INAIL - Direzione Centrale Prestazioni
Circolare 8 luglio 1999
Criteri per la trattazione dei casi di infortuni sul lavoro con particolare riferimento alla nozione di rischio generico aggravato.

In tema di occasione di lavoro la giurisprudenza, sia costituzionale (sentenza n. 462/89) che di legittimità, ha delineato un insieme di principi che possono ormai considerarsi consolidati.
In base a tali princìpi, l’ambito di applicazione della tutela può essere definito per una duplice via:
- in positivo, nel senso che nella protezione assicurativa rientrano tutti gli infortuni conseguenti al rischio, anche ambientale, cui i lavoratori sono esposti in ragione dello svolgimento della loro attività produttiva, ed a ciò che ad essa è connesso od accessorio, senza necessità dei caratteri della normalità, tipicità e prevedibilità;
- in negativo, nel senso che la protezione assicurativa si arresta di fronte ad infortuni conseguenti ad un rischio estraneo al lavoro o avente con questo un collegamento meramente marginale, quando cioè intervengono fattori od attività del tutto indipendenti dall’ambiente, delle macchine o persone costituenti le condizioni oggettive dell’attività lavorativa.
All’interno di questo quadro generale di princìpi fondamentali che - come detto - devono ritenersi acquisiti, continuano peraltro a sussistere alcuni dubbi interpretativi principalmente legati al preciso significato da attribuire alla nozione di rischio non tutelato in quanto estraneo all’attività lavorativa.
Infatti, mentre la giurisprudenza è univoca nell’affermare che il rischio generico (oltre, naturalmente, a quello elettivo) è estraneo alla copertura assicurativa, non altrettanta univocità è dato registrare nell’applicazione di questo principio ai singoli casi concreti, con riguardo soprattutto alla individuazione di quelle situazioni in cui il rischio, ancorché generico, viene aggravato da ragioni lavorative e si trasforma, perciò, in rischio lavorativo meritevole di tutela.
Sulla nozione di rischio generico aggravato, in effetti, coesistono nella giurisprudenza della Suprema Corte due linee interpretative. Accanto alla impostazione tradizionale, secondo la quale il rischio generico è assicurativamente protetto solo in presenza di intensità o di frequenza, un incremento, con conseguente aumento delle probabilità che l’infortunio accada, si sta affermando un altro e più estensivo filone interpretativo, secondo il quale il rischio generico deve ritenersi aggravato dal lavoro, e quindi assicurativamente coperto, se ed in quanto è affrontato necessariamente per finalità lavorative, senza bisogno di ulteriori elementi specificanti.
Quest’ultimo indirizzo, assegnando esclusiva rilevanza alla riconducibilità della condotta del lavoratore alle esigenze ed alle finalità lavorative, sottrae importanza all’accertamento del maggiore o minore grado di rischiosità che quella condotta implica e finisce, così, per valorizzare il lavoro in sé e per sé considerato in quanto espone il lavoratore al rischio e, in definitiva, costituisce esso stesso fattore occasionale di rischio tutelato.
Si tratta di una linea interpretativa che di recente ha acquisito consistenza e complessiva coerenza logico-sistematica, essendosi ripetutamente manifestata sia per gli infortuni in attualità di lavoro che per quelli in itinere, e che sembra destinata ad assumere il carattere della definitività.
A questo più recente ed estensivo orientamento della Suprema Corte l’istituto ritiene di doversi uniformare.
Tale scelta è motivata non solo dalla esigenza di prevenire l’alta ed incerta vertenzialità che la nuova tendenza della Cassazione potrebbe innescare, ma anche dalla convinzione che l’interpretazione di rischio generico aggravato, fornita dalla più recente e comprensiva elaborazione giurisprudenziale, rispecchi con maggio- re puntualità i cambiamenti che stanno attraversando il sistema produttivo e dia una risposta maggiormente adeguata alla sempre più raffinata domanda di tutela che proviene dal mondo del lavoro.
Negli stessi termini l’INAIL si prepara ad offrire il proprio contributo alla predisposizione della disciplina legislativa dell’infortunio in itinere, prevista dall’art. 55 della Legge n. 144/1999, i cui riflessi saranno al momento tempestivamente valutati.

* * *

Allo scopo di realizzare la massima diffusione delle conoscenze tra le Unità operative e di fornire parametri orientativi che agevolino il loro compito nell’esame delle concrete fattispecie, si è predisposto l’allegato documento che contiene una panoramica degli indirizzi giurisprudenziali in tema di rischio generico aggravato, della loro evoluzione e - laddove permane - della coesistenza dei diversi orientamenti.
Nel documento sono ampiamente illustrati i criteri interpretativi e le metodologie argomentative desumibili dalle sentenze in cui si esprime l’indirizzo più avanzato della Corte di Cassazione cui l’istituto ha deciso di aderire.
Fermo restando che la valutazione delle singole situazioni non può mai prescindere dall’analisi delle loro peculiari caratteristiche e da un “ragionevole” adattamento dei criteri generali enunciati dalla giurisprudenza, al suddetto documento occorrerà fare riferimento nell’esame dei casi che d’ora in avanti si presenteranno, di quelli in istruttoria nonché di quelli già definiti negativamente che si rivelassero meritevoli di riconsiderazione - a richiesta degli interessati - sempreché non prescritti o non coperti da giudicato.
Data la complessità dell’argomento e la sua essenzialità nell’attività istituzionale, le Direzioni Regionali vorranno adottare le opportune iniziative per garantire uniformità di lettura del documento e conseguente omogeneità di comportamenti sul territorio.
A. Ricciotti


ALL. 1 CRITERI PER LA TRATTAZIONE DEI CASI DI INFORTUNI SUL LAVORO CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA NOZIONE DI RISCHIO GENERICO AGGRAVATO.

