Categoria: Prassi amministrativa
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CIRCOLARE N. 35/2013

Roma 29 agosto 2013

Ministero del lavoro e delle politiche sociali

Direzione generale per l’Attività Ispettiva

Prot. 37/0015300

Agli indirizzi in allegato



Oggetto: D.L. n. 76/2013 (conv. da L. n. 99/2013) recante “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti” – indicazioni operative per il personale ispettivo.

Il D.L. n. 76/2013, entrato in vigore il 28 giugno 2013 e convertito dalla L. n. 99/2013, entrata in vigore il 23 agosto 2013, ha introdotto importanti modifiche alla disciplina di alcuni istituti lavoristici che interessano direttamente l’attività del personale ispettivo di questo Ministero e degli Istituti previdenziali e assicurativi.
Le misure introdotte, che qui più interessano, riguardano il ricorso ad alcune tipologie contrattuali (apprendistato, lavoro a tempo determinato, lavoro intermittente ecc.), la procedura di “stabilizzazione di associati in partecipazione con apporto di lavoro” ed il meccanismo della solidarietà di cui all’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003.
Su tali e altri aspetti si forniscono i primi chiarimenti interpretativi ai fini di un corretto ed uniforme svolgimento dell’attività di vigilanza.

Apprendistato (art. 2, commi 2 e 3 e art. 9, comma 3)
In materia di apprendistato l’art. 2, comma 2, del D.L. n. 76/2003 demanda anzitutto alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano l’adozione, entro il 30 settembre 2013, di “linee guida volte a disciplinare il contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere, anche in vista di una disciplina maggiormente uniforme sull’intero territorio nazionale dell’offerta formativa pubblica di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167”.
Le linee guida potranno in particolare prevedere che, in deroga alle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 167/2011:
a) il piano formativo individuale di cui all’art. 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n. 167/2011 sia obbligatorio esclusivamente in relazione alla formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche;
b) la registrazione della formazione e della qualifica professionale a fini contrattuali eventualmente acquisita sia effettuata in un documento avente i contenuti minimi del modello di libretto formativo del cittadino di cui al D.M. 10 ottobre 2005;
c) in caso di imprese multi localizzate, la formazione avvenga nel rispetto della disciplina della Regione ove l’impresa ha la propria sede legale.
A partire dal 1° ottobre 2013, in assenza della adozione delle linee guida, gli elementi di cui alle precedenti lettere a), b) e c) troveranno diretta applicazione in relazione alle assunzioni con contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere.
Al riguardo, sotto il profilo ispettivo, va pertanto tenuto presente quanto segue.
Rispetto ai citati rapporti di apprendistato rimane intatto l’obbligo di svolgimento della formazione finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali disciplinata dalle Regioni. Ciò appare del resto confermato dalla circostanza secondo cui, per le imprese multi localizzate, va osservata la disciplina “della Regione ove l’impresa ha la propria sede legale”, disciplina che evidentemente non può che identificarsi in quella concernente l’offerta formativa pubblica. A tal proposito, attese le finalità di semplificazione della disposizione, va chiarito che il richiamo ad un’unica disciplina per l’acquisizione di competenze di base e trasversali va principalmente riferito a quelli che sono i contenuti e la durata della stessa formazione. La disposizione va infatti applicata compatibilmente con l’offerta formativa pubblica della Regione dove l’apprendista svolge la propria attività, senza che ciò comporti pertanto un obbligo di frequenza di corsi extra-Regione e quindi maggiori oneri per le imprese.
In secondo luogo, atteso che l’elaborazione del Piano Formativo Individuale (PFI) è obbligatoria limitatamente alla “formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico- professionali e specialistiche” – e quindi alla formazione disciplinata dalla contrattazione collettiva – e che lo stesso Piano Formativo costituisce il principale riferimento ai fini della valutazione della correttezza degli adempimenti in capo al datore di lavoro, il personale ispettivo focalizzerà in via assolutamente prioritaria la propria attenzione sul rispetto del Piano, adottando eventuali provvedimenti dispositivi o sanzionatori, secondo le indicazioni già fornite con circ. n. 5/2013, esclusivamente in relazione ai suoi contenuti.
Quanto alla registrazione della formazione va invece evidenziato che il relativo documento deve riportare i “contenuti minimi” già individuati con il D.M. 10 ottobre 2005 ossia quei contenuti che, nell’ambito del Libretto Formativo del Cittadino, fanno evidentemente riferimento alle “Competenze acquisite in percorsi di apprendimento” (sezione 2) oltre, evidentemente, alle “informazioni personali” del lavoratore (nome e cognome, codice fiscale ecc.).
In via esemplificativa si riporta di seguito la relativa tabella contenuta nel Libretto allegato al D.M. 10 ottobre 2005.

