Paolo Pascucci

Dopo la legge n. 123 del 2007.
Prime osservazioni sul Titolo I del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (*) (**)

Parte prima Parte seconda Parte terza


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7. Il sistema istituzionale e l’attività di vigilanza
Il d.lgs. n. 81 del 2008 pare aver recepito le sollecitazioni del legislatore del 2007, sia come delegante sia come diretto riformatore, per la definizione di un credibile ed efficace sistema istituzionale [203].
La sensibilità del legislatore delegato su questi aspetti può cogliersi già dalla struttura complessiva del Titolo I del decreto, costruito secondo un’architettura per così dire “costituzionale”: dapprima i principi generali; a seguire il sistema (“pubblico”) istituzionale; poi il sistema (“privato”) di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro; infine l’apparato sanzionatorio. Uno schema completamente differente da quello del Titolo I del d.lgs. n. 626 del 1994, nel quale, in particolare, le disposizioni sul sistema istituzionale erano collocate in coda allo stesso Titolo e quelle più significative erano ricomprese in un Capo (il VII) dove la stessa rubrica (“Disposizioni concernenti la pubblica amministrazione”), quasi che si trattasse di una sorta di normativa omnibus, indicava quantomeno una scarsa cura di quel legislatore per gli aspetti istituzionali. Se, per un verso, sarebbe eccessivo ed ingeneroso affermare che la non particolare attenzione del legislatore del 1994 per il sistema istituzionale sia stata la causa dell’applicazione spesso deficitaria di alcune delle norme contenute in quel capo (si pensi ai Comitati regionali di coordinamento), per un altro verso non può non convenirsi sulla importanza strategica di un solido sistema istituzionale, capace di ideare e progettare le politiche della prevenzione, di avviarne l’implementazione e di sostenerne e favorirne la corretta attuazione anche mediante un sistema di controllo razionale ed efficace.
Di tutto ciò c’è ampia traccia nel nuovo decreto che, non a caso, intitola il Capo II del Titolo I come “Sistema istituzionale”, là dove la parola più importante in tale espressione non è tanto “istituzionale”, ma “sistema”, perché il legislatore vuole appunto che le istituzioni operino in un sistema, in continuo raccordo fra loro. Un sistema, a quanto pare di capire, finalizzato a favorire lo sviluppo di altri sistemi o sottosistemi, come quelli che operano istituzionalmente a livello territoriale, o come quelli finalizzati a valorizzare la qualità delle imprese. Per altro verso, la parola “istituzionale” non deve essere intesa come se le norme del Capo II riguardassero esclusivamente le “pubbliche amministrazioni”, perché in quel sistema un ruolo importante è svolto anche dalle parti sociali.


7.1. Il nuovo Comitato nazionale
Come anticipato, la legge delega ha previsto una complessa gamma di criteri per l’attuazione di un sistema istituzionale.
Attuando la prima parte del criterio indicato nell’art. 1, comma 2, lett. i, della l. n. 123 del 2007 [204] – realizzazione di un coordinamento su tutto il territorio nazionale delle attività e delle politiche in materia di salute e sicurezza sul lavoro, finalizzato all’emanazione di indirizzi generali uniformi e alla promozione dello scambio di informazioni anche sulle disposizioni italiane e comunitarie in corso di approvazione – l’art. 5 del nuovo decreto ha istituito [205], presso il Ministero della salute, il nuovo Comitato con compiti di indirizzo e valutazione delle politiche attive e di coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro. A tale Comitato, presieduto dal Ministro della salute e composto da rappresentanti dei Ministeri della salute, del lavoro, dell’interno, e delle Regioni e Province autonome, partecipano, con funzione consultiva, rappresentanti di INAIL, ISPESL e IPSEMA. È inoltre prevista, in alcuni casi [206], la consultazione preventiva delle parti sociali ed una verifica almeno annuale delle azioni intraprese [207].
Tale Comitato costituisce la “cabina di regia” dell’intero sistema, di importanza strategica sia per quanto concerne l’azione politica sia per quanto attiene al coordinamento delle attività di vigilanza e controllo: confermandosi quanto anticipato in precedenza sull’attuazione “concorrente” della disciplina, il Comitato deve assicurare la più completa attuazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni. In base al comma 3 dell’art. 5, il Comitato: a) stabilisce le linee comuni delle politiche nazionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro; b) individua obiettivi e programmi dell’azione pubblica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori; c) definisce la programmazione annuale in ordine ai settori prioritari di intervento dell’azione di vigilanza, i piani di attività e i progetti operativi a livello nazionale, tenendo conto delle indicazioni provenienti dai Comitati regionali di coordinamento e dai programmi di azione individuati in sede comunitaria; d) programma il coordinamento della vigilanza a livello nazionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro; e) garantisce lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere l’uniformità dell’applicazione della normativa vigente; f) individua le priorità della ricerca in tema di prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori [208].


7.2. La Commissione consultiva permanente
La seconda parte del criterio indicato nell’art. 1, comma 2, lett. i, della l. n. 123 del 2007 – ridefinizione dei compiti e della composizione, da prevedere su base tripartita e di norma paritetica e nel rispetto delle competenze delle Regioni e delle Province autonome di cui all’art. 117 Cost., della Commissione consultiva permanente per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro e dei Comitati regionali di coordinamento – ha trovato attuazione negli artt. 6 e 7 del nuovo decreto.
L’art. 6 rivisita, per quanto riguarda composizione e compiti, la già nota Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro [209] che ha sede presso il Ministero del lavoro, un cui rappresentante la presiede, ed è composta, in base ad una logica tripartita, da rappresentanti di vari Ministeri [210], delle Regioni e delle Province autonome e da esperti designati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale [211]. La Commissione, che può istituire comitati speciali permanenti, si avvale della consulenza degli istituti pubblici con competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro e può richiedere la partecipazione di esperti nei diversi settori di interesse. Ai suoi lavori possono partecipare anche rappresentanti di altre amministrazioni centrali dello Stato in ragione di specifiche tematiche inerenti alle relative competenze [212].
Rispetto a quanto previsto dall’art. 26 del d.lgs. n. 626 del 1994 sui compiti della Commissione, il nuovo decreto pare aver posto un accento particolare su quelli attinenti alla promozione della cultura della prevenzione ed alla qualificazione delle relative azioni. In tal senso vale la pena di ricordare: la definizione delle attività di promozione e le azioni di prevenzione di cui all’art. 11; la validazione delle buone prassi; l’elaborazione delle procedure standardizzate di effettuazione della valutazione dei rischi che varranno per le piccole imprese; la definizione di criteri finalizzati alla definizione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi; la valorizzazione degli accordi sindacali e dei codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che, in considerazione delle specificità dei settori produttivi di riferimento, orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente; la promozione della considerazione della differenza di genere in relazione alla valutazione dei rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione; l’indicazione dei modelli di organizzazione e gestione aziendale ai fini di cui all’art. 30.
Questa parziale mutazione delle funzioni della Commissione è stata vivacemente criticata, specialmente per quanto concerne la perdita degli originari connotati tecnici dell’organismo [213], stigmatizzandosi altresì la “concentrazione politico-sindacale della provenienza dei suoi membri” [214]. Se è indubbiamente vero che la “nuova” Commissione ha un volto assai meno “regolativo” che in passato e più incline ad una dimensione “promozionale”, è altresì vero che non tutti i compiti più strettamente tecnici sono scomparsi [215], non potendosi in ogni caso trascurare che la Commissione si inserisce ora in un “nuovo” sistema istituzionale, nel quale campeggia il Comitato di cui all’art. 5 [216] e nel quale trovano nuova linfa (almeno così si spera) i Comitati regionali di coordinamento, senza peraltro dimenticare il ruolo tecnico-interpretativo che sarà svolto dalla Commissione per gli interpelli di cui all’art. 12. Come spesso accade, si tratta di intendersi: la Commissione è sempre “consultiva”, ma la consultazione che essa è ora chiamata a svolgere nel nuovo sistema, più promozionale che regolativa, non può non risentire di tale aspetto.
Quanto alla critica relativa alla accentuata presenza sindacale nell’organismo – che più in generale potrebbe leggersi anche come una critica alla logica del tripartitismo voluto dalla legge delega [217] –, non si deve sottovalutare come, attraverso il “modello partecipativo trilatero” (che tiene insieme istituzioni centrali e locali e parti sociali) il legislatore delegante abbia tentato di assumere “quale punto di riferimento quello della gestione integrata e non parcellizzata dei rischi nei luoghi di lavoro” [218]. In tal senso, il ruolo delle parti sociali in seno alla Commissione può essere particolarmente incisivo in relazione a quel “nuovo compito” consistente nella valorizzazione degli accordi sindacali e dei codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, che, in considerazione delle specificità dei settori produttivi di riferimento, orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale [219], dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente [220].


7.3. I Comitati regionali di coordinamento
Sulla scorta della stessa seconda parte del criterio di delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. i, della l. n. 123 del 2007, l’art. 7 prevede che, al fine di realizzare una programmazione coordinata di interventi nonché uniformità degli stessi ed il necessario raccordo con il Comitato di cui all’art. 5 e con la Commissione consultiva permanente, presso ogni Regione e Provincia autonoma operi un Comitato regionale di coordinamento [221].
Diversamente da quanto accade per la Commissione consultiva permanente, il d.lgs. n. 81 del 2008 non provvede direttamente a ridefinire compiti e composizione dei Comitati regionali di coordinamento (già previsti dall’art. 27 del d.lgs. n. 626 del 1994), ma rinvia al d.P.C.M. del 21 dicembre 2007 [222], emanato ai sensi dell’art. 4 della l. n. 123 del 2007 [223]. È questa una di quelle ipotesi di interazione tra criteri di delega e norme di diretta attuazione della l. n. 123 del 2007, che ha indubbiamente agevolato il compito del legislatore delegato.
Il Comitato regionale di coordinamento [224], istituito presso ogni Regione e Provincia autonoma, svolge i propri compiti di programmazione e di indirizzo delle attività di prevenzione e vigilanza nel rispetto delle indicazioni e dei criteri formulati a livello nazionale dai Ministeri della salute e del lavoro e dalle Regioni e Province autonome al fine di individuare i settori e le priorità d’intervento delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro [225].
Il Comitato svolge le seguenti funzioni: a) sviluppa, tenendo conto delle specificità territoriali, i piani di attività e i progetti operativi individuati dalle amministrazioni a livello nazionale; b) svolge funzioni di indirizzo e programmazione delle attività di prevenzione e di vigilanza e promuove l’attività di comunicazione, informazione, formazione e assistenza operando il necessario coordinamento tra le diverse istituzioni; c) provvede alla raccolta ed analisi delle informazioni relative agli eventi dannosi e ai rischi, proponendo soluzioni operative e tecniche atte a ridurre il fenomeno degli infortuni e delle malattie da lavoro; d) valorizza gli accordi aziendali e territoriali che orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, ai fini del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente [226].
Il d.P.C.M. del 21 dicembre 2007 ha disciplinato anche l’esercizio di poteri sostitutivi nei casi di: a) mancata costituzione del Comitato; b) reiterata mancata convocazione del Comitato nei termini previsti; c) inadempimento da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici componenti il Comitato. Nelle prime due ipotesi, i Ministeri della salute e del lavoro, previo invito ad adempiere, assumono tutte le iniziative necessarie per assicurare gli adempimenti. Nella terza ipotesi, il Presidente del Comitato, previo invito ad adempiere, informa l’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata al componente inadempiente affinché assuma tutti gli atti necessari all’esercizio dei poteri sostitutivi.


7.4. Il Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro
La legge delega aveva giustamente sottolineato l’importanza della acquisizione e della circolazione dei dati e delle informazioni per la realizzazione di un efficace sistema di prevenzione. L’art. 1, comma 2, lett. n, prevedeva la definizione di un assetto istituzionale fondato sull’organizzazione e circolazione delle informazioni, delle linee guida e delle buone pratiche utili a favorire la promozione e la tutela della salute e sicurezza sul lavoro, anche attraverso il sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro, che valorizzasse le competenze esistenti ed eliminasse ogni sovrapposizione o duplicazione di interventi [227]. Di qui l’art. 8 del d.lgs. n. 81 del 2008, che istituisce il Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP) [228] – costituito dai Ministeri del lavoro, della salute e dell’interno, dalle Regioni e Province autonome, dall’INAIL, dall’IPSEMA e dall’ISPESL, con il contributo del CNEL – con lo scopo di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate. La partecipazione delle Regioni al SINP – senza la quale sarebbe arduo pensare ad un efficace sistema informativo – costituisce una ulteriore dimostrazione della volontà del legislatore delegato di implementare la nuova normativa nel rispetto del principio di leale collaborazione [229].
Allo sviluppo del SINP – la cui gestione tecnica ed informatica è garantita dall’INAIL, che, a tal fine, è titolare del trattamento dei dati – concorrono gli organismi paritetici e gli istituti di settore a carattere scientifico, ivi compresi quelli che si occupano della salute delle donne. Come previsto dalla delega, anche le parti sociali partecipano al SINP attraverso la periodica consultazione in ordine ai flussi informativi, i cui contenuti devono riguardare almeno: il quadro produttivo ed occupazionale; il quadro dei rischi; il quadro di salute e sicurezza dei lavoratori; il quadro degli interventi di prevenzione delle istituzioni preposte; il quadro degli interventi di vigilanza delle istituzioni preposte. La diffusione delle informazioni specifiche è finalizzata al raggiungimento di obiettivi di conoscenza utili per le attività dei soggetti destinatari e degli enti utilizzatori. I dati sono resi disponibili ai diversi destinatari e resi pubblici nel rispetto della normativa sulla privacy.


7.5. Gli enti pubblici nazionali
Fra le righe dell’art. 1, comma 2, lett. q, della l. n. 123 del 2007, si parla anche del riordino del sistema delle amministrazioni e degli enti statali aventi compiti di prevenzione, formazione e controllo in materia, prevedendo criteri uniformi ed idonei strumenti di coordinamento.
L’art. 9 del nuovo decreto ha così ridefinito alcuni compiti di ISPESL, INAIL e IPSEMA, i quali, come enti pubblici nazionali competenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, esercitano le proprie attività, anche di consulenza, in una logica di sistema con i Ministeri della salute e del lavoro, le Regioni e le Province autonome. La predetta ridefinizione avviene, da un lato, mediante la previsione di una serie di attività che i tre istituti svolgono in forma coordinata, e dall’altro lato, tramite l’assegnazione di specifici compiti ad ognuno di essi.
Tra le numerose attività che i tre istituti sono chiamati a svolgere in coordinamento tra loro [230], va segnalata quella di consulenza, in particolare alle medie, piccole e micro [231] imprese, per la quale vige un particolare regime di incompatibilità: infatti, l’art. 9, comma 3, prevede, da un lato, che l’attività di consulenza non possa essere svolta dai funzionari degli istituti che svolgono attività di controllo e verifica degli obblighi nelle materie di competenza degli istituti medesimi, e, dall’altro lato, che i soggetti che prestano attività di consulenza non possano, per un periodo di tre anni dalla cessazione dell’incarico, esercitare attività di controllo e verifica degli obblighi nelle materie di competenza degli istituti medesimi. Si prevede inoltre che, nell’esercizio dell’attività di consulenza non vi è l’obbligo di denuncia di cui all’art. 331 c.p.p. o di comunicazione ad altre autorità competenti delle contravvenzioni rilevate ove si riscontrino violazioni alla normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fermo restando che l’esercizio dell’attività di consulenza non esclude o limita la possibilità per l’ente di svolgere l’attività di controllo e verifica degli obblighi nelle materie di competenza degli istituti medesimi [232].
Per quanto attiene ai compiti specifici di ogni istituto, l’INAIL, con la finalità di ridurre il fenomeno infortunistico e ad integrazione delle proprie competenze quale gestore dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, svolge i seguenti compiti [233] (oltre a quanto previsto negli altri articoli del d.lgs. n. 81 del 2008): a) raccoglie e registra, a fini statistici e informativi, i dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento; b) concorre, alla realizzazione di studi e ricerche sugli infortuni e sulle malattie correlate al lavoro, coordinandosi con il Ministero della salute e con l’ISPESL; c) partecipa alla elaborazione, formulando pareri e proposte, della normazione tecnica in materia; d) eroga, previo trasferimento delle necessarie risorse da parte del Ministero del lavoro, le prestazioni del fondo di cui all’art. 1, comma 1187, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) [234].
L’art. 9, comma 5, non si limita a declinare le numerose attività dell’ISPESL, ma ne definisce anche la natura giuridica [235]. L’ingente numero di attività, essenzialmente di ricerca e di supporto tecnico-scientifico, svolte dall’ISPESL costituisce un chiaro segnale dell’importanza che il legislatore delegato assegna alla ricerca ai fini della valorizzazione della prevenzione, potendosi qui percepire in particolare il ruolo attivo giocato dal Ministero della salute nell’elaborazione del decreto delegato. Fra le varie attività [236] (che l’ISPESL svolge avvalendosi delle proprie strutture centrali e territoriali, garantendo unitarietà della azione di prevenzione nei suoi aspetti interdisciplinari), non deve essere trascurata quella di vigilanza sulle strutture sanitarie del Servizio sanitario nazionale, svolta congiuntamente ai servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro delle ASL. Data la competenza istituzionale delle ASL in materia di vigilanza sulla disciplina prevenzionistica (v. infra § 7.8), questa previsione intende fornire una risposta all’eterno dilemma quis custodet custodes?, individuando un organismo terzo. Restano tuttavia alcune perplessità (che andrebbero fugate con successive indicazioni) sulle concrete modalità di effettuazione di tale vigilanza e, in particolare, sul grado di imparzialità che essa può garantire, giacché le ASL, ancorché chiamate qui in causa con un “ruolo congiunto”, sono pur sempre parte del Servizio sanitario nazionale.
Infine, l’art. 9, comma 7, affida all’IPSEMA, con la finalità di ridurre il fenomeno infortunistico, una serie di compiti che si aggiungono alle tradizionali competenze di tale istituto quale gestore dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali del settore marittimo [237].


7.6. Le attività di supporto e promozionali
L’art. 1, comma 2, lett. p, della l. n. 123 del 2007 ha previsto, come ulteriore criterio di delega, la promozione della cultura e delle azioni di prevenzione [238] attraverso: 1) la realizzazione di un sistema di governo per la definizione, tramite forme di partecipazione tripartita, di progetti formativi, con particolare riferimento alle piccole, medie e micro imprese, da indirizzare, anche attraverso il sistema della bilateralità, nei confronti di tutti i soggetti del sistema di prevenzione aziendale; 2) il finanziamento degli investimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro delle piccole, medie e micro imprese, i cui oneri siano sostenuti dall’INAIL, nell’ambito e nei limiti delle spese istituzionali dell’Istituto (per tali finanziamenti deve essere garantita la semplicità delle procedure); 3) la promozione e la divulgazione della cultura della salute e della sicurezza sul lavoro all’interno dell’attività scolastica ed universitaria e nei percorsi di formazione, nel rispetto delle disposizioni vigenti e in considerazione dei relativi principi di autonomia didattica e finanziaria.
L’art. 10 del d.lgs. n. 81 del 2008, sulla falsariga di quanto previsto nell’art. 24 del d.lgs. n. 626 del 1994, delinea un’importante funzione di supporto alle imprese per la gestione della prevenzione, affidando ad un’ampia gamma di soggetti pubblici e privati [239] lo svolgimento, anche mediante convenzioni, di attività di informazione, assistenza, consulenza, formazione, promozione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, in particolare nei confronti delle imprese artigiane, delle imprese agricole e delle piccole e medie imprese e delle rispettive associazioni dei datori di lavoro.
A differenza del comma 2 dell’analoga norma precedente, l’art. 10 non prevede esplicitamente l’incompatibilità tra l’attività di consulenza e quella di vigilanza, ma si tratta di una lacuna solo apparente, visto che tale incompatibilità è più in generale affermata a chiare lettere nell’art. 13, comma 5 (v. infra § 7.8). Resta semmai il rammarico per la mancata individuazione dei contenuti delle varie attività previste nella norma, non essendo sempre agevole distinguere – in particolare – consulenza e assistenza, non dovendosi trascurare che mentre la prima di tali attività è oggetto dell’incompatibilità, ciò non vale per la seconda.
Nella consapevolezza che un’efficace azione di prevenzione non può prescindere dalla creazione e dallo sviluppo di una cultura ad hoc, l’art. 11 disciplina le attività per promuovere tale cultura affidando alla Commissione consultiva permanente la definizione, in coerenza con gli indirizzi individuati dal Comitato di cui all’art. 5, delle attività promozionali della cultura e delle azioni di prevenzione, con particolare riferimento al finanziamento: di progetti di investimento da parte delle piccole imprese; di progetti formativi dedicati alle piccole imprese; delle attività degli istituti scolastici, universitari e di formazione professionale finalizzata all’inserimento nelle loro attività di specifici percorsi formativi interdisciplinari alle diverse materie scolastiche volti a favorire la conoscenza delle tematiche della salute e della sicurezza nel rispetto delle autonomie didattiche.
Ai fini della promozione e divulgazione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro è inoltre riconosciuta agli istituti scolastici, universitari e di formazione professionale la facoltà di inserire nelle loro attività percorsi formativi interdisciplinari alle diverse materie scolastiche [240]. C’è da chiedersi se la previsione di una facoltà corrisponda al criterio di delega (art. 1, comma 2, lett. p, n. 3), il quale, pur tenendo nella dovuta considerazione l’autonomia didattica di scuole e università, non pare che volesse rendere soltanto facoltative le predette attività.
All’INAIL spetta finanziare progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro rivolti in particolare alle piccole, medie e micro imprese e progetti volti a sperimentare soluzioni innovative e strumenti di natura organizzativa e gestionale ispirati ai principi di responsabilità sociale delle imprese. Inoltre, le amministrazioni pubbliche promuovono attività specificamente destinate ai lavoratori immigrati o alle lavoratrici, finalizzate a migliorare i livelli di tutela dei medesimi negli ambienti di lavoro [241].