1 Infortuni in itinere.
Il tradizionale indirizzo della Corte di Cassazione - al quale l’INAIL si è conformato da ultimo con le Linee-guida emanate il 4 maggio 1998 - esclude l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere occorso:
- nel percorrere il tragitto a piedi lungo una ordinaria via di comunicazione aperta al pubblico transito che non presenta particolari pericoli, trattandosi di un comune rischio connesso alla generica attività di spostamento spaziale;
- nel compiere il tragitto servendosi di pubblici servizi di trasporto, trattandosi di un comune rischio gravante su tutti i cittadini.
Questo indirizzo ha avuto modo di esprimersi anche di recente nella sentenza n. 3742/1998, che ha negato l’indennizzo dell’infortunio occorso ad una assicurata mentre scendeva da un autobus di linea rincasando dal luogo di lavoro, e nella sentenza n. 12122/1998, che ha riconosciuto tutelabile l’infortunio accaduto ad una lavoratrice scivolata, a causa del ghiaccio, mentre era diretta, di prima mattina, alla fermata dell’autobus, ribadendo però che il rischio generico della strada è assicurativamente coperto solo se risulti incrementato da un quid pluris specificante, che nella fattispecie è stato individuato nelle particolari ed inusuali condizioni della strada dovute alle avverse condizioni metereologiche nonché nella scarsa visibilità.

* * *

Accanto a quella sopradescritta si è venuta affermando, nella giurisprudenza della Suprema Corte, un’altra e più estensiva linea interpretativa, che ha riconosciuto la tutela:
- a lavoratori infortunatisi a seguito dell’incidente stradale occorso all’autobus di linea sul quale viaggiavano per raggiungere dal luogo di residenza il posto di lavoro (sentenza n. 455/1998 ed altre riguardanti lo stesso caso di infortunio collettivo); ad una lavoratrice caduta a causa della brusca frenata dell’autobus di linea utilizzando il quale stava recandosi al lavoro (n. 11008/1998);
- ad un lavoratore investito da una autovettura mentre, a piedi, stava rientrando al lavoro dopo aver desinato (nell’intervallo lavorativo ed in assenza di una mensa aziendale) presso la propria abitazione distante circa cinquanta metri dalla sede dell’azienda (n. 4535/1998); ad una lavoratrice scivolata sull’asfalto stradale mentre si portava a piedi, al termine del turno di lavoro, verso la fermata dell’autobus per fare rientro a casa (n. 10272/1998); ad una lavoratrice caduta mentre, a piedi si stava recando a prendere il mezzo pubblico per raggiungere il posto di lavoro (n. 10582/1998); ad un lavoratore che, mentre si recava al lavoro percorrendo a piedi un tratto di strada pubblica, era stato colpito da una sponda, parzialmente uscita dalla propria sede, del semirimorchio di un autoarticolato che procedeva in senso opposto (n. 10828/1998); ad un lavoratore investito da una autovettura mentre, al termine del turno di lavoro, si recava a prendere l’autobus di linea per rientrare a casa (n. 3970/1999).
La Suprema Corte, pur trattandosi di situazioni che non presentavano specifiche condizioni aggravanti, tuttavia - una volta accertata la normalità del tragitto e la percorrenza in orari confacenti con quelli lavorativi - ha riconosciuto la tutelabilità degli infortuni, sostenendo che il rischio generico che incombe su qualsiasi utente della strada viene aggravato dal fatto che il tragitto è finalizzato a raggiungere il luogo di lavoro o a fare ritorno a casa, non avendo il lavoratore possibilità di una scelta diversa.
Afferma la Corte (o, meglio, il filone interpretativo di cui si sta parlando) che “è questo rapporto finalistico (o strumentale) necessario che costituisce il quid pluris richiesto per l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere rispetto al rischio generico che incombe su tutti gli utenti della strada” (tra le altre n. 455/1998); e, pur riconoscendo che andare a piedi o utilizzare il mezzo pubblico comporta “il grado minimo” di rischio, la stessa Corte sostiene che “dalla minore entità del rischio non si può ricondurre lo stesso a quello proprio di un qualsiasi altro pedone ed escluderne la professionalità, cioè la riconducibilità dell’evento ad occasione di lavoro, trattandosi di valutazioni diverse, ed estranea essendo la seconda valutazione alla entità del rischio pur se questo è connesso alla necessità della condotta - nella cui attuazione l’evento si è prodotto - in relazione alle prestazioni lavorative” (n. 4535/1998).
In aggiunta a quelle già citate si ritiene opportuno segnalare la sentenza n. 4841/1998, che pure si iscrive nel filone interpretativo più recente ed estensivo riassumendone e ribadendone i concetti, ma che qui si richiama perché è utile a meglio definire l’ambito spaziale del rischio in itinere oggetto della copertura assicurativa.
La Corte parte dalla considerazione che per una persona in età produttiva il lavoro costituisce una componente di grande incidenza nel complesso di tutte le sue attività le quali in larga misura sono coordinate in funzione di esso, sicché molte attività svolte nei luoghi di provenienza e di destinazione diversi da quelli delle prestazioni lavorative sono anch’esse, sia pure in senso lato, ricollegabili a quella lavorativa.
I giudici, perciò, si interrogano su quali siano i confini entro i quali deve applicarsi la tutela antinfortunistica e rispondono che “l’estensione della protezione assicurativa a tutte le attività in qualche modo prodromiche addirittura alla partenza del lavoratore da casa verso il luogo di lavoro o consecutive e conseguenti al suo rientro porterebbero ad una estensione della assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro ad un ambito ben più ampio di quello per il quale è stata istituita fino a ricomprendervi, in pratica, infortuni occorsi al lavoratore in quanto tale e non in quanto occasionati dalla attività lavorativa”.
Pertanto, concludono giudicando non indennizzabile l’infortunio occorso ad un lavoratore mentre custodiva il veicolo di sua proprietà nel garage di casa, trattandosi di evento che “avvenne quando l’iter dal luogo di lavoro si era già concluso e si produsse in ambito domestico presso l’abitazione del lavoratore... e non in prossimità di essa”.
Se questo ragionamento della Suprema Corte viene volto in positivo, esso consente di affermare che l’ambito spaziale del rischio in itinere protetto inizia con l’uscita dall’abitazione dell’assicurato e termina con l’ingresso nell’abitazione medesima.
Ed infatti, nella stessa sentenza la Cassazione richiama due precedenti pronunce (nn. 10961/1992 e 1494/1996, riportate a pag. 5 delle Linee-guida del 4 maggio 1998) con le quali era stato negato l’indennizzo dell’infortunio conseguente alla caduta del lavoratore mentre questi, parcheggiata l’auto, stava rientrando a casa; e precisa che in quelle due fattispecie si trattava di infortuni che si collocavano cronologicamente e concettualmente in un momento anteriore al rientro a casa, iscrivibile, quindi, nell’uso del veicolo, mostrando così, in piena coerenza con il nuovo orientamento, di non condividere quelle decisioni.

