. 20 marzo 1956, n. 322, d.P.R. 20 marzo 1956, n. 323. Analoga osservanza è imposta anche alle imprese appaltatrici di opere o servizi ferroviari, quando l’opera o il servizio appaltato venga eseguito in ambito ferroviario.

[7] È chiaro come le competenze che il personale in servizio sui treni deve possedere e conservare debbano essere intese come un complesso di abilità proprie della mansione, determinate dal contesto tecnico ed organizzativo atto a garantire la sicurezza dell’esercizio.

[8] “È disastro ferroviario ogni incidente… che colpisca un trasporto ferroviario, offendendo o mettendo a repentaglio un numero indeterminato di persone”: così Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano 1960, p. 440. Dottrina e giurisprudenza prevalenti individuano gli elementi distintivi della fattispecie di disastro ferroviario nella non comune gravità dell’incidente e nella estensione e complessità dei danni tali da porre in pericolo la pubblica incolumità.

[9] L’interpretazione giudiziaria considera idoneo qualunque mezzo purché tale, per proprietà o particolari condizioni, da determinare un pericolo per la sicurezza dei trasporti (dunque anche eccessiva velocità dei convogli, indebite manovre, etc.). Cfr. Erra, voce Disastro ferroviario, marittimo, aviatorio, in Enc. dir., Milano, 1964, XIII.

[10] Cass., sez. IV pen., 28 marzo 1988, in Cass. pen., 1990, I, p. 236.

[11] V. ad esempio Cass., sez. IV pen., 4 aprile 1990, n. 7817, secondo la quale “risponde del delitto di pericolo di disastro ferroviario colposo e, se ne deriva la morte di persone, anche del delitto di omicidio colposo, l’aiuto macchinista che, in violazione delle prescrizioni regolamentari vincolanti per il personale di condotta delle locomotive, si allontani dalla cabina di guida senza assoluta ed imprescindibile urgenza, dopo l’avvistamento del primo segnale verde, così ponendosi nella condizione di non poter cooperare con il macchinista nelle successive evenienze di guida”.

[12] Deidda, L’errore umano: dalla cultura della colpa alla cultura della prevenzione. Il rapporto tra inchiesta giudiziaria ed inchiesta tecnica, relazione presentata in occasione del Convegno su L’errore umano: dalla cultura della colpa alla cultura della prevenzione, Urbino, 11 maggio 2007.

[13] L’art. 437 c.p., ad esempio, sanziona con la reclusione da sei mesi a cinque anni la condotta di “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o danneggia”; la stessa norma, al secondo comma, prevede, quale circostanza di aggravamento della pena, il verificarsi, in conseguenza del comportamento di cui al primo comma, del disastro o dell’infortunio.

[14] Il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire a ciascun lavoratore un ambiente di lavoro “sicuro”, dando puntuale applicazione alle disposizioni della legislazione tecnica, ma anche in osservanza della norma generale dell’articolo 2087 c.c. il quale “laddove impone all’imprenditore l’adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, determina un obbligo di comportamento (…), che trova la sua fonte nella Costituzione, precisamente nell’art. 32, comma primo (…), nell’art. 41, commi primo e secondo (…); ne consegue che la violazione del prefato obbligo da parte dei destinatari della normativa a tutela dei lavoratori, integra il precetto penale ogniqualvolta ne derivi danno agli addetti” (Cass., sez. IV pen., 8 marzo 1988).

[15] A completare il sistema di tutela penale approntato dal codice concorrono anche gli artt. 589 e 590 c.p.

[16] I contenuti della direttiva 89/391/CE si muovono in perfetta coerenza con i principi e gli orientamenti espressi dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), anzitutto quelli relativi all’approccio “globale” e “multidisciplinare” alla prevenzione (v. Convenzione n. 155/1981 e Raccomandazione n. 164/1981 dell’OIL, relative alla sicurezza, alla salute dei lavoratori e all’ambiente di lavoro, nonché Convenzione n. 161/1985 “sui servizi per la salute nel lavoro”). Cfr. Arrigo, La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nell’ordinamento comunitario, in Rusciano, Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, Torino, 2007, p. 15.

