Cassazione Civile, Sez. Lav., 29 maggio 2013, n. 13407 - Infortunio mortale ed esercizio di attività pericolose





Fatto

 


La Corte d'appello di Venezia, riformando la sentenza del Tribunale di Rovigo, respinta con sentenza non definitiva del 16.12.2008/2.4.2009 l'eccezione di giudicato, all'esito dell'istruttoria ed in parziale accoglimento dell'appello principale, respinti gli appelli incidentali, ha condannato in solido tra loro la s.n.c. F.lli M. di M. A. e C. ed i soci A. M., E. M., V. M. e G. M. al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla morte di A. M. in favore degli appellanti N. A. (€ 97.456,00), R. e C. M. ( € 38.412,84 ciascuna), V. e L. M. ( € 64.021,41 ognuno), oltre interessi dal luglio 2009 al saldo. Inoltre, respinte le ulteriori domande da loro proposte, ha condannato la F.S. s.p.a. a tenere indenne la s.n.c. F.lli M. di quanto dalla stessa dovuto per i titoli esposti, detratto quanto già corrisposto in favore dell'INAIL, e nei limiti del massimale della polizza.

Per la cassazione di entrambe le sentenze ha proposto ricorso la società F.lli M. di M. A. e C. s.n.c. ed i soci A. M., E. M., V. M. e G. M. sulla base di due motivi, uno avverso la sentenza non definitiva ed uno avverso quella definitiva.

Hanno resistito con controricorso sia N. A., R., C., V. e L. M. che la F.S. s.p.a..

Tutte le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Diritto

 


La vicenda processuale.

Trae origine da un incidente sul lavoro, avvenuto il 20.12.1988, quando A. M. morì in seguito alle ferite riportate in occasione dell'esplosione di materiali pirici, avvenuta nella fabbrica della società F.lli M. n.c. di cui era socio lavoratore.

Il processo penale si concluse con una sentenza di patteggiamento da parte dei soci della società F.lli M..

Successivamente, con citazione del 16.10.1992, N. A. e gli altri eredi di A. M. convennero in giudizio davanti al Tribunale civile di Rovigo M. A. per sentirlo condannare al risarcimento dei danni sofferti a seguito della morte del loro congiunto. Il contraddittorio venne integrato nei confronti della società e degli altri soci, i quali costituendosi negarono ogni addebito, oltre che nei confronti della società assicuratrice Fondiaria Assicurazioni che eccepì la non operatività della polizza per il caso di mancata osservanza delle norme sulla sicurezza del lavoro e, comunque, insistette per la limitazione della sua responsabilità entro il massimale.

Il Tribunale di Rovigo con la sentenza n. 292 del 12.6.1998, passata in giudicato, ritenuta infondata l'eccezione di incompetenza per materia in favore del giudice del lavoro, respinse tutte le domande proposte.

Con successivo atto di citazione del 30.1.2001 gli stessi attori convennero ancora una volta la società F.lli M. ed i suoi soci davanti a Tribunale di Rovigo per sentirli condannare al risarcimento del danno conseguente alla morte del loro congiunto. Il Tribunale, con la sentenza del 10.3.2003 n. 201, rilevò la propria incompetenza, per essere competente il giudice del lavoro. Il processo venne riassunto tempestivamente davanti allo stesso Tribunale, quale giudice del lavoro, e furono riproposte le medesime domande.

Le parti resistenti, si costituirono eccependo preliminarmente che la domanda era coperta dal già intervenuto giudicato ed insistendo comunque per il rigetto.

In tal senso la sentenza del Tribunale del 31.1.2006.

La Corte d'Appello di Venezia investita del gravame, al contrario, ha escluso che si fosse formato un giudicato sulla domanda di risarcimento, in base alle seguenti considerazioni:

La sentenza del Tribunale di Rovigo n. 292 del 1998 ha inquadrato la generica domanda risarcitoria formulata nello schema della responsabilità ex art. 2043 c.c. e non nei termini prospettati nel giudizio pendente della responsabilità per attività pericolosa disciplinata dall'art. 2050 c.c., applicando, per l'effetto, il conseguente regime risarcitorio.

Non risultando mai prima formulata la domanda ex art. 2050 c.c. non si è verificata nessuna preclusione. La domanda risarcitoria collegata all'esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.) è diversa ed autonoma nei suoi presupposti di fatto (l'esercizio di un'attività pericolosa) rispetto a quella generica per fatto illecito ex art. 2043 c.c.