* * *

Conclusivamente si può affermare che dall’analisi delle sentenze in cui si esprime l’orientamento più recente ed estensivo della Corte di Cassazione si desume che l’infortunio in itinere è indennizzabile, oltre che nelle ipotesi indicate nelle Linee-guida del 4 maggio 1998, anche nei casi di percorsi a piedi o su mezzi pubblici o di percorsi misti, a condizione che siano accertate le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari.
È bene precisare, peraltro, che l’indirizzo che si è illustrato continua a tenere fermo il presupposto “che l’andare a piedi sia meno pericoloso che andare su un mezzo e l’utilizzazione del mezzo pubblico sia meno pericolosa dell’uso di quello privato e comunque rappresenti il modo normale per la mobilità delle persone” (sebbene, anche su questo aspetto, si intravedono segni di ulteriori evoluzioni; cfr. sentenza n. 10272/1998 dove ai viaggi su mezzo privato e su mezzo pubblico viene attribuito lo stesso grado di rischiosità).
Resta confermato, perciò, che ogni volta che il tragitto può essere compiuto a piedi o con i mezzi pubblici, l’eventuale scelta di utilizzare il mezzo privato deve risultare necessitata in quanto, altrimenti, ricade nell’ambito del rischio elettivo assicurativamente non protetto (cfr., oltre a quelle già citate nelle Linee-guida del 4 maggio 1998, le recenti sentenze nn. 2572 e 11628/1998, che hanno negato l’indennizzabilità di infortuni accaduti utilizzando mezzi privati pur essendo la breve distanza percorribile a piedi).

2 Infortuni in attualità di lavoro.
2.1 Cadute per le scale, scivolamenti sul pavimento, urti contro suppellettili e infissi ed altri incidenti di tipo analogo accaduti sul posto di lavoro.