7.7. L’interpello
In ossequio al criterio di delega previsto nell’art. 1, comma 2, lett. v, della l. n. 123 del 2007, l’art. 12 del decreto introduce lo strumento dell’interpello previsto dall’art. 9 del d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124 [242] (come modificato dall’art. 1, comma 113, della l. 24 novembre 2006, n. 286, con cui è stato convertito, con modificazioni, il d.l. 3 ottobre 2006, n. 262), relativamente a quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Per quanto riguarda la platea dei possibili soggetti interpellanti, il legislatore delegato conferma, con qualche precisazione, quella risultante dalla norma del 2004. Le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori sono quelle comparativamente (e non maggiormente) più rappresentative sul piano nazionale. La mancata menzione della “categoria” fa sì che le predette organizzazioni possano essere anche le stesse confederazioni, ove comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Pur comprensibile sul piano della ragionevolezza organizzativa, in quanto evita una eccessiva proliferazione degli interpelli, ci si potrebbe tuttavia chiedere quanto sia giustificata la limitazione del diritto di interpello alle organizzazioni maggiori, dato che le questioni da risolvere sono connesse alla tutela di beni costituzionali che, in quanto patrimonio di tutti, rivestono un interesse di rilevanza generale che trascende quello particolare del soggetto collettivo che ha posto il quesito.
La delimitazione degli interpellanti al solo livello nazionale si coglie anche a proposito dei consigli nazionali degli ordini e dei collegi professionali (i collegi non compaiono nell’art. 9 del d.lgs. n. 124 del 2004). Non essendovi alcuna limitazione, si deve ritenere che tutti gli ordini e collegi professionali regolarmente istituiti possano presentare interpelli. Al di là delle questioni più generali che aleggiano sulla compatibilità degli ordini professionali con la dimensione comunitaria, qui si avverte peraltro la perdurante carenza di disciplina delle libere professioni più strettamente connesse alla gestione della prevenzione, le quali, più di altre, si misurano quotidianamente con l’interpretazione delle norme in materia: il paradosso è che la mancanza di un ordine professionale impedirà di presentare interpelli proprio ai soggetti che potrebbero maggiormente ravvisarne la necessità.
Possono presentare interpelli anche gli enti pubblici nazionali e gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali (ANCI, UPI ecc.). Occorre osservare che, mentre gli enti pubblici nazionali e gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali possono presentare interpelli di propria iniziativa, gli altri soggetti (organizzazioni sindacali e consigli nazionali degli ordini e collegi professionali) possono farlo o di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti. Per la verità, pur non formalmente contemplata, la segnalazione da parte degli iscritti dovrebbe riguardare anche gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali in quanto soggetti portatori della rappresentanza di questi ultimi, sebbene nella richiesta di interpello non debba figurare la segnalazione dell’ente iscritto. Fermo restando che, ad esempio, l’associazione nazionale dei comuni, facendo leva sul dato testuale dell’art. 12, potrebbe legittimamente rifiutarsi di proporre un interpello segnalato da uno dei comuni ad essa iscritto, si può dubitare che un simile comportamento possa rivelarsi conveniente per l’associazione.
Come accade nella norma del 2004, anche in quella del 2008 non è prevista alcuna legittimazione per i singoli, siano essi datori di lavoro, consulenti o lavoratori, i quali potranno sollevare le questioni tramite le associazioni o gli ordini a cui siano iscritti avvalendosi della segnalazione di cui parla l’art. 12. Non è chiaro se la segnalazione dell’iscritto obblighi l’ente di rappresentanza a presentare l’interpello, sebbene la relativa legittimazione, configurata solo in capo a tale ente, sembrerebbe ricomprendere anche un potere di valutazione circa l’opportunità di presentazione dell’interpello.
I predetti soggetti possono rivolgere, esclusivamente tramite posta elettronica, quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro alla Commissione per gli interpelli costituita presso il Ministero del lavoro e composta, rispettando scrupolosamente il principio di leale collaborazione [243], da due rappresentanti del Ministero del lavoro, due rappresentanti del Ministero della salute (dopo la recente unificazione dei due Ministeri, saranno quattro rappresentanti del nuovo Ministero del Welfare) e quattro rappresentanti delle Regioni e Province autonome. Qualora la materia oggetto di interpello investa competenze di altre amministrazioni pubbliche, la Commissione è integrata con rappresentanti delle stesse. L’attività che sarà svolta da tale Commissione – che non comporta oneri per la finanza pubblica – appare di notevole importanza specialmente se si considera la complessità della disciplina e le sue possibili diverse interpretazioni per la presenza dei tanti soggetti preposti al controllo sulla sua applicazione. Nonostante il silenzio della legge, la Commissione dovrà dotarsi di un proprio regolamento per svolgere le sue funzioni, individuando anche i principi in base ai quali adottare le proprie decisioni. Data la delicatezza della materia, è certamente auspicabile che le decisioni siano adottate all’unanimità [244] o, al massimo a maggioranza qualificata, non essendo invece ragionevole ricorrere alla regola del calculus Minervae che, dato il numero pari dei componenti la Commissione, sarebbe teoricamente applicabile in caso di parità: infatti, stante la composizione paritetica della Commissione, non possono escludersi radicali divergenze tra “ministeriali” e “regionali” che, con quella regola, vedrebbero sempre prevalere la componente che abbia espresso il presidente. A quest’ultimo proposito, l’art. 12 nulla dice in ordine alla spettanza di tale carica, limitandosi soltanto a prevedere, dal punto di vista organizzativo, la collocazione della Commissione presso il Ministero del lavoro. In verità, considerando che quando il legislatore delegato ha inteso individuare direttamente il presidente di un organismo lo ha fatto esplicitamente (v. gli artt. 5 e 6), anche in omaggio al principio della leale collaborazione sembra ragionevole ipotizzare che il regolamento della Commissione per gli interpelli attribuisca le funzioni di presidenza secondo un criterio di alternanza tra le due componenti. Lo stesso regolamento dovrà inoltre disciplinare le modalità di integrazione della Commissione con i rappresentanti delle altre amministrazioni la cui competenza sia investita dalla materia oggetto dell’interpello, dovendo altresì determinare se tali membri aggregati dispongano di voto deliberativo (come pare sostenibile) o solo consultivo. Un ulteriore oggetto del regolamento riguarderà i tempi entro cui dovranno essere rese le risposte, dovendosi comunque auspicare, pur nel silenzio della legge, la massima tempestività. In tal senso, però, non depone favorevolmente il “costo zero” che aleggia sulla nuova disposizione, che invece meriterebbe di essere ampiamente valorizzata anche in termini di risorse umane, strumentali e finanziarie. Ugualmente silente è il legislatore delegato in ordine alle conseguenze della mancata risposta agli interpelli. Anche di tali questioni dovrebbe occuparsi il futuro regolamento della Commissione per gli interpelli che meriterebbe quindi un preventivo ed approfondito confronto tra Ministeri e Regioni.
Fermo restando che i quesiti da sottoporre alla Commissione sono esclusivamente “di ordine generale”, non potendo quindi riguardare singoli casi concreti (pena l’inammissibilità), non sembra dubbio che la “normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” sulla cui applicazione vertono gli interpelli sia senz’altro quella nazionale di rango legislativo e regolamentare [245]. Peraltro, dato che l’art. 12 non pone limitazioni al riguardo e che la materia in esame rientra anche nella competenza legislativa concorrente ex art. 117 Cost., ci si può chiedere se anche le normative regionali possano costituire oggetto di interpelli ove, beninteso, il quesito sia di ordine generale. Se si tiene conto del carattere nazionale di tutti i soggetti legittimati a proporre gli interpelli e, nel contempo, della composizione “concorrente” della Commissione per gli interpelli, sembra ragionevole sostenere che gli interpelli possano riguardare anche le norme regionali almeno nei casi in cui “integrino o applichino la normativa nazionale in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro” [246].
Quanto al fatto se gli interpelli possano riguardare anche i pronunciamenti ministeriali o regionali (note, circolari, pareri ecc.), non v’è dubbio che essi non possano rientrare nel concetto di “normativa” di cui all’art. 12 [247]. Ci si potrebbe semmai chiedere se possano rientrare nel concetto di “applicazione” della normativa, riferendosi al fatto che, normalmente, quei pronunciamenti indicano ai destinatari come applicare le norme di legge. Non sembra tuttavia che questa sia stata l’intenzione del legislatore delegato, il quale, apprestando una Commissione composta da rappresentanti ministeriali e regionali ha piuttosto inteso far sì che, mediante le risposte agli interpelli, Stato e Regioni forniscono la propria congiunta interpretazione delle norme in materia.
A differenza della previsione dell’art. 9 del d.lgs. n. 124 del 2004 (ma anche di quella dell’art. 11 della l. 27 luglio 2000, n. 212, che disciplina l’omonimo ma differente istituto dell’interpello del contribuente), l’art. 12 del nuovo decreto legislativo non riconnette all’adeguamento alle indicazioni fornite in sede di interpello l’esclusione delle sanzioni (penali, civili e amministrative), ma, assai più opportunamente, si limita a prevedere che quelle indicazioni costituiscano criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza. Quest’ultima previsione non sembra incoerente con il principio di delega [248]: il fatto che questo richiamasse espressamente l’art. 9 del d.lgs. n. 124 del 2004 non può significare che l’istituto disciplinato da tale norma dovesse essere trasposto sic et simpliciter, richiedendo invece di essere adattato alle specificità della materia della sicurezza sul lavoro. A ben guardare, la mancata trasposizione della previsione relativa all’esclusione delle sanzioni evita che la nuova norma possa incorrere in una non improbabile censura di incostituzionalità, essendo almeno dubbio, in base ai principi, che la responsabilità penale possa essere esclusa dall’adeguamento ad una interpretazione di una norma, presidiata da sanzione penale, fornita da un organo amministrativo.
Per altro verso, la formulazione dell’art. 12, comma 3, tenendo in debito conto uno degli aspetti più specifici dell’attuale disciplina della sicurezza del lavoro – vale a dire la pluralità degli organismi preposti al controllo –, rappresenta un deciso sostegno all’uniformità degli indirizzi per l’attività di vigilanza, oltre a contribuire ad orientare preventivamente il comportamento dei datori di lavoro [249]. Rispetto al primo punto, il fatto che le indicazioni fornite nella risposta all’interpello costituiscano criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio dell’attività di vigilanza (ovviamente su tutto il territorio nazionale ed a prescindere dall’organismo preposto alla vigilanza) orienterà uniformemente i comportamenti del personale ispettivo, senza peraltro vincolarli oltre misura ove quelle indicazioni fossero errate (come ben potrebbe accadere) o non si attagliassero esattamente al caso di specie, non dovendosi del resto dimenticare che, nello svolgimento della propria attività di vigilanza, tale personale riveste la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria. Semmai sarà interessante verificare se, proprio per lo stretto raccordo di azione tra la magistratura ed il personale ispettivo, quelle indicazioni influenzeranno anche gli orientamenti giurisprudenziali. Per altro verso, non sembra che, con la previsione dell’art. 12, comma 3, si crei una sovrapposizione tra la Commissione per gli interpelli e gli organismi preposti all’indirizzo ed al coordinamento dell’attività di vigilanza [250]. Diversi, infatti, sono i ruoli della Commissione per gli interpelli, che fornisce risposte tecniche a quesiti tecnici; del Comitato nazionale di cui all’art. 5, che svolge una funzione di indirizzo politico e di coordinamento delle attività di vigilanza; dei Comitati regionali di cui all’art. 7, che coordinano la vigilanza sul territorio; della stessa Commissione consultiva permanente di cui all’art. 6, la quale esamina sì i problemi applicativi della normativa, ma essenzialmente al fine di formulare proposte per lo sviluppo ed il perfezionamento della legislazione vigente. Ruoli distinti, quindi, che dovranno semmai integrarsi utilmente. Rispetto a tutto ciò, la funzione orientativa delle indicazioni fornite dalla Commissione per gli interpelli può anzi, come anticipato, svolgere un valido supporto tecnico a tutti gli organismi preposti alla vigilanza.
Quanto ai riflessi delle indicazioni fornite nella risposta all’interpello sui comportamenti dei destinatari della normativa, sebbene il legislatore non abbia attribuito alcun effetto diretto all’adeguamento alle predette indicazioni, non può affatto escludersi che tale adeguamento non possa essere apprezzato sia dal personale ispettivo sia dal giudice del caso di specie in ordine alla valutazione dell’elemento psicologico del reato eventualmente contestato. Sarà poi l’esperienza a dire se la scelta soft del legislatore delegato, oltre che opportuna, sia stata lungimirante.