[17] Arrigo, op. cit., p. 14.

[18] Si tratta di una direttiva relativa alla sicurezza delle ferrovie comunitarie e recante modifica della direttiva 95/18/CE relativa alle licenze delle imprese ferroviarie e della direttiva 01/14/CE relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria, all’imposizione dei diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria e alla certificazione di sicurezza (“Direttiva sulla sicurezza delle ferrovie”). Per la direttiva, l’“incidente” è un “evento improvviso, indesiderato e non intenzionale, o specifica catena di siffatti eventi aventi conseguenze dannose; gli incidenti si dividono nelle seguenti categorie: collisioni, deragliamenti, incidenti ai passaggi a livello, incidenti a persone causati da materiale rotabile in movimento, incendi e altro” (art. 3, lett. k). È da considerarsi “incidente grave” “qualsiasi collisione ferroviaria o deragliamento di treni che causa la morte di almeno una persona o il ferimento grave di cinque o più persone o seri danni al materiale rotabile, all’infrastruttura o all’ambiente e qualsiasi altro incidente analogo avente un evidente impatto sulla regolamentazione della sicurezza ferroviaria o sulla gestione della stessa” (art. 3, lett. a).

[19] Il riferimento, in particolare, è alla complessa decretazione degli anni cinquanta in materia di salute e igiene sul lavoro.

[20] Sicuramente, la valutazione dei rischi è l’elemento che più di ogni altro caratterizza l’aspetto prevenzionale del sistema di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: grazie ad un costante monitoraggio delle condizioni aziendali, vengono individuate le azioni di prevenzione e ne viene pianificata l’attuazione. Si tratta di una valutazione non astratta che deve tradursi in un documento scritto in cui si programmano le misure di intervento più opportune: un documento da conservare in azienda e consegnato al RLS, come previsto dalle circolari del Ministero del lavoro nn. 40 e 68 del 2000 ed ora anche dalla recentissima legge n. 123 del 2007, da aggiornare a fronte di significative modifiche del processo produttivo e, soprattutto, da integrare con l’eventuale documentazione attestante la valutazione di rischi particolari (lavoratrici madri, giovani lavoratori, lavoro ai videoterminali, protezione da agenti chimici). Valutazione dei rischi e documento di valutazione, almeno funzionalmente, si configurano come momenti inscindibili di un unico fondamentale obbligo cui il datore di lavoro è tenuto, obbligo che può essere ritualmente assolto con il coinvolgimento e la collaborazione di tutte le figure aziendali che svolgono un ruolo determinante nell’ambito del sistema prevenzionale, come prevede puntualmente e dettagliatamente l’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994.

[21] Cfr. Del Punta, Diritti e obblighi del lavoratore: informazione e formazione, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza. Per una gestione integrata dei rischi da lavoro,Torino, 1997, p. 158.

[22] Cfr. Arganese, Riflessioni sul diritto/dovere di informazione e formazione dei lavoratori nella prospettiva del nuovo testo unico ed alcune proposte di intervento, in Pascucci (a cura di), Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del convegno di studi giuridici sul disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007, Roma, 2007, p. 111 e ss.

[23] La violazione da parte del lavoratore degli obblighi posti a suo carico dall’art. 5, comma 2, è sanzionata penalmente ai sensi dell’art. 93, comma 1, lett. a, così come modificato dal d.lgs. n. 758 del 1994. Inoltre, il mancato adempimento delle disposizioni in esame può dare luogo anche all’irrogazione di sanzioni disciplinari che possono giungere fino al licenziamento del lavoratore. L’obbligo generale di sicurezza di cui al primo comma, invece, non è assistito da sanzione penale, ma sarebbe errato attribuirgli un valore esclusivamente programmatico, in quanto funge da rilevante criterio interpretativo per gli obblighi particolari di cui al secondo comma.

[24] La Cassazione ribadisce che “chiunque, anche estraneo, possa essere soggetto al rischio ambientale sul luogo di lavoro, deve poter usufruire di adeguata protezione” (Cass., sez. IV pen., 12 gennaio 1990); inoltre, “il rischio derivante dallo svolgimento di un’attività lavorativa, cui sono esposti i terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, deve essere coperto da chi organizza il lavoro” (Cass., sez. IV pen., 4 maggio 1993).