Competenze acquisite in percorsi di apprendimento

Tipologia

Descrizione

Contesto di acquisizione (in quale percorso/situazione sono state sviluppate le competenze indicate)

Periodo di acquisizione (anno/i in cui sono state sviluppate le competenze indicate)

Tipo di evidenze documentali a supporto dell’avvenuta acquisizione delle competenze descritte


Resta evidentemente salva, anche per i contratti di apprendistato in questione, l’eventuale utilizzo della diversa modulistica adottata dal contratto collettivo applicato (v. ad es. l’accordo interconfederale tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 18 aprile 2012).
In materia di apprendistato va poi ricordata la disposizione di cui all’art. 9, comma 3, del D.L. che, introducendo un comma 2 bis all’art. 3 del D.Lgs. n. 167/2011, stabilisce quanto segue: “successivamente al conseguimento della qualifica o diploma professionale ai sensi del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, allo scopo di conseguire la qualifica professionale ai fini contrattuali, è possibile la trasformazione del contratto in apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere; in tal caso la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato non può eccedere quella individuata dalla contrattazione collettiva di cui al presente decreto legislativo”.
Tale disposizione può trovare applicazione in relazione ai contratti di apprendistato per la qualifica o diploma professionale in corso alla data di entrata in vigore del D.L. ed il cui periodo formativo non sia ancora scaduto ma esclusivamente nell’ipotesi in cui il contratto collettivo applicato abbia individuato “la durata massima complessiva dei due periodi di apprendistato”.

Tirocini formativi e di orientamento (art. 2, comma 5 bis)
La L. n. 99/2013 di conversione del D.L. n. 76/2013 ha inteso semplificare il ricorso ai tirocini formativi e di orientamento, già richiamati nell’accordo del 24 gennaio 2013 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Il Legislatore ha infatti stabilito che “i datori di lavoro pubblici e privati con sedi in più regioni possono fare riferimento alla sola normativa della Regione dove è ubicata la sede legale e possono altresì accentrare le comunicazioni di cui all’articolo 1, commi 1180 e seguenti, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, presso il Servizio informatico nel cui ambito territoriale è ubicata la sede legale”.
Sul punto va evidenziato che tale previsione costituisce una mera facoltà per i datori di lavoro e non già un obbligo. Rimane quindi sempre possibile osservare, in relazione al luogo di svolgimento del tirocinio, la specifica disciplina regionale. La disciplina che il datore di lavoro intenderà applicare dovrà comunque essere indicata quantomeno nella documentazione consegnata al tirocinante, in modo tale da consentire al personale ispettivo un obiettivo riferimento giuridico in relazione al quale svolgere l’attività di accertamento.
Va poi chiarito che la possibilità di accentrare le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 1180, della L. n. 296/2006 è evidentemente riferita alle ipotesi in cui dette comunicazioni sono dovute. Va infatti ricordato che dall’obbligo sono esclusi, come chiarito da questo Ministero con nota prot. n. 4746 del 14 febbraio 2007, i c.d. tirocini curriculari, ossia “i tirocini promossi da soggetti ed istituzioni formative a favore dei propri studenti ed allievi frequentanti, per realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro”.
La comunicazione, così come chiarito in passato, è normalmente effettuata dal soggetto ospitante, sebbene nulla osta a che la stessa sia effettuata in sua vece dal soggetto promotore. In tale ultima ipotesi va tuttavia precisato che, ai fini dell’accentramento, occorrerà avere riguardo sempre alla sede legale del soggetto ospitante.

Contratto a tempo determinato (art. 7, comma 1)
In materia di contratto a tempo determinato il D.L. n. 76/2013 introduce alcune modifiche volte principalmente alla razionalizzazione dell’istituto.

Contratto a termine “acausale”
Il Decreto interviene anzitutto sulla disciplina del contratto a termine “acausale”, stabilendo che le ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” non sono richieste:
a) nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi comprensiva di eventuale proroga, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi dell’art. 20, comma 4, del D.Lgs. n. 276/2003;
b) in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
A differenza della precedente disciplina va pertanto evidenziato che:
- la durata massima di dodici mesi del contratto “acausale” – che può essere prorogato, attesa peraltro l’abrogazione del comma 2 bis, dell’art. 4 del D.Lgs. n. 368/2001 (v. infra) – è comprensiva di eventuale proroga;
- la disciplina eventualmente introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di contratto “acausale” va ad integrare quanto già previsto direttamente dal Legislatore. In tal modo i contratti collettivi, anche aziendali, potranno prevedere, a titolo esemplificativo, che il contratto a termine “acausale” possa avere una durata maggiore di dodici mesi ovvero che lo stesso possa essere sottoscritto anche da soggetti che abbiano precedentemente avuto un rapporto di lavoro subordinato.

Proroga dei contratti “acausali”
Come anticipato, l’abrogazione del comma 2 bis, dell’art. 4 del D.Lgs. n. 368/2001 da parte del D.L. n. 76/2013 consente oggi la proroga dei contratti a tempo determinato “acausali”, i quali potranno avere comunque una durata massima complessiva di dodici mesi (fermo restando il ricorso ai c.d. periodi cuscinetto, v. infra).
Sul punto va chiarito che la proroga può riguardare anche contratti sottoscritti (ma evidentemente non ancora scaduti) prima dell’entrata in vigore del D.L. e che rispetto agli stessi trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 368/2001 ad eccezione del requisito relativo alla “esistenza delle ragioni che giustificano l’eventuale proroga”.