7.8. La vigilanza
Contrariamente alle attese, il d.lgs. n. 81 del 2008 non ha modificato il variegato sistema delle competenze sulla vigilanza in materia risultante dall’art. 23 del d.lgs. n. 626 del 1994, ma ha sostanzialmente ribadito l’attuale ripartizione esistente tra i vari organismi, prevedendo peraltro la possibilità di un ampliamento delle funzioni degli organi ispettivi del Ministero del lavoro. Se si guardano i criteri di delega [251], non è difficile riscontrare come il d.lgs. n. 81 del 2008 abbia tenuto conto assai più del “coordinamento” che della “razionalizzazione” delle attività di vigilanza, come emerge del resto dall’art. 13 quando puntualizza che la vigilanza è esercitata nel rispetto del coordinamento di cui agli artt. 5 e 7.
Ad onor del vero, la difficoltà del legislatore delegato di razionalizzare il sistema di vigilanza va rintracciata sul piano dei delicati equilibri politici tra Governo centrale e Regioni, su cui si riflette (come già messo in luce in altra sede [252]) l’intreccio delle competenze. In una puntuale ricostruzione [253] si è rilevato come la giurisprudenza costituzionale abbia affermato che il potere di selezione del livello territoriale più adeguato allo svolgimento delle funzioni amministrative in una certa materia segue il riparto di competenza normativa di cui all’art. 117 Cost., potendo l’allocazione di funzioni amministrative essere effettuata dallo Stato solo nelle materie di propria legislazione esclusiva, mentre alle Regioni spetta in tutte le altre materie (sia di competenza concorrente sia di competenza esclusiva regionale). Tale regola del “parallelismo” tra competenze legislative e funzioni amministrative incontra tuttavia una deroga là dove sorga un’esigenza di esercizio unitario di tali funzioni. È ancora una volta la Corte costituzionale a precisare che è il legislatore statale ad avere “titolo per assumere e regolare l’esercizio di funzioni amministrative”, anche “su materie in relazione alle quali esso non vanti una potestà legislativa esclusiva, ma solo una potestà concorrente”, appunto quando occorra soddisfare “istanze unitarie che pure in assetti costituzionalmente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze” [254]. Il fondamento di tale deroga si rintraccia nell’art. 118, comma 1, Cost., là dove prevede che le funzioni amministrative possono essere allocate ad un livello di governo diverso da quello comunale per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Cosicché, quando emergano esigenze di carattere unitario, spetta al legislatore statale attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, anche se attinenti a materie di competenza regionale. Anche in questo caso vale peraltro il principio della leale collaborazione fra lo Stato e le Regioni.
Per la verità, la Corte costituzionale non si è direttamente occupata della vigilanza sulla disciplina prevenzionistica, sebbene non si sia recentemente mancato di osservare che alcune indicazioni in materia potrebbero essere indirettamente tratte da quella pronuncia della Corte in cui essa si è invece occupata di vigilanza sul lavoro (con riferimento al d.lgs. n. 124 del 2004) [255]. La Corte ha affermato – in omaggio ad una regola che è stata definita dell’“accessorietà” [256] – che la vigilanza è strumentale alla disciplina di riferimento, non essendo possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia a cui essa si riferisce. Ne consegue che la vigilanza sul lavoro non sempre rientra nella materia, di competenza concorrente, della “tutela e sicurezza del lavoro”, ma invece, essendo connotata dal suo oggetto, la competenza in materia segue quella dei profili sostanziali cui essa di volta in volta attiene [257], ben potendo quindi essere, nel caso della disciplina strettamente “lavoristica” riconducibile alla competenza esclusiva statale.
Dato che la Corte ha escluso radicalmente la vigilanza sulla disciplina prevenzionistica dal raggio di azione del d.lgs. n. 124 del 2004 (v. art. 1, comma 1, di tale decreto), ci si potrebbe chiedere se, implicitamente, la potestà normativa in merito a tale vigilanza per i profili attinenti alla competenza concorrente di cui all’art. 117, comma 3, Cost, vada riconosciuta alle Regioni, conseguendone poi l’attribuzione delle relative funzioni amministrative ad un livello decentrato. Senonché, stante l’intreccio di profili che, così come nel caso della disciplina sostanziale di riferimento, caratterizzano la vigilanza e che, come tali, rientrano in parte nella competenza normativa ed amministrativa regionale, ma in parte anche in quella statale, l’unica soluzione praticabile pare il ricorso a strumenti di leale collaborazione tra gli enti coinvolti, ed in particolare alle intese interistituzionali [258].
Appurato che le esigenze di unitarietà in materia, da un lato, e la complessità dei profili toccati, dall’altro, presuppongono che qualsiasi intervento regolatore della vigilanza, pur caratterizzandosi in termini di omogeneità sul territorio nazionale, non può non coinvolgere in una logica di leale collaborazione anche le Regioni, si può riscontrare come le molteplici competenze previste in tema di vigilanza prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008 risultassero tutte disciplinate da leggi statali o da atti che trovavano il proprio fondamento in leggi dello Stato, le quali, in quanto antecedenti alla riforma costituzionale del 2001, non potevano certo tenere conto del ruolo delle Regioni. L’occasione della razionalizzazione preconizzata dalla l. n. 123 del 2007 rappresentava quindi una preziosa opportunità per riordinare il sistema della vigilanza con il fattivo concorso delle Regioni, le quali, oltretutto – dopo la riforma sanitaria approvata con la l. 23 dicembre 1978, n. 833 – costituiscono pur sempre il referente amministrativo degli organi depositari delle principali competenze in materia (le ASL).
Come anticipato, il legislatore delegato non è stato in grado di predisporre un nuovo assetto della vigilanza, sebbene, come risulta chiaramente dal comma 3 dell’art. 13, il riordino complessivo delle competenze in tema di vigilanza aleggia. Come si è già avuto occasione di osservare a proposito di alcune norme di diretta attuazione della l. n. 123 del 2007 (artt. 5 e 12) [259], anche considerando la scarsa attenzione per il sostegno agli organismi ispettivi delle ASL [260] (come invece presuppone anche il Patto per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro [261]), più di un segnale sembrerebbe indicare la presenza di un disegno teso a riposizionare al centro del sistema di vigilanza il personale ispettivo del Ministero del lavoro [262]. Si tratta di una questione delicatissima sulla quale si gioca buona parte dell’effettività della disciplina in esame e che tocca il fondamento stesso in base al quale la riforma sanitaria del 1978 aveva ricondotto la competenza in capo alle ASL sottraendola agli Ispettorati del lavoro: l’inquadramento della vigilanza come uno dei principali strumenti della prevenzione [263]. Nessuno ovviamente auspica rese dei conti tra Ministero e Regioni sullo stile della celebre sfida all’O.K. Corral. Solo il dialogo ed il confronto possono agevolare una soluzione vantaggiosa per tutti, in primis per le imprese e i lavoratori: sotto questo profilo, l’applicazione del decreto, che pone spesso Ministero e Regioni fianco a fianco, potrebbe costituire la giusta occasione per riflettere insieme sulle possibili soluzioni.
L’art. 13 delinea il seguente quadro delle competenze in tema di vigilanza.
Il perno del sistema è costituito da una competenza generale in materia attribuita ai servizi delle ASL [264]. Per quanto sostanzialmente generale, tale competenza non è tuttavia totalmente esclusiva, giacché, o in ragione di specifici rischi, o per le peculiarità di certi settori e/o attività, il legislatore attribuisce la competenza ad altri soggetti.
Per quanto riguarda specifici rischi (e quindi a prescindere dalle attività in cui essi si evidenziano), il legislatore assegna una competenza generale ed esclusiva al Corpo nazionale dei vigili del fuoco per la protezione e la vigilanza antincendi [265].
Per quanto concerne specifici settori o attività, il Ministero dello sviluppo economico è competente per il settore minerario [266] (peraltro fino all’effettiva attuazione del trasferimento di competenze da adottarsi ai sensi del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300), mentre le Regioni e le Province autonome hanno competenza per le industrie estrattive di seconda categoria (cave) e le acque minerali e termali [267]. Sempre a proposito di specifici settori o attività, in attesa del complessivo riordino delle competenze in tema di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, restano ferme le competenze in materia di salute e sicurezza dei lavoratori attribuite alle autorità marittime a bordo delle navi ed in ambito portuale, agli uffici di sanità aerea e marittima, alle autorità portuali ed aeroportuali, per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori a bordo di navi e di aeromobili ed in ambito portuale ed aeroportuale [268], nonché ai Servizi sanitari e tecnici istituiti per le Forze armate e per le Forze di polizia [269] e per i Vigili del fuoco [270].
Esiste poi una competenza del personale ispettivo del Ministero del lavoro, esercitatile previa informazione al servizio di prevenzione e sicurezza della ASL competente per territorio, nelle stesse ipotesi già previste in precedenza [271], a cui potranno aggiungersi ulteriori attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati, individuabili con un apposito decreto [272]. A tale proposito, si è adombrato un sospetto di incostituzionalità dell’art. 13 per un eccesso di delega in quanto l’art. 1, comma 2, lett. q, della l. n. 123 del 2007, prevedendo il rispetto dei principi di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 e dell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994, non avrebbe consentito di individuare ulteriori competenze degli ispettori del lavoro, o addirittura alcuna competenza degli stessi [273]. Tale opinione non pare convincente, essendo peraltro qui doveroso rivedere l’impostazione in base alla quale la si era sottoposta a critica in un primo tempo [274].
Al di là del fatto che i principi di cui all’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994 risultano rispettati dall’art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008, il richiamo nella delega al rispetto anche dei principi di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 imponeva al legislatore delegato di non stravolgere la definizione di “organo di vigilanza” che il comma 1, lett. b, di tale norma identifica nel personale ispettivo delle ASL (in virtù del riferimento all’art. 21, comma 3, della l. n. 833 del 1978) [275] “fatte salve le diverse competenze previste da altre norme”. Prima dell’emanazione del d.lgs. n. 81 del 2008, tra queste altre norme rientrava indubbiamente anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994, il quale, lungi dall’individuare direttamente le competenze degli ispettori ministeriali, aveva previsto che, per attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati (da individuare con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri del lavoro e della sanità, sentita la Commissione consultiva permanente), l’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di sicurezza potesse essere esercitata anche dall’Ispettorato del lavoro previa informazione al servizio di prevenzione e sicurezza della USL competente per territorio (l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 aveva poi ricevuto attuazione mediante il d.P.C.M. n. 412 del 1997). Confermando – nell’art. 13, comma 2, lett. a e b, del d.lgs. n. 81 del 2008 – la competenza concorrente del personale ispettivo del Ministero del lavoro per le stesse ipotesi già indicate nel d.P.C.M. n. 412 del 1997 (e, quindi, di riflesso, nell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994), il legislatore delegato ha correttamente rispettato il principio dell’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 consistente nella salvezza delle “diverse competenze previste da altre norme”. La correttezza di tale operazione non pare contraddetta dal fatto che, poi, lo stesso d.lgs. n. 81 del 2008 abbia abrogato l’art. 23, comma 2 (come anche l’art. 23, comma 4) del d.lgs. n. 626 del 1994 (mediante l’integrale abrogazione del decreto del 1994 ex art. 304, comma 1, lett. a): infatti, una volta recepiti i principi connessi alla delega, ora inverati in nuove disposizioni, nulla impediva al legislatore delegato di eliminare quelle vecchie disposizioni. Si tratta, fra l’altro, di quanto è avvenuto anche a proposito di tante altre vecchie norme abrogate dal d.lgs. n. 81 del 2008 che ne ha tuttavia “recepito” i contenuti.
Per la verità, l’art. 13 del d.lgs. n. 81 del 2008 non si è limitato a riproporre sotto nuova veste il combinato disposto dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 e del d.P.C.M. n. 412 del 1997, ma ha previsto la possibilità di ulteriori competenze per il personale ispettivo del Ministero del lavoro (art. 13, comma 2, lett. c). Senonché, anche in questo caso sembra trattarsi di un’operazione attuata nel rispetto di quel principio di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 consistente nella salvezza delle “diverse competenze previste da altre norme” (ovviamente quali risultanti prima dell’emanazione del d.lgs. n. 81 del 2008), tra cui appunto il già menzionato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994. Tale norma aveva una evidente portata programmatica che ben avrebbe potuto trovare ulteriore attuazione rispetto a quella intervenuta con il d.P.C.M. n. 412 del 1997, essendo sempre possibile modificare o integrare successivamente tale d.P.C.M. (mediante un atto di uguale natura, adottato secondo la stessa procedura) in presenza di altre attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati. In sostanza, l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 era una norma dinamica capace di adattarsi all’evoluzione delle attività lavorative e dei relativi rischi: facendone salve le disposizioni, l’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 valorizzava quindi anche il dinamismo di tale norma, assumendolo tra i propri principi. A ben guardare, l’art. 13, comma 2, lett. c, del d.lgs. n. 81 del 2008 non ha fatto altro che salvaguardare questo principio, riproducendo il dinamismo dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994, di cui non a caso ricalca la procedura, fatti salvi alcuni necessari adeguamenti (in luogo di quello della Commissione consultiva permanente, è previsto il parere del nuovo Comitato di cui all’art. 5, essendo inoltre richiesta l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni a causa della sopravvenuta modifica del quadro delle competenze del Titolo V Cost.).
Ancora a proposito delle competenze delle strutture periferiche del Ministero del lavoro, si è osservato che questo “è l’unico organo di vigilanza il cui intervento è solo eventuale (‘può esercitare l’attività di vigilanza’) con attribuzione diretta del potere investigativo e di accertamento ai singoli ispettori (‘personale ispettivo’) e non già, come per tutte le altre istituzioni, agli organismi, con obbligo di preventiva informazione alla ASL competente”. In sostanza, il ruolo “residuale e sussidiario degli ispettori del lavoro” sembrerebbe “il rattoppo alla mancanza nei criteri di delega di qualsiasi riferimento al Ministero del lavoro fra i titolari del potere di vigilanza” [276]. Anche queste critiche appaiono prive di fondamento. Il fatto che la legge delega non menzionasse il Ministero del lavoro a proposito di vigilanza costituisce un aspetto che, al di là di ogni valutazione nel merito, non può certo comportare conseguenze per il legislatore delegato. In ogni caso, la indiscutibile configurazione della titolarità del potere di vigilanza in capo agli ispettori e non all’organismo non sembra in grado di alterare il quadro complessivo delle competenze [277]. Quanto poi alla questione della presunta “eventualità” del potere, il “può” in questione non sta ad indicare il carattere eventuale dell’esercizio del potere di vigilanza, quanto la legittimazione ad esercitarlo, non dovendosi dimenticare che, dopo l’avvento della riforma sanitaria del 1978, i poteri di vigilanza in materia di cui erano titolari gli Ispettorati del lavoro sono stati conferiti alle ASL, le quali, da quel momento, sono divenuti i soggetti depositari della competenza generale in tema di vigilanza, seppure con i limiti di cui si faceva cenno in precedenza [278]. Il “può” ha quindi valore permissivo, rimuovendo una situazione che impediva agli ispettori del lavoro di esercitare il potere di vigilanza (v. già l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 [279]). Analoghe considerazioni valgono per quanto concerne la previsione della previa informazione alle ASL.
Sempre con riferimento a specifici rischi, l’art. 13 nulla dice a proposito delle competenze attribuite all’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPA) in materia di vigilanza sui rischi derivanti da radiazioni ionizzanti [280]. Finora tale competenza dell’ANPA è stata concorrente con quella del personale ispettivo del Ministero del lavoro, salvo nel caso delle macchine radiogene, ove la competenza dell’ANPA è stata concorrente con quella delle ASL. Ugualmente silente è l’art. 13 in relazione alle competenze del personale ispettivo del Ministero del lavoro per gli impianti ferroviari [281]. Tuttavia, in questo caso, stante la previsione (nell’art. 3, commi 2 e 3, del nuovo decreto) di una disciplina regolamentare di coordinamento, la questione dovrebbe presto trovare definizione.
L’ultimo comma dell’art. 13 fa salvo quanto previsto dall’art. 64 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303. Si tratta di una disposizione dedicata alle attività tramite cui si svolgono le ispezioni e che, originariamente destinata agli ispettori del lavoro, dopo la riforma sanitaria del 1978 era divenuta patrimonio (anche) dei servizi ispettivi delle ASL. Opportunamente, a scanso di equivoci, l’art. 13 del d.lgs. n. 81 del 2008 riferisce ora quelle attività agli organi di vigilanza competenti, come individuati dal decreto [282].
Sempre in attuazione di quanto previsto nella delega [283], si prevede inoltre che l’importo delle somme che la ASL, in qualità di organo di vigilanza, ammette a pagare in sede amministrativa ai sensi dell’art. 21, comma 2, primo periodo, del d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, integra l’apposito capitolo regionale per finanziare l’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro svolta dai dipartimenti di prevenzione delle stesse ASL. Ben altro ci vorrebbe per rafforzare le deboli strutture delle ASL [284], ma si tratta almeno di un piccolo segnale di attenzione in un contesto che è ancora in attesa di una complessiva ridefinizione.
Al fine di evitare che l’attività consulenziale interferisca con quella istituzionale di controllo, condizionandola o indebolendola, il comma 5 dell’art. 13 prevede l’assoluta incompatibilità tra funzioni di vigilanza e di consulenza [285]. Tuttavia, mentre l’art. 24, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 prevedeva che l’attività di consulenza non potesse essere prestata dai soggetti che svolgevano attività di controllo e di vigilanza, la nuova norma allarga lo spettro soggettivo dell’incompatibilità disponendo espressamente che “il personale delle pubbliche amministrazioni, assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di consulenza”. Dunque, chiunque sia assegnato all’ufficio preposto alla vigilanza, anche ove non svolga direttamente tale funzione, si trova nella situazione di incompatibilità.
Un primo problema interpretativo posto dalla nuova disposizione riguarda i soggetti. L’espressione “personale delle pubbliche amministrazioni” sembra infatti riferita – come accade in molte altre disposizioni dell’ordinamento, fra cui spicca il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 – soltanto ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni, dovendosi fra l’altro osservare come soltanto a questi, in virtù della loro posizione funzionale, possano essere assegnati quei compiti ispettivi a cui, nella fattispecie, corrisponde l’attribuzione della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria (cfr. l’art. 21 della l. n. 833 del 1978). Né va ignorato che l’istituto della “incompatibilità” costituisce un tipico patrimonio del rapporto di lavoro pubblico fin dalle discipline più risalenti.
Non dovrebbe tuttavia trascurarsi che, nelle strutture delle ASL, determinati compiti consulenziali sono talora affidati a soggetti esterni mediante un contratto di lavoro autonomo, i quali, pur non potendo svolgere compiti di vigilanza, operano tuttavia nell’ambito degli uffici preposti a tali compiti. In sostanza, se il legislatore delegato ha inteso evitare che l’attività di consulenza sia svolta di chiunque operi in un ufficio preposto alla vigilanza, volendo quindi scongiurare il rischio di commistione o interferenza non solo in capo alla stessa persona, ma anche in capo a tutti i soggetti che operano in tale ufficio (a prescindere dall’effettiva attività che svolgono), si potrebbe dubitare che la natura del rapporto di lavoro possa costituire un elemento decisivo per la soluzione della questione, ponendosi un’esigenza di coordinamento tra il pur forte riferimento letterale al “personale delle pubbliche amministrazioni” e il significato complessivo dell’intera disposizione. Se così fosse, l’incompatibilità qui in esame trascenderebbe i normali confini soggettivi delle incompatibilità dei pubblici dipendenti, configurandosi soprattutto in ragione della suo collegamento strutturale all’ufficio.
Ci si potrebbe peraltro chiedere se un’indicazione in tal senso possa essere fornita dall’espressione “ad alcun titolo”, vale a dire se essa, oltre a statuire sicuramente l’irrilevanza del modo in cui si presta la consulenza (a titolo gratuito o oneroso, occasionalmente o continuativamente, individualmente o in gruppo, in base ad uno o ad un altro contratto con il beneficiario della consulenza), sottintenda anche l’irrilevanza della natura del rapporto negoziale tra il lavoratore e la pubblica amministrazione. Un simile argomento appare tuttavia scarsamente convincente sia per la collocazione dell’espressione “ad alcun titolo” nel tessuto della disposizione, sia perché la stessa compare in un’altra norma che si occupa di incompatibilità, nella quale il legislatore ha tuttavia inequivocabilmente circoscritto detta incompatibilità ai soli lavoratori subordinati dell’amministrazione: ci si riferisce all’art. 39, comma 3, in base a cui “il dipendente di una struttura pubblica, assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di medico competente”.
Resta, tuttavia, sullo sfondo l’interrogativo sul vero scopo dell’incompatibilità, il quale, per come essa è costruita negli artt. 13 e 39 (al di là degli aspetti formali di cui si è detto), sembra essere quello di far sì che l’intero ufficio preposto alla vigilanza non si occupi di ciò che potrebbe incrinare l’imparzialità di tale attività. In tal senso, sarebbe comunque auspicabile che, fermo restando l’obbligo gravante sui dipendenti, le amministrazioni rivedessero, ove necessario, il proprio assetto organizzativo per esaltare la distinzione tra il controllo e le altre funzioni che sono chiamate a svolgere, anche con riferimento alle eventuali collaborazioni autonome di cui si parlava.
Tornando all’espressione “a qualsiasi titolo”, non sembra che, in virtù di essa, nella previsione dell’art. 13, comma 5, possano ricomprendersi le consulenze disposte dall’autorità giudiziaria (c.t.u.) e ciò sia per ragioni sistematiche, sia per la particolare finalità di tali attività.
Particolarmente apprezzabile è l’eliminazione di qualsiasi franchigia territoriale, ponendosi così termine a prassi quanto mai discutibili, almeno sul piano dell’opportunità. D’altronde, non deve trascurarsi come, nella moderna organizzazione imprenditoriale, l’elemento territoriale è sempre meno decisivo nell’identificazione delle imprese, spesso presenti in più aree geografiche.
Un’ulteriore questione attiene allo spettro oggettivo della incompatibilità, visto che l’art. 13 nulla dice circa il contenuto dell’attività di consulenza. Non sembra infatti peregrino chiedersi se l’incompatibilità de qua riguardi solo la consulenza “in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro” (come poteva ritenersi in precedenza ex art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994), o si riferisca invece a qualunque attività di consulenza a favore di un datore di lavoro, argomentando che la semplice relazione consulenziale svolta a suo favore da un soggetto assegnato agli uffici preposti alla vigilanza, a prescindere dall’oggetto della consulenza, rischierebbe di pregiudicare l’imparzialità dell’attività di vigilanza (si pensi, ad esempio, ad un’attività di consulenza su materie “limitrofe” alla sicurezza sul lavoro, come quella in materia ambientale). Data la delicatezza della questione, sarebbe stato quanto mai opportuno un chiarimento del legislatore, come ad esempio accade nell’art. 9, comma 3, a proposito della incompatibilità dei funzionari di INAIL, ISPESL e IPSEMA che svolgono attività di controllo e verifica degli obblighi nelle materie di competenza degli istituti medesimi, i quali non possono prestare la consulenza di cui all’art. 9, comma 2, lett. c.
Letteralmente, l’indeterminatezza con cui l’art. 13, comma 5, si riferisce all’“attività di consulenza” potrebbe essere interpretata in senso ampio, cosicché al personale delle pubbliche amministrazioni assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza sarebbe preclusa qualsivoglia attività consulenziale nei confronti di qualunque datore di lavoro ex art. 2, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 81 del 2008. Al di là della astratta plausibilità di una simile ipotesi, emergerebbe, si di un altro piano, la necessità di compensare adeguatamente una simile restrizione, dovendosi di ciò fare carico la contrattazione collettiva. Questa interpretazione potrebbe trovare avallo anche nel fatto che, mentre nel d.lgs. n. 626 del 1994 la previsione dell’incompatibilità era contenuta nella stessa norma che identificava il contenuto della consulenza (art. 24, commi 1 e 2), così evidenziandosi un chiaro raccordo tra l’una e l’altro, nel d.lgs. n. 81 del 2008 quella previsione è stata “sganciata” dalla disposizione analoga in materia di consulenza (l’art. 10) per essere trasposta, nella sua nuova veste, nella norma sulla vigilanza (art. 13).
Per la verità, il richiamo all’art. 10 potrebbe essere utilizzato anche a contrario per sostenere una maggiore delimitazione dell’oggetto della consulenza “incompatibile”. Non deve infatti trascurarsi che l’art. 10 – che ricalca in gran parte l’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994, senza tuttavia menzionare l’incompatibilità che lì era prevista nel comma 2 – si riferisce esplicitamente, fra l’altro, alle attività di consulenza “in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro” effettuate da una serie di soggetti tra cui rientrano anche le pubbliche amministrazioni che svolgono attività di vigilanza, non sembrando quindi azzardato identificare sistematicamente l’oggetto della consulenza “incompatibile” di cui all’art. 13, comma 5, proprio con quello di cui all’art. 10.
Da ultimo, va osservato come l’art. 13 nulla dica anche a proposito delle conseguenze dell’eventuale violazione dell’incompatibilità, così come nulla è previsto nell’apparato sanzionatorio del nuovo decreto. Al di là della sua specialità, l’incompatibilità de qua non può non riconnettersi a quanto previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 e, quindi, riverberare effetti sul rapporto di lavoro, ivi compreso il piano disciplinare. In ogni caso, è evidente come il conflitto di interessi, che la esplicita previsione per legge dell’incompatibilità tra vigilanza e consulenza mira ad evitare, precluda la possibilità del lavoratore di richiedere la trasformazione a tempo parziale del rapporto di lavoro al fine dello svolgimento dell’attività di consulenza.