Erroneamente il giudice di primo grado, superando il giudicato formatosi sulla qualificazione giuridica della domanda originariamente proposta dai ricorrenti, ha affermato che, sino da allora i ricorrenti avevano agito ai sensi dell'art. 2050 c.c., laddove invece la sentenza del 1998 aveva identificato la causa petendi nell'art. 2043 applicandone il relativo regime probatorio e rigettando la domanda. Al riguardo ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione che afferma che il giudicato si forma anche sulla qualificazione giuridica della domanda laddove questa abbia condizionato, come nella specie, l'impostazione e la definizione della indagine di merito.

Con la sentenza definitiva ha riformato la sentenza di primo grado ed accolto, in parte, l'appello principale riconoscendo il risarcimento del solo danno non patrimoniale e rigettando gli appelli incidentali proposti dalla società e dal socio M. G. per le ragioni di seguito esposte:

Nella sentenza definitiva, qualificata la domanda proposta al giudice del lavoro come richiesta di risarcimento del danno ex art. 2050 ed ai sensi dell'art. 2087 c.c. - nella legittima concorrenza della responsabilità extracontrattuale con quella contrattuale - ha applicato il relativo regime probatorio, che pone sulla parte lesa l'onere di dimostrare il nesso di causalità tra esercizio dell'attività ed evento dannoso e sulla parte datoriale l'onere della prova cd. liberatoria.

In particolare, in adesione all'orientamento giurisprudenziale più recente della Cassazione (cfr. Cass. s.u. n. 141/2006), ha ritenuto che la natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c. oneri il creditore della prova del danno e della sua riconducibilità al titolo dell'obbligazione, assolto mediante la mera allegazione dell'inadempimento del datore di lavoro sul quale grava, invece, l'onere di dimostrare l'adozione di tutte le misure di sicurezza idonee ad evitare l'evento lesivo e che il fatto è stato causato da un comportamento anomalo o abnorme del lavoratore, idoneo ad escluderne la responsabilità oggettiva.

In più occasioni questa Corte ha ricordato che la responsabilità per l'esercizio di attività pericolose implica l'accertamento di presupposti di fatto diversi, almeno in parte, da quelli propri della responsabilità per fatto illecito prevista dalla norma generale dell'art. 2043 cod. civ..

Le caratteristiche ed i presupposti dell'azione promossa ai sensi dell'art. 2050 attengono innanzi tutto alla qualificazione dell'attività svolta come pericolosa (è noto che tali sono quelle che per loro stessa natura od anche per i mezzi impiegati rendono probabile e non semplicemente possibile il verificarsi di un evento dannoso) (cfr. Cass., n. 20334/2004 1954/2003; Cass., n. 8148/2002; Cass., n. 2220/2000; Cass., n. 5341/98; Cass., n. 12193/97). Dalle attività pericolose, che importano responsabilità ex art. 2050 cod. civ., devono essere infatti tenute distinte quelle normalmente innocue, che possono diventare pericolose per la condotta di chi le esercita e che comportano responsabilità secondo la regola generale dell'art. 2043 cod. civ.. Il giudizio di pericolosità deve essere espresso dal giudice di merito con valutazione incensurabile in cassazione se congrua logica ed adeguatamente argomentata, e si fonda su una prognosi postuma che deve essere effettuata non già sulla base dell'evento dannoso effettivamente verificatosi, ma piuttosto facendo uso delle nozioni della comune esperienza e tenendo conto delle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell'esercizio dell'attività e che erano conosciute o conoscibili dall'agente in considerazione del tipo di attività esercitata (Cass., n. 15288/2002; Cass., n. 3471/99).

A ciò si aggiungano le peculiarità in tema di onere della prova ed i limiti della responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. Al creditore compete di provare lo svolgimento dell'attività e l'evento dannoso. Grava sul debitore l'onere di provare l'interruzione del nesso di causalità tra l'attività pericolosa e l'evento (che si presume) che, tuttavia, è confinata nel fortuito, vale a dire nel fatto imprevedibile o eccezionale che può essere, evidentemente, riferito anche alla condotta dello stesso danneggiato.

La prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, ex art. 2050 c.c., richiesta al debitore è, per costante giurisprudenza di questa Corte, "particolarmente rigorosa" nel senso che: "La presunzione di responsabilità contemplata dall'art. 2050 c.c. per attività pericolose può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, e cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno: pertanto non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di avere impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate" (tra le tante Cass. 18/7/2011 n. 15733 ma già 4 giugno 1998 n. 5484).

Esaminati i presupposti dell' azione risarcitoria e gli elementi peculiari che concorrono a definire l'azione di responsabilità per i danni da esercizio di attività pericolosa, rispetto a quelli propri della responsabilità aquiliana, emerge evidente che la domanda che abbia ad oggetto l'accertamento del primo tipo di responsabilità è diversa e nuova rispetto a quella che ha per oggetto la responsabilità ordinaria per fatto illecito (cfr. tra le altre Cass. 26516/2009; n. 1195/2007; n. 8095/2006).

La diversità tra gli elementi costitutivi del diritto al risarcimento del danno in relazione alle diverse azioni esperite fa sì che il giudicato formatosi rispetto ad un'azione qualificata dal giudice di merito come di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. non possa estendersi all'azione successivamente esercitata per danno da attività pericolosa, poiché quest'ultima non trova fondamento in precedenti logici, essenziali e necessari della prima pronuncia ma si basa su presupposti del tutto diversi.

Le censure avverso la sentenza definitiva.

La sentenza definitiva è censurata solo con riguardo alla avvenuta limitazione del massimale di polizza applicabile.

Sostengono i ricorrenti che in violazione dell'art. 360 n. 5 e dell'art. 111 Cost. la Corte d'appello sarebbe venuta meno al suo dovere di motivare sull'individuazione dei limiti di operatività della garanzia invocata dalla società.

Evidenziano i ricorrenti che era stato chiesto alla società di assicurazione di manlevarli per l'intera somma da pagare. La Corte territoriale, invece, con affermazione generica, avrebbe limitato la garanzia entro il massimale senza, però, chiarire se si dovesse fare riferimento, come preteso, al massimale per responsabilità civile verso i terzi (pari a £ 1.000.000.000 per ogni danneggiato) e non, piuttosto, a quello di £ 300.000.000 indicato in polizza per la responsabilità verso i dipendenti.

Chiede allora a questa Corte se "l'omesso esame della domanda di individuatone del massimale di garanzia applicabile tra quelli dedotti nel contratto di assicuratone per la responsabilità civile verso terzi, versato agli atti di causa e l'omesso esame della domanda di rifusione delle spese sostenute dalla società assicurata per resistere alle pretese dei danneggiati sulla base delle clausole contrattuali pattuite".

La censura è inammissibile perché carente sotto il profilo dell'autosufficienza.

Non è superfluo in proposito ricordare che in tempi recenti le sezioni unite di questa Corte, pur avendo chiarito che l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, mediante la produzione dello stesso, e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369 c.p.c, comma 3, hanno tuttavia precisato che resta ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, del contenuto degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari al loro reperimento (cfr. Cass. 3 novembre 2011, n. 22726)".

I ricorrenti, invece, nel ricorso omettono del tutto di indicare il contenuto della polizza assicurativa sulla base della quale si fonderebbe la censurata pronuncia, asseritamente limitativa della responsabilità in garanzia della società di assicurazione, sulla base di un carente esame dei massimali di polizza applicabili.

Alle pagine 35 e 63 del ricorso ne vengono riprodotte solo alcune espressioni estrapolate dalla memoria di costituzione e nella stessa reinterpretate nel senso preteso dai ricorrenti.

Inoltre nell'elenco degli allegati, contenuto alla fine del ricorso, si fa riferimento, in maniera generica, al deposito di "copia degli atti processuali e documenti citati in premessa sub. doc 1-22" e nel ricorso, si richiama genericamente un doc. 20 senza alcun riferimento puntuale al suo contenuto.

In tal modo risulta violato il disposto dell'art. 366 n. 6 c.p.c. che onera il ricorrente della indicazione degli atti e dei documenti sui quali si fonda il ricorso. In conclusione la censura sul punto va dichiarata inammissibile, anche con riguardo alla pretesa manleva delle spese, per le medesime ragioni già esposte.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno regolate secondo il criterio della soccombenza.


P.Q.M.



Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, liquidate in € 50 per esborsi ed in € 3500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge, in favore di ciascuna delle parti resistenti.