[25] Si veda l’art. 3 della direttiva comunitaria n. 89/391/CE in tema di miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro ove si fa riferimento ad articolazioni dell’impresa, di solito definite “stabilimenti” o “parti di stabilimenti”. In particolare, a proposito del concetto notevolmente sfuggente di “autonomia finanziaria” attribuibile alla nozione di unità produttiva, la dottrina ritiene che tale concetto vada definito in termini di effettività, cioè come effettiva potestà del soggetto responsabile della stessa unità produttiva di esercitare il proprio potere decisionale e, conseguentemente, di spesa.

[26] Tursi,voce Unità produttiva,in Dig. IV ed., Disc. priv., Sez. Comm., XVI, Torino, 1999, p. 294 ss.

[27]Art. 30, comma 1, d.lgs. n. 626 del 1994: “Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente titolo si intendono per luoghi di lavoro: a) i luoghi destinati a contenere posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda ovvero dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo nell’area della medesima azienda ovvero unità produttiva o comunque accessibile per il lavoro”.

[28] Nel contesto della normativa prevenzionistica, l’espressione luogo di lavoro è quanto mai ampia, essendo atta a comprendere non solo il posto di lavoro in cui si svolge la prestazione lavorativa, ma altresì tutti gli ambienti interni ed esterni funzionalmente connessi all’azienda o all’unità produttiva, in quanto accessibili al lavoratore.

[29] Nel titolo III del d.lgs. n. 626 del 1994, viene data attuazione alla direttiva n. 89/655/CE, ovvero alla seconda direttiva particolare emanata ai sensi dell’art. 16.1 della direttiva quadro 89/391/CE. Tale direttiva è stata modificata, inizialmente, con la direttiva n. 96/63/CE (attuata con il d.lgs. 4 agosto 1999, n. 359) e, successivamente, dalla direttiva n. 01/45/CE, in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. 8 luglio 2003, n. 235 (in vigore dal 19 luglio 2005).

[30] Opportunamente integrate con le prescrizioni infortunistiche contenute nel d.P.R. n. 547 del 1955 (art. 41 ss.), le disposizioni del Titolo III del d.lgs. n. 626 del 1994 individuano alcuni importanti obblighi generali che datori e lavoratori sono tenuti ad osservare nell’utilizzo delle attrezzature di lavoro, che sono tali in quanto siano effettivamente usate per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Per completezza di ragionamento, occorre rilevare come, rispetto alla direttiva comunitaria, siano mancanti le definizioni di lavoratore esposto (qualsiasi lavoratore che si trovi interamente o in parte in una zona pericolosa) e di operatore (il lavoratore incaricato dell’uso di una attrezzatura di lavoro).

[31] Cfr. in merito il Piano di sicurezza 2007 di Trenitalia.

[32] Indicazioni legislative in merito ad una possibile gestione ed organizzazione delle emergenze risalgono al d.m. 31 luglio 1934 sull’impiego e sulla manipolazione degli oli minerali. Successivamente, intervengono in argomento, l’art. 48 del d.P.R. n. 185 del 1964 sull’uso pacifico dell’energia nucleare e l’art. 5 del d.P.R. n. 175 del 1988 che esplicitamente parla dell’obbligo di predisporre piani di emergenza in capo ai gestori di impianti o attività a rischio di incidente rilevante.

[33] Il piano di emergenza non è un documento riservato alla sola direzione aziendale, ma deve essere noto ai lavoratori, soprattutto a quelli chiamati a svolgere un ruolo attivo all’interno della gestione delle emergenze. Meglio ancora, sarebbe importante predisporre una sua adeguata e capillare diffusione, ed eventualmente discussione, all’interno dell’azienda, così da favorire una forte collaborazione da parte di tutto il personale, anche al fine di verificare la reale fattiva applicabilità delle misure in esso indicate.

[34] Per dimensionare adeguatamente le misure contenute in un piano di emergenza e definirne il necessario livello di complessità occorre anche studiare e valutare le possibili conseguenze degli eventi incidentali, che vanno dunque differentemente considerati in ragione della loro potenziale gravità.

