L’AMBIENTE DI LAVORO

INDICE

Prima parte: l’ambiente di lavoro e la sua nocività
La prima parte di carattere generale tratta l’ambiente di lavoro e la nocività in esso insita; sono analizzati i fattori che provocano danno all’organismo, suddivisi in quattro gruppi (fig. 1-6); viene presentata schematicamente una rassegna storica delle condizioni di lavoro tipiche del passato, del presente e le prospettive future (fig. 7-11).

Seconda parte: i 4 gruppi di fattori nocivi e la loro influenza sulla salute del lavoratore
La seconda parte tratta specificamente dei gruppi di fattori e della loro influenza sulla salute del lavoratore (fig. 12 - 25).

Terza parte: le soluzioni del sindacato contro le nocività dell’ambiente di lavoro
La terza parte è dedicata alle soluzioni indicate dal sindacato per ovviare alle nocività dell’ambiente di lavoro (fig. 26- 39).

Quarta parte: il secondo gruppo di fattori nocivi
La quarta parte costituisce una parte speciale che riguarda il secondo gruppo di fattori, e cioè polveri, gas, fumi ecc.; in essa ogni voce è trattata nel modo più dettagliato ed è destinata ai gruppi interessati a determinati tipi di lavorazioni. Per ora sono state compilate le sezioni relative alla silice e al benzolo (fig. 40 -52).

Prima parte
L’ambiente di lavoro e la sua nocività

Per ambiente di lavoro intendiamo l’insieme delle condizioni di produzione nelle quali la forza-lavoro ed il capitale si trasformano in merce e profitto. Questo insieme, diverso a seconda dei modi di produzione che si sono susseguiti nella storia, a seconda dei settori produttivi, ci interessa per la sua capacità di danneggiare la salute di chi lavora.
Noi vogliamo considerare, in questa nostra pubblicazione, quale peso ha avuto ed ha la salute del lavoratore nel determinare le caratteristiche dell’ambiente di lavoro e quale effetto ha avuto ed ha l’ambiente di lavoro sullo stato di benessere fisico e psichico di chi lavora.
Il nostro tipo di approccio al problema considerato è chiaramente finalizzato: l’obiettivo è la contrattazione delle condizioni di lavoro ai fini della eliminazione della nocività ambientale nel mondo del lavoro.
Per ambiente di lavoro intendiamo l’insieme di tutte le condizioni di vita sul posto di lavoro.
Il termine è quindi comprensivo sia dell’ambiente di lavoro in senso stretto (caratteristiche del locale: dimensioni, illuminazione, aerazione, rumorosità, presenza di polveri, di gas o vapori, di fumi, ecc.) sia degli elementi connessi all’attività lavorativa vera e propria (tipo di lavoro, posizione dell’operaio, ritmo di lavoro, saturazione dei tempi, orario di lavoro giornaliero, a turni, orario settimanale, estraneità e non valorizzazione del patrimonio intellettuale e professionale).
In particolare l’orario di lavoro di otto ore va considerato collocandolo nell’ambito dell’intera giornata di 24 ore, della settimana, dell’anno e dell’intera vita dell’uomo per tutte le conseguenze che il costo psicofisico del lavoro ha, sulla possibilità dell’uomo che lavora, di vivere interamente la sua vita sociale. In questo senso il problema dell’ambiente si collega strettamente col problema del cosiddetto tempo libero.

Ai fini della contrattazione dell’ambiente di lavoro è necessario analizzare i fattori che lo compongono secondo un modello di analisi che abbia come elemento di riferimento l’uomo che lavora o meglio il gruppo operaio interessato al processo produttivo. L’esigenza di un modello di analisi comune deriva dalla necessità di usare un linguaggio uguale per tutti che permetta il confronto di esperienze diverse tra operai di fabbriche diverse e la generalizzazione di situazioni e di soluzioni apparentemente diverse, ma sostanzialmente uguali. Perché il modello risponda a queste esigenze deve essere sufficientemente congeniale con la visione che i lavoratori hanno dell’ambiente di lavoro ed utilizzabile da qualunque lavoratore, indipendentemente dalla sua scolarità.
I criteri in base ai quali può essere costruito uno schema di analisi sono due. Il primo è rappresentato dalla possibilità di misurare l’intensità di un fattore con mezzi oggettivi (strumenti come può essere il termometro per misurare la temperatura) oppure no (come l’intensità dei ritmi per i quali non esiste uno strumento di misura).
Il secondo è rappresentato dalla esistenza o meno di una fascia di valori ottimali per un dato fattore. Ad esempio per la temperatura esiste un massimo ed un minimo entro i quali l’uomo si trova nelle migliori condizioni di vita mentre per la silice solo il valore zero, cioè l’assenza di silice, rappresenta la situazione ottimale.
I suddetti criteri permettono di distinguere in quattro gruppi di fattori l’insieme degli elementi che compongono l’ambiente di lavoro. Il primo gruppo comprende i fattori presenti anche nell’ambiente dove l’uomo vive (case di abitazione, ad esempio): luce, rumore, temperatura, umidità e ventilazione (colore verde).
Il secondo gruppo comprende i fattori che non sono di norma presenti negli ambienti dove l’uomo vive (fuori del lavoro) e che si ritrovano quasi esclusivamente negli ambienti di lavoro sotto forma di polveri, gas, fumi (silice, amianto, benzolo, fumi di diverso tipo ecc.) (colore rosso).
Il terzo gruppo comprende un solo fattore; l’attività muscolare o lavoro fisico (colore giallo).
Il quarto gruppo comprende tutte quelle condizioni che possono determinare degli effetti stancanti: monotonia, ripetitività, ritmi eccessivi, saturazione dei tempi, posizioni disagevoli, ansia, responsabilità, frustrazioni, e tutte le altre cause di effetti stancanti diverse dal lavoro fisico (colore blu).

Il primo gruppo comprende i fattori presenti anche nell’ambiente dove l’uomo vive al di fuori del lavoro (nelle case di abitazione): luce, rumore, temperatura, ventilazione, umidità.
Questi fattori, rispetto ai criteri base del nostro modello di analisi, si caratterizzano nel seguente modo. Per ognuno di essi esiste una fascia di valori ottimali nella quale l’uomo trova la sua condizione di benessere. I fattori di questo gruppo si possono misurare con dei mezzi oggettivi, cioè con strumenti: l’intensità della luce si può misurare con fotometri, quella dei rumori con fonometri, quella della temperatura con termometri, quella dell’umidità con igrometri, quella della ventilazione con anemometri.
L’identificazione di questi fattori non comporta ovviamente difficoltà da parte dell’operaio; anche la valutazione della intensità di questi fattori può essere fatta, almeno in modo grossolano, in prima approssimazione, dal gruppo operaio interessato. È infatti ovvio che la presenza e l’intensità di un rumore, di una temperatura eccessiva, sono direttamente identificabili con i mezzi sensoriali dell’uomo.
Questo primo gruppo di fattori può essere identificato e valutato secondo uno schema che viene normalmente usato per valutare le caratteristiche di una abitazione considerata più o meno confortevole a seconda appunto della esposizione alla luce, della presenza o meno di rumori, di umidità eccessiva e della temperatura troppo calda o troppo fredda.
Per questi fattori sono contrattabili dei valori massimi accettabili di concentrazione (M.A.C.), oltre ai quali l’ambiente di lavoro non può essere considerato idoneo, attraverso il giudizio del gruppo operaio interessato il quale deve confermare o meno la tollerabilità dell’ambiente di lavoro rispetto a questi fattori attraverso il suo consenso (validazione consensuale). Come punto di riferimento occorre però valersi della letteratura medica internazionale che è ricca di esperienze e di dati dai quali si possono trarre valori limite oltre i quali l’ambiente di lavoro è da considerarsi non idoneo all’attività lavorativa.

Il secondo gruppo comprende i fattori caratteristici dell’ambiente di lavoro: polveri, gas, vapori, fumi; ad esempio: polveri di silice, di amianto, vapori di benzolo, gas di solfuro, di carbonio, fumi di acidi. Per soddisfare l’esigenza di rendere semplice la trattazione, sono state trascurate le radiazioni ionizzanti (raggi X, isotopi, ecc.), le vibrazioni ed altri fattori che però vanno considerati in questo gruppo rispetto ai problemi generali che essi pongono.
Il numero delle sostanze nocive che si possono trovare oggi negli ambienti di lavoro, in questi ultimi anni è aumentato in maniera vertiginosa e continua ad aumentare con un ritmo sempre più crescente. Alle sostanze nocive tradizionali: silice, amianto, piombo, mercurio, benzolo ecc. la cui concentrazione tende a diminuire, si aggiunge una enorme quantità di nuovi prodotti chimici di sintesi.
L ‘industria moderna e infatti caratterizzata dall’introduzione nei processi produttivi in tutti i settori di una quantità sempre crescente di sostanze chimiche per le quali, ai fini della difesa della salute, è sempre più necessaria una valutazione tossico-igienica degli ambienti di lavoro. Tali sostanze riguardano la produzione degli anti-parassitari, di alcuni polimeri di sostanze plastiche e pellicole i catrami, le fibre sintetiche utilizzate nell’industria tessile, le sostanze utilizzate nella produzione della gomma sintetica, le combinazioni di silicio organico, i prodotti della chimica, del petrolio, e del coke, i solventi organici, gli acceleranti, i coloranti organici e i loro sottoprodotti, molti metalli rari, i propellenti, e i prodotti usati nella industria farmaceutica ecc.
L’identificazione, secondo il modello di analisi proposto, dei fattori del secondo gruppo è legata all’esigenza che il gruppo operaio interessato conosca il processo produttivo sia per quanto riguarda le sostanze impiegate sia per quanto riguarda i prodotti che si formano durante la lavorazione. Gli organi di senso, l’olfatto in particolare, possono essere primo strumento di segnalazione ma non sono affatto sufficienti.

Il lavoro fisico tende in linea generale a ridursi mentre aumenta il lavoro nervoso e mentale; esso è misurabile in termini di dispendio di calorie, i suoi possibili effetti nocivi sono legati alla produzione di fatica ed al potenziamento della nocività dei fattori del secondo gruppo.
La fatica in generale è sempre, contemporaneamente fisica e mentale perché la concentrazione mentale e la tensione emotiva accompagnano sempre lo sforzo fisico prolungato e l’affaticamento nervoso e mentale ha sempre conseguenze sul rendimento muscolare.
La fatica da attività fisica o muscolare compare più rapidamente quando la contrazione del muscolo è di tipo statico cioè non comporta movimento; è difficile pertanto distinguere nettamente nella fatica muscolare la fatica dovuta al lavoro dinamico che comporta movimento, da quella legata alle posizioni disagevoli, che causano lavoro muscolare di tipo statico. L’attività muscolare richiede un certo tempo di avviamento che è in rapporto alla faticosità del lavoro ed all’allenamento. In generale il tempo di avviamento, nel lavoro industriale moderno, è dell’ordine di un’ora circa.
Il lavoro fisico è causa di fatica che, fino ad un certo limite, si può considerare normale e cioè fisiologica. Al di là di questo limite diventa eccessiva, cioè patologica. La definizione del limite tra fatica fisiologica e fatica patologica è quanto mai difficile, perché è condizionata da innumerevoli fattori. Interessa sottolineare comunque che la fatica fisiologica comporta, dopo il riposo notturno, un senso di benessere; il riposo notturno dovrebbe essere sufficiente a compensare la fatica del giorno precedente.
La fatica patologica comporta una insufficienza del riposo notturno, e quindi un accumulo di fatica residua. La fatica patologica può essere considerata come la conseguenza ultima di una situazione ambientale che supera la capacita di adattamento dell’individuo.
La validazione consensuale del gruppo operaio interessato per stabilire i limiti della faticosità di un lavoro prevalentemente fisico è un elemento indispensabile, almeno della stessa importanza di quello del carico sopportabile misurato in calorie.