“Periodi cuscinetto” e obbligo di comunicazione al Centro per l’impiego
Quanto alle modifiche introdotte all’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 occorre anzitutto evidenziare come il Legislatore si sia preoccupato di chiarire che i c.d. periodi cuscinetto di cui al comma 2 dello stesso articolo trovano applicazione anche in relazione ai contratti a termine “acausali”.
In tal senso pertanto – ferme restando eventuali diverse previsioni introdotte dalla contrattazione collettiva – un contratto “acausale” potrà avere una durata massima di dodici mesi e cinquanta giorni, superati i quali lo stesso si trasformerà in un “normale” contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Non appare superfluo ricordare che l’applicazione dei “periodi cuscinetto” anche in relazione ai contratti “acausali” comporta l’applicazione della disposizione già contenuta nel comma 1 dell’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001, relativa alle maggiorazioni retributive dovute al lavoratore “per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo” e “al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore”.
Il D.L. n. 76/2013 abroga anche il comma 2 bis dell’art. 5, che aveva introdotto un obbligo di comunicazione al Centro per l’impiego – obbligo comunque sprovvisto di presidio sanzionatorio – nell’ipotesi di continuazione “di fatto” del rapporto a tempo determinato oltre il termine inizialmente stabilito.
Resta evidentemente salvo il diverso obbligo di cui all’art. 4 bis, comma 5, del D.Lgs. n. 181/2000 – sanzionabile invece ai sensi dell’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n. 276/2003 – relativo alla comunicazione, entro 5 giorni, della “proroga del termine inizialmente fissato” o della “trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato”.

Intervalli tra due contratti a termine
Il nuovo comma 3 dell’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 modifica nuovamente gli intervalli tra due contratti a tempo determinato, ripristinandoli a dieci o venti giorni, a seconda che il primo contratto abbia una durata fino a sei mesi ovvero superiore a sei mesi.
Per tutti i contratti a termine stipulati a partire dal 28 giugno 2013 (data di entrata in vigore del D.L. n. 76/2013) è pertanto sufficiente rispettare un intervallo di 10 o 20 giorni, anche se il precedente rapporto a tempo determinato è sorto prima di tale data.
Sul punto è importante evidenziare che le disposizioni che richiedono il rispetto degli intervalli tra due contratti a termine, nonché quelle sul divieto di effettuare due assunzioni successive senza soluzioni di continuità, non trovano applicazione:
- nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al D.P.R. n. 1525/1963;
- in relazione alle ipotesi, legate anche ad attività non stagionali, individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lavoratori in mobilità e contingentamento dei contratti
All’art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001 il Legislatore introduce anzitutto una modifica volta a chiarire che, in relazione alle assunzioni a termine di lavoratori in mobilità ai sensi dell’art. 8, comma 2, della L. n. 223/1991, non trovano applicazione le disposizioni di cui allo stesso D.Lgs. n. 368.
Ciò sta a significare che, in relazione alle assunzioni di tale categoria di lavoratori, non è necessario il rispetto della disciplina concernente, ad esempio, l’indicazione delle ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” o il rispetto degli intervalli.
Il Legislatore, in sede di conversione del D.L., fa invece espressamente salvo il rispetto della disciplina di cui agli artt. 6 e 8 del D.Lgs. n. 368/2001 relativa, rispettivamente, al “principio di non discriminazione” e ai “criteri di computo”. In tale ultimo caso i lavoratori in mobilità interessati – computabili quindi ai fini di cui all’art. 35 della L. n. 300/1970 secondo “il numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro”, ai sensi della più recente formulazione dell’art. 8 da parte dell’art. 12 della L. n. 97/2013 (in vigore dal 4 settembre 2013) – sono esclusivamente quelli assunti a partire dall’entrata in vigore della legge di conversione e quindi a far data dal 23 agosto u.s.
Da ultimo il D.L. n. 76/2013 modifica il comma 7 dell’art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001, chiarendo che la “individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato” da parte della contrattazione collettiva nazionale riguarda sia i contratti a termine “causali” che “acausali”.
Al riguardo le parti sociali potranno peraltro individuare limiti quantitativi differenziati tra contratti a tempo determinato “causali” e contratti “acausali”.

Distacco e contratto di rete (art. 7, comma 2)
Il D.L. n. 76/2013 introduce un comma 4 ter all’art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003 che disciplina l’istituto del distacco. Con tale intervento il Legislatore ha inteso configurare “automaticamente” l’interesse del distaccante al distacco qualora ciò avvenga nell’ambito di un contratto di rete.
In particolare si prevede che “qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’articolo 2103 del codice civile.
Ne consegue che, ai fini della verifica dei presupposti di legittimità del distacco, il personale ispettivo si limiterà a verificare l’esistenza di un contratto di rete tra distaccante e distaccatario.
La disposizione inoltre consente “la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso”; ciò vuol pertanto significare che, in relazione a tale personale, il potere direttivo potrà essere esercitato da ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete.
Sul piano di eventuali responsabilità penali, civili e amministrative – e quindi sul piano della sanzionabilità di eventuali illeciti – occorrerà quindi rifarsi ai contenuti del contratto di rete, senza pertanto configurare “automaticamente” una solidarietà tra tutti i partecipanti al contratto.

