• Medico Competente
  • Datore di Lavoro
 
Responsabilità del procuratore speciale con la qualifica di responsabile in materia di prevenzione infortuni e del  direttore tecnico di una spa per il delitto di lesioni personali colpose a danno di un lavoratore - La Corte afferma la colpa in ragione del non aver tenuto conto delle capacità del lavoratore stesso e delle indicazioni del medico competente - Sussiste. 


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giusep - Presidente -
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere -
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) B.G., N. IL (OMISSIS);
2) R.A., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 06/05/2005 CORTE APPELLO di TRENTO;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. AMENDOLA ADELAIDE;
Udito il Procuratore generale in persona del Dott. Mario Fraticelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso.



FattoDiritto

1.1 Con sentenza del 6 maggio 2005 la Corte d'appello di Trento confermava la sentenza del Tribunale di Rovereto che aveva dichiarato B.G. e R.A. colpevoli dei reato di cui agli artt. 40, 81, 113, 590 cod. pen., commi 3 e 5, art. 583 cod. pen., comma 1, n. 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. c) e art. 35, commi 1 e 4, lett. b), condannandoli per l'effetto a pena ritenuta di giustizia.
Gli imputati erano stati tratti a giudizio perchè, nella qualità, rispettivamente, di procuratore speciale, con la qualifica di responsabile in materia di prevenzione infortuni, e di direttore tecnico della ditta Aquafil s.p.a., per colpa, consistita in imprudenza, negligenza, imperizia nonchè nella inosservanza della normativa antinfortunistica innanzi richiamata, avevano cagionato, in cooperazione colposa tra loro, al lavoratore D.G. lesioni personali gravi comportanti incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per giorni 101.
L'infortunio si era verificato perchè il predetto dipendente, avvisato da un allarme di un'anomalia dell'impianto di automazione del "magazzino automatico", dopo avere escluso i sistemi di sicurezza attiva, si era recato nell'area protetta ed ivi, nel mentre operava al fine di eliminare l'errore nel funzionamento dell'impianto, era stato attinto da pesanti bobine del peso, rispettivamente, di 566 e 447 chilogrammi, fuoriuscite da due bancali e precipitate dallo scaffale in corso di movimentazione, riportando nell'incidente le precisate lesioni.
Agli imputati era stato segnatamente contestato:
a) di non aver tenuto conto, nell'affidare al D. le mansioni concernenti l'utilizzo e la manovra del trasloelevatore RS 750, delle capacità e delle condizioni del lavoratore, laddove il medico competente aveva segnalato che lo stesso doveva "evitare posizioni in sospeso e l'utilizzo di mezzi semoventi", in quanto, già prima dell'infortunio, invalido al 52% e portatore, in particolare, di un deficit visivo all'occhio destro (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. c);
b) di non avere preso le necessarie misure affinchè il trasloelevatore RS 750 innanzi indicato fosse utilizzato correttamente ed in particolare affinchè, durante le operazioni di ripristino dell'impianto ad una quota superiore ai due metri dal suolo, il D. operasse avvalendosi della collaborazione di un'altra persona nonchè svolgendo per intero il cavo della pulsantiera, in modo da rimanere alla massima distanza possibile dalla macchina in movimento e dai carichi relativi (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 4, lett. b),);
c) di non aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee a garantire la sicurezza, considerato che la bilancia utilizzata per pesare ogni unità di carico in entrata era tarata per un peso massimo di 750, anzichè 700 chilogrammi, come previsto dal costruttore della struttura, e che non si era proceduto a verificare la "rispondenza ai requisiti minimi di sicurezza tra scaffalatura e trasloelevatore", visto che il peso massimo di progetto per ogni unità di carico indicato nella conferma d'ordine della ditta costruttrice dell'una era di 700 chilogrammi, e dell'altra, di 750 chilogrammi (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1).
In sostanza, secondo l'ipotesi accusatoria, il sinistro non si sarebbe verificato: a) se fosse stato utilizzato un operatore fisicamente idoneo a svolgere operazioni di attivazione manuale del cosiddetto traslo, laddove l'infortunato soffriva di un grave deficit visivo; b) se, trattandosi di operazioni da svolgersi ad altezza di almeno due metri da terra, fossero stati impiegati almeno due operatori, da collocarsi uno in quota, e l'altro al suolo; c) se fosse stata utilizzata per la movimentazione della struttura una pulsantiera mobile, in modo da consentire all'operatore di collocarsi il più lontano possibile dalla zona interessata alla movimentazione, mettendosi al riparo dalla possibile caduta di pesi dagli scaffali.