[35] A questo proposito, va evidenziato che, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 626 del 1994, il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro ovvero da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa; allo stesso modo, il lavoratore che, sempre in caso di pericolo grave ed immediato e nell’impossibilità di contattare il superiore gerarchico, prende misure per evitare le conseguenze di tale pericolo, non può subire pregiudizio per tale azione, a meno che non abbia commesso una grave negligenza. Non si devono, infatti, dimenticare gli obblighi che derivano al lavoratore dall’applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 626 del 1994, e quelli che sono connessi alla specifica posizione di garanzia dallo stesso assunta, per designazione del datore di lavoro, per l’attuazione delle misure di cui all’art. 4, comma 5, lett. a. Va altresì ricordato che tutti i comportamenti che il datore deve tenere per la corretta redazione del piano qui richiamati, in caso di inadempienza, sono penalmente sanzionati con arresto o ammenda.

[36] L’inadempimento di tali obblighi è sanzionato con la pena dell’arresto o dell’ammenda, diversamente articolata nel caso di responsabilità dei datori di lavoro e dei dirigenti oppure dei preposti.

[37] Appartengono al gruppo A, a prescindere dal numero di lavoratori, le aziende o unità produttive con attività industriali, soggette all’obbligo di dichiarazione o notifica (di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 334 del 1999), centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari (di cui agli artt. 7, 28 e 33 del d.lgs. n. 230 del 1995), aziende estrattive ed altre attività minerarie definite dal d.lgs. n. 626 del 1994, lavori in sotterraneo di cui al d.P.R. n. 320 del 1956, aziende per la fabbricazione di esplosivi, polveri e munizioni. Allo stesso gruppo appartengono le aziende o unità produttive con oltre cinque lavoratori appartenenti o riconducibili ai gruppi tariffari INAIL con indice infortunistico di inabilità permanente superiore a quattro; sono incluse altresì le aziende o unità produttive del comparto dell’agricoltura con oltre cinque lavoratori a tempo indeterminato. Le aziende o unità produttive con tre o più lavoratori che non rientrano nel gruppo A appartengono al gruppo B. Sono classificate nel gruppo C le aziende o unità produttive con meno di tre lavoratori che non rientrano nel gruppo A.

[38] Il datore di lavoro, qualora la sua azienda rientri nel gruppo A, invia comunicazione all'Azienda unità sanitaria locale territorialmente competente per la predisposizione degli interventi di emergenza. Ai fini della classificazione delle aziende, ovvero delle unità produttive, la circolare del Ministero della salute 3 giugno 2004, precisando preliminarmente che il d.lgs. n. 626 del 1994 definisce le unità produttive come “stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale”, osserva come sia necessario considerare tutti i lavoratori dell’azienda; se l’azienda o l’unità produttiva svolge attività lavorative comprese in gruppi diversi, per identificare la categoria di appartenenza, il datore di lavoro deve riferirsi all’attività con indice più elevato.

[39] Gli Allegati I e II del d.m. n. 388 del 2003 individuano i contenuti minimi sia della cassetta di pronto soccorso sia del pacchetto di medicazione; in tal modo risultano superate le precedenti disposizioni stabilite nel decreto ministeriale 28 luglio 1958.

[40] Come dispone l’art. 32 del d.P.R. n. 303 del 1956, il datore di lavoro deve assicurarsi periodicamente della perfetta efficienza dei presidi. Non si deve mai dimenticare che, trattandosi di dotazioni minime, peraltro differenti dal punto di vista qualitativo e quantitativo, i presidi ivi contenuti devono essere integrati in relazione ai rischi presenti e alle dimensioni dell’azienda o unità produttiva. L’integrazione dei materiali sanitari contenuti nella cassetta di medicazione è effettuata a cura del datore su indicazione del medico competente (ove previsto) e del sistema di emergenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale; in ogni caso, il datore deve costantemente garantire la completezza ed il corretto stato d’uso dei presidi contenuti. Anche in relazione al pacchetto di medicazione, il medico competente collabora con il datore per assicurare costantemente la completezza ed il corretto stato d’uso dei presidi ivi contenuti.