Lavoro intermittente (art. 7, comma 2 e 3)
In materia di lavoro intermittente il Legislatore, introducendo un comma 2 bis all’art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003, ha configurato un “contingentamento” nell’utilizzo dell’istituto. Tale disposizione stabilisce infatti che “in ogni caso, fermi restando i presupposti di instaurazione del rapporto e con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento del predetto periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”.
Sul punto va anzitutto evidenziato che l’instaurazione del rapporto di lavoro intermittente rimane soggetto ai limiti di carattere oggettivo o soggettivo già individuati dagli artt. 34 e 40 del D.Lgs. n. 276/2003.
Verificata la legittima instaurazione del rapporto, il ricorso a prestazioni di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un massimo di quattrocento giornate di effettivo lavoro “nell’arco di tre anni solari”. Ne consegue che il conteggio delle prestazioni dovrà essere effettuato, a partire dal giorno in cui si chiede la prestazione, a ritroso di tre anni; tale conteggio tuttavia, secondo quanto previsto dal D.L. n. 76/2013, dovrà tenere conto solo delle giornate di effettivo lavoro “prestate successivamente all’entrata in vigore della presente disposizione” e quindi prestate successivamente al 28 giugno 2013.
Si evidenzia che il vincolo delle quattrocento giornate di effettivo lavoro, per espressa previsione normativa, non trova applicazione nei settori “del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo”.
In tutti gli altri settori, un eventuale superamento del limite delle quattrocento giornate determinerà la “trasformazione” del rapporto in un “normale” rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato dalla data del superamento.
Il Legislatore ha poi spostato al 1° gennaio 2014 il termine ultimo di vigenza dei contratti di lavoro intermittente che, stipulati precedentemente all’entrata in vigore della L. n. 92/2012 (18 luglio 2012), non siano più compatibili con la nuova disciplina. Sul punto va chiarito che:
- l’eventuale incompatibilità dei “vecchi” contratti va verificata in relazione alle causali oggettive o soggettive che consentono l’instaurazione del rapporto, come riformulate dalla L. n. 92/2012;
- in caso di esito negativo di tale verifica e quindi di cessazione ex lege del rapporto, i datori di lavoro saranno comunque tenuti ad effettuare la consueta comunicazione al Centro per l’impiego ai sensi dell’art. 21 della L. n. 264/1949. In quest’ultimo caso si coglie altresì l’occasione per chiarire che non è dovuto il contributo di cui all’art. 2, comma 31, della L. n. 92/2012 in quanto trattasi di “interruzioni” del rapporto di lavoro determinate da una disposizione di carattere eccezionale e che, prescindendo dalla volontà del datore di lavoro, si configurano come un vero e proprio obbligo di legge. Una diversa interpretazione, infatti, non sarebbe in linea con la ratio sottesa all’introduzione del contributo, che vuol costituire anche un disincentivo per i datori di lavoro che intendono recedere da un rapporto di lavoro.
Sotto il profilo ispettivo va da ultimo osservato che l’eventuale prestazione di lavoro intermittente in forza di un contratto non più compatibile con la disciplina dettata dalla L. n. 92/2012 – e quindi in forza di un contratto che ha cessato “di produrre effetti” – comporterà il riconoscimento di un “normale” rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Inoltre, in assenza di una “tracciabilità” della prestazione, troverà applicazione il regime sanzionatorio in materia di lavoro “nero”.

Collaborazioni coordinate e continuative a progetto (art. 7, comma 2 e 2 bis)
In materia di collaborazioni a progetto il Legislatore introduce alcune modifiche alla disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 276/2003, volte in particolare a sciogliere alcuni nodi interpretativi sorti successivamente alla riforma del 2012.

Compiti meramente “esecutivi e ripetitivi”
Nel modificare l’art. 61 del citato D.Lgs. n. 276, il D.L. n. 76/2003 chiarisce che il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente “esecutivi e ripetitivi”, sostituendo la disgiuntiva “o” con la congiunzione “e”. L’intervento vuole pertanto evidenziare l’incompatibilità dell’istituto con attività che si risolvano nella mera attuazione di quanto impartito dal committente (compiti meramente “esecutivi”) e che risultano elementari, cioè tali da non richiedere specifiche indicazioni di carattere operativo (compiti meramente “ripetitivi”). La modifica non incide tuttavia sulle indicazioni già fornite da questo Ministero con circ. n. 29/2012 – alla quale si rinvia – con la quale sono state individuate, ai fini ispettivi, alcune figure la cui attività risulta difficilmente riconducibile ad un progetto specifico finalizzato ad un autonomo risultato obiettivamente verificabile.

Attività di ricerca scientifica
Ancora nel corpo dell’art. 61 del D.Lgs. n. 276/2003, la legge di conversione del D.L. n. 76/2013 chiarisce che “se il contratto ha per oggetto un’attività di ricerca scientifica e questa viene ampliata per temi connessi o prorogata nel tempo, il progetto prosegue automaticamente”.
La modifica, anche in tal caso, vuole evidentemente chiarire l’intrinseco legame tra la durata del rapporto di collaborazione e la realizzazione del progetto, senza tuttavia introdurre elementi di sostanziale novità nella disciplina dell’istituto.
Nell’ambito delle attività di ricerca scientifica – sul quale in parte questo Ministero ha già fornito alcuni chiarimenti con lett. circ. del 12 luglio 2013 – la durata “determinata o determinabile, della prestazione di lavoro”, da indicare nel contratto ai sensi dell’art. 62, comma 1 lett. a), del D.Lgs. n. 276/2003, è dunque intimamente connessa all’oggetto della ricerca. Se pertanto tale ricerca “viene ampliata o prorogata nel tempo” il Legislatore ha previsto un automatico “ampliamento” dello stesso progetto, legittimando la prosecuzione dell’attività del collaboratore senza particolari formalità.
Ciò non toglie che, per ragioni di opportunità, di tale circostanza si possa dare atto nella sottoscrizione dell’iniziale contratto di collaborazione o in successive comunicazioni effettuate dal committente ai propri collaboratori a progetto.