7.9. La sospensione dell’attività imprenditoriale
L’ultima norma del Capo II del Titolo I, l’art. 14, ripropone l’istituto della sospensione dell’attività imprenditoriale che, anche su segnalazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, può essere adottata come misura di contrasto al lavoro irregolare ed al lavoro insicuro, ma soprattutto al lavoro insicuro in quanto irregolare: in effetti, la norma si fonda proprio su quell’equazione “lavoro irregolare-lavoro insicuro” di cui si parlava all’inizio [286].
L’art. 14 rivisita l’art. 5 della l. n. 123 del 2007 [287], il quale aveva esteso a tutte le attività imprenditoriali il potere di sospensione delle medesime già previsto in edilizia dall’art. 36-bis della l. n. 248 del 2006 (“legge Bersani”). Abrogati ora sia l’art. 36-bis, commi 1 e 2, della “legge Bersani” sia l’art. 5 della l. n. 123 del 2007 [288], l’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 prevede la possibilità di sospendere qualsiasi attività imprenditoriale (in qualsivoglia settore, compreso quello edile) [289] sia nel caso di impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro [290], sia nel caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui agli artt. 4, 7 e 9 del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, considerando le specifiche gravità di esposizione al rischio di infortunio [291], sia a fronte di gravi e reiterate violazioni della disciplina in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Con sano senso di realismo, la nuova norma chiarifica uno degli aspetti più controversi della disciplina antecedente, vale a dire proprio l’individuazione delle gravi violazioni della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro [292], affidata ad un decreto del Ministero del lavoro da adottarsi sentita la Conferenza Stato-Regioni. In attesa di tale decreto, si prendono opportunamente in considerazione le violazioni individuate nell’Allegato I [293], le quali, ai fini della sospensione, debbono essere tuttavia “reiterate”, elemento la cui valutazione (presumibilmente discrezionale) è evidentemente affidata agli organi di controllo, evidenziandosi l’esigenza di qualche ulteriore precisazione in proposito.
L’adozione del provvedimento di sospensione [294] è comunicata all’autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di cui all’art. 6 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ed al Ministero delle infrastrutture, per gli aspetti di rispettiva competenza (nell’art. 5 della l. n. 123 del 2007 si parlava invece più genericamente di “competenti amministrazioni”), al fine dell’emanazione di un provvedimento interdittivo alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni ed alla partecipazione a gare pubbliche di durata pari alla citata sospensione nonché per un eventuale ulteriore periodo di tempo non inferiore al doppio della durata della sospensione e comunque non superiore a due anni.
Viene inoltre più nitidamente precisata la competenza ad adottare il provvedimento. Mentre nel caso della presenza di lavoro in “nero” e di violazioni dei tempi di lavoro il potere sospensivo spetta esclusivamente al personale ispettivo del Ministero del lavoro, nel caso delle violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro la competenza spetta agli organismi ispettivi delle ASL, nonché agli ispettori del lavoro ma solo ove le violazioni siano avvenute nell’ambito delle attività per le quali essi hanno competenza a vigilare [295]. L’art. 14 pone quindi rimedio alle imprecisioni ed ambiguità del dato letterale dell’art. 5 della l. n. 123 del 2007, presumibilmente dovute non solo alla fretta con cui era stato predisposto, che avevano dato adito in un primo momento ad interpretazioni discutibili, con particolare riferimento all’attribuzione agli ispettori del lavoro di un ruolo non coerente con il sistema delle competenze in materia di vigilanza [296]. Interpretazioni che sono state in seguito opportunamente rivedute e corrette [297], sulla scorta del fatto che la norma del 2007 non era in grado di alterare quelle competenze, derivandone la possibilità di esercitare i nuovi poteri sospensivi solo disponendo della competenza a vigilare sulla disciplina prevenzionistica.
Anche per quanto concerne la revoca del provvedimento sospensivo ed i suoi requisiti, la nuova norma elimina le possibili incertezze ingenerate da quella precedente: di qui la opportunità di una previsione solo apparentemente superflua come il comma 3, il quale afferma che il provvedimento di sospensione può essere revocato da parte dell’organo di vigilanza che lo ha adottato (ASL o DPL) e non più dal medesimo ispettore. Sempre per dissipare qualsiasi dubbio la norma distingue, in modo scolastico ma certamente efficace, i requisiti necessari per la revoca da parte degli organi ministeriali e da parte delle ASL (art. 14, commi 4 e 5). Analoga distinzione figura per quanto concerne la sorte delle somme aggiuntive [298] (rispetto a quelle penali, civili e amministrative vigenti, di cui è comunque fatta salva l’applicazione) il cui versamento è necessario per la revoca del provvedimento [299]. Un identico parallelismo riguarda i soggetti destinatari dei ricorsi [300].
Opportunamente, si prevede anche una esplicita sanzione per l’inottemperanza al provvedimento di sospensione consistente nell’arresto fino a sei mesi [301]. Si è ipotizzato che in tal caso possa applicarsi la particolare procedura di definizione delle contravvenzioni punite con la sola pena dell’arresto di cui all’art. 302 del d.lgs. n. 81 del 2008 [302], pur rilevandosi che le irregolarità qui sono “presupposti dell’adozione del provvedimento e non già in se stesse elemento della contravvenzione (integrata dalla condotta antidoverosa dell’imprenditore che seguita a lavorare nonostante la sospensione)” [303]. Questi ultimi dubbi non sembrano privi di fondamento, non dovendosi trascurare che la pena dell’arresto per l’inottemperanza al provvedimento di sospensione costituisce un deterrente “autonomo” finalizzato a dissuadere (dall’inosservanza del provvedimento) un imprenditore che risulta destinatario di tale provvedimento in quanto ha commesso rilevanti illeciti come tali assoggettati alle relative sanzioni (le quali non vengono meno in presenza della sospensione). L’arresto de quo si aggiunge a tali sanzioni, mantenendo tuttavia carattere di autonomia rispetto ad esse. Queste ultime, oltretutto, potrebbero essere (come è altamente probabile nella maggior parte dei casi) sanzioni alternative che, in quanto rientranti nel meccanismo della prescrizione di cui al d.lgs. n. 758 del 1994, salvi casi di inadempimento della prescrizione, non condurrebbero al dibattimento processuale. Evidentemente, la soluzione dell’enigma dipende dalla riconducibilità o meno del reato di cui all’art. 14, comma 10, fra le contravvenzioni a cui si riferisce l’art. 302, e più in particolare dal fatto se l’inottemperanza al provvedimento di sospensione sia o meno autonomamente annoverabile tra “le irregolarità, le fonti di rischio e le eventuali conseguenze dannose del reato” che debbono essere eliminate ai sensi dello stesso art. 302, comma 1 [304].


8.1. La gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro. Le misure di tutela e la delega di funzioni
Con il Capo III del Titolo I il legislatore delegato passa a disciplinare la gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro. Anche in questo caso può apprezzarsi la struttura dell’articolato, razionalmente suddiviso in 8 diverse sezioni [305].
In non pochi casi le norme contenute nel Capo III ricalcano in gran parte quanto già previsto nel d.lgs. n. 626 del 1994, rimarcandosi una sensibile continuità con la disciplina pregressa: d’altro canto, non può trascurarsi l’esigenza di rispettare i principi comunitari già ampiamente recepiti nel d.lgs. n. 626 del 1994. In altre occasioni, il legislatore delegato ha invece innovato, sollecitato dai criteri di delega ed agevolato dall’analisi dei punti critici dell’applicazione della normativa previgente.
Per quanto concerne le misure generali di tutela, l’art. 15 ricalca l’art. 3 del d.lgs. n. 626 del 1994, peraltro con alcune precisazioni ed innovazioni. In particolare, la valutazione deve riguardare tutti i rischi per la salute e sicurezza [306]; il controllo sanitario dei lavoratori non è più limitato ai rischi specifici; il lavoratore è adibito, ove possibile, ad altra mansione nel caso di allontanamento dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti alla sua persona; le misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza sono programmate anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi. Come già l’art. 3 del d.lgs. n. 626 del 1994, l’art. 15 del nuovo decreto pare in grado di svolgere non solo una funzione di “manifesto” delle misure preventive, ma anche di eventuale integrazione ed interpretazione degli obblighi specificamente indicati nelle norme successive, collocandosi, come la norma precedente, nella logica della massima sicurezza tecnologicamente possibile (e non praticabile) che deriva dall’art. 2087 c.c. [307].
Recependo i consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia, l’art. 16 definisce per la prima volta sul piano legislativo i requisiti di validità della delega di funzioni, nei casi in cui non sia espressamente esclusa [308]. In linea teorica, la previsione espressa della disciplina della delega di funzioni, unitamente alla norma sugli obblighi indelegabili, dovrebbe contribuire a risolvere i dubbi sui limiti della delega [309], sebbene si sia rilevato che la mancanza di una definizione giuridica della delega di funzioni potrebbe creare non poche difficoltà interpretative [310]. Di qui la proposta di definire la delega di funzioni come la volontaria devoluzione, da parte del datore di lavoro, “di congrui poteri di gestione, di vigilanza e controllo esecutivo dei singoli plessi, o rami, o reparti o linee, nei quali è suddiviso il processo produttivo e il lavoro ad esso necessario, ad uno specifico soggetto, sia esso il dirigente e/o il preposto, attraverso l’incarico, ovvero la mansione di lavoro e con essi la devoluzione volontaria del debito di sicurezza e salute e delle relative responsabilità anche penali e non la limitata traslazione di poteri di organizzazione e gestione, vigilanza e controllo esecutivo, ancorché congrui, attribuiti esclusivamente in vista dell’adempimento degli obblighi di sicurezza e salute sul lavoro” [311]. Sulla scorta di tale definizione sono stati individuati due livelli di delega. La prima è quella “di tipo organizzativo-gestionale, caratterizzata dalla trasmissione dei poteri gestionali e di spesa propri della figura del dirigente che esercita autonomamente l’attività di organizzazione del processo produttivo e del lavoro ad esso necessario, la quale risponde a tutti i requisiti” di cui all’art. 16, lett. a-e. La seconda è quella “di tipo esecutivo, discendente da un incarico aziendale di sovrintendenza e controllo esecutivo del processo produttivo e del lavoro ad esso associato, propria della figura del preposto, la quale, a differenza del passato, dovrà anch’essa, conformemente alle caratteristiche dei poteri attribuiti, rispondere ai requisiti di forma, di professionalità ed esperienza, alla declinazione dei poteri di controllo e, solo eventualmente, dei poteri di spesa, nonché all’accettazione espressa” previsti dallo stesso art. 16 [312].
L’art. 16 prevede innanzitutto che la delega debba risultare da atto scritto [313], che pare doversi intendere richiesto ad substantiam a pena di nullità, recante data certa: requisito, questo che sembra presupporre la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata [314]. È poi necessario che il delegato possieda tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate e che la delega attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate, nonché l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate. Infine, la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto [315]. Queste previsioni confermano quanto già sostenuto in passato in ordine alla necessità che la delega fosse rigorosamente provata in ordine al conferimento ed ai contenuti, tali da configurare un’effettiva autonomia decisionale in ordine alla sicurezza del lavoro [316], dovendosi configurare, in difetto di detta prova, la responsabilità in capo al presunto delegante [317].
L’art. 16 richiede inoltre che alla delega sia data tempestiva ed adeguata pubblicità, senza peraltro specificare in che modo. Nel silenzio della legge, si è ipotizzato per analogia il ricorso a forme di pubblicità previste per altre fattispecie, come quella relativa al provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale di cui all’art. 27 del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 [318], ovvero, con riferimento ai requisiti della tempestività e dell’adeguatezza, quella che l’art. 7, comma 1, Stat. lav. richiede per la validità del codice disciplinare (vale a dire l’affissione in un luogo aziendale accessibile a tutti) [319].
Il conferimento della delega di funzioni non esclude peraltro l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. La critica avanzata al riguardo, secondo cui in tal modo la delega si ridurrebbe ad un mero incarico di esecuzione [320], non convince: la norma non fa altro che recepire un rigoroso e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, una volta attribuita la delega, l’obbligo originario del datore di lavoro “si trasforma in un dovere di garanzia ed egli è tenuto a vigilare e ad impedire la commissione dell’illecito” [321]. Non si è mancato neppure di criticare la previsione secondo cui la vigilanza datoriale si esplica anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4, obiettandosi che si sono così mescolati due ambiti di vigilanza che debbono restare autonomi, rispondendo ad esigenze di vigilanza diverse [322].
Occorre infine considerare che, al di là della delega e delle funzioni iure proprio esercitate dai vari soggetti del sistema aziendale, il legislatore delegato ha previsto, nell’art. 299 (rubricato come “esercizio di fatto di poteri direttivi”), una norma di chiusura in base alla quale le posizioni di garanzia relative al datore di lavoro, al dirigente ed al preposto gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno di tali soggetti. Contrariamente a quanto può apparire, tale previsione non sembra distonica con quelle che, come ora si vedrà, distinguono i compiti dei vari soggetti in modo più chiaro rispetto a quanto faceva l’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994. Infatti, pur fornendo evidenti indicazioni su come debba essere strutturata la ripartizione degli obblighi di protezione, il legislatore ha inteso in ogni caso stendere una rete di sicurezza che possa comunque far emergere le responsabilità in caso di defaillances o di confusa organizzazione delle funzioni.


8.2. Gli obblighi dei vari soggetti
Una particolare ed opportuna attenzione per la distinzione dei ruoli dei vari protagonisti del sistema si coglie nelle norme sugli obblighi. Diversamente dall’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 (che prevedeva tutti insieme gli obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, creando non pochi problemi di interpretazione) [323], l’art. 17 indica in una apposita norma gli obblighi indelegabili del datore di lavoro, vale a dire la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’art. 28 e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. A sua volta, l’art. 18 prevede solo gli obblighi per il datore ed il dirigente (sia quelli delegabili al dirigente sia quelli iure proprio del dirigente medesimo). In un’ulteriore disposizione (art. 19) figurano gli obblighi per i preposti. Tale distinzione, che deve comunque raccordarsi con le definizioni di “dirigente” e di “preposto” ora contenute nell’art. 2 del decreto, è stata salutata con favore, contribuendo a semplificare l’individuazione dei rispettivi compiti e delle connesse responsabilità [324].
Per quanto attiene agli obblighi datoriali (e dirigenziali), rispetto alla norma previgente, nell’art. 18 non figurano più alcuni adempimenti [325], mentre ne compaiono di nuovi [326].
Come anticipato, diversamente ancora una volta dall’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994, l’art. 19 prevede gli obblighi gravanti esclusivamente sul preposto, opportunamente distinguendoli da quelli datoriali e dirigenziali. Gli obblighi espressamente ascritti al preposto [327] sembrano collocarsi nel solco dell’orientamento secondo cui tale soggetto si configura come un responsabile esecutivo, come tale escluso dai compiti di organizzazione e di predisposizione delle misure di protezione [328], e quindi tenuto soltanto alla sorveglianza ed alla informazione (Cass. n. 6468 del 1996; Cass. n. 3483 del 1994) [329]. Sulla configurabilità di una delega al preposto non c’è consenso tra i primi interpreti: mentre alcuni sostengono che, dal raccordo tra le varie disposizioni sul preposto, compresa quella sulla sua specifica formazione (art. 37, comma 7), “riesce difficile immaginare la delegabilità al preposto di compiti propri del datore di lavoro sia pure nei limiti di una delega di esecuzione” [330], altri affermano invece che anche gli obblighi del preposto sono soggetti alla disciplina della delega di funzioni (esecutive), nonostante si possano reputare “a lui esclusivamente attribuiti dalla legge stessa in relazione all’incarico esecutivo” [331].
L’art. 20 conferma tutti gli obblighi per i lavoratori già previsti nell’art. 5 del d.lgs. n. 626 del 1994 [332], aggiungendone alcuni altri [333]. Ne esce quindi confermata la posizione di garanzia che, in caso di infortunio occorso a terzi, rende responsabile anche il lavoratore, il quale deve applicare nell’adempimento la diligenza ex art. 1176, comma 2, c.c., restando il datore di lavoro responsabile verso terzi del suo comportamento colpevole ex art. 2049 c.c. [334]. La nuova disposizione non modifica neppure i possibili effetti del comportamento illegittimo dei lavoratori, che rilevano sia sul piano delle sanzioni penali previste dall’art. 59 del d.lgs. n. 81 del 2008, sia sul versante disciplinare interno al rapporto di lavoro [335].
C’è tuttavia una sensibile novità che riguarda non già gli obblighi, quanto i soggetti a cui essi fanno capo: si tratta, come è evidente, dell’ampliamento della nozione di lavoratore risultante dall’art. 2, comma 1, lett. a, in forza della quale i doveri di cui all’art. 20 gravano su tutti i lavoratori subordinati (compresi gli equiparati) o autonomi a cui il decreto delegato si riferisce, a prescindere dalla tipologia del relativo contratto di lavoro. Per quelle tipologie di lavoratori a cui il decreto si applica solo in parte (art. 3, comma 5 e seguenti), il quantum di obblighi dovrebbe essere comunque corrispondente e proporzionato alla quota di tutela applicabile.
Nessuna novità riguarda gli obblighi dei progettisti, dei fabbricanti, dei fornitori e degli installatori già contenuti nell’art. 6 del d.lgs. n. 626 del 1994, salvo il fatto che gli stessi sono ora suddivisi in tre diversi articoli: l’art. 22 (obblighi dei progettisti), l’art. 23 (obblighi dei fabbricanti e dei fornitori) e l’art. 24 (obblighi degli installatori).
Per quanto riguarda gli obblighi del medico competente, in ossequio al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. g (revisione… delle attribuzioni e delle funzioni dei soggetti del sistema di prevenzione aziendale, compreso il medico competente…), il ruolo e le responsabilità di tale soggetto risultano nettamente rafforzati: non pochi sono infatti i nuovi obblighi che l’art. 25 aggiunge a quelli già previsti dall’art. 17 del d.lgs. n. 626 del 1994, che restano peraltro confermati [336].