Il quarto gruppo di fattori nocivi comprende ogni condizione di lavoro, diversa dal lavoro fisico, capace di provocare effetti stancanti, ad es.: monotonia, ritmi eccessivi, saturazione dei tempi, ripetitività, ansia, responsabilità, posizioni disagevoli, ecc.
Questo bagaglio di nuovi fattori nasce con l’organizzazione scientifica del lavoro. Infatti, in questa fase organizzativa, ogni libertà di iniziativa del lavoratore viene annullata, tempi, ritmi di esecuzione e pause sono predeterminate. Con l’avvento della meccanicizzazione nelle industrie, il lavoratore viene trasformato in una semplice appendice della macchina, costretto in un ruolo puramente esecutivo.
Laddove è applicata la parcellizzazione e la semplificazione delle operazioni, il lavoratore è costretto ad assumere una determinata posizione sul posto di lavoro e a compiere una serie di gesti predeterminati ad una determinata velocità di esecuzione.
La predeterminazione dei movimenti era stata presentata all’epoca di Taylor come un “risparmio di energie “. È ormai universalmente riconosciuto che il lavoro ritmizzato, a ritmi predeterminati, costringe il lavoratore a compiere dei movimenti definiti ed uguali secondo tempi prefissati, in contrasto con le cadenze spontanee del comportamento individuale, in contrasto con il “tempo individuale” caratteristico della personalità
Questo tipo di lavoro non solo esclude la partecipazione cosciente del lavoratore, ma provoca anche un affaticamento difficilmente recuperabile, non riconducibile ad una causa di origine fisica, ma di origine psichica. Gli effetti di tale affaticamento, la cosiddetta “fatica industriale”, incidono profondamente sulla salute psicofisica del lavoratore.
È possibile definire solo per esclusione questo insieme eterogeneo di fattori, indicati nella terminologia contrattuale come “effetti stancanti” diversi dalla fatica fisica.
Gli “effetti stancanti” non devono superare il limite rappresentato dalla possibilità per L’uomo di vivere una vita sociale completa dentro e fuori della fabbrica, nel contesto temporale delle ventiquattro ore, della settimana, dell’anno e dell’intera vita.

Solo al principio del ventesimo secolo furono fatti i primi tentativi di usare un metodo scientifico nell’organizzazione del lavoro umano.
Prima di allora l’ambiente di lavoro presentava una fortissima nocività relativamente ai primi tre gruppi di fattori, riguardo quindi alla luce, al rumore, alla temperatura, ecc.; ai gas, alle polveri, ecc.; al lavoro fisico.
Era assolutamente fuori luogo pensare ad una modificazione dell’ambiente che tenesse conto dell’uomo e dei suoi problemi. La giornata lavorativa era molto lunga e lo sforzo richiesto all’individuo come attività bruta, era enorme. Ci sono cronache impressionanti dell’epoca sulle condizioni di lavoro degli operai e sull’ambiente in cui questi erano obbligati a vivere la loro vita. Basterà stralciare da Marx un rapporto medico ufficiale inglese della metà dell’ottocento: “...gli operai non hanno in effetti alcuna possibilità di far valere quello che è il loro primo diritto sanitario, il diritto di vedere il proprio lavoro liberato da ogni circostanza anti-igienica che il loro padrone sia in grado di evitare... gli operai non ricevono alcuna valida assistenza dagli amministratori della polizia sanitaria creata per questo scopo...
“La vita di miriadi di operai e di operaie viene oggi tormentata ed accorciata con inutile spreco, dalle immani sofferenze fisiche che procura loro la maniera in cui si svolge il lavoro... I bambini in media incominciano a lavorare a sei anni, alcuni anche a meno di cinque anni... il periodo lavorativo va dalle otto del mattino alle otto di sera, talvolta fino alle dieci, undici o dodici di notte... ogni persona ha a disposizione meno di un metro cubico e per giunta l’ossigeno dell’aria viene consumato dalla luce a gas”.

L’ideatore dello studio dei tempi e dell’organizzazione scientifica del lavoro fu Taylor. Il suo metodo di utilizzazione del lavoro umano sostituì la ricerca obbiettiva al procedimento dettato dal “buon senso”. Egli aprì la via all’aumento di rendimento e di produttività basandosi su questi principi: scegliere gli uomini adatti ad un determinato lavoro; insegnare il metodo più efficiente; dare incentivi, sotto forma di salario più alto a chi produce di più (cottimo).
È noto l’esperimento condotto da Taylor nel 1898. Taylor aveva visto che 75 operai caricavano giornalmente su vagoni ferroviari una media di 12 tonnellate e mezza di ghisa ciascuno. Dopo aver osservato l’operazione, Taylor si convinse che sarebbe stato possibile far caricare ad un operaio circa 48 tonnellate al giorno: scelse un operaio noto per la sua forza fisica e per la sua industriosità, gli offerse una paga superiore qualora egli si fosse assoggettato a seguire con esattezza le sue istruzioni; l’operaio non doveva discutere, solo eseguire nei minimi particolari gli ordini che gli venivano impartiti. Con questo metodo, alla fine della giornata l’operaio aveva caricato quarantasette tonnellate di ghisa.
Con questi sistemi il primo tecnico del rendimento riuscì a ridurre da cinquecento a centoquaranta gli operai necessari a caricare vagoni, ma solo uno su otto era capace dello sforzo di caricare quarantasette tonnellate al giorno.
Taylor introdusse l’uso del cronometro come strumento per lo studio dei tempi ed affrontò il problema dei movimenti necessari per le operazioni lavorative. L ‘organizzazione scientifica del lavoro si basa infatti sul concetto che il tempo e il metodo con cui l’operaio esegue un lavoro non deve essere stabilito dall’operaio stesso, ma da tecnici specializzati dell’azienda i quali devono determinare il metodo più convincente ai fini della produttività, insegnarlo e mettere a disposizione strumenti e materiale adatti.
Al lavoratore si chiede oggi solo quello che si chiama “accomodamento passivo” alla situazione, in contrasto con quello che viene chiamato “adattamento attivo” alla condizione di lavoro, e cioè partecipazione cosciente e intelligente del lavoratore.

La scienza moderna ha dato origine ad una nuova branca di studi, l’ergonomia, che studia l’adattamento del lavoro all’uomo.
La tendenza padronale è quella di sfruttare l’ergonomia soltanto in senso correttivo, cioè solo nel senso di modificare gli strumenti, gli utensili, i sedili, ecc. affinché siano più funzionali, lasciando essenzialmente immodificato il rapporto tra lavoratore ed ambiente produttivo. Il limite massimo di questa tendenza può essere rappresentato dalla progettazione dei processi produttivi ad opera di èquipes di tecnici che comprendevano anche psicologi e medici del lavoro.
L’obiettivo è quello di eliminare qualsiasi consumo della forza-lavoro che non sia rivolto alla produttività. Questa tendenza generale è già un dato di fatto in molte situazioni produttive tecnicamente più moderne.
Per quanto riguarda gli effetti sull’uomo, si verifica un continuo, ulteriore aumento di importanza del quarto gruppo di fattori, cioè degli “effetti stancanti” diversi dalla fatica fisica. Da questo punto di vista alcune industrie più illuminate, o, per meglio dire, previdenti, che hanno compreso a fondo l’influenza negativa del lavoro parcellare sull’uomo hanno già iniziato un piano sperimentale di “job enlargement” (ampliamento e ricomposizione del lavoro). Con ciò si intende l’estensione dell’attuale lavoro dell’operaio, l’accrescimento della varietà e dell’interesse. L’ampliamento del lavoro non consiste naturalmente in un ritorno a sistemi artigianali, ma si profila come una reazione contro gli eccessi della divisione del lavoro.
È ovvio che studi, ricerche di questa fatta, visti sempre dall’angolo visuale della produttività, non potranno arrivare mai alla soluzione del problema. Considerare L’uomo come se fosse una macchina utensile, anche se la manutenzione di questa macchina è affidata a tecnici altamente specializzati, non può garantire la salute del lavoratore.
Il carico di insoddisfazione, di tensione, di angoscia dovuto all’ambiente di lavoro attuale, supera la capacità di adattamento dell’uomo.

La classe operaia contrappone alla tendenza padronale una alternativa: un ambiente di lavoro nel quale non solo sia assente ogni fattore nocivo, ma siano anche soddisfatte le esigenze dell’uomo. Questa alternativa è possibile in base alla socializzazione e alla utilizzazione da parte dell’uomo che lavora, per le sue esigenze, delle scoperte scientifiche in tutti i campi, a cominciare dalla psicologia e dalla medicina del lavoro. Ma la socializzazione e la valorizzazione per le esigenze del lavoratore, delle conquiste scientifiche è solo possibile se la classe operaia è protagonista della ricerca per costruire un ambiente di lavoro a misura dell’uomo.
L’alternativa operaia procede dalla coscienza della possibilità di cambiare l’ambiente di lavoro. La premessa di questa possibilità sta nel fatto che anche dove la prestazione di lavoro è più meccanizzata, l’attività produttiva richiede sempre un contributo inventivo degli operai. Invece di mortificare bisogna esaltare l’iniziativa degli operai, fare appello alla culture della classe operaia, per modificare l’ambiente di lavoro, perché senza questa partecipazione dei lavoratori l’obiettivo finale dell’ergonomia sarà rappresentato, nelle migliore delle ipotesi, dalla “stalla modello”. L’organizzazione sindacale promuove una lotta in questa direzione, le cui tappe intermedie e i cui risultati devono affermare progressivamente l’intervento della classe operaia sull’ambiente di lavoro. Il gruppo operaio interessato, affiancato dalla équipe dei tecnici, partecipa attivamente come soggetto, attraverso la “validazione consensuale” e la “non delega”, alla soluzione dei problemi di nocività ambientale che i modi di produzione determinano, modificando i modi di produzione stessi a cominciare dalla organizzazione del lavoro e dalla tecnologia produttiva, affrontando così in una dimensione diversa la politica sindacale nel campo del controllo della nocività ambientale.