L’indirizzo giurisprudenziale tradizionale - al quale l’INAIL si è conformato con la circolare n. 24/1994 - esclude la tutelabilità di questi infortuni, giudicandoli conseguenza di un rischio comune ad altre situazioni del vivere quotidiano e, quindi, non collegate, o solo marginalmente collegate, con il lavoro, salvo che non si accerti la sussistenza di fattori professionali, anche ambientali, determinanti un incremento del rischio generico.
Sono state considerate circostanze aggravanti, con conseguente ammissione all’indennizzo dell’infortunio:
- il terreno ghiacciato nel cortile dell’azienda, a causa del quale una lavoratrice è scivolata mentre si accingeva a timbrare il cartellino di inizio lavoro (n. 4557/1997);
- le mani occupate, gli ostacoli dei tavoli ed il pavimento verosimilmente scivoloso, che hanno determinato la caduta di un cameriere mentre allestiva un tavolo in un ristorante (n. 1143/1998);
- l’ingombro di un attrezzo di lavoro (martello appuntito per togliere l’intonaco), che ha provocato la caduta per le scale della propria abitazione di un edile appositamente ritornato a casa per recuperare l’attrezzo necessario per completare la particolare mansione in quel momento affidatagli (n. 4646/1998);
- la sabbia presente nel cortile di una scuola, a causa della quale è caduta una bidella che vi transitava (n. 11494/1998).
In mancanza di fattori aggravanti, l’indirizzo di cui si parla ha respinto le richieste di tutela, come nei casi di cadute accidentali occorse ad un lavoratore che, all’interno della stazione ferroviaria, si recava a piedi dalla cabina di controllo ai gabinetti pubblici della stazione stessa (n. 964/1985), al dipendente di una assicurazione che si stava avviando a piedi ad effettuare una perizia (n. 10896/1995) e ad un ispettore INAIL che, in orario di lavoro, stava entrando nella sede regionale per un corso di formazione (n. 9143/1997).
Inoltre, nel caso di un medico caduto per le scale mentre si spostava da un reparto all’altro dell’ospedale, la Corte ha cassato la sentenza favorevole del tribunale rinviando ad altro giudice perché accertasse l’eventuale esistenza di fattori aggravanti quali: urgenza della prestazione, trasporto di materiali ingombranti, insidiosità delle scale, ecc. (n. 5598/1998).
Sempre nell’ambito di questa linea interpretativa va infine ricordata la sentenza n. 4000/1985, che negò l’indennizzo ad una commessa della UPIM che aveva subito un danno dalla caduta di un battente di una finestra, non ritenendo tale circostanza inerente al rischio dell’ambiente di lavoro.
Si passa ora ad esaminare il secondo e più estensivo orientamento della Corte di Cassazione che, già manifestatosi in passato, assume oggi, anche per effetto della concomitante enunciazione di analoghi criteri interpretativi per l’infortunio in itinere, una maggiore consistenza ed una complessiva coerenza logico-sistematica.
È inutile iniziare l’analisi da una sentenza (n. 7918/1997) che, esaminando una fattispecie che presenta alcuni aspetti di analogia con quella oggetto della decisione n. 4000/1985 appena citata, giunge però a conclusioni opposte.
Chiamata ad esprimersi sul caso di una lavoratrice addetta a mansioni di portiera presso una azienda che, al termine del turno di lavoro, mentre indossava il cappotto, urtava contro la stufetta situata nei locali della portineria cadendo e riportando postumi permanenti, la Corte ha affermato che:
- l’atto di indossare il cappotto deve considerarsi accessorio rispetto alla prestazione principale;
- la stufetta sita nella portineria fa parte dell’apparato produttivo e, dunque, va ricompresa nel rischio dell’ambiente di lavoro;
- l’infortunio è perciò accaduto in occasione di lavoro, dovendosi intendere per tale “tutte quelle condizioni, comprese quelle ambientali, in cui l’attività produttiva si svolge e nella quale è possibile il rischio di danno per il lavoratore” e non “potendosi considerare una caduta nell’ambiente di lavoro come del tutto indipendente dall’ambiente, dalle macchine o persone costituenti le condizioni oggettive dell’attività protetta (così Corte Costituzionale n. 462/1989)”.
Va segnalato che il Collegio mostra di essere consapevole dell’esistenza, all’interno della giurisprudenza della Cassazione, di decisioni di segno contrario, ma dichiara espressamente la propria condivisione di quella linea interpretativa “più coerente alla causa dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e alla sua disciplina positiva” che, identificando “la professionalità del rischio nella sua inerenza alla prestazione lavorativa”, prende in considerazione “il lavoro in quanto espone il lavoratore al rischio ed in definitiva costituisce esso stesso un fattore occasionale di rischio tutelato”.
A tale proposito viene richiamata la sentenza n. 925/1986 che - sulla base dello stesso ragionamento - riconobbe l’indennizzabilità dell’infortunio occorso ad un lavoratore ospedaliero che era caduto mentre percorreva a piedi, all’interno dell’ospedale, un viale che dava accesso ai reparti; ma può essere citata anche la sentenza n. 5019/1994, che ha riconosciuto indennizzabile, con le medesime argomentazioni, l’infortunio accaduto ad una lavoratrice caduta mentre stava svolgendo le proprie mansioni sul posto di lavoro.
Sempre in questa scia si colloca la sentenza n. 12652/1998 che affronta una fattispecie per molti versi paradigmatica: si tratta di una lavoratrice addetta a macchine elettriche e videoterminale, scivolata sul pavimento del bagno reso viscido dalla fuoriuscita di acqua di un termosifone guasto.
La Corte, dopo aver ribadito che:
- la tutela non può essere circoscritta “nei limiti dell’evento di esclusiva derivazione eziologica materiale dalla lavorazione specifica espletata dall’assicurato”;
- va, invece, “riferita ad ogni accadimento infortunistico che all’occasione di lavoro sia ascrivibile in concreto, pur se astrattamente possibile in danno di ogni comune soggetto... ed afferente ai normali rischi della vita quotidiana privata”; con l’unico limite costituito dalla ricollegabilità dell’evento “a mere esigenze voluttuarie o, comunque, del tutto esulanti dall’ambiente, dalle esigenze e dalla connessione con le prestazioni di lavoro, sì da configurare una ipotesi ascrivibile al cd. rischio elettivo”;
- l’azione diretta a soddisfare naturali bisogni fisiologici non è riconducibile ad arbitraria scelta del lavoratore, né eludibile diversamente al di fuori dei servizi igienici predisposti nel luogo di lavoro, e deve quindi considerarsi necessitata;
ha giudicato indennizzabile l’infortunio, aggiungendo che “per di più” il pavimento era viscido, e quindi mostrando di ritenere secondaria, e comunque non decisiva, quest’ultima circostanza.
Recentissimamente questa linea interpretativa si è nuovamente espressa nelle sentenze:
- n. 2849/1999, che ha riconosciuto l’indennizzabilità dell’infortunio accaduto ad una impiegata di un Consorzio, assicurata in quanto addetta ad apparecchi ed impianti elettrici, accidentalmente caduta per le scale mentre, durante la pausa pranzo, si accingeva a lasciare la sede lavorativa per raggiungere il luogo di consumazione del pasto;
- n. 4676/1999, che ha riconosciuto indennizzabile l’infortunio subito da una addetta alle pulizie presso un ospedale la quale, dopo aver timbrato il cartellino d’ingresso, si stava recando in bicicletta al padiglione in cui doveva eseguire la prestazione lavorativa;
- n. 5419/1999, che ha riconosciuto indennizzabile l’infortunio occorso ad un archivista- dattilografo dipendente INAIL, assicurato in quanto addetto ad apparecchiature elettriche, accidentalmente caduto mentre scendeva le scale per recarsi dal “capo-area” per ragioni di lavoro.