1.2 In motivazione osservava il giudicante, per quanto qui interessa, che la condotta imprudente della vittima, consistita nell'aver cercato di effettuare l'intervento da solo, non poteva ritenersi idonea ad interrompere il nesso di causalità, essendo essa, piuttosto che abnorme o del tutto imprevedibile, frequente nel contesto organizzativo dell'impresa; mentre, quanto al mancato uso della tastiera in condizioni di sicurezza, evidenziava che, una volta srotolato interamente il cavo della stessa, in modo da collocarla a distanza prudenziale dalla zona dell'intervento, l'operatore non adeguatamente coadiuvato non aveva più la visibilità necessaria, venendosi così a trovare nell'impossibilità di operare.
Tali rilievi consentivano, a parere del giudice di merito, di affermare la sussistenza del nesso di causalità tra condotte omissive ed evento.
Ricordava infine il decidente, da un lato, che la sussistenza in fatto del delitto e delle contravvenzioni di cui erano stati chiamati a rispondere gli imputati appariva del tutto "pacifica e scontata, anche sulla base delle argomentazioni della sentenza impugnata e del contenuto dell'informativa, delle deposizioni e dei rilievi in atti";
dall'altro, che la pena era conforme ai parametri indicati dall'art. 133 cod. pen. e segnatamente alla gravità dell'infortunio, alla macrospicità delle violazioni ascritte agli imputati e alla personalità degli stessi. Sottolineava al riguardo la Corte d'appello che la considerazione dei loro precedenti specifici aveva imposto l'esclusione delle attenuanti generiche e che neppure sussistevano i presupposti per il riconoscimento di quella del risarcimento del danno, perchè, considerata l'entità delle somme erogate "non particolarmente generose", rispetto alla gravità delle lesioni, nonchè il loro incameramento a puro titolo di acconto, mancava la prova della integralità della riparazione.

1.3 Avverso detta decisione hanno proposto ricorso per cassazione, per mezzo del loro difensore, entrambi gli imputati, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:
- omessa ovvero illogica motivazione, risultante dal testo della sentenza impugnata, in ordine alla sussistenza del nesso causale tra le contestate condotte omissive e l'evento. Riportati ampi stralci dei motivi di appello e della pronuncia della Corte, osservano i ricorrenti che essa contiene argomentazioni assolutamente generiche e dunque avulse dalla fattispecie concreta dedotta in giudizio, mentre non da alcuna risposta ai puntuali rilievi formulati nell'atto di gravame. Segnatamente il giudice di merito avrebbe omesso di descrivere "il criterio cronologico", inteso come "sequenzialità tra le descritte e contestate condotte omissive e il danno", nè avrebbe motivato in ordine alla idoneità della condotta particolarmente imprudente del soggetto leso, esperto e adeguatamente informato, a escludere il nesso causale tra il comportamento ascritto agli imputati e l'infortunio;
- omessa ovvero illogica motivazione, risultante dal testo della sentenza impugnata, con riferimento alla ritenuta, concorrente responsabilità di entrambi gli imputati. Lamentano in particolare i ricorrenti l'insufficiente approccio del giudice di merito con il problema della esatta individuazione delle funzioni di tutela demandate all'uno e all'altro, nell'ambito della organizzazione aziendale e, correlativamente, del tipo di responsabilità, per culpa in eligendo e/o in vigilando, ad essi ascrivibile. Segnatamente nella fattispecie non sarebbe stata operata alcuna distinzione tra le funzioni di dirigente, svolte dal B., e quelle di direttore tecnico, cui era affidata la responsabilità dell'attività produttiva e, nello specifico, dell'impianto automatizzato, espletate dal R.;
- omessa ovvero illogica motivazione, risultante dal testo della sentenza impugnata, con riferimento alla entità della pena, alla mancata concessione delle invocate attenuanti, al diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alle contestate aggravanti. Il giudice di merito non avrebbe in particolare dato alcuna risposta agli specifici rilievi svolti, in parte qua, nei motivi di gravame, omettendo di spiegare le ragioni del diniego delle attenuanti generiche, del ritenuto giudizio di prevalenza sulle stesse delle aggravanti e di insufficienza della somma di Euro 100.00, corrisposta al lavoratore infortunato a titolo di ristoro dei danni non patrimoniali (quello del danno biologico spettando all'Inail, salvo rivalsa), mentre la valutazione dei precedenti specifici, profilo già considerato in punto di commisurazione della pena, avrebbe determinato una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.

2.1 Il ricorso è infondato.
Merita preliminarmente evidenziare che, per giurisprudenza consolidata di questo Supremo Collegio, allorchè le sentenze di primo e di secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, "la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico, complesso corpo argomentativo" (Cass. pen., sez. 1^, 26 giugno 2000, n. 8868). E ciò tanto più laddove, come nella fattispecie, il giudice del gravame si richiami espressamente e integralmente alla ricostruzione dei fatti operata dal primo decidente, limitandosi all'analisi critica delle doglianze prospettate dall'impugnante.
Neppure è superfluo ricordare che in tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire - nell'ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato - se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, se abbiano analizzato il materiale istruttorio facendo corretta applicazione delle regole della logica, delle massime di comune esperienza e dei criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (confr. Cass. Sez. Un. 29 gennaio 1996, n. 930; Cass. Sez. 1^, 4 novembre 1999, n. 12496).
In tale prospettiva, con tranquillante uniformità, si afferma che la Corte di cassazione non può fornire una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito, nè può stabilire se questa propone la migliore ricostruzione delle vicende che hanno originato il giudizio, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione della scelta adottata in dispositivo sia compatibile con il senso comune e con i limiti di un plausibile apprezzamento delle risultanze probatorie (Cass. n. 465 del 2004).