Può essere utile considerare schematicamente la situazione attuale rispetto a quella di ieri e rispetto alle alternative future.
Ieri, prima che l’organizzazione scientifica del lavoro definisse la fisionomia dell’attuale ambiente di lavoro, questo era caratterizzato prevalentemente dalla totale mancanza di considerazione per le esigenze dell’uomo. Nessun limite alla richiesta di prestazioni, né l’età, né la resistenza al freddo, al caldo, alla durata dell’orario, ai rumori, all’umidità, alla concentrazione delle sostanze nocive. Rispetto al nostro schema, in quella situazione prosperavano valori insopportabili di tutti i fattori
del primo, del secondo e del terzo gruppo. In quelle condizioni i fattori del quarto gruppo non potevano neppure essere considerati.
L’organizzazione scientifica del lavoro che caratterizza ancora oggi l’ambiente di lavoro, ha determinato un recupero del rendimento del lavoro umano attraverso l’eliminazione di tutti gli sperperi di energia non utilizzati a fini produttivi.
A questa situazione corrisponde rispetto al nostro modello di indagine, una netta riduzione di importanza dei fattori nocivi del primo, del secondo e, relativamente, del terzo gruppo. Assume una particolare importanza il quarto gruppo, cioè l’insieme delle cause di effetti stancanti diverse dal lavoro fisico.
La tendenza padronale che si profila oggi è quella di provvedere alla massima cura, sul piano medico e psicologico, della macchina uomo. La contraddizione insita in questa tendenza può essere espressa colle parole dell’inventore della cibernetica Wiener: “… allorché le persone umane sono organizzate nel sistema che le impiega non secondo le loro piene facoltà di essere umani responsabili, ma come altrettanti ingranaggi, leve e successioni, non ha molta importanza che la loro materia prima sia costituita da carne e sangue. Ciò che è usato come elemento in una macchina, è un elemento della macchina”.
L’unica alternativa possibile alla nocività dell’ambiente di lavoro è rappresentata dall’alternativa operaia. Questa non può essere espressa se non da una classe operaia in veste di protagonista nella ricerca scientifica, perché è al gruppo operaio interessato, con l’aiuto di tecnici, medici e psicologi specialmente, che spetta il compito della socializzazione delle scoperte scientifiche in questo senso è decisiva la funzione dirigente del sindacato di classe nell’organizzazione della lotta contrattuale volta a conquistare gli strumenti necessari all’alternativa operaia.


Seconda parte
I 4 gruppi di fattori nocivi e la loro influenza sulla salute del lavoratore

Il primo gruppo di fattori (luce, rumore, temperatura, umidità, ventilazione) può produrre, come effetti nocivi, infortuni e malattie aspecifiche.
Il secondo gruppo (polveri, gas, vapori, fumi) può produrre infortuni, malattie aspecifiche e malattie professionali.
Il terzo gruppo (lavoro fisico) può produrre infortuni, malattie aspecifiche ed interagisce coi fattori del primo e del secondo gruppo aggravandone gli effetti.
Il quarto gruppo (effetti stancanti: monotonia, ripetitività, ansia, ecc.) può causare infortuni e malattie aspecifiche.
Per infortunio intendiamo l’infortunio vero e proprio o la disponibilità dell’operaio a subire danni per la concomitanza di diversi fattori nocivi.
Per malattia aspecifica intendiamo un insieme di malattie fisiche e psichiche non direttamente collegabili ad una causa determinata, ma riconducibili almeno in parte ad uno o più fattori dell’ambiente di lavoro. Esse comprendono un gruppo eterogeneo che va dalla stanchezza, dall’insonnia persistente ai disturbi digestivi, all’ulcera gastroduodenale, alle coliti, alle nevrosi, all’artrosi ed all’asma bronchiale, per arrivare forse anche all’ipertensione e ad altre malattie, sempre più frequenti nelle società industriali, di cui non si conosce l’origine.
Per malattia specifica o professionale si intende invece una malattia definita la cui causa è direttamente identificabile in un fattore dell’ambiente di lavoro. Portiamo ad esempio la silicosi, il benzolismo, il saturnismo o malattia da piombo.
I diversi fattori provocano gli effetti prima elencati solo se sono presenti in una determinata quantità. È necessario quindi stabilire quando una atmosfera di lavoro si può considerare idonea. In condizioni normali di lavoro l’atmosfera dell’ambiente di lavoro è considerata idonea se nel turno
più numeroso in vicinanza delle macchine, nelle fasi lavorative di maggior produzione, o comunque nelle condizioni più sfavorevoli, la temperatura, l’umidità, l’illuminazione, il rumore sono contenuti entro certi limiti considerati accettabili. Nel caso siano presenti polveri, gas, o comunque sostanze nocive, il peso di polvere per metro cubo d’aria ed il massimo numero di particelle presenti per centimetro d’aria devono essere contenute entro i limiti tollerabili per l’organismo umano, per quel determinato orario di lavoro e per quella determinata ventilazione-minuto.

La luce elemento comune agli ambienti di vita e di lavoro, può provocare effetti nocivi qualora sia in difetto (scarsa illuminazione) oppure può danneggiare l’occhio attraverso il meccanismo dell’abbagliamento.
Le lesioni dirette sull’organo della vista sono di due tipi: lesioni da radiazioni infrarosse, che provocano la cataratta, e lesioni da ultravioletti che ledono la retina.
L’abbagliamento o la scarsa visibilità oltreché essere causa diretta di malattia per l’organo della vista, possono provocare malattie aspecifiche e incidere con notevole rilevanza sul numero degli infortuni. Ne consegue quindi la crescente importanza di una efficace illuminazione del posto di lavoro.
Una buona visione dipende da molteplici fattori; fra questi la dimensione dell’oggetto fissato, la luminosità dei contorni, il contrasto tra l’oggetto e lo sfondo, la capacità visiva in relazione all’età del soggetto ecc. Per valutare l’efficienza dell’illuminazione di un ambiente e di un posto di lavoro occorre tener presente ancora altri aspetti della questione e cioè l’illuminazione generale o di fondo dell’ambiente di lavoro e l’illuminazione del posto di lavoro vero e proprio che va a sommarsi con quella di fondo, e ancora l’illuminazione del punto più scuro lontano dal posto di lavoro.
A questo punto appare evidente che il fattore soggettivo, espresso in termine di validazione consensuale, è determinante per una esatta valutazione. La valutazione consensuale può diventare un utile strumento scientifico per lo studio dell’affaticamento visivo e delle sue conseguenze sull’apparato oculare (campo ben poco esplorato) e sul sistema nervoso centrale.

Da un punto di vista oggettivo e cioè al di fuori di ogni valutazione soggettiva, si è cercato di fissare dei valori di illuminazione, che fungono da indici di riferimento. Tali valori sono basati su di una unità di misura chiamata lux che corrisponde a un flusso luminoso di un lumen per metro quadrato. L’esperienza di tutti i giorni e la ricerca scientifica dimostrano che il numero degli infortuni diminuisce notevolmente con modesti miglioramenti dell’illuminazione.
Riportiamo ad esempio i risultati di una ricerca eseguita nell’industria: nelle costruzioni meccaniche passando da un livello medio di illuminazione di cinquanta a duecento lux si è riscontrata una diminuzione degli infortuni del venticinque per cento; in un reparto di laminazione a freddo, passando da sessanta a duecento lux gli infortuni sono diminuiti del cinquantuno per cento. L’intensità dell’illuminazione necessaria, ai fini del controllo della nocività, dovuta alla insufficiente illuminazione, è diversa a seconda delle caratteristiche della lavorazione. Consideriamo i valori minimi di illuminazione ritenuti necessari in alcuni paesi per i lavori finissimi e per i lavori di tipo grossolano, nelle industrie metalmeccaniche. Per lavoro finissimo si intende: lavorazioni di precisione, orologeria, incisione, bobinatura; per lavoro grossolano: grosse fusioni, trafilatura, laminatura, forgiatura ecc. I valori di illuminazione “consigliati” in Italia sono molto bassi e decisamente insufficienti rispetto ai valori considerati come minimo indispensabile in vari paesi europei ed extra-europei.

L’intensità del suono viene misurata in decibel, unità di misura dell’onda di pressione, di cui è costituito il suono, che colpisce il timpano dell’orecchio e lo fa vibrare. Il suono, oltre che dall’intensità, è caratterizzato anche dalla frequenza, e cioè dal numero delle vibrazioni emesse. La nocività del suono è data dalla pressione, combinata con la frequenza.
Gli specialisti sono d’accordo nello stabilire una fascia di sicurezza tra i sessanta e gli ottantacinque decibel. Al di sopra dei sessanta decibel i rumori disturbano le comunicazioni e indeboliscono ii potere di concentrazione. Oltre gli ottantacinque decibel (M.A.C.) non bisogna andare; questa è la soglia massima alla quale una persona può essere esposta in modo continuato senza pericolo. Al di sopra di questo livello di rumorosità cominciano i danni all’organo dell’udito e si aggravano le conseguenze sul sistema nervoso, circolatorio, muscolare.
I M.A.C. della rumorosità non tengono conto degli altri elementi che intervengono nella lavorazione, che influiscono sull’individuo durante il processo produttivo e lo caratterizzano. Anche in questo caso, quindi, il M.A.C., per essere ritenuto valido, deve essere validato consensualmente dal gruppo operaio interessato in quelle determinate condizioni produttive nelle quali il gruppo lavora.
Si hanno, come effetti nocivi: infortuni, malattie aspecifiche e malattie professionali. Come prima e più evidente conseguenza, si va incontro ad una menomazione grave quale la sordità. Ma il rumore dispiega i suoi effetti nocivi al di là del sistema uditivo. Il rumore elevato contribuisce ad aumentare la tensione muscolare e l’affaticamento mentale. Certe malattie aspecifiche, quali i disturbi digestivi, l’ulcera, lo stato ansioso, possono essere ricondotte all’azione traumatizzante del rumore. La riduzione della capacità lavorativa causata dal rumore è ampiamente dimostrata; di qui la possibilità sempre maggiore di commettere errori e quindi di subire infortuni.