2.2 Infortuni occorsi durante spostamenti effettuati per la strada, per ragioni di lavoro ed in orario di lavoro.
Con le sentenze nn. 5047 e 11032/1998 la Cassazione - sulla base del presupposto che i criteri applicati “all’infortunio in itinere valgono, a maggior ragione, allorquando l’incidente sulla strada avvenga durante l’orario di lavoro, nell’esercizio di un’attività complementare alla vera e propria prestazione lavorativa” - ha riconosciuto l’indennizzabilità degli infortuni accaduti a due lavoratori caduti mentre, in orario di lavoro, andavano a piedi a prendere l’autovettura da utilizzare per lo svolgimento delle loro mansioni.
Nello stesso senso, d’altronde, si era espressa la meno recente sentenza n. 1171/1990 che riconobbe indennizzabile l’incidente occorso ad una lavoratrice che, facendo uso del mezzo pubblico di trasporto, si era recata dal posto di lavoro alla sede dell’amministrazione del datore di lavoro dove era stata convocata per motivi di servizio ed era caduta sulle rotaie della rete tranviaria.

* * *

Conclusivamente si può affermare che dall’analisi delle sentenze in cui si esprime l’orientamento più estensivo della Corte di Cassazione si desume - coerentemente con quanto sostenuto per gli infortuni in itinere - che gli infortuni accaduti in attualità di lavoro in conseguenza di cadute, scivolamenti, urti, ecc. sono indennizzabili se occorsi nella attuazione di comportamenti necessitati in relazione alle prestazioni lavorative, cioè riconducibili ad esigenze e finalità lavorative e non imputabili a libera scelta del lavoratore.
Si desume, altresì, che nella nozione di ambiente di lavoro sono ricompresi - come potenziali fonti di rischio - anche porte, finestre, cancelli, sedie, scrivanie, termosifoni, ventilatori ed altri infissi e suppellettili.
S’intende che tali criteri interpretativi - anche in ossequio ai principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 98/1990 (“assistente contrario”) - si applicano pure ai casi in cui il lavoratore subisca l’infortunio in un luogo di lavoro diverso dal proprio, ove egli, anche eccezionalmente, si sia recato per impegni lavorativi nell’ambito delle esigenze e delle modalità organizzative stabilite dal suo datore di lavoro.

3 Infortuni causati da fatti naturali (fulmini, frane, valanghe, ecc.) oppure da fatti delittuosi di terzi (aggressioni, rapine, risse, ecc.).
Questi infortuni vengono trattati insieme perché - come si vedrà più avanti - presentano una problematica che li accomuna e che richiede una identica soluzione.