8.3. Gli obblighi connessi agli appalti
Come puntualmente messo in luce [337], la sicurezza dei lavoratori può risultare ancora più precaria nei casi in cui nell’organizzazione produttiva del datore di lavoro si inseriscano promiscuamente, mediante appalti “interni” [338], le attività di altre imprese o lavoratori autonomi, aggiungendosi ai “normali” rischi del luogo di lavoro quelli nuovi derivanti dalle interferenze tra le varie attività. Data la delicatezza della questione, il legislatore del 2007 vi aveva dedicato particolare attenzione sia nella veste di “delegante” sia in quella di “diretto riformatore”.
Come delegante, non si era limitato ad individuare un semplice criterio di delega, ma, nell’art. 1, comma 2, lett. s, aveva prescritto che la “revisione della normativa in materia di appalti” avvenisse mediante la previsione di particolari misure dirette a: 1) migliorare l’efficacia della responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore e il coordinamento degli interventi di prevenzione dei rischi, con particolare riferimento ai subappalti, anche attraverso l’adozione di meccanismi che consentano di valutare l’idoneità tecnico-professionale delle imprese pubbliche e private, considerando il rispetto delle norme relative alla salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro quale elemento vincolante per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica; 2) modificare il sistema di assegnazione degli appalti pubblici al massimo ribasso, al fine di garantire che l’assegnazione non determini la diminuzione del livello di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori; 3) modificare la disciplina del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, prevedendo che i costi relativi alla sicurezza debbano essere specificamente indicati nei bandi di gara e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto di appalto.
Come diretto riformatore, il legislatore del 2007 era intervenuto a modificare l’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 [339], tramite l’art. 3 della l. n. 123 del 2007. La principale innovazione apportata da tale norma è consistita nella sostituzione (da parte dell’art. 3, comma 1, lett. a, della l. n. 123 del 2007) del comma 3 dell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, prevedendosi l’obbligo in capo al datore di lavoro committente di promuovere la cooperazione ed il coordinamento di cui all’art. 7, comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi indicante le misure adottate per eliminare le interferenze (DUVRI), da allegare al contratto di appalto o d’opera. Un’ulteriore modifica (apportata dall’art. 3, comma 1, lett. b, della l. n. 123 del 2007) è consistita nell’aggiunta all’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 del comma 3-ter il quale ha previsto l’obbligo di indicare specificamente, nei contratti di somministrazione, di appalto e di subappalto, di cui agli artt. 1559, 1655 e 1656 c.c., i costi relativi alla sicurezza del lavoro, potendo accedere a tali dati, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e le organizzazioni sindacali dei lavoratori. Il tema dei costi della sicurezza è stato oggetto di considerazione in un’altra norma di diretta attuazione della l. n. 123 del 2007, l’art. 8, il quale modificando l’art. 86 del codice degli appalti di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, ha previsto che, nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori siano tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità ed alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. In ogni caso, il costo relativo alla sicurezza non può essere soggetto a ribasso d’asta [340].
Un’attenzione particolare, pur nei limiti di questa ricognizione, merita quindi l’art. 26 del nuovo decreto [341], il quale continua ad assumere come presupposto il fatto che il datore di lavoro affidi lavori all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima. È stato giustamente osservato come il “nonché” di cui all’art. 26, comma 1 (peraltro già presente anche nell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994, dopo la modifica ex art. 1, comma 910 della l. n. 296 del 2006) debba essere interpretato non già come aggiuntivo di un ulteriore requisito, bensì semplicemente come aggiuntivo di una ulteriore fattispecie (come “o comunque”), essendo rilevante ai fini della norma de qua “non solo la contestualità o la contiguità spaziale e temporale delle attività degli appaltatori, ma anche la semplice inerenza sul piano organizzativo della loro attività al ciclo produttivo del committente” [342].
Rispetto a quanto previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 (come modificato ed integrato dall’art. 3 della l. n. 123 del 2007), l’art. 26 ha innanzitutto previsto che il datore di lavoro verifichi, con le modalità previste dal decreto di cui all’art. 6, comma 8, lett. g [343], l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione [344], disponendo inoltre che lo stesso datore fornisca ai medesimi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.
Facendo in gran parte tesoro di quanto previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 come recentemente modificato, ma apportando talora qualche innovazione, l’art. 26 ha poi disposto che i datori di lavoro, ivi compresi i subappaltatori [345], cooperino all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto e coordinino gli interventi di prevenzione e protezione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva [346]. Si conferma che spetta al datore di lavoro committente promuovere la cooperazione ed il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare i rischi da interferenze, ovvero – e questa è una novità – per ridurli al minimo qualora la loro eliminazione non sia possibile. Sebbene il predetto documento di valutazione (DUVRI) non debba essere confuso con quello “generale” di valutazione dei rischi (DVR) [347] e riguardi soltanto i rischi da interferenza tra le attività dell’appaltante e dell’appaltatore [348], sia la previsione della responsabilità della sua elaborazione in capo al datore di lavoro committente sia il fatto che abbia ad oggetto una valutazione dei rischi (ancorché particolari) sembrerebbero configurare l’obbligo di elaborazione del DUVRI come indelegabile, potendo quindi destare, prima facie, una certa sorpresa il mancato richiamo di tale obbligo nell’art. 17 del d.lgs. n. 81 del 2008 e la sua esplicita ricomprensione invece tra quelli delegabili ex art. art. 18, comma 1, lett. p. Nondimeno, una più attenta valutazione delle finalità dell’istituto e, soprattutto, delle esigenze connesse alla sua gestione, può giustificare la sua delegabilità [349].
Il nuovo decreto conferma altresì che il DUVRI vada allegato al contratto di appalto o di opera [350], ma, assai discutibilmente, prevede che ai contratti stipulati anteriormente al 25 agosto 2007 ed ancora in corso alla data del 31 dicembre 2008, il documento debba essere allegato solo entro tale ultima data. Non poche perplessità si addensano sulla legittimità di tale dilazione, non foss’altro perché i rischi da interferenze esistono in quanto tali e non sembrano giustificare una protezione attenuata in ragione della data di stipulazione del contratto di appalto. In realtà, ove si ritenga che il differimento dell’allegazione del DUVRI ai contratti corrisponda alla procrastinazione della sua elaborazione, ben potrebbe ipotizzarsi l’illegittimità costituzionale di tale previsione, ex art. 76 Cost., in quanto prevede un abbassamento dei livelli di protezione rispetto alla disciplina pregressa [351], che la norma delegante (art. 1, comma 3) non consente [352]. Con riferimento alla disciplina previgente, si era rilevato che l’obbligo di elaborazione ed allegazione del DUVRI ricorresse soltanto per i contratti di appalto o di opera stipulati o rinnovati dopo l’entrata in vigore della l. n. 123 del 2007 in quanto, essendo l’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 626 del 1994 presidiato da una sanzione penale, il principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25 c.p. non avrebbe consentito di estendere l’obbligo a contratti già stipulati prima della sua previsione [353]. Tale assunto tuttavia non convince perché, sopravvalutando il dato della stipulazione del contratto, svaluta invece indebitamente la ratio dell’obbligo di elaborazione ed allegazione del DUVRI, il quale mira a prevenire rischi che emergono in ragione della presenza di appalti, a prescindere dal fatto che i relativi contratti fossero stati già stipulati in precedenza. A ben guardare, il principio di irretroattività della legge penale impediva soltanto che un datore di lavoro fosse assoggettato a sanzione penale per non aver elaborato ed allegato il DUVRI prima della data di entrata in vigore del relativo obbligo, mentre non poteva impedire di punire chi, dopo tale data, non avesse provveduto ad elaborare il documento e ad allegarlo al contratto precedentemente stipulato.
All’invito contenuto nel criterio di delega relativo al miglioramento dell’efficacia della responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore, l’art. 26, comma 4, risponde ribadendo quanto era già previsto in ordine alla solidarietà tra l’imprenditore committente, l’appaltatore e ciascuno degli eventuali subappaltatori per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL [354]. Il predetto “miglioramento” consiste dunque “soltanto” nella estensione del predetto meccanismo solidaristico ai lavoratori marittimi (facendosi ora riferimento anche all’ipotesi in cui il lavoratore non risulti indennizzato dall’IPSEMA), nella salvezza delle disposizioni vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, e nella esplicazione della non applicazione del meccanismo della solidarietà ai danni conseguenti ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Continua invece a latitare l’esplicitazione di quel “criterio di accertamento del livello di protezione” dei lavoratori “da considerare invalicabile”, dal quale, secondo alcuni commentatori della legge delega, dipende la reale tenuta del sistema e che non dovrebbe essere inferiore a quello relativo ai dipendenti del datore di lavoro committente [355].
Quanto alla natura della predetta responsabilità solidale, è stato rilevato come si tratti di responsabilità extracontrattuale ed oggettiva “che prescinde dall’accertamento della imputabilità dell’inadempimento… di tutela congiunta che ha dato luogo all’infortunio (che sarà rilevante nei rapporti interni tra appaltante e appaltatore per l’eventuale regresso)”; diversamente opinando, si dovrebbe rilevare l’inutilità della norma poiché, “se il presupposto della responsabilità solidale fosse l’accertamento della colpa dell’imprenditore committente per violazione, in concorso con l’appaltatore, di uno degli obblighi imposti dalla norma stessa, nessun dubbio vi potrebbe essere sulla sua responsabilità solidale a prescindere dalla norma specifica” [356]. Per altro verso, si è osservato come la mancata menzione della somministrazione nell’art. 26, comma 4, possa essere superata in via interpretativa, giacché, limitando la responsabilità solidale al solo appalto, si finirebbe per gravare il lavoratore (in relazione agli altri contratti con lo stesso scopo) “della ripartizione del rischio fra committente e impresa” affidataria, per sottoporre ad un differente regime probatorio (prova della colpa) questi diversi contratti e per “escludere solo per questi contratti la responsabilità del committente quando non vi sia o non si raggiunga la prova di una sua responsabilità rispetto all’adempimento degli obblighi congiunti” [357].
Anche le previsioni sui costi della sicurezza introdotte nel 2007 vengono ribadite [358], sebbene l’art. 26, comma 5, non faccia più menzione della salvezza delle disposizioni in materia di sicurezza e salute del lavoro previste dalla disciplina vigente degli appalti pubblici [359]. Pertanto, si prevede l’obbligo di indicare specificamente i costi relativi alla sicurezza del lavoro, con particolare riferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto [360]: la predetta specificazione va fatta nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione, qui precisandosi opportunamente “anche qualora in essere al momento della entrata in vigore del decreto legislativo” [361]. Si tratta, a ben guardare, della previsione di un’integrazione legale del contenuto dei contratti ex art. 1374 c.c. che, ove non osservata, in base ai principi generali dovrebbe riverberare effetti sulla validità degli stessi contratti ex art. 1418 c.c. [362], nonostante le perplessità sollevate sulla efficacia della sanzione della nullità a proposito di contratti ad esecuzione continuata [363]. Al di là della sua effettività, la sanzione civilistica costituisce l’unico presidio dell’obbligo di indicazione dei costi per la sicurezza, poiché – come già accadeva con l’art. 7, comma 3-ter del d.lgs. m. 626 del 1996 [364] – il legislatore non ha previsto sanzioni penali per la violazione del predetto obbligo.
I contratti di cui si parla sono sempre quelli di cui agli artt. 1559 (somministrazione), 1655 (appalto) e 1656 (subappalto) c.c. [365], ai quali viene ora aggiunto l’art. 1677 (prestazione continuativa o periodica di servizi), mentre, nel caso dell’art. 1559, si escludono i contratti di somministrazione di beni e servizi essenziali. Ancora una volta discutibilmente, l’art. 26, comma 5, secondo periodo, prevede che, con riferimento ai contratti stipulati prima del 25 agosto 2007, i costi della sicurezza del lavoro siano indicati entro il 31 dicembre 2008, qualora gli stessi contratti siano ancora in corso a tale data. A tali dati possono accedere, su richiesta, il RLS e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale, apparentemente non risolvendosi il dubbio [366] su quale sia il RLS legittimato a richiedere i dati. Un’indiretta indicazione potrebbe essere fornita dalla previsione di cui all’art. 50, comma 5, che riconosce sia al RLS del datore di lavoro committente sia a quelli delle imprese appaltatrici il diritto di ricevere, su loro richiesta e per l’espletamento della loro funzione, copia del DUVRI: l’interpretazione analogica in tal caso non sembra preclusa visto che l’eventuale violazione del diritto di accesso ai dati sui costi per la sicurezza non risulta sanzionata.
Si è recentemente posto il problema se il riferimento del d.lgs. n. 81 del 2008 non solo al contratto di appalto, ma anche a quello di somministrazione possa integrare un eccesso di delega dato che l’art. 1, comma 2, lett. s, della l. n. 123 del 2007 richiama esclusivamente gli appalti [367]. La risposta negativa è stata motivata in base al fatto che la delega comprende l’attuazione della direttiva 89/391/CEE, la quale, “avendo come destinatari ordinamenti giuridici diversi, non può essere interpretata nel senso di una delimitazione al contratto di appalto”, ma esprime un concetto sostanziale – qual è l’affidamento ad altre imprese di segmenti del ciclo produttivo del committente – che prescinde dalle tipologie negoziali presenti nei vari ordinamenti [368]. Sulla scorta di ciò si è poi sostenuto che i riferimenti contenuti nell’art. 26 non possono essere considerati tassativi, dovendosi applicare la norma a qualsiasi contratto anche atipico che realizzi lo scopo di quelli da esso nominati [369]. Al di là della condivisibilità della risposta circa il presunto eccesso di delega, non convince invece il rilievo sulla non tassatività delle tipologie negoziali indicate nell’art. 26, almeno con riferimento alle previsioni di tale norma presidiate dalle sanzioni penali di cui all’art. 55 del d.lgs. n. 81 del 2008, stante il doveroso rispetto dei principi generali di legalità e tassatività in materia penale [370].
Diversamente da quanto accade nel caso degli appalti pubblici [371], per quelli privati l’art. 26 non fornisce criteri oggettivi di accertamento e di calcolo degli oneri finanziari della sicurezza, che rischiano così di rimanere in balia della “legge del mercato”, evidenziandosi oltretutto non poche difficoltà sia relativamente alla “determinazione del valore degli investimenti minimi da inserire nei bandi”, sia in ordine al controllo pubblico della congruità delle previsioni di spesa [372]. Non si dovrebbe fra l’altro trascurare che, proprio attraverso un’attenta analisi dei costi della sicurezza, si potrebbe efficacemente verificare l’idoneità dell’appaltatore che – nella logica dell’art. 26, diversamente da quanto pare risultare dal comma 1, lett. a – non dovrebbe essere tanto l’idoneità a fornire il servizio o l’opera richiesta, bensì “l’idoneità a gestire il sistema di sicurezza” [373].
Come già segnalato, nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro. Tale obbligo, finalizzato a contrastare il lavoro irregolare, era già stato introdotto con l’art. 6, comma 1, della l. n. 123 del 2007 [374], che lo aveva a sua volta mutuato dal menzionato art. 36-bis, comma 3, della “legge Bersani”, e vale anche per i lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro. L’art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008 non ripropone tuttavia quanto previsto dal comma 2 dell’art. 6 della l. n. 123 del 2007 (articolo interamente abrogato dall’art. 304, comma 1, lett. c), il quale, nel caso di datori di lavoro con meno di dieci dipendenti, prevedeva che l’obbligo relativo alla “tessera” potesse essere assolto mediante annotazione degli estremi del personale giornalmente impiegato nei lavori su apposito registro vidimato dalla Direzione provinciale del lavoro, da tenersi sul luogo di lavoro.


8.3.1. La qualificazione delle imprese
Sulla scorta del criterio di delega contenuto nell’art. 1, comma 2, lett. m, della l. n. 123 del 2008 [375] e valorizzando l’assunto secondo cui un’efficace prevenzione presuppone un’adeguata organizzazione qualitativamente apprezzabile, l’art. 27 del nuovo decreto prevede che, nell’ambito della Commissione consultiva permanente, anche tenendo conto delle indicazioni provenienti dagli organismi paritetici, vengano individuati settori e criteri finalizzati alla definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, con riferimento alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, fondato sulla base della specifica esperienza, competenza e conoscenza, acquisite anche attraverso percorsi formativi mirati. Il possesso dei requisiti per ottenere la predetta qualificazione costituisce elemento vincolante per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica, sempre se correlati ai medesimi appalti o subappalti.
Ancora una volta sarà decisivo il ruolo “promozionale” della nuova Commissione consultiva la quale, sulla scorta del documento conclusivo dell’Assemblea dei quadri e delegati Cgil-Cisl-Uil del 12 gennaio 2007, ben potrebbe indicare fra i criteri per la qualificazione delle imprese un obbligo formativo preventivo alla sicurezza per chiunque voglia iniziare un’attività imprenditoriale, “che tenga conto delle caratteristiche di pericolosità della attività che si intendono avviare, dell’esperienza e dei livelli di istruzione” [376].


8.4. La valutazione dei rischi
La II sezione del Capo III è riservata alla valutazione dei rischi, che costituisce il perno del sistema di gestione aziendale della prevenzione e della quale si disciplinano in dettaglio contenuto e modalità.
L’art. 28 disciplina l’oggetto della valutazione dei rischi, riferendosi a tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi anche a quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004 [377], quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 151 del 2001, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età [378], alla provenienza da altri paesi. Sul carattere esemplificativo di tale elencazione [379] non possono sorgere dubbi, come risulta dallo stesso tenore letterale che ricomprende i rischi appena menzionati tra tutti i rischi che debbono essere valutati. Spiace tuttavia constatare che non si faccia alcuna menzione dei rischi particolari connessi alle tipologie negoziali flessibili [380], peraltro “recuperabili” sia in forza della non tassatività della predetta elencazione sia, forse, grazie alla previsione di cui allo stesso art. 28, comma 2, lett. f.
Il documento redatto a conclusione della valutazione (DVR) deve innanzitutto avere data certa. A tale proposito, trattandosi di un documento “privato”, per il quale la legge richiede la forma scritta senza ulteriori specificazioni, sembra davvero eccessivo, per ottenere la certificazione della data, esigere che il DVR sia redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata. D’altro canto, per certificare la data si potrebbero seguire ulteriori e più semplici procedure, come l’annullo dell’Ufficio del registro o di un ufficio postale. Anche così, tuttavia, si otterrebbe un eccessivo appesantimento di questo adempimento datoriale, non dovendosi oltretutto dimenticare che il DVR è suscettibile di aggiornamenti. Senza scomodare la legge delega che conteneva chiari segnali in ordine alla semplificazione degli adempimenti meramente formali (tale non è però il DVR), c’è tuttavia da chiedersi se il legislatore, esigendo una data certa, abbia inteso riferirsi ai “sacri” principi dell’opponibilità ai terzi [381], o abbia più semplicemente richiesto che sia comunque possibile accertare la genuina collocazione temporale del DVR. In tal senso, non sembrerebbe azzardato ipotizzare una soluzione meno formalistica, ma più coerente con la filosofia partecipativa della sicurezza, consistente nel rafforzare il coinvolgimento di chi deve cooperare con il datore di lavoro nell’effettuazione della valutazione e nell’elaborazione del DVR, immaginando quindi la semplice redazione di un apposito verbale allegato al DVR attestante la veridicità della data dello stesso e sottoscritto, oltre che dal datore di lavoro, dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione, dal medico competente (ove abbia partecipato) e dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (al quale, ove ne faccia richiesta, il documento va consegnato). Poesia, si dirà. Ed infatti è presumibile che in un paese come questo, fondato su timbri e tamponi, alla fine la spunterà il prosaico annullo postale!
Per quanto concerne il contenuto obbligatorio del DVR, oltre a quanto già prevedeva l’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 [382], l’art. 28 stabilisce che il DVR debba ora contenere: l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri; l’indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale e del medico competente che ha partecipato alla valutazione dei rischi; l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e conoscenza del contesto lavorativo. Stante il tenore di quest’ultima previsione, mediante essa si potrebbe tentare di recuperare un’adeguata “tutela” per quei lavoratori “flessibili” che non abbiano appunto una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e conoscenza del contesto lavorativo.
È evidente come queste dettagliate prescrizioni rendano più pregnante che in passato l’elaborazione del documento di valutazione [383], corroborando vieppiù l’opinione – peraltro non dominante – secondo cui, anche sotto l’egida della disciplina previgente, la fattispecie “mancata effettuazione della valutazione” si sarebbe realizzata non solo quando non si fosse provveduto a redigere il documento [384], ma anche quando quest’ultimo si fosse rivelato insufficiente, incompleto o inadeguato [385], potendo tale inadeguatezza riguardare tanto i parametri di cui all’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 quanto “apposite norme in rapporto ad alcuni rischi specifici” [386].
Delle modalità di effettuazione della valutazione dei rischi si occupa in dettaglio l’art. 29, il quale, oltre a prevedere la preventiva consultazione del RLS, ribadisce la necessaria collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente. Purtroppo, il coinvolgimento del medico competente in occasione della valutazione dei rischi è rimasto confinato ai soli casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria, laddove – in una prospettiva di più efficace prevenzione e protezione della salute dei lavoratori in qualche modo emergente dalla delega [387] – non sarebbe stato affatto inopportuno valorizzarne maggiormente la partecipazione, eventualmente addossando al datore di lavoro l’onere di dimostrarne la non necessità.
Tra le novità va segnalato che la valutazione e il relativo documento debbono essere rielaborati non solo – come prevedeva l’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 – in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma anche in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità, dovendosi aggiornare, a seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione.
Particolari disposizioni sono dettate per le imprese di minori dimensioni, alle quali la disciplina previgente consentiva di autocertificare l’assolvimento dell’obbligo della valutazione dei rischi [388]. Tale previsione aveva destato non poche perplessità, rilevandosi in particolare il rischio che l’autocertificazione fosse uno schermo per mascherare la non valutazione, al di là poi delle difficoltà di dimostrare concretamente l’avvenuta valutazione in assenza del documento di valutazione [389]. La soluzione accolta dal legislatore del 2008 per i datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori costituisce un passo in avanti, pur atteggiandosi come compromissoria: lascia sopravvivere la procedura autocertificatoria ma solo temporaneamente, vale a dire fino a che non siano disponibili procedure standardizzate di valutazione dei rischi [390]. Questa previsione tuttavia non si applica per alcune attività connotate da particolare pericolosità [391], trovando anche così attuazione il criterio di delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. c, n. 1, della l. n. 123 del 2007 che evoca misure di particolare tutela per determinate categorie di lavoratori e lavoratrici e per specifiche tipologie di lavoro o settori di attività.
Anche i datori di lavoro che occupano fino a 50 lavoratori possono effettuare la valutazione dei rischi sulla base delle predette procedure standardizzate, ma, a differenza di quelli che occupano fino a 10 lavoratori, nelle more dell’elaborazione di tali procedure non possono ricorrere all’autocertificazione e debbono effettuare la valutazione dei rischi nel modo ordinario [392]. In ogni caso, anche qualora l’impresa occupi fino a 50 lavoratori, la possibilità di ricorrere alle procedure standardizzate è esclusa per le attività pericolose [393].
Occorre infine ricordare che, in base a quanto stabilito dall’art. 306, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008, le disposizioni di cui agli artt. 17, comma 1, lett. a, e 28, nonché le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie, acquistano efficacia decorsi novanta giorni dalla pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale, continuando pertanto fino a tale data a trovare applicazione le disposizioni previgenti. Tra queste sembrerebbe doversi ricomprendere nella fase transitoria anche l’art. 96-bis del d.lgs. n. 626 del 1994, che è norma correlata alla valutazione dei rischi in quanto prevede che il datore di lavoro che intraprenda un’attività lavorativa sia tenuto ad elaborare il documento di valutazione dei rischi entro 3 mesi dall’effettivo inizio dell’attività. Senonché, venuta meno la fase transitoria, anche tale previsione decadrebbe, creandosi così una lacuna che dovrebbe essere colmata mediante la decretazione delegata integrativa di cui all’art. 1, comma 6, della l. n. 123 del 2007.


8.5. I modelli di organizzazione e di gestione
L’art. 30 contiene una norma innovativa che identifica i requisiti del modello di organizzazione e di gestione idoneo a scongiurare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 [394]. Tale modello deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un idoneo sistema aziendale [395], prevedendo adeguati sistemi di registrazione delle attività, un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello ed un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate [396]. L’art. 30 prevede che, in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti già menzionati per le parti corrispondenti [397].


203 Cfr. L. Fantini, A. Faventi, Il nuovo sistema istituzionale: quadro di sintesi, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 299 ss.

204 Nonché quanto previsto nell’ulteriore criterio indicato nella medesima norma alla lett. q, dove si prevede la razionalizzazione e il coordinamento delle strutture centrali e territoriali di vigilanza nel rispetto dei principi di cui all’art. 19 del d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, e dell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994, al fine di rendere più efficaci gli interventi di pianificazione, programmazione, promozione della salute, vigilanza, nel rispetto dei risultati verificati, per evitare sovrapposizioni, duplicazioni e carenze negli interventi e valorizzando le specifiche competenze, anche riordinando il sistema delle amministrazioni e degli enti statali aventi compiti di prevenzione, formazione e controllo in materia e prevedendo criteri uniformi ed idonei strumenti di coordinamento.

205 Anche se, per un errore materiale, nell’art. 5, comma 1, l’espressione “è istituito” non compare.

206 Nelle ipotesi di cui all’art. 5, comma 3, lett. a, b, e, f.

207 Le modalità di funzionamento del Comitato sono fissate con regolamento interno da adottarsi a maggioranza qualificata rispetto al numero dei componenti; le funzioni di segreteria sono svolte da personale del Ministero della salute appositamente assegnato. Ai componenti del Comitato ed ai soggetti invitati a partecipare non spetta alcun compenso, rimborso spese o indennità di missione.

208 Sulla necessità di un coordinamento tra il Comitato di cui all’art. 5 ed altri organismi con competenze in materia di lavoro irregolare e sommerso, v. P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, in F. Bacchini (a cura di), Speciale Testo Unico sicurezza del lavoro, cit., p. 248 ss.

209 Cfr. l’art. 26 del d.lgs. n. 626 del 1994, che aveva sostituito gli artt. 393 e 394 del d.P.R. n. 547 del 1955 e ne aveva soppresso l’art. 395.