L’organismo umano per essere in condizioni ottimali deve poter mantenere la sua temperatura sui trentasette gradi senza dover ricorrere ai meccanismi di termoregolazione.
Le fonti di calore esterne possono cedere calore all’organismo attraverso tre diversi meccanismi: 1) irraggiamento (es. davanti alla bocca di un forno di fusione aperto l’operaio riceve calore, anche se l’aria interposta non si riscalda); 2) conduzione (es. quando l’operaio maneggia un pezzo, il calore si trasmette direttamente dal pezzo caldo alle mani); 3) per convezione (es. una stufa riscalda l’aria che le sta attorno, l’aria calda circolando riscalda l’ambiente). È da tenere presente che se il calore è trasmesso per irraggiamento si debbono usare termometri speciali. Al calore esterno è da aggiungere quello interno, che è in rapporto alla fatica fisica.
L’organismo si difende dall’eccesso di calore attraverso il meccanismo della termoregolazione. L’evaporazione, momento essenziale della termoregolazione, avviene nella massima parte attraverso la pelle: in condizioni normali con la traspirazione insensibile (che non si avverte), in presenza di eccesso di calore con la sudorazione.
L’evaporazione è tanto maggiore quanto minore è l’umidità e quanto maggiore è la ventilazione dell’ambiente di lavoro.
La perdita di sudore comporta perdita di acqua e di sali; l’acqua (si può arrivare a perdite, in certe situazioni di lavoro, di uno o più litri all’ora) ed i sali perduti col sudore debbono essere prontamente sostituiti, pena conseguenze gravissime. L’entità della sudorazione (e quindi delle bevande introdotte ogni giorno) può essere una prima misura della sopportabilità del microclima (risultante dalla temperatura, dalla umidità, dalla ventilazione, dalla faticosità del lavoro, ecc.). L’eccesso di calore può determinare degli effetti acuti: direttamente, il collasso da colpo di calore, indirettamente, attraverso alla diminuzione della capacità di concentrazione ed all’aumento della fatica, l’infortunio generico.
Il persistere di una situazione climatica non ottimale a lungo termine può essere causa di malattie aspecifiche.

Tutte le sostanze del secondo gruppo al verificarsi di certe condizioni possono diventare pericolose per l’organismo; anche le sostanze che in generale, in condizioni normali, non sono tossiche. L’anidride carbonica, ad esempio, di per sé non tossica, può diventare tale, quando raggiunga un alto livello di concentrazione nell’aria, fino a provocare asfissia. La tossicità di una sostanza dipende quindi da diversi fattori tra cui, soprattutto, la concentrazione e la durata dell’esposizione. Per un operaio che si muove in un determinato ambiente il tempo di esposizione è costante, cioè dura quanto la giornata lavorativa. Per questo il fattore che assume in genere un ruolo di estrema importanza è la concentrazione.
Per il primo gruppo di fattori (l’umidità, la ventilazione, la temperatura, la luce ed il rumore) abbiamo visto come si possa stabilire una fascia ottimale di valori per un ambiente igienicamente sano.
Per il secondo gruppo di fattori il grado di concentrazione esistente in ogni ambiente di lavoro dovrebbe essere uguale a zero. Anche se questa condizione non è realizzabile a breve scadenza, è comunque indispensabile che sin d’ora negli ambienti di lavoro le concentrazioni dei fattori del secondo gruppo siano almeno sempre al di sotto dei valori dei cosiddetti massimi accettabili di concentrazione (M.A.C.), perché al di sopra di questi valori l’azione nociva è sicura. Gli effetti delle sostanze nocive del secondo gruppo si possono considerare schematicamente di due tipi, a seconda della concentrazione, fermi restando il tempo di esposizione e la faticosità del lavoro.
Al di sopra dei cosiddetti massimi accettabili di concentrazione esiste un’altra possibilità che si determini, nei soggetti esposti, una intossicazione tipica caratteristica della sostanza considerata (ad esempio saturnismo in presenza di piombo, solfurocarbonismo in presenza di solfuro di carbonio ecc.). Al di sotto dei valori di M.A.C. le stesse sostanze possono determinare dei disturbi generici, stanchezza, malessere, cattiva digestione, nausea, ed in un secondo tempo delle malattie cosiddette aspecifiche, sommandosi agli effetti dello stesso tipo dovuti ai fattori nocivi degli altri tre gruppi. Inoltre è da tenere presente che la stanchezza e il malessere possono facilitare gli infortuni.

Le principali vie di assorbimento delle sostanze tossiche sono rappresentate dai polmoni, dalla pelle e dalle vie digerenti. La via più frequente e più importante di introduzione del tossico è L’aria che si respira, che penetra cioè nell’organismo attraverso i polmoni.
Per capire L’importanza della via respiratoria, dobbiamo renderci conto che, mentre la superficie del corpo umano corrisponde all’incirca ad un metro quadrato e mezzo la superficie di contatto del polmone con L’esterno è di circa cento metri quadrati (ad es. un lenzuolo di dieci metri per dieci) .Se L’individuo non è completamente scoperto ma vestito normalmente la parte di pelle esposta corrisponde a circa un quarto di metro quadrato; quindi la superficie di contatto attraverso la cute con il tossico ambientale ha valori che corrispondono ad un quattrocentesimo della superficie di contatto rappresentata dal polmone.
Teniamo anche conto del fatto, importantissimo, che il polmone, attraverso la ventilazione, ricambia continuamente L’aria; quindi la quantità del tossico col quale I ‘organismo viene a contatto è molto maggiore di quanto non derivi dal raffronto fra la superficie della pelle e quella alveolare.
Le vie digerenti rappresentano un via di assorbimento di scarso valore, fatta eccezione per alcune sostanze come ad esempio il piombo. La via di entrata attraverso i polmoni è della massima importanza; i gas ed i vapori inalati possono essere prontamente assorbiti in modo molto più veloce di quanto non avvenga a livello della cute e anche questo aumenta ancora il divario di importanza fra L’assorbimento per via polmonare e per via cutanea (pelle).

La fatica fisica ha una grande importanza nella determinazione degli effetti nocivi dovuti al secondo gruppo di fattori. Infatti la quantità di aria respirata è in rapporto al fabbisogno di ossigeno e quindi alla fatica fisica che il lavoro comporta.
Ad una maggiore quantità di aria ventilata (respirata) corrisponde una maggiore quantità di sostanza tossica introdotta nei polmoni, cioè nell’organismo.
Consideriamo un lavoratore in condizione di lavoro normali; egli introduce nei propri polmoni, ogni minuto, dieci litri d’aria con sostanza nociva; dopo otto ore di lavoro avrà inspirato quattromilaottocento litri di aria con sostanza nociva. Esaminiamo adesso un secondo lavoratore nello stesso ambiente di lavoro del primo e quindi esposto alla stessa concentrazione di sostanza nociva ma sottoposto ad un lavoro molto più faticoso.
Questo secondo lavoratore introduce nei propri polmoni, ogni minuto, ben cento litri di aria contenente sostanza nociva; dopo otto ore di lavoro quest’ultimo avrà inspirato quarantottomila litri di aria con sostanza nociva. Qualunque sia la concentrazione della sostanza nociva nell’ambiente, il secondo lavoratore, che esegue un lavoro pesante, introdurrà nei polmoni ogni giorno una quantità di sostanza nociva dieci volte maggiore del primo. Nel primo la malattia comparirà ed evolverà molto più lentamente che nel secondo.
È necessario quindi considerare il problema del massimo accettabile di concentrazione, alla luce di questa informazione, nel senso che valori accettabili per un lavoro non faticoso debbono essere ridotti, almeno proporzionalmente, alla quantità di aria ventilata a causa della maggiore fatica fisica, quando il lavoro è faticoso.

La fatica oggettiva si può calcolare partendo dai dati derivati dalla letteratura scientifica che ci indicano per ogni attività lavorativa il consumo in calorie.
Per un operaio che consuma circa tre calorie al minuto, se moltiplichiamo tre per sessanta, cioè i minuti in un’ora, otterremo centoottanta calorie, cioè il consumo di energia in un’ora. Moltiplicando ancora per otto, cioè il numero di ore lavorative, otterremo millequattrocentoquaranta calorie. Il limite massimo (M.A.C.) è stato valutato, a seconda dei diversi fisiologi, sulle millecinquecento- duemila calorie giornaliere, valori che nella contrattazione possono servire solo come elemento di riferimento.
Se assumiamo come M.A.C. millecinquecento calorie al giorno, il soggetto rientra nella fascia normale di consumo di energia, e la fatica da lui risentita durante la giornata avrà un pronto recupero; può infatti essere considerata fisiologica.
Per cinque calorie al minuto si avrà un consumo di duemilaquattrocento calorie; per otto calorie e mezzo al minuto avremo un consumo di quattromila e ottanta calorie, per sedici calorie al minuto un consumo di settemila seicento ottanta calorie.
Alla fatica oggettiva, misurabile in calorie spese nell’eseguire il lavoro, si somma la fatica soggettiva legata agli altri fattori ambientali e soprattutto alla partecipazione affettiva ed intellettuale del lavoratore al lavoro stesso.
A questi livelli di intensità del lavoro fisico si determinano sicuramente gli effetti nocivi; la fatica patologica, gli infortuni e poi le malattie aspecifiche. È importante ribadire il concetto che il lavoro fisico, con tutte le sue implicazioni, influisce in modo negativo sull’azione di tutti gli altri gruppi di fattori nocivi.

Quando una operazione o un gruppo di operazioni sempre uguali e spesso molto brevi vengono ripetute per tutta la giornata lavorativa (come per il lavoro alla catena di montaggio, alle giostre, ecc.), si determina quell’effetto stancante che prende il nome di “monotonia”.
Il lavoro privo di interesse genera la noia con tutti i suoi effetti psicologici. Ed è questa non solo
una noia vissuta alla giornata, ma una noia, una monotonia vissuta in prospettiva. Il lavoro svuotato di interesse continuerà per mesi, per anni, per tutta una vita lavorativa.
La spersonalizzazione del lavoro si accompagna alla coscienza di non poter mai finire un lavoro. Il principio della separazione del pensiero dalla esecuzione, applicato con la organizzazione scientifica del lavoro, si paga con la non partecipazione dell’individuo al suo lavoro. La mancanza delle condizioni che permettono di soddisfare le tendenze più profonde della persona umana e uno dei principali aspetti dell’alienazione dell’uomo di oggi sul lavoro.
Gli studi e gli esperimenti compiuti in tale campo hanno dimostrato che le cattive condizioni ambientali, le lunghe ore di lavoro, le pause mal distribuite, i difetti connessi alla velocità dei ritmi, alle posizioni disagevoli, sono fattori rilevanti nella produzione della “fatica industriale”, ma i fattori principali sono pur sempre quelli di ordine psicologico.
L’adattamento individuale non può avvenire senza tensione e il logorio emotivo si esprime sempre più attraverso disturbi fisici o psichici.
L’organizzazione scientifica del lavoro ha aperto infatti l’era delle “malattie aspecifiche da adattamento”, come conseguenza dello sforzo che L’organismo compie per adattarsi ad una situazione ambientale che ha violato ogni ritmo biologico, fisico e psichico.
L’organizzazione scientifica del lavoro d’altro canto non solo chiede prestazioni che superano la soglia della fatica, ma, paradossalmente, impedisce l’utilizzazione delle possibilità dell’uomo. La rigida predeterminazione delle varie fasi lavorative contrasta con la spontanea attitudine dell’uomo a finalizzare il proprio comportamento, a seconda delle esigenze del momento, in una varietà di forme che testimoniano la sua grande capacità di apprendimento e di rendimento. Proprio in questo sta la minaccia alla salute dell’uomo.