Attività di vendita di beni e servizi
Nel confermare l’orientamento già espresso da questo Ministero con circ. n. 14/2013 – alla quale anche in tal caso si rinvia – il D.L. n. 76/2013 chiarisce che, attraverso call-center outbound, il ricorso al lavoro a progetto è ammesso sia per le attività di vendita diretta di beni, sia per le attività di servizi.

Forma del contratto
Nel corpo dell’art. 62 del D.Lgs. n. 276/2003 il Legislatore chiarisce che il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto è un contratto rispetto al quale la forma scritta costituisce elemento di legittimità dello stesso (c.d. forma scritta ad substantiam).
Nell’elencare gli elementi che devono essere contenuti nel contratto, il D.L. n. 76/2013 elimina infatti la locuzione “ai fini della prova”. Anche in tal caso l’intervento acquista un valore sostanzialmente chiarificatore, atteso che la giurisprudenza aveva già stabilito come l’assenza quantomeno della specificità del progetto si traducesse nella assenza del progetto stesso, con le conseguenze di ordine civilistico dettate dall’art. 69, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 (v. ad es. Trib. Milano sent. n. 146 del 18 gennaio 2006; Trib. Milano sent. n. 2655 del 2 agosto 2006; Trib. Milano sent. n. 40 dell’8 gennaio 2007; Trib. Benevento sent. n. 2224 del 29 maggio 2008).

Lavoro accessorio (art. 7, comma 2)
In materia di lavoro accessorio il D.L. n. 76/2013 evidenzia, come peraltro già fatto da questo Ministero con circ. n. 18/2012, che la legittimità del ricorso all’istituto va verificata esclusivamente sulla base dei limiti di carattere economico, fatte salve le peculiarità proprie del settore agricolo e del lavoro prestato nei confronti di un committente pubblico.
È stato infatti eliminato l’inciso “di natura meramente occasionale” che contraddistingueva le prestazioni di lavoro accessorio, il che rafforza ancor di più l’orientamento già espresso secondo il quale l’occasionalità delle stesse non assume alcuna valenza ai fini dell’attivazione dell’istituto.
Il Legislatore prevede inoltre una particolare disciplina del lavoro accessorio nell’ambito di progetti promossi da PP.AA., al fine di poter impiegare più efficacemente “specifiche categorie di soggetti correlate allo stato di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali”. In tal caso occorre tuttavia attendere l’emanazione di un apposito decreto ministeriale per l’individuazione delle “specifiche condizioni, modalità e importi dei buoni orari”.

Procedura di conciliazione in caso di licenziamento (art. 7, comma 4)
Il D.L. n. 76/2013 interviene a chiarire alcuni aspetti della procedura di conciliazione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo disciplinata dall’art. 7 della L. n. 604/1966.
In particolare si prevede che la procedura non trova applicazione:
- in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all’art. 2110 c.c., come peraltro già evidenziato da questo Ministero con circ. n. 3/2013;
- per i licenziamenti e le interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all’art. 2, comma 34, della L. n. 92/2012. Trattasi delle medesime ipotesi in cui non è dovuto il c.d. contributo per “interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” e cioè:
a) licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
b) interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle diverse fasi lavorative e chiusura del cantiere.
Altro importante chiarimento introdotto dal D.L. n. 76/2013 è quello secondo il quale, se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di sette giorni per la trasmissione, da parte della DTL, della convocazione al datore di lavoro e al lavoratore, “il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore” mentre “la mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 116 del codice di procedura civile”. In quest’ultimo caso – fatto comunque salvo il “legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare all’incontro” di cui all’ultimo comma dell’art. 7 della L. n. 604/1966 – il Legislatore considera chiusa la procedura conciliativa, evidenziando tuttavia come l’assenza debba essere valutata in un eventuale giudizio ai sensi dell’art. 116 c.p.c., concernente la “valutazione delle prove” da parte della A.G.

Associazione in partecipazione (art. 7, comma 5)
In sede di conversione del D.L. n. 76/2013, il Legislatore ha introdotto una importante deroga alla disciplina limitativa della associazione in partecipazione, introducendo un comma 2 bis all’art. 2549 c.c. secondo il quale “le disposizioni di cui al secondo comma non si applicano, limitatamente alle imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall’organo assembleare di cui all’articolo 2540, il cui contratto sia certificato dagli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento”.
Rispetto a tali categorie di soggetti non trova dunque applicazione il limite massimo di tre associati introdotto dalla L. n. 92/2012.
Per quanto concerne gli associati di società cooperative va tuttavia chiarito che la certificazione dei relativi contratti non deve essere intervenuta necessariamente prima della entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 76/2013, atteso che il Legislatore non lo ha chiaramente previsto come invece è avvenuto con l’art. 1, comma 29, della L. n. 92/2012 (secondo il quale “sono fatti salvi, fino alla loro cessazione, i contratti in essere che, alla data di entrata in vigore della presente legge, siano stati certificati ai sensi degli articoli 75 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276).
Va tuttavia segnalato che dette certificazioni dovranno essere quantomeno avviate prima di qualsiasi accertamento ispettivo. La disposizione vuole infatti sollecitare un intervento “sostitutivo” e “parallelo” da parte delle Commissioni di certificazione, evitando ogni possibile sovrapposizione ad un eventuale accertamento. Ne consegue che:
- in caso di procedura di certificazione già avviata, il personale ispettivo sospenderà gli accertamenti iniziati dopo tale procedura e sino alla sua conclusione;
- in caso di accertamento ispettivo già avviato, la Commissione di certificazione adita dovrà dichiarare l’improcedibilità della richiesta presentata successivamente all’avvio dell’accertamento.