3.1 Infortuni conseguenti a fatti naturali.
Sull’argomento per lungo tempo l’indirizzo della Suprema Corte è stato di ritenere che l’evento naturale è causa di infortunio indennizzabile solo se concorrono speciali condizioni quali gli attrezzi utilizzati, alcune particolari condizioni del luogo, ecc., e cioè precisi fattori professionali comportanti un aggravamento del rischio generico. La semplice attualità di lavoro, da sola, non era considerata sufficiente a concretizzare l’occasione di lavoro in quanto il lavoro per se stesso non pone chi lo compie in condizioni diverse da quella di qualsiasi altra persona che venga a trovarsi sul luogo del sinistro.
Sulla base di questi princìpi fu negata l’indennizzabilità:
- a lavoratori agricoli colpiti da fulmini, in quanto era stata esclusa la presenza sul luogo di masse metalliche, attrezzi agricoli, alberi o qualsiasi altro elemento avente forza attrattiva ed in quanto il nudo terreno non è elemento che per se stesso possa attirare la folgore (n. 261/1969; n. 1714/1975; n. 2279/1975);
- a lavoratori alberghieri che avevano subito lesioni a seguito di una frana abbattutasi sull’albergo, ad eccezione del cuoco ustionatosi per la fuoriuscita di acqua calda a causa della rottura della caldaia della cucina provocata dalla frana stessa (n. 5390/1983).
Rispetto a questa impostazione, costituì una importante novità la sentenza n. 80/1992 che - applicando il principio del rischio ambientale - giudicò indennizzabile l’infortunio accaduto ad un lavoratore agricolo sorpreso da un temporale sul fondo e rifugiatosi in un fabbricato rurale distrutto da una tromba d’aria.
Oltre che per le conclusioni, questa sentenza merita un approfondimento per il ragionamento che vi è svolto e che contiene affermazioni suscettibili di ulteriori sviluppi.
Innanzitutto, va sottolineato che il Collegio richiama espressamente il precedente indirizzo e dichiara di non condividerlo, in quanto esso “richiede un quid pluris... di regola non necessario ai fini dell’indennizzabilità”. Secondo il Collegio, infatti, esistono tipi di lavoro che “notoriamente” espongono ai rischi insiti nelle caratteristiche naturali proprie del luogo in cui si svolgono e dunque questi lavori già in sé contengono quel quid pluris che aggrava il rischio generico, senza necessità di ulteriori fattori lavorativi specificanti.
Il Collegio, pur partendo dalla stessa premessa del precedente indirizzo e cioè che, se l’evento lesivo si verifica nel luogo e durante l’orario di lavoro, ciò non significa che dal lavoro dipenda, precisa però che “irrilevante è la semplice coincidenza topografica, non il rischio eventualmente inerente all’ambiente di lavoro, sia esso dipendente dall’ambiente in quanto luogo di lavoro..., sia esso proprio del luogo indipendentemente dall’espletamento in esso di una attività lavorativa”.
E continua affermando che questo rischio non può considerarsi “estraneo all’oggetto dell’assicurazione poiché la prestazione di lavoro determina l’esposizione a rischi anche attraverso le condizioni dell’ambiente in cui deve essere resa”.
D’altronde non è “pertinente il fatto che un tale rischio può gravare su chiunque venga a trovarsi nello stesso luogo”, perché per il lavoratore esso “è assunto per esigenze di lavoro, per altri è elettivo od occasionale”.
Dal complessivo ragionamento svolto dalla Cassazione è, dunque, possibile desumere che nelle condizioni ambientali di rischio professionale vanno ricomprese anche le caratteristiche naturali proprie della località circostante il luogo di lavoro.
Resta però l’interrogativo se questo criterio debba applicarsi soltanto a quei tipi di lavoro che “notoriamente” espongono con maggiore frequenza alla pericolosità degli elementi naturali (come “l’aperta campagna” cui si riferisce la sentenza n. 80/1992), o se invece possa essere esteso a tutte le situazioni di pericoli naturali che qualunque lavoratore, pure se normalmente non vi è esposto, dovesse trovarsi a subire nel corso di una attività resa necessaria dall’espletamento del suo lavoro.
La risposta non può che rinvenirsi nella particolarmente ampia e comprensiva interpretazione dell’occasione di lavoro che emerge dalla più recente ed avanzata elaborazione giurisprudenziale illustrata nei precedenti paragrafi 1 e 2.
Se, infatti, si tiene fermo che:
- la prestazione di lavoro determina l’esposizione a rischi anche attraverso le condizioni dell’ambiente in cui deve essere resa;
- nel rischio tutelato rientrano anche le circostanze “straordinarie ed imprevedibili” (sentenza n. 462/1989 della Corte Costituzionale);
- il rischio generico si trasforma in rischio generico aggravato se è affrontato per finalità lavorative, senza necessità di ulteriori fattori specificanti;
allora non vi è ragione di escludere dalla tutela l’infortunio accaduto in attualità di lavoro, allorché esso è provocato dalle condizioni ambientali di tipo climatico (fulmine, tromba d’aria, valanga, ecc.) ed idrogeologico (frana, voragine, ecc.), a prescindere se il luogo di lavoro si trovi in montagna, in campagna o in città, considerato che, comunque, il lavoratore non ha possibilità di scelta diversa.