I ritmi di lavoro caratterizzati da frequenze troppo elevate, inducono affaticamento e usura; i disturbi di ordine psicologico tendono a trasformarsi in disturbi organici, in malattie. Sono caratteristici della fase iniziale i disturbi della memoria e della attenzione che predispongono l’individuo all’infortunio; seguono i disturbi dell’umore, irritabilità; insorgono quindi generalmente i disturbi del ritmo del sonno.
A questa fase seguono i disturbi somatici come cefalea, tachicardia, pirosi gastrica, disturbi di tipo colitico.
Il lavoro che non comporta il riconoscimento delle qualità intellettuali che, in diversa misura ogni uomo possiede, genera insoddisfazione e frustrazione; il soggetto è facilmente depresso, i suoi rapporti sociali diventano difficili. Oramai molte delle mansioni nell’ambiente di lavoro moderno comportano la presenza contemporanea di molti “effetti stancanti” dalla monotonia alla ripetitività, alla frustrazione, ai ritmi eccessivi, alla eccessiva saturazione dei tempi con un crescendo di “fatica industriale”.
Insomma, tra le esigenze umane del lavoro e quelle imposte, esiste una contraddizione che viene pagata con un alto costo psicofisico attraverso il penoso processo di “accomodamento passivo”.
Lo stato di ansia caratterizza la condizione di lavoro di un numero sempre crescente di operai. Essa può essere legata all’attesa, di fronte ad un quadro di controllo, del segnale di un guasto che comporta l’intervento su una serie complessa di comandi e decisioni che non permettono errori, in una sequenza accelerata, dopo ore e ore e giorni di snervante inattività.
Essa può essere generata dalla necessità di mantenere un ritmo elevato, al limite delle proprie possibilità, per raggiungere il rendimento di cottimo prefissato, con la costante preoccupazione del rimbrotto del caposquadra e della perdita del posto di lavoro.
Essa può derivare da mille cause diverse, come effetto di una condizione di lavoro che il lavoratore sente estranea e che rifiuta.

Le posizioni disagevoli interessano per due aspetti: un aspetto fisico ed un aspetto psicologico. L’aspetto fisico considera gli effetti sulle articolazioni e sulla muscolatura interessata; il lavoro muscolare in questo caso è di tipo statico, cioè non modifica la posizione degli arti in quanto obbliga a contrarre un muscolo o un gruppo muscolare in modo continuo. In queste condizioni la
fatica compare molto più rapidamente. A lungo andare i muscoli e le articolazioni interessate vanno incontro a malattie croniche: miositi ed artrosi.
Per quanto si riferisce all’aspetto psicologico, la condizione di lavoro che comporta posizioni disagevoli continuate, caratteristiche della mansione, agisce nello stesso senso degli altri effetti stancanti, coi quali spesso coesiste; ritmi di lavoro eccessivi e monotonia in particolare. L’ansia, i ritmi eccessivi, la monotonia di un lavoro parcellizzato, le posizioni disagevoli, isolati o combinati fra di loro e con altri effetti stancanti, sono la causa fondamentale della fatica industriale. Si determina così una diminuzione del rendimento lavorativo, che, per essere compensato ai fini del mantenimento della produttività, richiede un ulteriore aumento della fatica. Il riposo notturno diventa allora insufficiente per il compenso della fatica giornaliera, la fatica residua si accumula, sino a che, solo a condizione di assentarsi per un breve periodo, il lavoratore riesce a ritrovare il proprio equilibrio fisico e psichico. Se la condizione lavorativa non si modifica, la cessazione dello stato di benessere si trasforma in malattia, compaiono disturbi nevrotici, ulcere gastroduodenali, coliti croniche a altre malattie specifiche.
Per questo gruppo di fattori i limiti di massima tollerabilità non si possono stabilire senza il giudizio del gruppo interessato; la validazione consensuale è lo strumento scientifico fondamentale per la misura della intensità e della sopportabilità di questi fattori.

I valori di concentrazione delle sostanze nocive nell’atmosfera degli ambienti di lavoro hanno un’importanza fondamentale in quanto l’inalazione di aria inquinata è la modalità più frequente ed importante di introduzione di sostanze dannose nell’organismo.
Quanto maggiore è la concentrazione della sostanza nociva, tanto maggiore sarà il numero dei soggetti colpiti; quanto minore la concentrazione, tanto minore il numero dei lavoratori danneggiati. È quindi pregiudiziale stabilire i valori limite di concentrazione oltre i quali la salute delle persone esposte all’azione di sostanze nocive potrebbe, in un modo qualunque, essere compromessa.
Noi preferiamo alla definizione di “valori limite di concentrazione”, quella di M.A.C., o massimo accettabile di concentrazione in quanto questo termine indica una partecipazione di chi subisce gli effetti nocivi e cioè del gruppo operaio interessato. Infatti deve essere esplicito che le concentrazioni dei fattori nocivi non devono essere subite senza neanche conoscerle, ma devono essere conosciute, contrattate ed in seguito accettate solo a ragion veduta sulla base della esperienza del gruppo operaio interessato e di elementi rappresentati dai risultati delle esperienze mediche internazionali, desunte dal mondo del lavoro e dalla ricerca sperimentale.
Questi valori non devono comunque mai essere superati neanche col consenso del gruppo operaio interessato.
Il tecnico della salute sul luogo di lavoro ha il compito, tra gli altri, di verificare continuamente la validità dei M.A.C. in quel determinato ambiente di lavoro sulla scorta dei disturbi e/o malattie che i lavoratori presentano.

La situazione attuale è caratterizzata sul piano della legislazione e su quella della contrattazione sindacale di un limite massimo di concentrazione. Questo significa che viene accettato di fatto un massimo di concentrazione che corrisponde spesso a valori sicuramente nocivi, superiori ai M.A.C. indicati nelle tabelle internazionali.
Il primo obiettivo di lotta è quindi rappresentato dalla contrattazione di valori limite di concentrazione oltre ai quali L’ambiente di lavoro è da considerarsi non idoneo. Finora solo due sono stati essenzialmente i criteri usati per stabilire questi valori: quello che si basa sugli effetti delle concentrazioni di sostanze nocive sui lavoratori e quello che prevede questi effetti sulla base di esperienze sugli animali. I valori derivati dalla esperienza diretta sui lavoratori sono sempre stati più alti di quelli derivati dalle ricerche sperimentali. Oggi invece è la contrattazione che deve decidere per ogni singolo ambiente di lavoro i valori limite (M.A.C.). Partendo dai risultati delle esperienze mediche internazionali desunte dal mondo del lavoro e della ricerca sperimentale, si pone l’obiettivo di contrattare per ogni ambiente di lavoro, da parte del gruppo operaio interessato (validazione consensuale), sulla scorta dei registri dei dati ambientali e dei dati biostatistici, nuovi massimi accettabili di concentrazione, tendendo ovviamente a portare il M.A.C. al valore zero, cioè alla eliminazione totale delle sostanze nocive dall’atmosfera di lavoro. In questo processo di trasformazione dell’ambiente di lavoro in un ambiente assolutamente non nocivo, è fondamentale il ruolo del servizio medico di fabbrica che deve rispondere di fronte agli operai, solo sui piano tecnico della non nocività, di tutte le situazioni ambientali produttive.
Solo questa responsabilizzazione può permettere il superamento della condizione attuale di condizionamento da parte del datore di lavoro e la completa utilizzazione a favore dell’uomo che lavora. I compiti, le funzioni ed i metodi del servizio medico di fabbrica devono diventare materia di contrattazione sindacale.


Terza parte
Le soluzioni del sindacato contro le nocività dell’ambiente di lavoro

Le informazioni da raccogliere devono vertere su determinati punti che si possono schematizzare in questo modo:
1) una informazione qualitativa e cioè quali fattori nocivi alla salute sono presenti nell’ambiente di lavoro, ad esempio silice, temperatura elevata, illuminazione scarsa, rumori, ritmi elevati ecc.;
2) una informazione quantitativa, e cioè in quale quantità si manifestano i fattori nocivi, ad esempio: quanto rumore c’è (espresso in decibel), quale intensità luminosa (espresso in lux), quanta silice (numero delle particelle presenti in una data quantità d’aria) ecc.;
3) una informazione sugli effetti e tutti i dati relativi alle possibili modificazioni della salute dei lavoratori, ad esempio: malattie, infortuni, disturbi vari, numero di assenze, ecc.
Il problema della conoscenza qualitativa e cioè della presenza di fattori nocivi può essere risolto attraverso la combinazione di varie vie.
L’osservazione spontanea è uno strumento importante.

La prima segnalazione della presenza di sostanze nocive o situazioni nocive nasce anzitutto dalla stimolazione sensoriale degli operai (odorato, gusto, vista, udito).
Questa via è evidentemente poco efficace in quanto segnala una sostanza, ma non la identifica. Sarebbe un errore però sottovalutarne l’importanza, perché punto di partenza di una complessa azione di ricerca.
Il lavoratore esprime il proprio stato di disagio fisico e psichico con espressioni spontanee, a volte disordinate, senza concatenazione di causa ed effetto. “C’è un caldo infernale, un rumore assordante, divento matto, aspetto solo la domenica per dormire, nel mio reparto ci sono cinque infortuni alla settimana”; sono frasi che esprimono, meglio di ogni altra analisi, una situazione ambientale nociva o stressante dal punto di vista psicologico.
La seconda informazione è di natura quantitativa e procede alla rilevazione della quantità della sostanza nociva. In questo caso, come abbiamo già dimostrato precedentemente, è necessario tenere conto di numerosi fattori quali la concentrazione, la fatica fisica, la quantità di aria inalata e quindi la quantità di tossico accumulato nell’organismo dall’individuo durante la giornata lavorativa.

La terza informazione è essenziale perché si ricollega agli effetti biologici e riguarda i disturbi, le malattie sofferte dal gruppo operaio interessato ad un determinato processo produttivo. Anche in questo caso la denuncia del gruppo è la misura più scientifica che si possa immaginare, perché riassume L’esperienza nel tempo di operai che lavorano in un determinato reparto e L’osservazione costante e giornaliera dei disturbi accusati. L’importanza dell’esperienza dei gruppi interessati puntualizza il significato anche scientifico della «non delega».
Anche le osservazioni apparentemente marginali e considerate inutili, possono avere invece il loro peso sulla individuazione di un effetto dell’ambiente di lavoro sulla salute dei lavoratori. Dobbiamo sempre aver presente che gli effetti nocivi che sfuggono alla rilevazione sono quelli che compaiono dopo molta tempo, anche anni e sono quelli che si possono sommare e confondere con effetti dovuti all’ambiente extra lavorativo.