Convalida delle risoluzioni consensuali e delle dimissioni (art. 7, comma 5)
Il D.L. n. 76/2013 estende la procedura di convalida delle risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro e delle dimissioni ad altre forme di impiego.
In particolare sono estese le disposizioni di cui ai commi da 16 a 23 dell’art. 4 della L. n. 92/2012, “in quanto compatibili”, anche:
- alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’art. 61, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 (con esclusione pertanto delle prestazioni rese ai sensi del comma 2 e 3 del medesimo art. 61);
- alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549, comma 2, c.c..
Rispetto a tali rapporti, pertanto, sarà possibile convalidare la risoluzione consensuale del rapporto o le dimissioni secondo le modalità già previste per i rapporti di lavoro subordinato.

Stabilizzazione di associati in partecipazione con apporto di lavoro (art. 7 bis)
L’art. 7 bis, introdotto nel corpo del D.L. n. 76/2013 dalla L. n. 99/2013, disciplina una procedura finalizzata alla “stabilizzazione dell’occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro”.
La procedura di stabilizzazione è subordinata alla stipula di contratti collettivi, nel periodo 1º giugno-30 settembre 2013, tra aziende e associazioni (di qualsiasi livello) dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Tali contratti devono prevedere l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – anche mediante apprendistato e anche ricorrendo ad eventuali benefici “previsti dalla legislazione” – entro tre mesi dalla loro stipulazione, “di soggetti già parti, in veste di associati, di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro”.
Nei primi sei mesi successivi alle assunzioni, i datori di lavoro possono recedere dal rapporto di lavoro solo per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.

Soggetti interessati
L’accesso alla procedura di stabilizzazione è consentito “anche” alle aziende che siano destinatarie di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi concernenti la qualificazione dei pregressi rapporti.
Per quanto riguarda i lavoratori, inoltre, la disposizione fa riferimento a “soggetti già parti, in veste di associati, di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro”, a prescindere dalla circostanza che, rispetto agli stessi, siano pendenti accertamenti ispettivi o siano stati adottati provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi.

Atti di conciliazione
L’art. 7 bis prevede, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, la sottoscrizione da parte dei lavoratori interessati, “con riferimento a tutto quanto riguardante i pregressi rapporti di associazione”, di atti di conciliazione ex art. 410 c.p.c. L’efficacia di tali atti, pur immediata, è risolutivamente condizionata al versamento alla Gestione separata INPS, da parte del datore di lavoro, di una somma pari al 5% per cento “della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato”.

Verifica degli adempimenti
Ai fini della verifica circa la correttezza degli adempimenti, ai datori di lavoro è fatto obbligo di depositare entro il 31 gennaio 2014, presso le competenti sedi dell’INPS:
- i contratti collettivi;
- gli atti di conciliazione;
- i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulati con ciascun lavoratore;
- l’attestazione dell’avvenuto versamento delle somme alla Gestione separata INPS.
In particolare l’Istituto sarà tenuto a verificare che le assunzioni previste nel contratto collettivo siano state effettuate, che a queste corrispondano altrettanti atti di conciliazione nonché i relativi versamenti alla Gestione separata.
Gli esiti di tale verifica dovranno essere comunicati dall’INPS alle competenti Direzioni territoriali del lavoro, individuate in base alla sede legale del datore di lavoro, nonché ai datori di lavoro interessati.
La disposizione non prevede termini per la verifica, da parte dell’INPS, circa la correttezza degli adempimenti indicati tuttavia, al fine di evitare situazioni di incertezza che potrebbero ripercuotersi sia sulle aziende che sui lavoratori interessati, si raccomanda all’Istituto la massima tempestività nella definizione delle procedure.

Sospensione degli effetti dei provvedimenti amministrativi o giurisdizionali
Sino all’esito della verifica circa la correttezza degli adempimenti posti in essere da parte del datore di lavoro, il Legislatore prevede che gli effetti dei provvedimenti amministrativi o giurisdizionali già adottati siano sospesi.
Ai fini della sospensione di tali effetti – prevista dall’art. 7 bis, comma 6, ultimo periodo – è facoltà delle aziende interessate comunicare direttamente alla competente DTL l’adesione alla procedura di stabilizzazione.
Va evidenziato che la disposizione prevede la sospensione degli effetti di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali già emanati ma non la sospensione dei termini di cui agli artt. 14 o 28 della L. n. 689/1981.
Ne consegue che, ai fini del rispetto dei predetti termini, gli eventuali provvedimenti amministrativi dovranno essere comunque notificati con l’avvertenza che, attesa l’adesione alla procedura di stabilizzazione in argomento, rimangono sospesi i relativi effetti.
Tale sospensione inciderà peraltro anche sui termini per l’eventuale presentazione di scritti difensivi ai sensi dell’art. 18 L. n. 689/1981, nonché per la proposizione dei ricorsi ai sensi dell’art. 16 e 17 del D.Lgs. n. 124/2004.
I termini ricominceranno eventualmente a decorrere dalla data di comunicazione, da parte dell’Istituto alle DTL e ai datori di lavoro, dell’esito negativo della verifica circa gli adempimenti richiesti dall’art. 7 bis.
Con specifico riferimento alla adozione di eventuali diffide accertative, anche in attesa di validazione, sarà necessario che siano le DTL a notificare ai lavoratori interessati la sospensione dei relativi effetti, nonché l’eventuale esito negativo delle verifiche effettate dall’INPS.