2.2 Passando all'esame delle censure, il collegio non ritiene anzitutto condivisibile l'assunto secondo cui il giudice di merito abbia affermato il nesso causale tra le condotte omissive ascritte agli imputati e l'evento con argomentazioni prive della necessaria attinenza al caso concreto e che, senza prendere posizione sui nodi problematici evidenziati nei motivi di gravame, si sia limitato alla reiterazione di astratti "principi di difesa sociale".
Rileva sul punto la Corte che il giudicante ha ricostruito in maniera a dir poco puntigliosa, da un lato, la procedura prescritta dal costruttore per attuare interventi del tipo di quello in cui rimase infortunato il D. e, dall'altro, le modalità operative in concreto seguite da quest'ultimo, segnatamente maturando il convincimento della insussistenza della prospettata abnormità della condotta della vittima proprio in considerazione della sua conformità alle prassi costantemente seguite in azienda. In tale prospettiva, e sulla base di un'articolata ricostruzione dello stato dei luoghi, il decidente ha evidenziato che l'infortunio ebbe a verificarsi non già per una congiura di eventi imprevedibili e inevitabili, ma per la totale dismissione delle più elementari cautele, quali, a tacer d'altro, l'avere consentito che l'intervento venisse realizzato da un dipendente qualificato professionalmente, ma clamorosamente inidoneo, perchè affetto da deficit visivo; l'avere, per giunta, tollerato che lo stesso operasse da solo, in contrasto con le istruzioni dettate dalla impresa fornitrice del macchinario, che esigevano la presenza di almeno due persone; l'avere "sciaguratamente" trasformato il comando mobile, previsto dal costruttore, in comando sostanzialmente fisso. Trattasi in definitiva di impianto motivazionale ancorato a una ricognizione quanto mai puntuale del contesto organizzativo di riferimento e a criteri di individuazione del nesso eziologico plausibili e convincenti, a fronte del quale le censure svolte nel primo motivo di ricorso si connotano, esse sì, per un elevato tasso di astrattezza.

2.3 Considerazioni sostanzialmente analoghe valgono per la doglianza relativa all'insufficiente approccio del giudice di merito con l'individuazione delle funzioni svolte dagli imputati, e dei rispettivi profili di responsabilità.
In proposito mette conto evidenziare che i ricorrenti sono stati ritenuti responsabili l'uno, il B., in quanto titolare di piena e valida delega per tutto quanto attinente alla sicurezza; l'altro in quanto direttore tecnico dello stabilimento, come tale direttamente responsabile dell'organizzazione del lavoro.
A fronte degli applicati criteri di causalità, modulati su un corretto schema di imputazione delle responsabilità in materia di infortuni sul lavoro, neppure si comprende troppo il senso delle censure svolte dagli impugnanti, laddove lamentano, in maniera per vero confusa, la mancanza e l'illogicità della motivazione con riferimento alla distinzione tra le funzioni di tutela loro, rispettivamente, demandate nell'ambito dell'organizzazione aziendale, prospettando esigenze di qualificazione delle stesse in termini di culpa in eligendo o in vigilando la cui utilità sfugge per vero al collegio, e comunque non è stata illustrata.

2.4 Quanto alle doglianze relative al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, sembra opportuno preliminarmente ricordare che questa Corte ha ripetutamente statuito, in proposito, che ben può il giudice di merito maturare il suo convincimento prendendo in esame, tra gli elementi indicati dall'articolo 133 del codice penale, solo quello (o quelli) che egli ritiene, nella fattispecie, prevalente, essendo la concessione del beneficio frutto di un potere discrezionale rimesso al suo prudente apprezzamento, "il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il (suo) pensiero circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo" (Cass. pen., sez. 4^, 10 dicembre 2004, n. 5821).
Orbene ritiene la Corte che il giudice di merito abbia esplicitato in maniera sintetica, ma appagante, le ragioni della scelta decisoria in parte qua adottata, esaustivamente individuando le ragioni del diniego delle attenuanti generiche nei precedenti specifici degli imputati e nella gravità della colpa.
Infine correttamente è stata negata l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, posto che essa postula il risarcimento integrale ed effettivo del danno, nella specie sicuramente non intervenuto.
Il rigetto del ricorso dunque si impone.
Segue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.




P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2007