Se il medico utilizzerà il gruppo interessato e ne affinerà la capacità di segnalare i disturbi, potrà usufruire di uno strumento diagnostico di grande efficacia. Ripetiamo ancora “gruppo operaio” e non singolo lavoratore, per una ragione precisa. Nello studio dei rapporti fra malattia ed ambiente, non sono i disturbi accusati dal singolo ad assumere un ruolo determinante, ma quelli accusati dal gruppo. Il criterio epidemiologico e cioè il criterio secondo cui si studia l’evoluzione e il comportamento della malattia non a livello del singolo individuo, ma a livello del gruppo, è usato certamente da secoli nella osservazione spontanea del gruppo operaio interessato.
Non dimentichiamo che da secoli la silicosi è stata, sulla base di questo criterio scientifico, interpretata come una malattia da polvere delle miniere dagli operai stessi, mentre la scienza medica ufficiale nel ventesimo secolo trovava ancora eminenti specialisti disposti a sostenere che non si trattava di una malattia dovuta alla silice, ma di una particolare forma di tubercolosi.

L’osservazione spontanea porta in genere ad una denuncia che il sindacato non solo non deve lasciar cadere, ma deve trasformare in un momento di conoscenza più completo. Dalla prima fase spontanea di deve passare alla seconda fase, quella della indagine attraverso un questionario standard, ricalcato sul modello di analisi dei quattro gruppi di fattori. L’uso di un questionario standard è utile perché ci dà la possibilità di ottenere le informazioni necessarie per fornire al sindacato, e ai lavoratori una visione d’insieme della nocività ambientale di tutta la fabbrica.
In secondo luogo il questionario serve a generalizzare una concezione della nocività e delle sue cause; ciò si ottiene dalla suddivisione dei fattori ambientali in quattro gruppi e dal modo in cui sono sollecitate le risposte.
In terzo luogo il modello standard porta ad evidenziare elementi comuni di esperienze diverse. In altre parole il modello standard permette di giudicare situazioni diversissime sempre con lo stesso schema di riferimento, permette di raccogliere elementi di giudizio validi e confrontabili fra loro, consentendo di proporre soluzioni dei problemi della nocività ambientale comuni in tutte le situazioni. Esso aderisce adeguatamente al modo in cui il lavoratore si rappresenta la realtà, partendo dalla esperienza del proprio posto di lavoro.
Qualunque sia il tipo di raccolta che si intende organizzare (ad esempio: consegna dei questionari ai lavoratori, visita, in ore di lavoro, di delegati del Consiglio di Fabbrica reparto per reparto, ecc.) essa richiede preliminarmente un dialogo che comporta, da una parte, un’informazione sulla situazione reale da parte del gruppo interessato e, dall’altra, una visione globale dei problemi della nocività ambientale da parte di chi porge il questionario. Ciò presuppone sempre una ricerca sui dati tecnologici e merceologici da realizzarsi in collaborazione coi lavoratori interessati.

Dalla osservazione spontanea, attraverso alla sua strutturazione sulla base di un modello di analisi, realizzata con indagini, si deve arrivare ad una forma di conoscenza scientifica programmata e continuata nel tempo, dell’ambiente di lavoro. Questa conoscenza deve poggiare essenzialmente su due strumenti fondamentali: il registro dei dati ambientali ed il registro dei dati biostatistici. Occorre insistere sul fatto che questi due registri non sono e non debbono essere considerati delle invenzioni calate dall’alto, ma rappresentano la traduzione in termini di acquisizioni metodologiche scientifiche rigorose della osservazione spontanea della classe operaia. Pertanto anche i loro contenuti, le loro caratteristiche, la loro condotta devono essere coerenti con L’osservazione spontanea, con il giudizio d’insieme da cui derivano e che rappresentano.
Il registro dei dati ambientali deve memorizzare le situazioni ambientali, reparto per reparto, relative ai singoli fattori che possono essere nocivi secondo il modello di analisi proposto.
A seconda delle esigenze, legate alle caratteristiche delle lavorazioni, verrà stabilita una periodicità di controllo per i fattori nocivi più importanti in ogni data lavorazione, le sedi, il momento e le modalità di determinazione. I risultati dell3e determinazioni devono essere resi noti al gruppo operaio interessato in modo efficace. Una forma potrebbe essere rappresentata da tabelloni di reparto che riportino le modalità, la sede, il tempo di registrazione ed i dati riscontrati.
Il compito del Consiglio di Fabbrica è quello di stimolare il gruppo operaio omogeneo ad organizzare, in rapporto alle indicazioni derivate dalle osservazioni spontanee, i caratteri dei due registri e degli altri strumenti di registrazione della nocività e dei suoi effetti.

Il registro dei dati biostatistici deve riportare tutti i dati relativi allo stato di salute dei lavoratori, reparto per reparto, i dati particolareggiati della visita di assunzione (anamnesi o storia dell’individuo relativa ai momenti essenziali della sua vita, sviluppo fisico e psichico, malattie sue e della famiglia, ambiente di vita e lavoro, precedenti, esame obbiettivo completo), degli esami eseguiti al momento dell’assunzione, le assenze dal lavoro, gli infortuni, le malattie e le loro cause. Il registro dei dati biostatistici deve permettere una elaborazione dei dati al fine di stabilire se esistono dei reparti nei quali siano presenti disturbi o malattie con una frequenza superiore a quella dovuta al caso, per ricercare nell’ambiente di lavoro o in singoli fattori la causa di questi disturbi o malattie.
Il registro dei dati biostatistici deve essere lo strumento essenziale per studiare le malattie da ambiente di lavoro secondo il criterio di insieme o epidemiologico.

Accanto ai registri i cui dati debbono fornire la storia delle condizioni ambientali e quella della salute ambientale, del collettivo dei lavoratori, è necessario rivendicare la istituzione di un libretto
di rischio individuale. Esso dovrà contenere tutte le informazioni sulla storia del rischio al quale, nel corso dell’intera vita lavorativa, il singolo lavoratore è stato esposto. In tale libretto, da conservarsi a cura del lavoratore, dovranno essere segnati:
1) le mansioni svolte via via durante l’attività lavorativa;
2) le caratteristiche dell’ambiente lavorativo;
3) le ore di esposizione;
4) le risultanze delle misurazioni delle sostanze nocive, cioè i dati relativi alle concentrazioni delle polveri, vapori, gas, ecc.;
5) l’intensità degli altri fattori ambientali (temperatura, umidità, rumore, ecc.);
6) tutti i risultati delle visite periodiche e preventive, i dati clinici, radiologici, di laboratorio e i risultati delle prove funzionali.
I dati registrati nel libretto di rischio potranno costituire uno strumento insostituibile per la diagnosi delle malattie professionali, in quanto consentono di correlare L’anamnesi lavorativa con i sintomi di malattia.
L’istituzione da parte del sindacato di un libretto di rischio ci sembra realizzabile immediatamente, per esempio, per agenti tossi come L’amianto, il piombo, il benzolo, il solfuro di carbonio, la silice. Questa iniziativa sindacale potrebbe dare una prima indicazione agli individui esposti all’azione di sostanze ad alta tossicità e ad azione lenta, cronica, irreversibile, una indicazione sulla condotta da tenere per prevenire delle lesioni irreversibili.
Non bisogna sottovalutare L’importanza che il libretto di rischio può avere per individuare nel singolo lavoratore anche gli effetti nocivi dei fattori del primo, del terzo e del quarto gruppo.

Il libretto sanitario, che esiste già in alcune mutue aziendali, è uno strumento di registrazione e di memorizzazione che ha valore di per sé ai fini del controllo della salute.
Esso assume un particolare valore per i disturbi accusati dai lavoratori, se collegato col libretto di rischio, sia per correlare un disturbo, che si ripete e non cede alla cura medica, con una malattia professionale, ad esempio tosse, dispnea (mancanza di fiato) con la silicosi, sia, e soprattutto, per identificare la causa di disturbi digestivi che non cedono a nessuna terapia in un ambiente lavorativo inquinato da solventi. Aver registrato la data d’inizio dei disturbi e la loro evoluzione permette di scoprire i rapporti coi periodi di esposizione e di fare, o almeno di sospettare, la diagnosi. Inoltre dobbiamo avere presente che una grande quantità di informazioni di estrema utilità vanno perdute oggi per la mancanza di un libretto sanitario; senza queste informazioni la diagnosi delle malattie aspecifiche come effetti dell’ambiente di lavoro diventa praticamente impossibile.

La parte fondamentale di un sistema efficiente di controllo della nocività ambientale è rappresentata dai due registri, quello ambientale e quello biostatistico. I due libretti, quello di rischio e quello sanitario, ripetono a livello individuale il contenuto dei due registri.
Solo a condizione di conoscere la situazione della fabbrica, è possibile intervenire per controllare, cioè per dominare la nocività. Dobbiamo avere presente che oggi noi non conosciamo con esattezza la nocività delle singole fabbriche neanche per le malattie professionali più frequenti e più gravi come la silicosi, il saturnismo, l’asbestosi, il benzolismo o il solfo-carbonismo. Possediamo soltanto dei dati generali che non permettono nessun intervento concreto. Questa mancanza di dati non ci permette né un giudizio di confronto tra la nocività di una data fabbrica e quella di una fabbrica dello stesso tipo, né la valutazione dei risultati, ai fini del controllo della nocività, di certi ammodernamenti tecnologici, né i risultati delle nostre battaglie per il miglioramento dell’ambiente di lavoro.
Solo la conoscenza realizzata con i due registri ci permetterà una valutazione seria della strada che percorreremo nella direzione di un controllo totale della nocività ambientale; anzi sarà lo strumento fondamentale per aprirci il cammino.

Per passare da una fase di denuncia ad una fase di controllo della nocività ambientale è necessario innanzitutto assicurarsi la partecipazione attiva e cosciente del gruppo operaio interessato. Infatti è solo all’interno della fabbrica che si può esplicare in modo continuato, efficiente, una azione di reale difesa del lavoro e della salute dell’uomo. È necessario realizzare dunque la «non delega».
«Non delega» significa prima di tutto non affidare al padrone e ai suoi rappresentanti il controllo degli effetti nocivi del lavoro sull’uomo.
«Non delega» significa processo ininterrotto di conoscenza della realtà ambientale, verifica dello stato di efficienza degli strumenti che assolvono al mantenimento del più alto livello di salute (dagli strumenti sindacali a quelli giuridici, al servizio medico di fabbrica, all’organizzazione della Sanità; dall’Ispettorato del Lavoro all’ENPI, ai centri di ricerca scientifica, all’INAIL, le Casse Mutue).
«Non delega» significa processo ininterrotto di conoscenza per il controllo e la contrattazione delle condizioni ambientali, da parte dei gruppi di operai interessati ad un determinato processo produttivo assieme ai delegati ed al Consiglio di Fabbrica.
«Non delega» significa che il gruppo operaio interessato ad un processo produttivo deve porsi di fronte al problema del controllo della nocività nel proprio ambiente di lavoro come il protagonista di una contestazione continua, che da nulla può essere sostituita se L’obiettivo è quello di costituire un ambiente di lavoro a misura dell’uomo, unica condizione che garantisce veramente la completa eliminazione della nocività.