3.2 Infortuni causati da fatti delittuosi di terzi.
Per questa tipologia di infortuni la giurisprudenza della Cassazione è pacifica nel considerare l’occasione di lavoro:
- sussistente se è accertato che il fatto ha trovato incentivo o è stato alimentato da un quid pluris inerente allo svolgimento dell’attività lavorativa;
- non sussistente se è accertato che il fatto è riferibile a motivi extraprofessionali propri dell’assicurato.
Più problematiche sono invece le situazioni in cui il fatto delittuoso, pur avendo danneggiato il lavoratore mentre svolgeva la sua attività lavorativa, non rientra in nessuna delle due ipotesi sopraindicate.
Si rinvia l’esame di questo problema al successivo paragrafo 3.2.4., iniziando la panoramica delle sentenze dalle due ipotesi non controverse.

3.2.1 Litigi tra compagni di lavoro.
Con sentenza n. 1259/1986 è stata riconosciuta l’occasione di lavoro nel caso di un sorvegliante di cava rimasto vittima della reazione violenta di un operaio al quale aveva contestato una infrazione disciplinare, con la precisazione, contenuta nelle motivazioni, che ad opposta conclusione si sarebbe giunti - se si fosse dimostrato che il litigio era stato determinato da rancori fra i due litiganti - senza riferimento a motivi di lavoro.
Ed infatti, con precedente pronuncia n. 2744/1962 la Corte aveva negato l’esistenza dell’occasione di lavoro nel caso di un lavoratore che, dopo aver provocato e dileggiato un compagno per “dare sfogo a personali sentimenti di ostilità”, era rimasto vittima della sua violenta reazione.

3.2.2 Aggressione a scopo di rapina.
È stata negata l’indennizzabilità nel caso di un pastore vittima di una aggressione a scopo di rapina, in quanto quest’ultima “non aveva alcuna relazione causale né occasionale (tranne l’elemento topografico) con il pascolo di bestiame”, oggetto della rapina essendo stato il portafoglio e non il bestiame (n. 1017/1989).
È stata, invece, riconosciuta la possibilità di un collegamento tra l’aggressione per rapina e l’attività lavorativa, nel caso di un socio-artigiano che era stato seguito da alcuni malviventi mentre acquistava materiale occorrente per il lavoro ed era stato aggredito per rapina mentre rientrava in officina (n. 430/1991).
È doveroso segnalare, per completezza, anche la sentenza n. 106/1994, con la quale è stata negata l’indennizzabilità di un infortunio occorso all’esercente di una tabaccheria con la motivazione che non era stato dimostrato l’aggravamento del rischio comune di rapina. Si tratta di una sentenza che è lecito considerare isolata, in quanto sembra non tenere in debito conto la “notoria” maggiore esposizione al rischio di rapina per le attività lavorative dotate di una cassa o comunque implicanti accumulazione di denaro. Essa sembra, quindi, disattendere il principio dell’id quod plerumque accidit, applicato invece dalla stessa Cassazione in altre occasioni (cfr. sentenza n. 90/1992 citata al paragrafo 3.1.) e che ispira, seppure implicitamente, la sentenza n. 64/1981 della Corte Costituzionale, con la quale fu sancito l’obbligo assicurativo per le persone addette, in rapporto diretto con il pubblico, al servizio di cassa presso imprese che abbiano dipendenti soggetti all’assicurazione.

3.2.3 Altri tipi di infortuni da fatti delittuosi.
Sono stati ammessi a tutela, essendosi riscontrato un quid pluris lavorativo specificante, i seguenti casi:
- custode di un condominio, morto a seguito di colpi di arma da fuoco sparatigli da ignoti, nella “presunzione che l’infortunio sia derivato e sia collegato all’attività lavorativa” e non avendo l’INAIL “provato che un elemento estraneo al rischio specifico sia intervenuto ad interrompere il nesso di causalità” (n. 1014/1989):
- dipendente di una impresa di autotrasporti, raggiunto da colpi d’arma da fuoco diretti al committente che viaggiava con lui sull’autocarro per andare a prelevare materiale edile (n. 4716/1988);
- lavoratore addetto alle operazioni di raccolta delle olive sull’albero, ferito dai colpi di arma da fuoco sparati nella sua direzione da un cacciatore attratto dal movimento dei rami e delle fronde (n. 11172/1992);
- conducente di un autocarro addetto al carico di materiale di cava, rimasto ustionato dal liquido infiammabile gettatogli addosso da un terzo, infastidito dal rumore provocato dal continuo passaggio del mezzo sotto la sua abitazione (n. 3744/1998);
- operaio deceduto a seguito di litigio, degenerato in aggressione violenta sul posto e in orario di lavoro, con persone estranee che tentavano di “approfittare ingiustamente del materiale del cantiere” (n. 3747/1998).
- dipendente addetto ad ordini di acquisto, ferito da colpi di pistola, il quale già in precedenza era stato minacciato e aggredito perché “non lasciava vivere altri candidati alle forniture” (n. 744/1999).
Le sopraelencate sentenze hanno giudicato irrilevante che l’infortunio non fosse riconducibile all’astratta tipologia di rischio inerente alle mansioni lavorative, considerando che gli elementi che avevano determinato il fatto del terzo, pur straordinari, erano comunque inerenti all’esecuzione del lavoro e posti in essere in connessione con lo svolgimento dello stesso.
La tutela è stata, invece, negata ad infortuni che, pur occorsi in costanza di lavoro, erano tuttavia riconducibili a ragioni extraprofessionali proprie dell’assicurato (sentenza n. 10406/1995 relativa ad un lavoratore, vittima di un agguato, che già in precedenza aveva subito un attentato e di cui era nota l’appartenenza ad ambienti mafiosi; n. 3752/1998 relativa ad un lavoratore con mansioni di guardiano, ucciso per vendetta personale o per regolamento di conti tra organizzazioni criminose rivali; n. 10815/1998 relativa ad un autista della nettezza urbana, aggredito da ignoti per motivi non individuati ma dai quali non era comunque escludibile il movente personale; n. 477/1998 riguardante un infortunio conseguente ad una aggressione subita da un coltivatore diretto nella sua “qualità estrinseca di proprietario terriero”).

