Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 maggio 2013, n. 12413 - Due tentativi di rapina nell'ufficio postale: mancanza delle necessarie uscite di sicurezza





Fatto



F. M. R. ha chiesto la condanna della società Poste Italiane spa al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dello "shock" e dello stress psichico che erano derivati suo carico a seguito di due tentativi di rapina verificatisi presso gli uffici postali ai quali era stata addetta quale dipendente della stessa società.

Il Tribunale di Catania ha accolto la domanda con sentenza che, sull'appello della società Poste, è stata confermata dalla Corte d'appello della stessa città, che ha ritenuto che in entrambe le occasioni fosse riscontrabile l'omissione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie cautele volte ad assicurare la sicurezza dei dipendenti rispetto ad eventi criminosi come quelli in esame. Ha rilevato in particolare la Corte territoriale che non era stato provato che i due uffici fossero dotati di uscite di sicurezza idonee a consentire l'allontanamento delle persone dai locali in caso di pericolo e, con riferimento al primo dei due episodi, che l'eventuale incendio del bancone, che i rapinatori avevano cosparso di benzina, avrebbe impedito ai dipendenti di raggiungere la (unica) via di uscita.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Poste Italiane spa affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso F. M. R..

Diritto



1.- Con il primo motivo si denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata circa un fatto decisivo per il giudizio, individuato nella ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito, che non avrebbe considerato che la rapina in un ufficio postale costituisce un evento prevedibile, ma al tempo stesso in tutto o in parte inevitabile, e che in entrambe le circostanze la mancata consumazione delle rapine era ascrivibile proprio alle misure dì sicurezza di cui erano stati dotati gli uffici, non avendo le stesse consentito ai malviventi la consumazione del reato. 2.- Con il secondo articolato motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all'art. 2087 c.c., 2697 c.c. in relazione all'art. 2087 c.c. e 2697 c.c. in relazione all'art. 2054 c.c., richiamando i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., e di prova del danno verificatosi a carico del lavoratore, e chiedendo a questa Corte di stabilire se "la responsabilità risarcitoria di cui all'art. 2087 c.c. deve essere esclusa allorquando il danno lamentato non possa essere ascritto con carattere eziologico di esclusività all'evento pur prevedibile, ma inevitabile, verificatosi malgrado il datore di lavoro abbia adottato tutte le cautele prescritte per la particolare tipologia di attività".

3.- Tali motivi non possono trovare accoglimento. Il primo motivo, con il quale si denuncia il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la mancata adozione, da parte della società, delle cautele necessarie per garantire la sicurezza dei dipendenti dei due uffici postali in questione, per quanto riguarda in particolare la predisposizione di idonee vie di uscita all'esterno, è privo di fondamento. Ed invero, anche a prescindere dalla considerazione che l'illustrazione del motivo non contiene la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria", così come prescritto dal secondo comma dell'art. 366 bis c.p.c. (cfr. ex plurimis Cass. n. 8555/2010), deve ribadirsi che, come è stato più volte affermato da questa Corte, il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c, ricorre soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorché il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009). E' stato altresì precisato che in tema di prova spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità dì ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009).

4.- Nella specie, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato il proprio convincimento in ordine alla carenza di idonee misure di sicurezza per i dipendenti degli uffici postali dove si erano verificati i due tentativi di rapina - per quanto riguarda in particolare l'assenza delle uscite di sicurezza di cui avrebbero dovuto essere dotati gli stessi uffici -, osservando che, con riferimento al primo dei due uffici, l'assunto della società appellante non aveva trovato riscontro nelle deposizioni testimoniali, in quanto due testimoni avevano escluso la presenza dì una porta dì servizio all'epoca della tentata rapina, mentre era risultato provato che lo stesso ufficio aveva subito una ristrutturazione in epoca successiva. La tesi della società risultava, inoltre, "palesemente smentita" anche dal contenuto della denuncia di infortunio presentata aU'lnail, nella quale veniva indicato che il detto ufficio era sprovvisto di un'uscita di emergenza, precisandosi che l'eventuale incendio del bancone (che i rapinatori avevano cosparso di benzina) avrebbe impedito ai dipendenti di raggiungere la (unica) via di uscita. Nessun idoneo elemento di prova in ordine all'esistenza di idonee "vie di fuga" per il personale era stato offerto dalla società neppure con riferimento all'altro ufficio dove si era verificato il secondo tentativo di rapina, avendo i giudici di merito rilevato che la planimetria prodotta dall'appellante era priva di data certa e non consentiva, quindi, una affidabile ricostruzione dello stato dei luoghi all'epoca della tentata rapina.