210 Si tratta dei Ministeri della salute, dello sviluppo economico, dell’interno, delle infrastrutture, dei trasporti, delle politiche agricole e forestali, della solidarietà sociale, per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione.

211 Per ciascun componente può essere nominato un supplente, il quale interviene unicamente in caso di assenza del titolare. I componenti della Commissione e i segretari sono nominati con decreto del Ministro del lavoro, su designazione degli organismi competenti e durano in carica cinque anni. Le modalità di funzionamento della Commissione sono fissate con regolamento interno da adottarsi a maggioranza qualificata rispetto al numero dei componenti; le funzioni di segreteria sono svolte da personale del Ministero del lavoro appositamente assegnato. Ai componenti della Commissione (e non del Comitato, come erroneamente risulta scritto nell’art. 6, comma 7) non spetta alcun compenso, rimborso spese o indennità di missione.

212 Con particolare riferimento a quelle relative alla materia dell’istruzione per le problematiche di cui all’art. 11, comma 1, lett. c.

213 Rispetto al passato, la Commissione non esamina più le problematiche evidenziate dai Comitati regionali sulle misure preventive e di controllo dei rischi adottate nei luoghi di lavoro, né propone linee guida applicative della normativa di sicurezza. Inoltre, non esprime più pareri su: adeguamenti di natura strettamente tecnica relativi alla normativa CEE da attuare a livello nazionale; richieste di deroga previste dall’art. 48 del d.lgs. n. 277 del 1991; richieste di deroga previste dall’art. 8 del d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 77; riconoscimento della conformità alle vigenti norme per la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro di mezzi e sistemi di sicurezza; ricorsi avverso le disposizioni impartite dagli ispettori del lavoro nell'esercizio della vigilanza, sulle attività comportanti rischi particolarmente elevati, individuate ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. g, n. 4, della l. 19 febbraio 1991, n. 142, secondo le modalità di cui all’art. 402 del d.P.R. n. 547 del 1955; qualsiasi questione relativa alla sicurezza del lavoro e alla protezione della salute dei lavoratori, su richiesta dei Ministeri del lavoro o della salute o delle Regioni.

214 P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 249.

215 Si tratta, innanzitutto, dell’esame dei problemi applicativi della normativa di salute e sicurezza sul lavoro e della formulazione di proposte per lo sviluppo e il perfezionamento della legislazione vigente (nella precedente disciplina si prevedeva che la predetta formulazione di proposte fosse finalizzata anche al coordinamento della legislazione con altre disposizioni concernenti la sicurezza e la protezione della salute dei lavoratori, nonché per il coordinamento degli organi preposti alla vigilanza: in verità, almeno il coordinamento della legislazione appare un problema sostanzialmente superato dall’emanazione del nuovo decreto legislativo). Inoltre si tratta: della espressione di pareri sui piani annuali elaborati dal Comitato di cui all’art. 5; della redazione annuale, sulla base dei dati forniti dal Sistema informativo di cui all’art. 8, di una relazione sullo stato di applicazione della normativa di salute e sicurezza e sul suo possibile sviluppo, da trasmettere alle Commissioni parlamentari competenti e ai Presidenti delle Regioni; della valutazione delle problematiche connesse all’attuazione delle direttive comunitarie e delle convenzioni internazionali stipulate in materia di salute e sicurezza del lavoro.

216 Contrariamente a quanto sostenuto da P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 249, il Comitato e la Commissione consultiva non sembrano costituire una “duplicazione pletorica dei collegi”, svolgendo compiti tra loro diversi pur se necessariamente destinati ad integrarsi. Non deve fra l’altro trascurarsi che il ruolo delle parti sociali nell’ambito del Comitato di cui all’art. 5 (che è il vero organo politico-istituzionale) è assai più sfumato e si concretizza in una consultazione.

217 V. le osservazioni critiche di F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., pp. 353-354.

218 L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 30. Come ricorda opportunamente M. Lai, Il ruolo delle parti sociali: in particolare le rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi paritetici, in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 195 ss., qui p. 196, il principio del tripartitismo è affermato, in ambito internazionale, da ultimo nella Convenzione OIL n. 187 del 15 giugno 2006 sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza del lavoro, la quale impegna gli Stati ratificanti a promuovere, in consultazione con le parti sociali, una politica, un sistema ed un programma nazionali in materia.

219 V. F. Amato, La responsabilità sociale delle imprese, intervento presentato al Seminario di studi di Magistratura democratica su “La sicurezza sul lavoro”, cit. Più in generale, sulla r.s.i. cfr. M. Napoli (a cura di), La responsabilità sociale delle imprese, Vita e Pensiero, Milano, 2005; R. Del Punta, Responsabilità sociale dell’impresa e diritto del lavoro, in LD, 2006, p. 41 ss.; D. Gottardi, Il diritto del lavoro nelle imprese socialmente responsabili, ivi, p. 5 ss.; V. Ferrante, Responsabilità sociale dell’impresa e lavoro subordinato, ivi, p. 83 ss.; P. Greco, Responsabilità sociale delle imprese e mercato del lavoro, in DML, 2006, n. 1-2, p. 127 ss.; G. Pino, Una rilettura degli obblighi di sicurezza sul lavoro, cit.

220 Cfr. ancora L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 30, nonché S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., pp. 51-54.

221 In materia di Comitati regionali di coordinamento vale ovviamente anche quanto previsto nel criterio di delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. q, relativamente alla razionalizzazione ed al coordinamento delle strutture e territoriali di vigilanza al fine di rendere più efficaci gli interventi di pianificazione, programmazione, promozione della salute, vigilanza, nel rispetto dei risultati verificati, per evitare sovrapposizioni, duplicazioni e carenze negli interventi e valorizzando le specifiche competenze e prevedendo criteri uniformi ed idonei strumenti di coordinamento.

222 In GU n. 31 del 6 febbraio 2008.

223 Tale norma aveva infatti previsto che, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa intesa sancita, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della l. 5 giugno 2003, n. 131, in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, fosse disciplinato il coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, affidato ai Comitati regionali di coordinamento di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 626 del 1994 ed al d.P.C.M. 5 dicembre 1997 (in GU n. 29 del 5 febbraio 1998). Il decreto presidenziale doveva individuare, in particolare: a) nell’ambito della normativa già prevista in materia, i settori prioritari di intervento dell’azione di vigilanza, i piani di attività ed i progetti operativi da attuare a livello territoriale; b) l’esercizio di poteri sostitutivi in caso di inadempimento da parte di amministrazioni ed enti pubblici. Si era inoltre previsto che, fino all’emanazione del decreto presidenziale, il coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza fosse esercitato dal Presidente della Provincia o da un Assessore da lui delegato, nei confronti degli uffici delle amministrazioni e degli enti pubblici territoriali rientranti nell’ambito di competenza. Con l’emanazione del d.P.C.M. è quindi cessata la funzione di supplenza attribuita temporaneamente ai Presidenti delle Province dall’art. 4, comma 2. Su tale norma cfr. A. Andreani, L. Angelini, Coordinamento e potenziamento dell’attività di prevenzione e di vigilanza ed integrazione degli archivi informativi, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 31 ss.

L’art. 4, comma 3, della l. n. 123 del 2007 ha introdotto norme relative alla predisposizione delle attività necessarie per l’integrazione dei rispettivi archivi informativi delle varie amministrazioni aventi competenze in materia, mentre il successivo comma 4 ha previsto l’utilizzazione per il 2007 delle risorse stanziate dall’art. 1, comma 545, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007) sia per l’immissione in servizio di nuovi ispettori del lavoro, sia per finanziare il funzionamento e il potenziamento dell’attività ispettiva, la costituzione di appositi nuclei di pronto intervento e per l’incremento delle dotazioni strumentali. Infine, l’art. 4, comma 7, ha disposto l’avvio di progetti sperimentali in ambito scolastico e nei percorsi di formazione professionale volti a favorire la conoscenza delle tematiche in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.

224 Il Comitato è presieduto dal Presidente della Giunta regionale o da un Assessore da lui delegato, con la partecipazione degli Assessori regionali competenti e comprende rappresentanti delle ASL, dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale, dei settori ispezione delle Direzioni regionali del lavoro, degli Ispettorati regionali dei vigili del fuoco, delle agenzie territoriali dell’ISPESL, degli uffici periferici dell’INAIL, degli uffici periferici dell’IPSEMA, degli uffici periferici dell’INPS, dell’ANCI, dell’UPI e degli uffici di sanità aerea e marittima del Ministero della salute nonché delle autorità marittime portuali ed aeroportuali.

225 Ai lavori del Comitato – che deve riunirsi almeno ogni tre mesi – partecipano rappresentanti dei datori di lavoro e quattro rappresentanti dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello regionale. Presso ogni Comitato regionale è istituito un ufficio operativo composto da rappresentanti degli organi di vigilanza che pianifica il coordinamento delle rispettive attività, individuando le priorità a livello territoriale e provvedendo a definire i piani operativi di vigilanza che sono attuati da organismi provinciali composti da servizi di prevenzione e sicurezza delle ASL, DPL, INAIL, ISPESL, INPS e Comando provinciale dei vigili del fuoco.

226 Invece che con il decreto delegato, come sarebbe stato naturale, il criterio della delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. l, della l. n. 123 del 2007 trova curiosamente attuazione con quest’ultima previsione del d.P.C.M.

227 L’art. 1, comma 2, lett. o, ha previsto la partecipazione delle parti sociali al sistema informativo, costituito da Ministeri, Regioni e Province autonome, INAIL, IPSEMA, ISPESL, con il contributo del CNEL, e il concorso allo sviluppo del medesimo da parte degli organismi paritetici e delle associazioni e degli istituti di settore a carattere scientifico, ivi compresi quelli che si occupano della salute delle donne.

228 V. M. Di Giorgio, Il Sistema informativo nazionale per la salute e sicurezza, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 707 ss.

229 Cfr. S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 46.

230 Vale a dire: a) elaborazione e applicazione dei rispettivi piani triennali di attività; b) interazione, per i rispettivi ruoli e competenze, in logiche di conferenza permanente di servizio, per assicurare apporti conoscitivi al sistema di sostegno ai programmi di intervento in materia di sicurezza e salute sul lavoro di cui all’art. 2, comma 1, lett. p, per verificare l’adeguatezza dei sistemi di prevenzione e assicurativi e per studiare e proporre soluzioni normative e tecniche atte a ridurre il fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali; c) consulenza alle aziende, in particolare alle medie, piccole e micro imprese, anche attraverso forme di sostegno tecnico e specialistico finalizzate sia al suggerimento dei più adatti mezzi, strumenti e metodi operativi, efficaci alla riduzione dei livelli di rischiosità in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sia all’individuazione degli elementi di innovazione tecnologica in materia con finalità prevenzionali, raccordandosi con le altre istituzioni pubbliche operanti nel settore e con le parti sociali; d) progettazione ed erogazione di percorsi formativi in materia di salute e sicurezza sul lavoro tenuto conto ed in conformità dei criteri e modalità elaborati ai sensi degli artt. 6 e 11; e) formazione per i responsabili e gli addetti ai servizi di prevenzione e protezione di cui all’art. 32; f) promozione e divulgazione della cultura della salute e della sicurezza del lavoro nei percorsi formativi scolastici, universitari e delle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, previa stipula di apposite convenzioni con le istituzioni interessate; g) partecipazione, con funzioni consultive, al Comitato di cui all’art. 5; h) consulenza alla Commissione consultiva permanente; i) elaborazione e raccolta e diffusione delle buone prassi di cui all’art. 2, comma 1, lett. v; l) predisposizione delle linee guida di cui all’art. 2, comma 1, lett. z; m) contributo al SINP secondo quanto previsto dall’art. 8.

231 Anche se il concetto di “micro” impresa non risulta definito dal decreto legislativo, come del resto dalla legge delega.

232 Con un successivo decreto del Ministro del lavoro, di concerto con quello della salute per la parte concernente i funzionari dell’ISPESL, si disciplinerà lo svolgimento dell’attività di consulenza e dei relativi proventi, fermo restando che i compensi percepiti per lo svolgimento dell’attività di consulenza sono devoluti in ragione della metà all’ente di appartenenza e nel resto al fondo di cui all’art. 52, comma 1.

233 Fermo restando quanto previsto dall’art. 12 della l. 11 marzo 1988, n. 67, dall’art. 2, comma 6, della l. 28 dicembre 1995, n. 549, e dall’art. 2, comma 130, della l. 23 dicembre 1996, n. 662, nonché da ogni altra disposizione previgente.

234 In sede di prima applicazione, le relative prestazioni sono fornite con riferimento agli infortuni verificatisi a far data dal 1° gennaio 2007.

235 L’ISPESL è un ente di diritto pubblico, nel settore della ricerca, dotato di autonomia scientifica, organizzativa, patrimoniale, gestionale e tecnica, ed è organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale di ricerca, sperimentazione, controllo, consulenza, assistenza, alta formazione, informazione e documentazione in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, sicurezza sul lavoro e di promozione e tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro, del quale si avvalgono gli organi centrali dello Stato preposti ai settori della salute, dell’ambiente, del lavoro e della produzione e le Regioni e Province autonome.

236 In base all’art. 9, comma 6, l’ISPESL: a) svolge e promuove programmi di studio e ricerca scientifica e programmi di interesse nazionale nel campo della prevenzione degli infortuni, e delle malattie professionali, della sicurezza sul lavoro e della promozione e tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro; b) interviene nelle materie di propria competenza, su richiesta degli organi centrali dello Stato e delle Regioni e delle Province autonome, nell’ambito dei controlli che richiedono un’elevata competenza scientifica, eseguendo, mediante accesso nei luoghi di lavoro, accertamenti e indagini in materia di salute e sicurezza del lavoro; c) è organo tecnico-scientifico delle autorità nazionali preposte alla sorveglianza del mercato ai fini del controllo della conformità ai requisiti di sicurezza e salute di prodotti messi a disposizione dei lavoratori; d) svolge attività di organismo notificato per attestazioni di conformità relative alle direttive per le quali non svolge compiti relativi alla sorveglianza del mercato; e) è titolare di prime verifiche e verifiche di primo impianto di attrezzature di lavoro sottoposte a tale regime; f) fornisce consulenza al Ministero della salute, agli altri Ministeri e alle Regioni e Province autonome in materia di salute e sicurezza del lavoro; g) fornisce assistenza al Ministero della salute e alle Regioni e alle Province autonome per l’elaborazione del piano sanitario nazionale, dei piani sanitari regionali e dei piani nazionali e regionali della prevenzione, per il monitoraggio delle azioni poste in essere nel campo della salute e sicurezza del lavoro e per la verifica del raggiungimento dei livelli essenziali di assistenza in materia; h) supporta il Servizio sanitario nazionale fornendo informazioni, formazione, consulenza e assistenza alle strutture operative per la promozione della salute, prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro; i) svolge, congiuntamente ai servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro delle ASL, l’attività di vigilanza sulle strutture sanitarie del Servizio sanitario nazionale; l) effettua il raccordo e la divulgazione dei risultati derivanti dalle attività di prevenzione nei luoghi di lavoro svolte dalle strutture del Servizio sanitario nazionale; m) partecipa alla elaborazione di norme di carattere generale e formula pareri e proposte circa la congruità della norma tecnica non armonizzata ai requisiti di sicurezza previsti dalla legislazione nazionale vigente; n) assicura la standardizzazione tecnico-scientifica delle metodiche e delle procedure per la valutazione e la gestione dei rischi e per l’accertamento dello stato di salute dei lavoratori in relazione a specifiche condizioni di rischio e contribuisce alla definizione dei limiti di esposizione; o) diffonde, previa istruttoria tecnica, le buone prassi di cui all’art. 2, comma 1, lettera v; p) coordina il Network nazionale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in qualità di Focal Point italiano nel Network informativo dell’Agenzia europea per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; q) supporta l’attività di monitoraggio del Ministero della salute sulla applicazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA) relativi alla sicurezza nei luoghi di lavoro.

237 Oltre ad alcuni dei compiti assegnati anche all’INAIL (art. 9, comma 4, lett. a, b, d), l’IPSEMA finanzia, nell’ambito e nei limiti delle proprie spese istituzionali, progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro e supporta, in raccordo con le amministrazioni competenti in materia di salute per il settore marittimo, anche mediante convenzioni con l’INAIL, le prestazioni di assistenza sanitaria riabilitativa per i lavoratori marittimi anche al fine di assicurare il loro reinserimento lavorativo.

238 Da finanziare, a decorrere dall’anno 2008, per le attività di cui ai successivi nn. 1) e 2), a valere, previo atto di accertamento, su una quota delle risorse di cui all’art. 1, comma 780, della l. n. 296 del 2006, accertate in sede di bilancio consuntivo per l’anno 2007 dell’INAIL.

239 Le Regioni e le Province autonome (tramite le ASL), il Ministero dell’interno (tramite le strutture del Corpo nazionale dei vigili del fuoco), l’ISPESL, il Ministero del lavoro, il Ministero dello sviluppo economico per il settore estrattivo, l’INAIL, l’IPSEMA, gli organismi paritetici e gli enti di patronato.

240 A tale proposito occorre ricordare che l’art. 4, comma 7, della l. n. 123 del 2007 aveva già disposto, a decorrere dall’anno scolastico 2007/2008, l’avvio, da parte dei Ministeri del lavoro e della pubblica istruzione, di progetti sperimentali in ambito scolastico e nei percorsi di formazione professionale volti a favorire la conoscenza delle tematiche in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, nell’ambito delle dotazioni finanziarie e di personale disponibili e dei programmi operativi nazionali (PON): cfr. A. Andreani, L. Angelini, Coordinamento e potenziamento dell’attività di prevenzione e di vigilanza, cit.

241 In sede di prima applicazione, per il primo anno dall’entrata in vigore del decreto, le risorse di cui all’art. 1, comma 7-bis della l. n. 123 del 2007, come introdotto dall’art. 2, comma 533, della l. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), sono utilizzate, secondo le priorità, ivi compresa una campagna straordinaria di formazione, stabilite, entro sei mesi dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, con accordo adottato, previa consultazione delle parti sociali, in sede di Conferenza Stato-Regioni. Occorre ricordare che l’art. 10 della l. n. 123 del 2007 ha previsto che, a decorrere dal 2008, ai datori di lavoro sia concesso per il biennio 2008-2009, in via sperimentale, entro un limite di spesa pari a 20 milioni di euro annui, un credito d’imposta nella misura massima del 50% delle spese sostenute per la partecipazione dei lavoratori a programmi e percorsi certificati di carattere formativo in materia di tutela e sicurezza del lavoro.

242 M. Bombardelli, Commento all’art. 9 del d.lgs. n. 124/2004, in NLCC, 2005, p. 936 ss.

243 Cfr. S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 45.

244 P. Rausei, L’interpello, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 359 ss., qui p. 361.

245 Cfr. già la circolare del Ministero del lavoro del 23 dicembre 2004, n. 49.

246 P. Rausei , L’interpello, cit., p. 360.

247 P. Rausei , L’interpello, cit., p. 361.

248 Come sostiene P. Rausei , L’interpello, cit., p. 362.

249 S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 45.

250 P. Rausei , L’interpello, cit., p. 363.

251 Cfr. art. 1, comma 2, lett. q, della l. n. 123 del 2007, che prevede la razionalizzazione e il coordinamento delle strutture centrali e territoriali di vigilanza nel rispetto dei principi di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 e dell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994, al fine di rendere più efficaci gli interventi di pianificazione, programmazione, promozione della salute, vigilanza, nel rispetto dei risultati verificati, per evitare sovrapposizioni, duplicazioni e carenze negli interventi e valorizzando le specifiche competenze, anche riordinando il sistema delle amministrazioni e degli enti statali aventi compiti di prevenzione, formazione e controllo in materia e prevedendo criteri uniformi ed idonei strumenti di coordinamento.

252 P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza, cit., p. 254.

253 A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative, cit., p. 58 ss.

254 Corte cost., 25 settembre-1° ottobre 2003, n. 303, in GU, 8 ottobre 2003; Corte cost., 2 ottobre 2006, n. 323, in GU, 11 ottobre 2006.

255 Corte cost., 11 ottobre 2005, n. 384, in GU, 19 ottobre 2005.

256 L. Nogler, Divide et impera: sull’irrealistico riparto di competenze proposto dalla Corte in tema di vigilanza in materia di lavoro, in Le regioni, p. 448 ss., qui p. 449.

257 L. Nogler, Il riparto di competenze stato-regioni in tema di vigilanza sul lavoro, in NLCC, p. 877 ss., qui p. 879.

258 A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative, cit., p. 65; O. Bonardi, La sicurezza del lavoro nella Comunità europea, cit., pp. 559-460.