[41] Vedi, ad esempio, i contenuti del Piano di sicurezza 2007 di Trenitalia, che dedica molta attenzione agli aspetti della formazione del personale, soprattutto in relazione all’introduzione di nuove tecnologie di sicurezza e per la gestione di nuovi modelli organizzativi.

[42] La formazione dovrà tendere ad aiutare i lavoratori designati a svolgere un ruolo di “attesa attiva”, limitandosi ad evitare l’aggravarsi dei danni già eventualmente instaurati, rinunciando ad atteggiamenti eccessivamente “interventistici”, fatta eccezione per quanto concerne problemi oculari, ferite, emorragie, ustioni, arresto cardio-respiratorio e perdita di conoscenza.

[43] Ai sensi dell’articolo 11 del d.lgs. 8 luglio 2003, n. 188, “2. Il gestore dell’infrastruttura ferroviaria è responsabile del controllo della circolazione in sicurezza dei convogli, della manutenzione e del rinnovo dell’infrastruttura ferroviaria, sul piano tecnico, commerciale e finanziario, assicurandone l’accessibilità, la funzionalità, nonché le informazioni; deve altresì assicurare la manutenzione e la pulizia degli spazi pubblici delle stazioni passeggeri (…) 4. Al gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale, per la rete di propria attribuzione, sono affidati in via esclusiva i compiti e le funzioni relativi al rilascio del certificato di sicurezza (…)”.

[44] D.lgs. 8 luglio 2003, n. 188 “Attuazione delle direttive 01/12/CE, 01/13/CE e 01/14/CE in materia ferroviaria”.

[45] Vedi anche la circolare della Direzione generale servizio materiale e trazione del Ministero dei trasporti n. 25.1/1981.

[46] Cfr. Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Chiarimenti Disposizione n. 35 del 22/11/2002 RFI.

[47] “Questo orientamento consente di non modificare, in generale, i tempi in cui il macchinista possa trovarsi “solo” in cabina di guida. Infatti, in questo modo l’obbligo della presenza in cabina del secondo agente-capotreno viene equiparato all’obbligo di presenza in cabina del secondo agente-macchinista” (così Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Chiarimenti, cit.).

[48] Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro, Primi indirizzi applicativi del Decreto ministeriale 15 luglio 2003 n. 388.

[49] L’articolo 40, comma 23, dell’IPCL, recita che “L’improvvisa mancanza o il malore del macchinista che non possa essere sostituito deve considerarsi come caso di guasto di locomotiva per cui occorre soccorso. Se il fatto avviene in linea, il treno può essere condotto fino alla prossima stazione dall’aiuto macchinista di qualifica, purché questi si dichiari capace di farlo, coadiuvato da un agente del treno in eventuali mansioni di fatica”.

[50] Trattasi di apparecchiatura che, utilizzando come veicolo di trasmissione il filo della linea aerea dell’alta tensione, garantiva un contatto costante treno-terra, tanto da assicurare in ogni possibile frangente di lanciare un segnale di prudenza generalizzato in caso di pericolo, segnale che imponeva a tutti i treni circolanti una restrizione di velocità (marcia a vista e velocità massima di 30 km/h).

[51] Il GSM-R – dove R sta per Railway – è uno standard di cui il gestore dell’infrastruttura, RFI, è proprietario.

[52] Sull’importanza di garantire un sistema di comunicazione efficiente, soprattutto all’interno delle gallerie ferroviarie, idoneo a garantire la comunicazione radio tra il personale a bordo dei treni e tra questo ed il centro di controllo, vedi il decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 28 ottobre 2005 (“Sicurezza nelle gallerie ferroviarie”). Cfr. anche il Piano di sicurezza 2007 di Trenitalia.

[53] Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro, Primi indirizzi applicativi del Decreto ministeriale 15 luglio 2003 n. 388.

[54] Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro, Primi indirizzi applicativi del Decreto ministeriale 15 luglio 2003 n. 388.

[55] Ibidem.