L’azione sindacale per il controllo della nocività ambientale che ha come base il gruppo operaio interessato, deve prendere le mosse dalla indagine sulla realtà e quindi dalla raccolta ed utilizzazione della informazione diretta ad individuare i problemi ed elaborare le risposte rivendicative.
Bisogna sottolineare che L’indagine sulla realtà deve assolutamente e necessariamente partire dalla osservazione spontanea del gruppo operaio, cioè dal modo nel quale il gruppo vive la propria condizione di lavoro e dal modo nel quale ne deriva la richiesta di informazioni ulteriori e la elaborazione delle rivendicazioni.
Per raggiungere questi obiettivi ci si deve valere degli strumenti unitari di fabbrica. che sono:
1) il Delegato di gruppo omogeneo (di reparto, di linea, di squadra, di sezione) che deve intervenire nella contestazione e nella contrattazione di situazioni settoriali oltre che fornire indicazioni di iniziativa sindacale al consiglio.
2) il Consiglio di fabbrica, formato da tutti i delegati eletti che ha il compito di promuovere e coordinare L’azione sindacale, realizzando in primo luogo la mobilitazione dei gruppi operai interessati e la generalizzazione degli obiettivi e della lotta.
3) La Commissione ambiente, come gruppo di lavoro del Consiglio di fabbrica con ruolo esecutivo di coordinamento dei problemi dell’ambiente e della applicazione delle linee di intervento definite. È in queste istanze che in primo luogo va dibattuto il problema della nocività e delle iniziative di lotta tese a determinare soluzioni in modo diretto senza alcuna delega. Il Consiglio di fabbrica articola la sua iniziativa attraverso:
4) il Collettivo operai-medici-studenti come strumento per l’approfondimento della conoscenza delle condizioni ambientali che svolge iniziative volte ad individuarne le cause, iniziative specifiche per la prevenzione del rischio e che può rappresentare il primo momento di unità reale di organizzazione di lotta tra l’interno e l’esterno della fabbrica, di socializzazione delle scoperte e di ricomposizione di classe attraverso la conoscenza collettiva tra operai, tecnici ed intellettuali.
Perché proponiamo un collettivo operai-medici-studenti, che esiste attualmente solo in poche situazioni e che deve essere fatto nascere e crescere definendo i rispettivi ruoli, per evitare le note reciproche strumentalizzazioni?
Accanto all’importanza della osservazione spontanea del gruppo operaio omogeneo occorre sottolineare l’importanza di quella esperienza scientifica, in possesso dei tecnici dei diversi settori, che non è stata finora utilizzata appieno e nell’interesse dell’uomo che lavora a causa del condizionamento negativo da parte di chi finora ha impostato la cultura in senso classista, limitandone e mutilandone il campo d’azione e le funzioni.
Quando si parla di “non delega” del gruppo operaio omogeneo si vuole quindi anche indicare la capacità da parte del gruppo, nell’ambito del Sindacato, di realizzare un rapporto con quei tecnici, coscienti del contenuto di classe della loro cultura e che hanno la volontà di modificarlo.
Questo rapporto deve essere tale da ottenere non una loro strumentalizzazione, ma una piena utilizzazione delle loro esperienze e capacità professionali, al fine di favorirne la collocazione all’interno del movimento e quindi consentire un recupero della loro esperienza scientifica da correlare e verificare con quella del gruppo operaio omogeneo (osservazione spontanea).
In pratica questo rapporto dovrebbe permettere la conoscenza più completa degli ambienti di lavoro reali (la fonderia A, la carrozzeria B, la verniciatura X), come combinazioni dei diversi fattori nocivi, utilizzando L’osservazione spontanea del gruppo operaio che vi lavora, mediata ed arricchita dalla esperienza dei tecnici.

Il rapporto tra il gruppo operaio interessato, il proprio delegato, il Consiglio di Fabbrica e l’organizzazione sindacale è pregiudiziale per il controllo della nocività ambientale. Il sindacato
deve avere sempre presente nella sua azione che il gruppo operaio interessato al processo produttivo è l’interlocutore cui si deve sempre far riferimento al fine di consentire al gruppo stesso di acquisire tutte le informazioni e la coscienza politico-sindacale indispensabili per una capacità autonoma di contestare le condizioni di nocività ambientale.
La “validazione consensuale” e la “non delega” non si realizzano spontaneamente; solo se esse rappresentano un preciso e fermo obiettivo dell’azione sindacale, potranno diventare una realtà. All’interno della fabbrica il sindacato deve individuare i gruppi operai omogenei, fornire i modelli di analisi della realtà ambientale, strutturare su questo modello l’informazione raccolta dal gruppo in termini di osservazione spontanea, utilizzare lo strumento dei questionari, verificare attraverso alla validazione consensuale i momenti della nocività, vissuti come fondamentali dal gruppo, ricercare col gruppo le soluzioni, costruire nella contestazione e nella contrattazione il sistema di controllo permanente.
La raccolta dei dati ambientali e biostatistici, indici essenziali nella valutazione della nocività di un ambiente di lavoro, deve collegare le fabbriche dello stesso settore produttivo per confermare le ipotesi, per rafforzare la validità della contestazione.
L’elaborazione dei dati provinciali e nazionali potrà permettere al sindacato di elaborare delle soluzioni contrattuali più generali, delle soluzioni tecnologiche, delle soluzioni legislative.

La scelta di un modello di azione sindacale per il controllo della nocività ambientale deve puntare necessariamente sulla silicosi. Questa malattia professionale costituisce, per la sua frequenza e per la sua gravità, la più terribile malattia da ambiente di lavoro che si conosca da più di venticinque secoli.
Per vincere la battaglia della silicosi la classe operaia deve avere ben chiaro L’obiettivo reale: nessun operaio deve più respirare silice.
Per realizzare questo obiettivo, la battaglia non può essere rimandata ad una scadenza remota, quella di una soluzione tecnologica che garantisca un ambiente veramente privo di silice. Questo traguardo deve essere sempre presente come traguardo ultimo; nel frattempo non si può permettere che centinaia di migliaia di operai continuino ad introdurre silice nei loro polmoni ed un grande numero di essi si ammali con le gravi conseguenze che conosciamo. È necessario che ci poniamo subito dei traguardi intermedi i quali garantiscano subito la realizzazione della condizione fondamentale.
Oggi la grande maggioranza delle situazioni produttive che liberano silice provoca la silicosi sia negli operai direttamente impegnati nel processo produttivo silicogeno (obbligatoriamente esposti), sia negli operai non direttamente impegnati (non obbligatoriamente esposti) per cattiva organizzazione del lavoro o per mancanza di separazioni tra processi silicogeni e processi non silicogeni.
Il nostro primo obiettivo immediato deve essere quello di ottenere il completo isolamento dei processi silicogeni da quelli non silicogeni. Avremo già realizzato la condizione fondamentale per un gruppo notevole (forse la maggioranza) di lavoratori esposti; i lavoratori oggi esposti (non obbligatoriamente) non respireranno più silice. Per un numero limitato di soggetti (gli obbligatoriamente esposti) si può ottenere L’aumento di organici e la riduzione di orario che rende possibile, con turni di riposo frequenti in ambiente sano, L’uso della maschera al momento del rischio.
L’obiettivo fondamentale, far sì che nessuno respiri più silice e quindi non corra più assolutamente il rischio di ammalarsi di silicosi, è un obiettivo ambizioso ma realizzabile in un domani che può essere molto vicino, se il sindacato si pone decisamente e fermamente sul terreno della sua realizzazione.


Quarta parte
Il secondo gruppo di fattori nocivi

Gli effetti nocivi della polvere di silice come biossido di silicio sono rappresentati essenzialmente dalla malattia professionale, la silicosi, ma possono manifestarsi anche attraverso ad infortuni e malattie aspecifiche.
La silicosi rappresenta la malattia professionale principale: quella che fa più vittime ed una delle più gravi.
La silice si colloca tra le sostanze tossiche che determinano modificazioni croniche irreversibili sui polmoni. Per irreversibile si intende un processo di malattia che tende ad avanzare costantemente e che non può essere fatto regredire con i mezzi attualmente a disposizione nel campo medico. Essa progredisce nel tempo, sia pure più lentamente, anche quando cessa L’esposizione alla silice.
Per la polvere di silice è difficile stabilire un M.A.C.; infatti, dove esiste la silice, prima o poi comparirà la malattia specifica. La mancanza di un M.A.C. non esclude L’importanza dei diversi fattori che giocano nel determinare la rapidità di evoluzione nel tempo della malattia, quali la concentrazione, il tempo di esposizione e la maggiore o minore fatica fisica che si accompagna alla lavorazione.
È interessante notare che la silicosi deve essere considerata come la prima malattia riconosciuta in termini moderni, cioè come dovuta ad un agente naturale. Infatti Ippocrate, vissuto circa duemilacinquecento anni fa descrisse in modo dettagliato la mancanza di respiro e altri disturbi dei minatori dell’antica Grecia, precisando la precocità della morte in questi lavoratori ed attribuendo alle sostanze respirate la causa della malattia.
Oggi in Italia questa malattia professionale non solo non è scomparsa ma è in aumento, mentre malattie infettive come la poliomielite conosciute solo da decenni si possono considerare praticamente in via di eliminazione.

La via di entrata della silice nell’organismo è quella respiratoria. Le vie di passaggio dell’aria, e quindi della silice, sono la bocca ed il naso, che comunicano, in ordine, con faringe, laringe e trachea, questa con le diramazioni bronchiali principali e secondarie, il cui diametro è dell’ordine di centimetri.









I bronchi si suddividono in diramazioni sempre più piccole sino ai bronchioli il cui diametro è dell’ordine di frazioni di millimetro.
Ogni bronchiolo termina in un atrio circondato da molte aperture attorno alle quali sono raggruppati, come gli acini in un grappolo d’uva, gli alveoli o sacchi di aria terminali.
Ognuno di questi alveoli comunica direttamente con l’esterno attraverso un bronchiolo, questo con il bronco, la trachea, la faringe, ecc.
L’alveolo comunica attraverso la sua parete con il sangue che irrora, attraverso una rete capillare finissima, la parete dell’alveolo stesso.
È qui dunque che il sangue, che arriva come venoso, cioè povero di ossigeno, si arricchisce dell’ossigeno portato all’alveolo dall’aria inspirata, riparte come sangue arterioso, cioè ricco di ossigeno, verso il cuore che lo distribuisce a tutto l’organismo, portandolo ad ogni organo, tessuto o cellula.