259 L’art. 12 della l. n. 123 del 2007 ha autorizzato il Ministero del lavoro ad immettere in servizio, a decorrere dal mese di gennaio 2008, 300 nuovi ispettori del lavoro risultati idonei in concorsi pubblici, autorizzando altresì le relative coperture finanziarie. L’art. 24-quater della l. 28 febbraio 2008, n. 31, con cui è stato convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 31 dicembre 2007, n. 248 (c.d. decreto “milleproroghe”), ha poi prorogato fino al 10 dicembre 2010 l’efficacia della graduatoria dei concorsi pubblici per ispettore del lavoro di cui si parla nel testo. Cfr. P. Pascucci, Assunzione di ispettori del lavoro, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 47 ss.

260 Sul punto v. anche F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 353.

261 Si tratta dell’Accordo raggiunto il 1° agosto 2007, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 281 del 1997, in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni, concernente il “Patto per la tutela della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro”, recepito nel d.P.C.M. 17 dicembre 2007 (in GU n. 3 del 4 gennaio 2008), su cui v. M. Masi, La cultura della sicurezza e della prevenzione nel nuovo testo unico, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 119 ss., qui p. 122; P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza, cit., p. 254.

262 Come rileva anche F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., pp. 352-353. V. già G. Dondi, Vigilanza e controlli, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 241 ss., qui p. 246; M. Lanotte, La tutela delle condizioni di lavoro: le funzioni di vigilanza, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro. Commento al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, Giuffrè, Milano, 1996, p. 233 ss., qui pp. 274-275.

263 Cfr. P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza, cit., passim.

264 Come già previsto dall’art. 21 della l. n. 833 del 1978 (riforma sanitaria) e dall’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994.

265 Cfr. gli artt. 36 e 37 del d.P.R. 29 luglio 1982, n. 577, nonché l’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994.

266 Cfr. l’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994, confermato dall’art. 3 del d.lgs. n. 624 del 1996.

267 Cfr. l’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994, come modificato dall’art. 10 del d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242.

268 Cfr. l’art. 2, comma 2, del d.m. 22 febbraio 1984, nonché l’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 626 del 1994.

269 Cfr. l’art. 23, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 626 del 1994.

270 Tutti questi servizi sono altresì competenti per le aree riservate o operative e per quelle che presentano analoghe esigenze da individuarsi, anche per quel che riguarda le modalità di attuazione, con decreto del Ministro competente di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale e della salute. L’Amministrazione della giustizia può avvalersi dei servizi istituiti per le Forze armate e di polizia, anche mediante convenzione con i rispettivi Ministeri, nonché dei servizi istituiti con riferimento alle strutture penitenziarie (cfr. l’art. 23, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 626 del 1994).

271 Cfr. l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 e, in particolare, l’art. 1, comma 2, del d.P.C.M. 14 ottobre 1997, n. 412 che si riferisce a: a) attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in particolare lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura e in cemento armato, opere stradali, ferroviarie, idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati; lavori in sotterraneo e gallerie, anche comportanti l’impiego di esplosivi; b) lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei.

272 Si tratta di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su proposta dei Ministri del lavoro e della salute, sentito il Comitato di cui all’art. 5 e previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Anche per queste attività la vigilanza del personale ispettivo del Ministero del lavoro si esercita previa informazione al servizio di prevenzione e sicurezza della ASL competente per territorio.

273 P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 252.

274 Ci si riferisce alle considerazioni originariamente contenute nel § 7.8 (pp. 81-83) della prima versione di questo scritto, già pubblicata nei WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT-73/2008, sviluppate in base ad una non attenta lettura dell’art. 1, comma 2, lett. q, della l. n. 123 del 2007, della quale chi scrive fa ammenda nei confronti dei lettori di quella prima versione e, in particolare, dell’Autore citato alla nota precedente.

275 Come già visto, il principio di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 758 del 1994 relativo alla competenza delle ASL è stato pienamente rispettato nell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008.

276 P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 253.

277 L’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994 parlava di Ispettorato del lavoro e non di personale ispettivo, mentre nell’art. 1 del d.P.C.M. n. 412 del 1997 ci si riferiva ai Servizi di ispezione del lavoro delle Direzioni provinciali del lavoro. Peraltro, non va dimenticato che anche gli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 124 del 2004 evocano direttamente il personale ispettivo per quanto riguarda le funzioni di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, ben potendosi ad esse fare riferimento anche per quanto concerne la salvezza posta nell’incipit dell’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008 (“ferme restando le competenze…”). E sempre al personale ispettivo si fa espresso riferimento nell’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 in relazione alla sospensione dell’attività imprenditoriale, come del resto già accadeva negli ora abrogati artt. 36-bis della l. 4 agosto 2006, n. 248 (“legge Bersani”) e 5 della l. n. 123 del 2007.

278 V. amplius P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza, cit., passim.

279 Nonché l’art. 1 del d.P.C.M. n. 412 del 1997.

280 Dall’art. 59, comma 2, del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230.

281 Cfr. l’art. 35 della l. n. 191 del 1974.

282 La norma prevede che gli ispettori hanno facoltà di visitare, in qualsiasi momento ed in ogni parte, i luoghi di lavoro e le relative dipendenze, di sottoporre a visita medica il personale occupato, di prelevare campioni di materiali o prodotti ritenuti nocivi, e altresì di chiedere al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti ed ai lavoratori le informazioni che ritengano necessarie per l’adempimento del loro compito, in esse comprese quelle sui processi di lavorazione. Gli ispettori hanno facoltà di prendere visione, presso gli ospedali ed eventualmente di chiedere copia, della documentazione clinica dei lavoratori per malattie dovute a cause lavorative o presunte tali. Gli ispettori devono mantenere il segreto sopra i processi di lavorazione e sulle notizie e documenti dei quali vengono a conoscenza per ragioni di ufficio.

283 Cfr. l’art. 1, comma 2, lett. f, n. 6, il quale prevede la destinazione degli introiti delle sanzioni pecuniarie per interventi mirati alla prevenzione, a campagne di informazione e alle attività dei dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie locali.

284 O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 58.

285 Il che dovrebbe valere anche per le attività di consulenza di cui all’art. 10: cfr. P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 251.

286 Sempre a proposito di azioni volte a favorire la regolarizzazione del lavoro, occorre altresì ricordare che l’art. 11 della l. n. 123 del 2007 ha posto fortunatamente rimedio alla gaffe realizzata con l’art. 1, comma 1198, della l. n. 296 del 2006, prevedendo che nei confronti dei datori di lavoro che hanno presentato l’istanza di regolarizzazione di cui al comma 1192, per la durata di un anno a decorrere dalla data di presentazione, restino sospese le eventuali ispezioni e verifiche da parte degli organi di controllo e vigilanza nelle materie oggetto della regolarizzazione, ad esclusione però di quelle concernenti la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori (come invece si era sorprendentemente previsto nella norma del 2006). Cfr. C. Lazzari, Percorsi di regolarizzazione del lavoro e sicurezza, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 93 ss.

287 Sull’art. 5 della l. n. 123 del 2007 cfr. (anche per riferimenti bibliografici sul tema) P. Pascucci, Disposizioni per il contrasto del lavoro irregolare e per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 53 ss.; G. Nicolini, Disposizioni per il contrasto del lavoro irregolare e per la tutela della salute e della sicurezza del lavoro, in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 171 ss.

288 Dall’art. 303, comma 1, lett. b e c, del d.lgs. n. 81 del 2008.

289 L’art. 14 fa salve le attribuzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori nei cantieri temporanei o mobili di cui all’art. 92, comma 1, lett. e, consistenti nella segnalazione al committente ed al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, delle inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96 e alle prescrizioni del piano di cui all’art. 100, e nella proposta di sospensione dei lavori, di allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o della risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l’esecuzione dà comunicazione dell’inadempienza alla ASL e alla DPL territorialmente competenti.

290 E non più (come nel precedente art. 5 della l. n. 123 del 2007) del totale dei lavoratori occupati.

291 Quest’ultimo riferimento costituisce una novità rispetto a quanto prevedeva l’art. 5 della l. n. 123 del 2007 e conferma il legame sempre più forte tra lavoro irregolare e lavoro insicuro di cui si è parlato nel testo, anche se, come è stato rilevato, rischia di essere una sorta di norma in bianco mancando riferimenti normativi certi: v. P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 254.

292 P. Pascucci, Disposizioni per il contrasto del lavoro irregolare, cit., p. 64 ss.; B. Deidda, Legge 123: una legge attesa, con qualche ombra, in Riv. Amb. Lav., 2007, 8-9, p. 75 ss., qui p. 77. Cfr. la circolare del Ministero del lavoro 22 agosto 2007, n. 10797.

293 Tale Allegato contempla innanzitutto violazioni che espongono a rischi di carattere generale, valide in tutti i settori (mancata elaborazione del documento di valutazione dei rischi; mancata formazione ed addestramento; mancata costituzione del servizio di prevenzione e protezione e nomina del relativo responsabile) o relative al settore edile (mancata elaborazione del piano di sicurezza e coordinamento; mancata elaborazione del piano operativo di sicurezza; mancata nomina del coordinatore per la progettazione; mancata nomina del coordinatore per l’esecuzione). Inoltre si riferisce a violazioni che espongono ai rischi di caduta dall’alto, di seppellimento, di elettrocuzione ed a quelli legati all’amianto.

294 Al quale non si applicano le disposizioni di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241, da ciò deducendosi la sua natura cautelare senza alcuna valenza di tipo procedimentale amministrativo: così condivisibilmente P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 253.

295 L’art. 14, comma 11, precisa espressamente che nelle ipotesi delle violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, le disposizioni del presente articolo si applicano nel rispetto delle competenze in tema di vigilanza in materia. La norma aggiunge altresì che in materia di prevenzione incendi trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 16, 19 e 20 del d.lgs. 8 marzo 2006, n. 139.

296 V. la circolare del Ministero del lavoro del 22 agosto 2007, cit., su cui criticamente P. Pascucci, Disposizioni per il contrasto del lavoro irregolare, cit., p. 64 ss. e p. 74 ss.

297 V. la circolare del Ministero del lavoro del 14 novembre 2007, n. 24.

298 Assai opportunamente il legislatore del 2008 ha evitato di parlare di “sanzione amministrativa” aggiuntiva, come accadeva nella norma del 2007, usando invece l’espressione “somma” aggiuntiva, in tal modo evitando che per tale misura aggiuntiva sia eventualmente ipotizzabile l’applicazione del meccanismo di riduzione previsto dall’art. 16 della l. 24 novembre 1981, n. 689.

299 Qualora la revoca riguardi un provvedimento adottato dagli ispettori del lavoro, l’importo delle somme aggiuntive integra la dotazione del Fondo per l’occupazione di cui all’art. 1, comma 7, del d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla l. 19 luglio 1993, n. 236, ed è destinato al finanziamento degli interventi di contrasto al lavoro sommerso ed irregolare individuati con decreto del Ministro del lavoro di cui all’art. 1, comma 1156, lett. g, della l. n. 296 del 2006. Ove invece la revoca riguardi un provvedimento adottato dagli ispettori delle ASL, l’importo delle somme aggiuntive integra l’apposito capitolo regionale per finanziare l’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro.

300 Contro i provvedimenti di sospensione è ammesso ricorso, entro 30 giorni, rispettivamente, alla Direzione regionale del lavoro territorialmente competente e al Presidente della Giunta regionale, i quali si pronunciano nel termine di 15 giorni dalla notifica del ricorso. Decorso inutilmente tale ultimo termine, il provvedimento di sospensione perde efficacia.

301 In precedenza, nel silenzio del legislatore, la circolare del Ministero del lavoro del 22 agosto 2007 aveva ipotizzato l’applicabilità dell’art. 650 c.p.

302 L’art. 302 prevede che, per le contravvenzioni previste dal d.lgs. n. 81 del 2008 e punite con la sola pena dell’arresto il giudice applichi, in luogo dell’arresto, la pena dell’ammenda in misura comunque non inferiore a 8.000 euro e non superiore a 24.000 euro, se entro la conclusione del giudizio di primo grado, risultano eliminate tutte le irregolarità, le fonti di rischio e le eventuali conseguenze dannose del reato. La sostituzione di pena non è in ogni caso consentita: a) quando la violazione abbia avuto un contributo causale nel verificarsi di un infortunio sul lavoro; b) quando il fatto è stato commesso da soggetto che abbia già riportato condanna definitiva per la violazione di norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ovvero per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., limitatamente all’ipotesi di violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro. Nell’ipotesi in cui si applichi la sostituzione della pena, il reato si estingue decorsi tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza senza che l’imputato abbia commesso ulteriori reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ovvero quelli di agli artt. 589 e 590 c.p., limitatamente all’ipotesi di violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro. In questo caso si estingue ogni effetto penale della condanna.

303 P. Rausei, Il nuovo sistema istituzionale della sicurezza sul lavoro, cit., p. 254.

304 Ipotizzando che il meccanismo di sostituzione di cui all’art. 302 sia applicabile alla pena dell’arresto in esame si creerebbe uno scenario di questo tipo. Da un lato, l’imprenditore “andrebbe” a processo, rischiando la pena dell’arresto, per l’inottemperanza alla sospensione; per ottenere la sostituzione della pena, dovrebbe eliminare tutte le irregolarità, le fonti di rischio e le eventuali conseguenze dannose del reato de quo (quello di inottemperanza di cui all’art. 14, comma 10), vale a dire dovrebbe ottemperare alla sospensione entro la conclusione del giudizio di primo grado. Se si ritiene che “le irregolarità, le fonti di rischio e le eventuali conseguenze dannose” si riferiscano non a tutti i reati commessi, ma solo a quello punito con l’arresto (in questo caso l’inottemperanza alla sospensione), se ne dovrebbe dedurre che ai fini della sostituzione della pena sia sufficiente ottemperare alla sospensione, a prescindere dagli adempimenti relativi alle prescrizioni impartite per gli illeciti che hanno determinato la sospensione. Da un altro lato, poi, lo stesso imprenditore, per poter ottenere la revoca della sospensione, dovrebbe “risolvere” (presumibilmente mediante il meccanismo della prescrizione di cui al d.lgs. n. 758 del 1994) tutte le “pendenze” relative agli illeciti che hanno costituito il presupposto della sospensione, oltre a dover pagare la somma aggiuntiva di 2.500 euro (non potendosi peraltro escludere che, ricorrendone le condizioni, i predetti illeciti siano punibili con la sola pena dell’arresto, prefigurandosi in tal caso un’ulteriore ipotesi di applicazione dell’art. 302).

305 I sezione (artt. 15-27): misure di tutela e obblighi; II sezione (artt. 28-30): valutazione dei rischi; III sezione (artt. 31-35): servizio di prevenzione e di protezione; IV sezione (artt. 36-37): informazione, formazione e addestramento; V sezione (art. 38-42): sorveglianza sanitaria; VI sezione (artt. 43-46): gestione delle emergenze; VII sezione (artt. 47-52): partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori; VIII sezione (artt. 53-54): documentazione tecnico-amministrativa.

306 La parola “tutti” non era stata inserita nell’art. 3 del d.lgs. n. 626 del 1994 nonostante fosse stata introdotta nell’art. 4, comma 1, dello stesso decreto ad opera dell’art. 21, comma 2, della l. 1° marzo 2002, n. 39 emanata in seguito alla sentenza del 15 novembre 2001 (Causa C-49-00) con cui l’Italia era stata condannata dalla Corte di giustizia per violazione della Direttiva n. 89/391/CEE.

307 In ossequio a quanto richiesto dalla delega (art. 1, comma 2, lett. r, della l. n. 123 del 2007), l’art. 15 sottolinea che le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori.

308 Sulla delega cfr., fra i tanti, A. Fiorella, Il trasferimento delle funzioni nel diritto penale dell’impresa, Nardini, Firenze, 1985, p. 173; S. Bonini, Soggetti penalmente responsabili all’interno dell’impresa e delega di funzioni alla luce dei d.lgs. n. 626 del 1994 e n. 242 del 1996 in materia di sicurezza del lavoro, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 265 ss.; G. Bottiglioni, Delega di funzioni e soggetti esterni all’impresa, ivi, p. 281 ss.; A. Bonfiglioli, Delega di funzioni e soggetti penalmente responsabili alla stregua del d.lgs. n. 626/1994, come modificato dal d.lgs. n. 242/1996, in N. Mazzacuva e E. Amati (a cura di), Il diritto penale del lavoro, in F. Carinci (dir.), Diritto del lavoro – Commentario, VII, Utet, Torino, 2007, p. 15 ss., spec. p. 32 ss.

309 R. Guariniello, Requisiti e limiti della delega in tema di sicurezza del lavoro, in FI, 2003, II, c. 529 ss.

310 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, in Id. (a cura di), Speciale Testo Unico sicurezza del lavoro, cit., p. 255. Cfr. anche F. Forzati, La delega di funzioni, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, cit., pp. 225-227.

311 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 256.

312 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 256.

313 Tale previsione supera le incertezze relative alla validità della cosiddetta “delega di fatto”, consistente in un comportamento univoco non risultante da atto scritto: a favore di tale tesi v. Cass. pen., 30 dicembre 1994, in DPL, 1995, p. 578; Cass. pen., 21 dicembre 1995, in GP, 1997, II, p. 244; contra Cass. pen., 20 febbraio 1995, in DPL, 1995, p. 860.

314 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 256.

315 Tutto ciò appare coerente con quanto da tempo dottrina e giurisprudenza richiedono per la validità della delega, vale a dire che sia affidata a persona tecnicamente competente e capace, che sia effettiva, e che sia liberamente accettata: cfr. T. Padovani, Diritto penale del lavoro. Profili generali, F. Angeli, Milano, 1994, p. 65; Cass. pen., 3 marzo 1995, in CP, 1996, p. 1957; Cass. pen., 3 novembre 1989, in RP, 1990, p. 741.

316 F. Cherubini, Sulla delega di funzioni (in tema di prevenzione infortuni), in GI, 1996, II, c. 681.

317 R. Guariniello, Requisiti e limiti della delega, cit., c. 529; Cass. pen., 6 ottobre 1995, in CP, 1997, p. 846; Cass. pen., 7 marzo 1995, in DPL, 1995, p. 1126.

318 G. Nicolini, Disposizioni generali, cit., p. 244.

319 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 258.

320 G. Nicolini, Disposizioni generali, cit., p. 244.

321 Cass. pen., sez. III, 15 giugno 1998, in ISL, 1998, p. 440; Cass., sez. IV, 22 ottobre 2002, in GD, 2003, n. 37, p. 77. Occorre ricordare del resto che il conferimento della delega – che agisce sul piano penalistico – non esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile, come stabilisce l’art. 1228 c.c. secondo il quale il debitore che si avvale dell’opera di un terzo nell’esecuzione della prestazione risponde del fatto doloso o colposo di questi. Per una ricostruzione delle opinioni dei giudici sull’attività di controllo del delegante sul delegato, cfr. L. Fantini, Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro: orientamenti giurisprudenziali, in DRI, 2004, p. 131 ss.

322 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., pp. 258-259.

323 G. Ferraro, Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 109 ss.

324 G. Nicolini, Disposizioni generali, cit., p. 244.

325 Si tratta: della designazione degli addetti al servizio di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda (che tuttavia può ricavarsi dall’art. 31); dell’informazione al medico competente sui processi e sui rischi connessi all’attività produttiva; della tenuta del registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno (la scomparsa del registro degli infortuni – che tuttavia non è immediata, ma avverrà a partire dall’inizio del settimo mese successivo all’emanazione del decreto interministeriale di cui all’art. 8, comma 4, con cui verranno definite le regole tecniche per la realizzazione ed il funzionamento del SINP – sembra rispondere al criterio di cui all’art. 1, comma 2, lett. d, della legge delega relativo alla semplificazione degli adempimenti meramente formali); della custodia, presso l’azienda ovvero l’unità produttiva, della cartella sanitaria e di rischio del lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, con salvaguardia del segreto professionale, e la consegna di copia della medesima cartella al lavoratore al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, ovvero quando lo stesso ne faccia richiesta (come si vedrà, tali obblighi sono traslati in capo al medico competente).

326 Vale a dire: l’adempimento degli obblighi di informazione, formazione e addestramento; la tempestiva consegna al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, di copia del documento di valutazione dei rischi (DVR); il rilascio al RLS del permesso di accedere ai dati relativi alle misure tecniche adottate; l’elaborazione del documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI) e, su richiesta dei RLS e per l’espletamento della loro funzione, la tempestiva consegna agli stessi della copia del medesimo documento; la comunicazione all’INAIL, o all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, a fini statistici e informativi, dei dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento e, a fini assicurativi, delle informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni (peraltro, in base a quanto previsto dall’art. 4, comma 2, del d.l. 3 giugno 2008, n. 97 – sul quale v. infra § 8.8 –, l’efficacia di tale obbligo è stata provvisoriamente “congelata” e rivivrà a partire dal 1° gennaio 2009); la consegna, nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, ai lavoratori di apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro; la convocazione, nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, della riunione periodica di cui all’art. 35; la comunicazione annuale all’INAIL dei nominativi dei RLS; la vigilanza affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità.

Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso gli obblighi previsti dal decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.