[56] “In relazione al grado di avanzamento dei piani di attrezzaggio sopra individuati, le parti condividono che costituirà comunque oggetto di negoziazione la transizione verso nuove organizzazioni dell’equipaggio sulle linee attrezzate in esercizio con sistema SCMT o SSC. In relazione a ciò verranno esaminate le problematiche relative a: soccorso all’equipaggio in caso di malore; orario di lavoro; formazione e aggiornamento professionale; logistica di sostegno agli equipaggi (alberghi, dormitori, ecc.)”.

[57] Il contrasto tra la situazione descritta e quanto previsto dall’articolo 15 del d.lgs. n. 626 del 1994 che impone al datore di lavoro di adottare i provvedimenti necessari in tema di pronto soccorso e di emergenza sanitaria è evidente. V. amplius la Relazione del Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro sullo studio del VACMA.

[58] Coordinamento tecnico delle Regioni “Linee Guida per l'applicazione del Decreto 15 luglio 2003 n° 388 per Trenitalia e le imprese ferroviarie in genere”, 19 ottobre 2006.

[59] Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro, Primi indirizzi applicativi del Decreto ministeriale 15 luglio 2003 n. 388. Già prima dell’entrata in vigore del d.m. n. 388 del 2003, la norma n. 9312/P del 2/6/2000 emanata dal Servizio sanitario FS prevedeva l’installazione di presidi sanitari consistenti in una cassetta divisibile ed asportabile dal personale di bordo (PdB) così da consentirne l’utilizzazione anche sul materiale rimorchiato.

[60] Coordinamento tecnico delle Regioni, “Linee Guida per l'applicazione del Decreto 15 luglio 2003 n° 388 per Trenitalia e le imprese ferroviarie in genere”, 19 ottobre 2006.

[61] Il sistema costruito sui decreti degli anni cinquanta, fondati su un modello prevenzionale quasi integralmente oggettivo, si basava sulla regola di una prevalente tassatività (ed inderogabilità) delle misure prescelte dal legislatore, che provvedeva in anticipo ad una valutazione generale della pericolosità in modo uniforme per tutte le aziende. La tassatività rimane tuttora per le misure “vecchie” e per quelle che vengono individuate dalla normativa attuale come le c.d. norme tecniche, nonché per le prescrizioni minime.

[62] Nel suo ampio concetto, per misura prevenzionale deve intendersi qualsiasi attività che abbia come fine la sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, l’informazione e la formazione dei lavoratori, l’uso dei mezzi di protezione, i principi dell’art. 3 del decreto. Esse sono altresì suscettibili di varie classificazioni: tecniche (apprestamenti materiali, macchine, componenti di sicurezza, ponteggi, opere provvisionali, impianti attrezzature, dispositivi di protezione individuale, strutturazione dei posti di lavoro, misure igieniche), organizzative e gestionali (ritmi e carichi di lavoro, metodologie produttive, controlli, divieti), procedurali (modalità lavorative, piani di sicurezza) collettive e individuali, oggettive (macchine attrezzature, ambienti, dispositivi) e soggettive (allontanamento dei lavoratori esposti al rischio, controllo sanitario, formazione ed istruzioni, vigilanza e controlli).

[63] In dottrina, cfr. Montuschi, La sicurezza nei luoghi di lavoro, ovvero l’arte del possibile, in Lav. dir.,1995, p. 413 ss., e Romei, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 96.

[64] L’aggettivo idoneo, con i sinonimi di appropriato, adatto, adeguato, ricorreva anche nella normativa pregressa (ad esempio negli artt. 124, 138, 379 e ss. del d.P.R. n. 547 del 1955, e negli artt. 5, 7, 10, 11, 13 del d.P.R. n. 164 del 1956).

[65] In giurisprudenza cfr.: Corte cost., 25 luglio 1996, n. 312, in Mass. giur .lav.,1996, p. 503; Corte cost., 27 aprile 1988, n. 475, in Mass. giur. lav.,1988, p. 621; Cass. pen., 11 aprile 1992, n. 4488, in Dir. prat. lav.,1992, p. 1769. In dottrina cfr. Natullo, La massima sicurezza tecnologica,in Dir. prat. lav.,1997, p. 817; Marando, Il sistema vigente del diritto della sicurezza del lavoro,Milano, 2006, p. 213 ss.