Estinzione degli illeciti
Il buon esito della verifica comporta, “relativamente ai pregressi rapporti di associazione o forme di tirocinio”, l’estinzione degli illeciti previsti dalle disposizioni in materia di versamenti contributivi, assicurativi e fiscali, “anche connessi ad attività ispettiva già compiuta” alla data di entrata in vigore della L. n. 99/2013 (23 agosto 2013) e “con riferimento alle forme di tirocinio avviate dalle aziende sottoscrittrici dei contratti collettivi”.
Ciò sta a significare che, fermo restando che la procedura di stabilizzazione coinvolge i soli lavoratori impiegati con contratto di associazione in partecipazione, eventuali provvedimenti sanzionatori concernenti l’impiego sia di associati in partecipazione che di tirocinanti (in ambedue i casi anche cessati), adottati anche sulla base di un medesimo accertamento ispettivo, saranno estinti e quindi archiviati. Viceversa, l’adesione alla procedura di stabilizzazione non comporterà l’estinzione di eventuali provvedimenti sanzionatori adottati in relazione all’utilizzo di altri lavoratori (ad. es. collaboratori a progetto, partite IVA ecc.), sebbene gli stessi provvedimenti siano presi nell’ambito del medesimo accertamento ispettivo.
L’estinzione coinvolge anche i “provvedimenti amministrativi emanati in conseguenza di contestazioni riguardanti i medesimi rapporti anche se già oggetto di accertamento giudiziale non definitivo” (ad es. diffide accertative), nonché “le pretese contributive, assicurative e le sanzioni amministrative e civili conseguenti alle contestazioni”.
L’archiviazione dei provvedimenti dovrà essere comunicata alle aziende interessate e, per quanto riguarda le diffide accertative, anche ai lavoratori interessati.

Solidarietà negli appalti (art. 9, comma 1)
Il D.L. n. 76/2013 chiarisce anche i contenuti dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 che, come noto, disciplina l’istituto della solidarietà nell’ambito degli appalti.
L’art. 29 citato stabilisce che “salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento (…)”.
Al riguardo, in parte confermando principi già espressi da questo Ministero con circ. n. 5/2011, si prevede che la disciplina in questione:
- trova applicazione anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo. La ratio sottesa all’istituto della solidarietà, volta a tutelare i lavoratori per i quali gli obblighi previdenziali e assicurativi sono prevalentemente assolti dal datore di lavoro/committente, lascia tuttavia intendere che il riferimento ai “lavoratori con contratto di lavoro autonomo” sia limitato sostanzialmente ai co.co.co./co.co.pro. impiegati nell’appalto e non anche a quei lavoratori autonomi che sono tenuti in via esclusiva all’assolvimento dei relativi oneri. Una diversa interpretazione porterebbe sostanzialmente ad una coincidenza tra trasgressore e soggetto tutelato dalla solidarietà, ampliando ingiustificatamente le effettive responsabilità del committente, con evidenti distonie sul piano delle finalità proprie dell’istituto;
- non trova applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle PP.AA. di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, rispetto alle quali continuano tuttavia ad applicarsi sia la disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 163/2006 che nell’art. 1676 c.c..
È inoltre previsto che l’eventuale intervento delle parti sociali volto ad incidere sulla disciplina di cui all’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, individuando “metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”, esplichi i propri effetti esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto “con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”. Una eventuale diversa disciplina introdotta dalla contrattazione collettiva non comprometterebbe pertanto il diritto degli Istituti previdenziali e assicurativi di avvalersi della solidarietà ai fini della riscossione della contribuzione non versata.

Rivalutazione sanzioni in materia salute e sicurezza sul lavoro (art. 9, comma 2)
Il D.L. n. 76/2013, nel sostituire il comma 4 bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce che: “le ammende previste con riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente decreto nonché da atti aventi forza di legge sono rivalutate ogni cinque anni con decreto del direttore generale della Direzione generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in misura pari all’indice ISTAT dei prezzi al consumo previo arrotondamento delle cifre al decimale superiore. In sede di prima applicazione la rivalutazione avviene, a decorrere dal 1° luglio 2013, nella misura del 9,6% e si applica esclusivamente alle sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data (…)”.
Sul punto questo Ministero ha fornito indicazioni con nota prot. n. 12059 del 2 luglio 2013, chiarendo che le sanzioni previste dalla citata disposizione riferite a violazioni commesse a decorrere dal 1° luglio 2013 sono “automaticamente” incrementate del 9,6%, senza applicazione di alcun arrotondamento. In sede di conversione del D.L. n. 76/2013 è stato chiarito che l’incremento si applica “alle sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data”, il che esclude pertanto tutte le sanzioni che abbiano come presupposto delle violazioni commesse prima del 2 luglio scorso.
Va altresì osservato che l’incremento non si applica alle “somme aggiuntive” di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008 che occorre versare ai fini della revoca del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale le quali non costituiscono propriamente una “sanzione”.
La nuova disposizione contenuta nell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce altresì che “le maggiorazioni derivanti dalla applicazione del presente comma sono destinate, per la metà del loro ammontare, al finanziamento di iniziative di vigilanza nonché di prevenzione e promozione in materia di salute e sicurezza del lavoro effettuate dalle Direzioni territoriali del lavoro. A tal fine le predette risorse sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate su apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (…)”.
Nel rappresentare che la Direzione generale per l’Attività Ispettiva di questo Ministero ha già avviato le procedure per l’individuazione del citato capitolo e del relativo codice tributo, si precisa che le somme volte a finanziare “iniziative di vigilanza nonché di prevenzione e promozione in materia di salute e sicurezza del lavoro effettuate dalle Direzioni territoriali del lavoro” sono evidentemente quelle che derivano dalle sanzioni irrogate dal personale ispettivo di questo Ministero. In attesa della individuazione di uno specifico codice tributo sul quale imputare le predette maggiorazioni il personale ispettivo procederà, come di consueto, alla imputazione dell’intera somma utilizzando i codici già in uso.