327 Il preposto deve: sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della inosservanza, informare i loro superiori diretti; verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico; richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa; informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione; astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato; segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta; frequentare appositi corsi di formazione secondo quanto previsto dall’art. 37.

328 F. Basenghi, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro, cit., p. 81.

329 Secondo F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 259, gli obblighi del preposto riguardano esclusivamente la vigilanza e il controllo operativo, risultando privi “di elementi, anche residuali, di discrezionalità e potere organizzativo che in parte contraddicono la definizione” di cui all’art. 2, comma 1, lett. e, che invece sottolinea “l’esercizio di un funzionale potere di iniziativa nel sovrintendere alla attività lavorativa e nel garantire l’attuazione delle direttive ricevute”.

330 G. Nicolini, Disposizioni generali, cit., p. 245.

331 F. Bacchini, Misure di tutela e obblighi, cit., p. 259.

332 Cfr. R. Del Punta, Diritti e obblighi dei lavoratore: informazione e formazione, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 157 ss., qui p. 169 ss.

333 Si tratta: della partecipazione ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; della sottoposizione non solo ai controlli sanitari previsti dal decreto legislativo, ma anche a quelli comunque disposti dal medico competente; nel caso di lavoratori di aziende che svolgono attività in regime di appalto o subappalto, dell’esposizione dell’apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro (tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto). Degli obblighi gravanti sui componenti dell’impresa familiare e sui lavoratori autonomi ex art. 21 già s’è parlato (supra 6.2.3.2).

334 F. Bacchini, Sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, Cedam. Padova, 1998, p. 37.

335 Per quanto attiene alla responsabilità disciplinare, essa vale per i lavoratori subordinati, mentre per quelli che tali non sono potrebbero valere le forme di responsabilità civilistica eventualmente previste nei relativi contratti di lavoro.

336 Si tratta: della collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di promozione della salute, secondo i principi della responsabilità sociale; della programmazione ed effettuazione della sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati; della custodia, sotto la propria responsabilità, di una cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria (nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il medico competente concorda con il datore di lavoro il luogo di custodia); della consegna al datore di lavoro, alla cessazione dell’incarico, della documentazione sanitaria in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 e con salvaguardia del segreto professionale; della consegna al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, della documentazione sanitaria in suo possesso fornendogli le informazioni riguardo la necessità di conservazione; dell’invio all’ISPESL, esclusivamente per via telematica, delle cartelle sanitarie e di rischio nei casi previsti dal d.lgs. n. 81 del 2008, alla cessazione del rapporto di lavoro, nel rispetto delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 (il lavoratore interessato può chiedere copia delle predette cartelle all’ISPESL anche attraverso il proprio medico di medicina generale); della comunicazione per iscritto, in occasione delle riunioni periodiche, non solo ai RLS, ma anche al datore di lavoro ed al responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, dei risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata fornendo indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori; della visita degli ambienti di lavoro almeno una volta all’anno o a cadenza diversa che stabilisce in base alla valutazione dei rischi: la indicazione di una periodicità diversa dall’annuale deve essere comunicata al datore di lavoro ai fini della sua annotazione nel documento di valutazione dei rischi; della partecipazione alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del rischio e della sorveglianza sanitaria; della comunicazione, mediante autocertificazione, del possesso dei titoli e requisiti di cui all’art. 38 al Ministero della salute entro il termine di sei mesi dall’entrata in vigore del decreto.

337 P. Tullini, Sicurezza e regolarità del lavoro negli appalti, cit. p. 95 ss.; V. Pasquarella, Appalto e sicurezza sul lavoro: tutele legislative e rimedi giurisdizionali, in RGL, 2007, supplemento al n. 2, p. 87 ss.; Ead., Spigolature in materia di sicurezza negli appalti: l’edilizia nel “mirino” del legislatore, relazione presentata al Convegno di Benevento del 9 novembre 2007 su “Ambiente e sicurezza sul lavoro. Quali tutele in vista del Testo Unico”, cit., in corso di pubblicazione negli Atti; F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali. Commento all’art. 3, comma 1, lett. a), b), in Id. (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 67 ss.; P. Soprani, Appalti e sicurezza del lavoro, in DPL, 2008, p. 801 ss.

338 Sul concetto di lavori “interni” all’azienda cfr. F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 102 ss.

339 Che era già stato oggetto di una modifica da parte dell’art. 1, comma 910, della l. 296 del 2006, il quale, predisponendo un nuovo alinea del comma 1, aveva introdotto il riferimento all’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda ed aveva aggiunto il comma 3-bis relativo alla solidarietà dell’imprenditore committente con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risultasse indennizzato ad opera dell’INAIL.

340 Su queste previsioni cfr. D. Ceglie, Appalti “interni” e appalti pubblici, tra rischi “interferenziali” e costi della sicurezza, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 13 ss.

341 Su cui cfr. F. Bacchini, Committenti e appaltatori, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 183 ss., spec. p. 188 ss.

342 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, intervento presentato al Seminario di studi di Magistratura democratica su “La sicurezza sul lavoro”, cit., p. 6 del dattiloscritto. V. altresì V. Pasquarella, Appalto e sicurezza sul lavoro, cit., p. 104.

343 Si tratta di un decreto del Presidente della Repubblica, emanato, acquisito il parere della Conferenza Stato-Regioni, entro 12 mesi dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, e finalizzato a disciplinare il sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi di cui all’art. 27 in base ai criteri definiti dalla Commissione consultiva permanente.

344 Fino alla emanazione del predetto decreto, la verifica è eseguita mediante l’acquisizione del certificato di iscrizione alla Camera di commercio, industria e artigianato, ovvero dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000.

345 E questa è una importante novità, come sottolinea F. Bacchini, Misure di tutela ed obblighi, cit., p. 261.

346 Sull’importanza della reciproca informazione cfr. F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 119. V. altresì O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 44.

347 Di cui, precedentemente, all’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 ed ora disciplinato agli artt. 28 e 29 del d.lgs. n. 81 del 2008. Per una opportuna considerazione dei rischi interferenziali nel DVR di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994, prima della modifica dell’art. 7 dello stesso decreto da parte dell’art. 3 della l. n. 123 del 2007, nonché per l’individuazione del diverso ambito dei destinatari del DVR e del DUVRI sempre con riferimento ai rischi interferenziali, cfr. F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 123, il quale sottolinea come il DUVRI costituisca “cosa diversa ed ulteriore” rispetto al DVR.

348 E non già i rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Secondo A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., p. 6 del dattiloscritto, può definirsi “specifico” tutto quello che è gestito autonomamente, “mentre non è specifico ogni rischio connesso a scelte tecniche e organizzative imposte dal committente”. Su tale problematica cfr. anche F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 119.

349 Almeno per quanto attiene alla questione di principio, la tesi dell’indelegabilità del DUVRI (relativamente al d.lgs. n. 626 del 1994) parrebbe condivisa in prima battuta da F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 116. L’autore, tuttavia, segnala poi puntualmente come, nella disciplina del d.lgs. n. 626 del 1994 modificato dalla l. n. 123 del 2007, la tesi dell’indelegabilità del DUVRI incontrasse ostacoli sia per la mancata ricomprensione del relativo obbligo tra quelli indelegabili di cui all’art. 1, comma 4-ter di tale decreto, sia per la mancata modifica dell’apparato sanzionatorio, giungendo infine a ritenere che la delegabilità del DUVRI meglio risponda alle finalità della sua previsione, anche tenendo conto della necessità del suo costante aggiornamento (op. cit., pp. 125-126).

350 Secondo F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 128, l’allegazione dovrebbe intendersi secondo il principio dell’integrazione legale degli effetti del contratto di cui all’art. 1374 c.c. Tale allegazione sembra invece finalizzata ad assolvere un onere di pubblicità delle misure prevenzionistiche previste nel DUVRI (particolarmente necessaria per la presenza di più imprese): d’altronde, lo stesso legislatore, quando ha inteso integrare ex lege il contenuto del contratto di appalto (con l’indicazione dei costi per la sicurezza) lo ha previsto in modo ben diverso senza evocare l’allegazione.

Quanto alla tempistica dell’allegazione, lo stesso autore, pur ritenendo logico che il DUVRI fosse pronto già nella fase precedente alla presentazione dell’offerta contrattuale, presume che venga invece semplicemente allegato a contratti già stipulati (op. cit., p. 129).

351 Cfr. l’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, come modificato dall’art. 3 della l. n. 123 del 2007.

352 Sulla previsione di “non regresso” contenuta nella delega e sulle possibili modalità dell’abbassamento della tutela v. O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., pp. 35-36.

353 F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., pp. 129-130.

354 Queste previsioni non si applicano ai danni conseguenti ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Più in generale, sulla disciplina delle responsabilità solidali negli appalti v. L. Imberti, La disciplina delle responsabilità solidali negli appalti e nei subappalti: lo stato dell’arte in continuo movimento (aggiornato al decreto legge 97/2008), WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT-72/2008.

355 Cfr. S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 43, il quale rileva come tale livello potrebbe in ipotesi corrispondere anche a “quello medio praticato dall’impresa appaltatrice nella sua attività standard, a prescindere dall’appalto in corso di assegnazione”.

356 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., pp. 9 e 10 del dattiloscritto, la quale, a tale proposito, richiama lo schema dell’art. 2049 c.c. con il quale la responsabilità solidale di cui all’art. 26 condivide il “criterio di imputazione del rischio al soggetto che si avvantaggia della situazione di fatto oggetto della fattispecie”, non dovendosi inoltre trascurare il fatto che la responsabilità oggettiva del datore di lavoro in materia di sicurezza è specificamente contemplata e consentita dall’art. 4, parr. 3 e 4, della direttiva n. 89/391/CEE. Sulla responsabilità solidale cfr. amplius F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 134 ss.

357 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., p. 11 del dattiloscritto, la quale fra l’altro attribuisce al giudice del lavoro la competenza a conoscere delle controversie relative alla responsabilità oggettiva del committente dal momento che “il titolo della domanda è sempre il rapporto di lavoro con l’appaltatore”.

358 Cfr. F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 144 ss.

359 Che compariva nell’art. 7, comma 3-ter, aggiunto dall’art. 3 della l. n. 123 del 2007.

360 Su questa puntualizzazione cfr. F. Bacchini, Misure di tutela ed obblighi, cit., p. 262.

361 Il che conferma vieppiù la discutibilità della dilazione dell’allegazione del DUVRI ai contratti già stipulati.

362 Sul punto cfr. amplius F. Bacchini, Misure di tutela ed obblighi, cit., pp. 261-262.

363 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., p. 13 del dattiloscritto.

364 F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 148.

365 Già individuati nel comma 3-ter dell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. b, della l. n. 123 del 2007.

366 Già avanzato da O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 45.

367 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., p. 8 del dattiloscritto.

368 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., pp. 8 e 9 del dattiloscritto.

369 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., p. 9 del dattiloscritto. Per un esame della problematica relativamente all’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, cfr. F. Bacchini, Le tutele lavoristico-antinfortunistiche negli appalti “d’impresa” ed endoaziendali, cit., p. 95 ss.

370 Cfr. l’art. 55, comma 4, lett. b, che punisce con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.000 a 5.000 euro la violazione dell’art. 26, comma 1, lett. b, nonché l’art. 55, comma 4, lett. d, che punisce con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 1.500 a 6.000 euro la violazione dell’art. 26, comma 1, e 2, lett. a e b: entrambe tali norme fanno riferimento a soggetti la cui identificazione è connessa alle tipologie negoziali indicate nell’art. 26. V. anche l’art. 55, comma 4, lett. m, che punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ciascun lavoratore la violazione dell’art. 26, comma 8.

371 Dando attuazione ad uno dei criteri di delega precedentemente richiamati e sviluppando quanto previsto dall’art. 8 della l. n. 123 del 2007 (con cui era stato modificato l’art. 86 del. d.lgs. n. 163 del 2006), l’art. 26 dispone inoltre che, nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori siano tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. A tal fine il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione (cfr. A. Oddo, La congruità dei costi del lavoro e della sicurezza nei lavori, nei servizi e nelle forniture pubbliche. Commento all’art. 8, in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 213 ss.). Le disposizioni del d.lgs. n. 81 del 2008 trovano applicazione in materia di appalti pubblici salvo quanto diversamente disposto dal d.lgs. n. 163 del 2006 modificate dall’art. 8, comma 1, della l. n. 123 del 2007.

372 Così S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 43.

373 A. Terzi, La responsabilità del committente negli appalti, cit., pp. 12 e 13 del dattiloscritto.

374 C. Lazzari, Svolgimento di attività in appalto o subappalto e tessera di riconoscimento, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 81 ss.

375 Previsione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, fondato sulla specifica esperienza, ovvero sulle competenze e conoscenze in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, acquisite attraverso percorsi formativi mirati.

376 M. Lai, Il ruolo delle parti sociali, cit., p. 199.

377 Sullo stress da lavoro cfr. F. Bacchini, La valutazione dei rischi, in Id. (a cura di), Speciale Testo Unico sicurezza del lavoro, cit., p. 263.

378 Come già evidenziato, il termine “età” allude sia ai più giovani sia ai lavoratori più maturi: cfr. F. Bacchini, La valutazione dei rischi, cit., p. 265.

379 F. Bacchini, La valutazione dei rischi, cit., p. 263.

380 Sul punto cfr. già M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 101, ed ora M. Tiraboschi, Per i collaboratori tutela solo formale, in Il Sole 24 ORE del 15 maggio 2008, p. 27.

381 F. Bacchini, La valutazione dei rischi, cit., p. 265.

382 Una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa; l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati, a seguito della valutazione dei rischi; il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.

383 L. Poniz, Legge 123/2007 e decreti attuativi: profili penalistici, relazione presentata al Seminario di studi di Magistratura democratica su “La sicurezza sul lavoro”, cit.

384 Come invece ritenuto, con riferimento al divieto di stipulazione di un contratto a termine in caso di mancata valutazione dei rischi (art. 3, comma 1, lett. d, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368), da A. Vallebona, C. Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, Padova, 2001, p. 33, secondo i quali il contenuto della valutazione, purché formalmente effettuata, è assolutamente irrilevante ai fini dell’integrazione degli estremi del divieto.

385 Cfr. R. Guariniello, Obblighi e responsabilità delle imprese nella giurisprudenza penale, in RGL, 2001, I, p. 529 ss., qui p. 536; S. Margiotta, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, IV ed., Collana di Diritto privato diretta da P. Rescigno, Ipsoa, Milano, 2006, p. 1381 ss., qui p. 1393.

386 R. Guariniello, Obblighi e responsabilità delle imprese, cit., p. 536, il quale cita l’ipotesi di un documento che, con riferimento ad un posto di lavoro con videoterminali, trascuri di valutare i rischi per la vista o quelli relativi alla postura o le condizioni ergonomiche e di igiene ambientale. In giurisprudenza v. Cass., 12 gennaio 1996, in DPL, 1996, p. 572.

387 Cfr. l’art. 1, comma 2, lett. t, della l. n. 123 del 2007 ove si parla di rivisitazione delle modalità di attuazione della sorveglianza sanitaria, adeguandola alle differenti modalità organizzative del lavoro, ai particolari tipi di lavorazioni ed esposizioni, nonché ai criteri ed alle linee guida scientifici più avanzati, anche con riferimento al prevedibile momento di insorgenza della malattia.

388 Cfr. art. 4, comma 11, del d.lgs. n. 626 del 1994.

389 L. Angelini, Lavori flessibili e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 106.

390 I predetti datori, infatti, effettuano la valutazione dei rischi sulla base delle procedure standardizzate elaborate, ai sensi dell’art. 6, comma 8, lett. f, entro e non oltre il 31 dicembre 2010, dalla Commissione consultiva permanente tenendo conto dei profili di rischio e degli indici infortunistici di settore. Tali procedure sono poi recepite con decreto interministeriale adottato dai Ministeri del lavoro, della salute e dell’interno, acquisito il parere della Conferenza Stato-Regioni. Gli stessi datori di lavoro possono autocertificare l’effettuazione della valutazione dei rischi fino alla scadenza del diciottesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto interministeriale e, comunque, non oltre il 30 giugno 2012.

391 Si tratta delle attività di cui all’art. 31 comma 6, lettere a, b, c, d, g del d.lgs. n. 81 del 2008, che si svolgono: nelle aziende industriali di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 334 del 1999 (attività a rischio di incidente rilevante) soggette all’obbligo di notifica o rapporto, ai sensi degli artt. 6 e 8 del medesimo decreto; nelle centrali termoelettriche; negli impianti ed installazioni di cui agli artt. 7, 28 e 33 del d.lgs. n. 230 del 1995; nelle aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni; nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori. A prima vista, quest’ultimo riferimento sembrerebbe errato visto che le disposizioni sull’autocertificazione e sulle procedure standardizzate riguardano soltanto i datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori: può tuttavia sostenersi – ad una più attenta lettura (che tenga conto anche di quanto disponeva il d.lgs. n. 626 del 1994) – che quel riferimento riguarda non tanto le aziende (e la loro dimensione occupazionale), quanto le “attività” che vi si svolgono, potendosi perciò concludere che, per le strutture di ricovero e cura pubbliche e private che ovviamente occupino fino a 10 lavoratori, il legislatore abbia inteso escludere la disciplina semplificata in ragione della specifica pericolosità in esse oggettivamente esistente, con la necessità dell’adozione del DVR secondo le procedure ordinarie.

392 Tale previsione riguarda quindi le imprese che occupano da 11 a 50 lavoratori.

393 Svolte: nelle aziende industriali di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 334 del 1999, soggette all’obbligo di notifica o rapporto, ai sensi degli artt. 6 e 8 del medesimo decreto; nelle centrali termoelettriche; negli impianti ed installazioni di cui agli artt. 7, 28 e 33 del d.lgs. n. 230 del 1995; nelle aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni; nelle aziende in cui si svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi chimici, biologici, da atmosfere esplosive, cancerogeni mutageni, connessi all’esposizione ad amianto; nelle aziende che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 494 del 1996. A queste l’art. 29 aggiunge anche le industrie estrattive con oltre 50 lavoratori nonché le strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori: fermo restando che la possibilità di utilizzare la procedura standardizzata vale soltanto per i datori che occupano fino a 50 lavoratori, debbono anche qui ribadirsi le considerazioni svolte poc’anzi in ordine alla possibilità di porre l’accento, più che sulle aziende e sulla loro dimensione occupazionale, sull’“attività” in esse svolta.

394 Senza potersi qui addentrare sui delicati profili penalistici sottesi alla norma, occorre comunque ricordare che l’art. 9 della l. n. 123 del 2007, introducendo l’art. 25-septies nel predetto d.lgs. n. 231 del 2001 (omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della igiene e della salute sul lavoro), aveva previsto che, in relazione ai delitti di cui agli artt. 589 e 590, comma 3, c.p. commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, si applicasse una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote e che, nel caso di condanna per uno dei due citati delitti, si applicassero le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 231 del 2001 per una durata da tre mesi ad un anno (cfr. S. Dovere, L’impatto della l. 3.8.2007, n. 123 sull’apparato sanzionatorio della tutela della salute e della sicurezza del lavoro, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento, cit., p. 105 ss., qui p. 120 ss.; A. Lanzi e P. Aldrovandi, L’applicazione del D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli Enti per fatto di reato, ai delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche. Commento all’art. 9, in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 225 ss.). L’art. 300 del d.lgs. n. 81 del 2008 sostituisce l’art. 25-septies del predetto d.lgs. n. 231 del 2001, confermando la sanzione pecuniaria delle mille quote e le sanzioni interdittive da tre mesi ad un anno solo in relazione al delitto di cui all’art. 589 c.p. ma soltanto ove sia commesso con violazione dell’art. 55, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008, mentre qualora lo stesso delitto di cui all’art. 589 c.p. sia commesso semplicemente con violazione delle norme antinfortunistiche, si applica una sanzione pecuniaria da 250 quote a 500 quote e, nel caso di condanna per tale delitto, si applicano le sanzioni interdittive da tre mesi ad un anno. In relazione poi al delitto di cui all’art. 590, comma 3, c.p., commesso con violazione delle norme antinfortunistiche, si applica una sanzione pecuniaria non superiore a 250 quote e, nel caso di condanna per tale delitto, si applicano le sanzioni interdittive per un massimo di sei mesi. In generale, sulla riconduzione delle violazioni della disciplina antinfortunistica nell’ambito del d.lgs. n. 231 del 2001, cfr. Ga. Marra, Sicurezza dei luoghi di lavoro e responsabilità da reato delle persone giuridiche. Le condizioni di effettività, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 59 ss., nonché M. Cinelli, Il progetto di “testo unico” della sicurezza sul lavoro: alcune osservazioni “a margine”, ivi, p. 83 ss.

395 Per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate.

396 Il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.

397 Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione consultiva permanente. L’adozione del modello di organizzazione e di gestione di cui all’art. 30 nelle imprese fino a 50 lavoratori rientra tra le attività finanziabili ai sensi dell’art. 11.