A fronte di una sentenza così motivata, la società ricorrente, lungi dal denunciare lacune o effettive contraddizioni logiche nella motivazione che sorregge l'accertamento di fatto sul quale è fondata la decisione impugnata, si è limitata a prospettare - inammissibilmente - una diversa ricostruzione dei medesimi fatti (per quanto riguarda, in particolare, la presenza delle uscite di sicurezza), proponendone un giudizio valutativo parimenti diverso. E tutto ciò a prescindere dalla pur assorbente considerazione che la società neppure ha riportato nel ricorso per cassazione il contenuto integrale delle deposizioni testimoniali che sarebbero state erroneamente o non adeguatamente valutate dal giudice di merito ai fini dell'accertamento dell'adempimento, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di adottare tutte le misura necessarie a garantire la tutela dell'integrità fisica e morale dei lavoratori, essendosi limitata a richiamare, peraltro non nella sua interezza, solo il contenuto di alcune delle deposizioni testimoniali che non sarebbero state adeguatamente valutate dallo stesso giudice (con violazione, quindi, del principio dì autosufficienza del ricorso per cassazione, in forza del quale il ricorrente che deduca l'omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie ha l'onere dì specificare, trascrivendole integralmente, le prove non o male valutate, nonché di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse: cfr. explurimis Cass. n. 4205/2010, Cass. n. 3507/2010). Il primo motivo deve essere pertanto rigettato.

5.- Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall'art. 366 bis c.p.c. applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

6.- Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c, applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall'art. 360, primo comma, numeri 1 ), 2), 3) e 4) c.p.c, l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d'inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi dì fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alta fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell'esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l'accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010). Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi o sia inconferente rispetto al decisum (Cass. n. 17064/2008, Cass. sez. unite n, 11650/2008), ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d'impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia formulato in modo del tutto generico (Cass. sez. unite n. 20360/2007). Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c), l'illustrazione del motivo deve contenere, a pena d'inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

7.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell'art. 366 bis c.p.c, non può ritenersi sufficiente - perché possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione - la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall'esposizione del motivo di ricorso, né che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell'art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell'esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al d.lgs. n. 40/2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E' stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l'individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta dì accoglimento del motivo o nell'interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regala iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009).

8.- Nella fattispecie in esame, il quesito formulato dalla ricorrente in relazione al secondo motivo di ricorso, come sopra riportato ("Vero è che la responsabilità risarcitoria di cui all'art. 2087 c.c.. deve essere esclusa allorquando il danno lamentato non possa essere ascritto con carattere eziologico di esclusività all'evento pur prevedibile, ma inevitabile, verificatosi malgrado il datore di lavoro abbia adottato tutte le cautele prescritte per la particolare tipologia di attività"), risulta del tutto astratto e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, risolvendosi, in sostanza, nella mera enunciazione astratta del principio invocato, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto, rispetto ad esso, del concreto accertamento operato dai giudici di merito, e deve pertanto ritenersi inammissibile.

9.- In definitiva, il ricorso non può trovare accoglimento. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate facendo riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (arti. 41 e 42 d.m. cit.).

P.Q.M.


Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 40,00 oltre € 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.