Pluriefficacia delle comunicazioni al Centro per l’impiego (art. 9, comma 5)
Il D.L. n. 76/2013, con una disposizione di interpretazione autentica, stabilisce che “le previsioni di cui al comma 6 dell’articolo 4-bis del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181 si interpretano nel senso che le comunicazioni di assunzione, cessazione, trasformazione e proroga ivi previste sono valide ai fini dell’assolvimento di tutti gli obblighi di comunicazione che, a qualsiasi fine, sono posti anche a carico dei lavoratori nei confronti delle Direzioni regionali e territoriali del lavoro, dell’INPS, dell’INAIL o di altre forme previdenziali sostitutive o esclusive, nonché nei confronti della Prefettura – Ufficio territoriale del Governo e delle Province”.
La disposizione ripercorre l’orientamento interpretativo già formalizzato da questo Ministero con risposta ad interpello n. 19/2012 nel quale è stato chiarito – con riferimento alla applicazione dell’art. 8, comma 5, del D.L. n. 86/1988 (conv. da L. n. 160/1988), in materia di decadenza dai trattamenti di integrazione salariale per mancata comunicazione all’INPS da parte del lavoratore dello svolgimento di una nuova attività – che “non trova più applicazione, almeno con riferimento alle tipologie lavorative oggetto della comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto, l’obbligo imposto al prestatore di lavoro di comunicare all’Istituto lo svolgimento di attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale ex art. 8, comma 4, L. n. 160/1988. Non appare, dunque, possibile far conseguire dall’inosservanza di tale obbligo qualsivoglia conseguenza sanzionatoria a carico del soggetto obbligato”.
Ne consegue che, sotto il profilo ispettivo, il personale del Ministero e degli Istituti dovrà verificare se una eventuale nuova attività svolta dal lavoratore che percepisce un trattamento di integrazione salariale possa risultare da una comunicazione al Centro per l’impiego, prima di procedere alla applicazione del citato art. 8 che, come noto, prevede la decadenza dal diritto all’integrazione in caso di mancata comunicazione da parte dello stesso lavoratore.

Tutela del lavoratore in somministrazione (art. 9, comma 6)
Il D.L. n. 76/2013 modifica anche l’art. 23, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 che dispone, per i lavoratori oggetto di somministrazione, il “diritto a condizioni di base di lavoro e d’occupazione complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte”.
In tal caso l’intervento del Legislatore ha inteso semplicemente evidenziare che, per tutta la durata della missione, anche per tale categoria di lavoratori resta ferma l’integrale applicabilità delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui al D.Lgs. n. 81/2008.

Imprese agricole e assunzioni contestuali (art. 9, comma 11)
Il D.L. n. n. 76/2013 aggiunge ulteriori commi all’art. 31 del D.Lgs. n. 276/2003 che ha introdotto alcune specificità nella gestione dei rapporti di lavoro nell’ambito dei gruppi di impresa.
Secondo le nuove disposizioni le imprese agricole, ivi comprese quelle costituite in forma cooperativa, appartenenti allo stesso gruppo, ovvero riconducibili allo stesso proprietario o a soggetti legati tra loro da un vincolo di parentela o di affinità entro il terzo grado, possono “procedere congiuntamente all’assunzione di lavoratori dipendenti per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le relative aziende”.
È inoltre previsto che l’assunzione congiunta può essere effettuata anche da imprese legate da un contratto di rete, quando almeno il 50% di esse sono imprese agricole, per la individuazione delle quali occorre rifarsi alla definizione contenuta nell’art. 2135 c.c.
L’assunzione congiunta di lavoratori comporta, secondo la nuova disposizione, una responsabilità solidale “delle obbligazioni contrattuali, previdenziali e di legge che scaturiscono dal rapporto di lavoro instaurato”.
Purtuttavia si segnala che dette assunzioni potranno essere effettuate esclusivamente a decorrere dalla emanazione del D.M. previsto dal nuovo comma 3 quater dell’art. 31 del D.Lgs. n. 276/2003, con il quale saranno definite “le modalità con le quali si procede alle assunzioni congiunte”.

Il Segretario generale
(f.to Paolo Pennesi)