Nel suo insieme la via seguita dalla silice è la seguente: attraverso la bocca ed il naso viene inspirata l’aria con la silice, questa passa dalla faringe alla laringe, nella trachea, di qui nei bronchi e poi nei bronchioli sino ad arrivare agli alveoli.
Il sangue venoso proveniente dalla metà destra del cuore, arriva agli alveoli, qui si arricchisce di ossigeno e riparte come arterioso verso la metà sinistra del cuore. Per meglio chiarire l’importanza della via respiratoria e la superficie di contatto del polmone con l’aria esterna, si può immaginare di aprire tutti gli alveoli e di metterli uno vicino all’altro; si otterrebbe un lenzuolo elastico della superficie di cento metri quadrati, al di sotto del quale si troverebbe un letto capillare sanguigno della stessa superficie. È ovvio che per lo scambio di ossigeno, indispensabile alla vita dell’uomo, fra l’aria dell’alveolo e il sangue è della massima importanza che questo lenzuolo sia intatto. Consideriamo ora il caso di un operaio che respiri, insieme all’aria, della polvere di silice. Questa entra nelle vie respiratorie insieme all’aria. Trattandosi di polvere e quindi di particelle ben definibili, se queste sono al di sopra dei cinque millesimi di millimetro, in genere non vengono assorbite, perché vengono fermate nei bronchi o nei bronchioli prima di arrivare all’alveolo. Infatti nell’interno dei bronchi esistono delle protezioni a forma di ciglia che arrestano e poi espellono le particelle più grandi di cinque millesimi di millimetro.
Queste particelle provocano il meccanismo della tosse che serve appunto a rimuovere le sostanze estranee o tossiche.
Le particelle inferiori ai cinque millesimi di millimetro raggiungono invece gli alveoli dove si depositano.

La polvere di silice, se di dimensioni inferiori ai cinque millesimi di millimetro, arriva sino agli alveoli dove si arresta.
Il lenzuolo elastico perde le sue capacità di lasciar passare ossigeno, i capillari vanno in parte distrutti, e il sangue non riesce più ad arricchirsi di ossigeno. Contemporaneamente le linfoghiandole del polmone si ingrossano analogamente alle linfoghiandole ascellari nel caso di una infezione ad una mano.
Le linfoghiandole ingrossate comprimono i bronchi e ostacolano lo scambio di ossigeno, rendendo più difficile il passaggio dell’aria attraverso i bronchi.



Dal punto di vista radiologico il polmone colpito da silicosi passa attraverso tre fasi fondamentali; la prima fase, reticolare, in cui una rete sottile si disegna sull’aspetto del polmone sano; in questa fase è praticamente impossibile fare una diagnosi di silicosi.
La seconda fase, micronodulare, è quella in cui compaiono immagini simili a nodi, pallini da caccia; in questa fase la silicosi è già riconoscibile.
La terza fase, a grossi nodi, è quella in cui i piccoli nodi si ammucchiano a formare grosse masse; ormai la silicosi è perfettamente riconoscibile e diagnosticabile.
La suddivisione in tre fasi radiologiche ben distinte è valida ai fini del nostro lavoro, anche se molto schematica rispetto alla complessità reale.

Rispetto alla evoluzione della malattia ci interessa mettere in evidenza che esiste una relazione fra concentrazione di silice nell’ambiente di lavoro e rapidità con cui la silicosi si aggrava. Infatti, se consideriamo costante l’esposizione, e cioè la durata della giornata lavorativa, l’elemento concentrazione assume un valore determinante.
Data l’importanza della respirazione e della quantità della respirazione e della quantità dell’aria inspirata, è ovvio che in un ambiente di lavoro con scarsa concentrazione di silice in genere possono passare molti anni prima che il processo silicotico compaia.
A scarsa concentrazione, la fase reticolare potrà apparire dopo dieci anni, quella micronodulare dopo venti anni.
In un ambiente a forte concentrazione di silice, la fase reticolare apparirà dopo cinque anni, quella micronodulare dopo dieci, e quella a grossi nodi dopo venti anni.
In un ambiente a fortissima concentrazione il processo si aggraverà maggiormente e le varie fasi si susseguiranno con una rapidità ancora maggiore.
I tempi indicati per l’evoluzione della silicosi e la sequenza delle varie fasi hanno solo valore indicativo; quello che interessa è sottolineare che quanto maggiore è la quantità di silice presente nell’ambiente di lavoro, tanto maggiore sarà il numero di operai colpiti e tanto più rapida l’evoluzione della malattia.

Un altro elemento di notevole importanza nella rapidità di comparsa della silicosi, è la fatica fisica. Quanto maggiore è lo sforzo fisico sopportato dal lavoratore, tanto maggiore è la quantità di aria respirata, e quindi la quantità di silice inspirata, cioè introdotta negli alveoli.
Consideriamo un lavoratore in condizioni di lavoro normali; egli introduce nei propri polmoni, ogni minuto, dieci litri di aria con silice; dopo otto ore di lavoro avrà inspirato quattromilaottocento litri di aria con silice.
Esaminiamo adesso un secondo lavoratore nello stesso ambiente di lavoro del primo, e quindi esposto alla stessa concentrazione di silice, ma sottoposto ad un lavoro molto più faticoso. Questo secondo lavoratore introduce nei propri polmoni ogni minuto, ben cento litri di aria con silice; dopo otto ore di lavoro quest’ultimo avrà inspirato quarantottomila litri di aria con silice. Qualunque sia la concentrazione di silice nell’ambiente, il secondo lavoratore, che esegue un lavoro pesante, introdurrà, nei polmoni ogni giorno dieci volte più silice del primo. Nel primo il processo di silicosi comparirà ed evolverà molto più lentamente che nel secondo. Se è prevedibile che nel primo la fase reticolare compaia dopo dieci anni, quella micronodulare dopo venti, nel secondo la fase reticolare è già possibile dopo cinque anni, quella micronodulare dopo dieci, quella a grossi nodi dopo venti.

Fanno parte del secondo gruppo, accanto alle polveri, anche i gas e i vapori. Tra questi è stato scelto quale esempio il benzolo. Il benzolo infatti si colloca tra le sostanze tossiche che agiscono cronicamente sul sangue, determinando reazioni irreversibili.
Uno degli effetti più evidenti è L’anemia, o diminuzione progressiva del numero dei globuli rossi nel sangue.
È stato già introdotto in questa dispensa il concetto di M.A.C. e il fatto che la concentrazione del tossico, al di sopra del M.A.C., provoca con molte probabilità le malattie professionali, il benzolismo in questo caso. L’esposizione al benzolo al di sotto dei valori di M.A.C. può portare a disturbi o a malattie di tipo aspecifico e solo con molta minor probabilità alla malattia professionale. Per il benzolo il massimo di concentrazione accettabile si colloca attorno a un quinto di milligrammo per metro cubo d’aria.

Anche per le sostanze tossiche disperse nell’atmosfera sotto forma di gas, vapori, fumi, la via più frequente di introduzione nell’organismo è l’inalazione.
Il benzolo, assieme all’aria respirata, passa attraverso la faringe, la laringe e la trachea, nei bronchi, sino alle estreme ramificazioni e agli alveoli. Qui entra in contatto diretto con il sangue; infatti, come abbiamo già detto, è attraverso gli alveoli che il sangue venoso si carica di ossigeno, ritorna come sangue arterioso al cuore, e di lì raggiunge ogni organo, tessuto e cellula. Il benzolo quindi, per tornare al caso specifico, non si ferma, come le polveri di silice, negli alveoli, ma passa, traversando la parete alveolare, nel setto capillare, si scioglie nel sangue, entra in circolo e finisce col localizzarsi in un determinato organo che può essere il sistema nervoso centrale, il fegato, il rene.

L’intossicazione da benzolo può essere acuta, subacuta o cronica.
L’intossicazione acuta è rara, può essere dovuta ad inalazione massiva di benzolo, accidentale (rottura di recipiente contenente benzolo). Il benzolo entra rapidamente nel sangue in grande quantità distribuendosi in tutto l’organismo, prevalentemente nel sistema nervoso, nel cervello soprattutto e nel fegato, determinando sonnolenza, vomito, stato comatoso, paralisi e poi morte. L’intossicazione subacuta, più facile nelle lavorazioni che espongono a vapori di benzolo, specie se la temperatura ambientale è molto elevata, provoca il passaggio in sangue di benzolo con localizzazione non solo nel cervello e nel fegato, ma anche nel midollo spinale. I sintomi più frequenti sono mal di testa, vertigine, intontimento e stato di ebbrezza. L’intossicazione cronica è la forma più frequente: il benzolo entra nel sangue e si localizza soprattutto nel midollo osseo.

Il midollo osseo si trova nello sterno e in altre ossa nelle quali, nell’individuo adulto, si formano i globuli rossi ed i globuli bianchi, costituenti essenziali del sangue.
In queste sedi il benzolo esercita un’azione tossica sul midollo, diminuendone la capacità formativa di globuli rossi e bianchi. Nella fase iniziale i disturbi sono aspecifici: mal di testa, stanchezza, giramenti di testa, mancanza di appetito, dimagrimento. Poi può comparire anche improvvisamente un quadro grave di benzolismo con emorragie, anemia grave, febbre a cui può seguire la morte. Schematicamente si può dire, e solo allo scopo di chiarire il rapporto tra concentrazione di vapori di benzolo e rischio di benzolismo, che ad una bassa concentrazione di benzolo nell’aria si ha anemia (scarsità di globuli rossi nel sangue) e scarsa quantità di derivati del benzolo nelle orine, mentre a più alte concentrazioni di benzolo nell’aria respirata corrisponde con maggior probabilità una anemia più grave ed una maggior quantità di derivati del benzolo nelle orine.

Anche nel caso del benzolo l’insorgere e l’aggravarsi della malattia specifica è condizionato in senso negativo dal lavoro fisico. La velocità di assorbimento del polmone è direttamente proporzionale alla fatica dell’individuo; la fatica fisica, quindi, viene ad assumere un ruolo di notevole importanza nel problema della quantità di tossico assorbita.
Quanto più l’individuo si affatica, tanto maggiore è la ventilazione, e, a livello dei capillari alveolari, l’assorbimento. Si ribadisce quindi il fatto che il concetto di concentrazione ammessa (M.A.C.) deve essere corretto sulla base della faticosità del lavoro. La fatica è un elemento che indubbiamente aumenta l’esposizione.
Consideriamo ora due soggetti che lavorano nello stesso ambiente, cioè respirano un’aria contenente la stessa quantità di benzolo; uno di questi svolge un lavoro leggero, la quantità di aria inspirata si aggira sui dieci litri al minuto; dopo otto ore di lavoro la quantità di tossico assorbita avrà raggiunto un determinato livello.
Il secondo svolge un lavoro pesante, la quantità di aria inspirata si aggira sui cento litri al minuto; è evidente che dopo otto ore di lavoro il secondo individuo avrà assorbito una quantità di tossico dieci volte maggiore del primo.
Nel primo soggetto, quindi è presumibile che il benzolismo si presenti dopo un certo numero di anni ed evolva lentamente; nel secondo, che il benzolismo compaia ed evolva molto più rapidamente.


Fonte: mirafiori-accordielotte.org