3.2.4 Infortuni conseguenti a fatti delittuosi accaduti nel corso del lavoro, ma non riconducibili a un quid pluris specificante.
Chiarito cosi il quadro delle ipotesi non controverse, occorre ora affrontare la problematica legata ad una particolare categoria di infortuni, e cioè quelli occorsi a lavoratori che si trovano coinvolti in fatti delittuosi le cui motivazioni non possono essere ricondotte né a fattori lavorativi specifici e neppure, però, a precise ragioni extralavorative proprie dell’assicurato. L’indirizzo tradizionale della Cassazione è di escludere questo tipo di infortuni dalla tutela.
Si vedano, in proposito, le sentenze:
- n. 5915/1982, che ha negato l’occasione di lavoro nel caso di un guardiano deceduto per un colpo di pistola, fatto accidentalmente partire da un bambino che era casualmente entrato in possesso dell’arma, lasciata momentaneamente incustodita dal guardiano stesso nel suo alloggio-ufficio;
- n. 10973/1993, che ha escluso la tutela per un lavoratore ferito dalla esplosione di una bomba collocata in una autovettura sita sulla strada prospiciente il luogo di lavoro;
- n. 10065/1994, che ha giudicato non indennizzabile l’infortunio accaduto ad un lavoratore che, mentre si trovava al mercato dei fiori per il rifornimento di merce, era stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da ignoti e a lui non indirizzati.
In tutti i sopradescritti casi, la Cassazione ha ritenuto che si vertesse in ipotesi di mera concomitanza di tempo e di luogo e, dunque, di collegamento marginale ed episodico tra infortunio e lavoro non essendo stati riscontrati elementi lavorativi specificanti.
Anche in questo campo, tuttavia, si registra l’avvio di un nuovo e più avanzato filone interpretativo che - coerentemente con gli indirizzi giurisprudenziali illustrati nei precedenti paragrafi 1 e 2 - individua, pure per i sinistri da fatti delittuosi di terzi, l’eziologia professionale del rischio unicamente nella condotta necessitata del lavoratore per finalità lavorative, senza l’esigenza di ulteriori fattori aggravanti.
Si tratta della sentenza n. 9801/1998, con la quale la Cassazione ha riconosciuto indennizzabile l’infortunio occorso ad un lavoratore italiano in Libia, rimasto vittima di una aggressione dovuta a “fanatismo antitaliano” mentre rientrava in alloggio dopo aver accompagnato l’imprenditore all’aeroporto, in quanto il fatto che l’assicurato si trovasse per lavoro in un paese in quel momento fortemente ostile “vale a trasformare quello che era un rischio generico per gli (altri) italiani in Libia in un cosiddetto rischio specifico improprio, atteso che il lavoratore non aveva certo possibilità di scelta”.
Questa decisione, quindi, muove dalla premessa che, nelle condizioni ambientali di rischio professionale, va ricompresa anche la pericolosità sociale del contesto entro il quale si colloca il luogo di lavoro vero e proprio; e poiché tale pericolosità in quel periodo in Libia era stata in linea di fatto accertata, il Collegio ne ha desunto la “concreta possibilità” che l’aggressione si verificasse, ritenendo irrilevante che il rischio incombeva su tutti gli italiani, in quanto per gli altri “come per i turisti, era un rischio certamente estraneo al rapporto di lavoro”, mentre per i lavoratori era assunto per esigenze lavorative e ritenendo irrilevante, altresì, che il movente dell’omicidio fosse riconducibile ad un generico elemento extralavorativo (fanatismo antitaliano).
Si noterà che i passaggi logici di questa sentenza sono in gran parte analoghi a quelli seguiti dalla Cassazione nella sentenza n. 80/1992 relativa alla pericolosità delle condizioni climatiche ed idrogeologiche proprie dell’ambiente circostante il posto di lavoro; analogia tutt’altro che casuale, considerato che le due situazioni di pericolo presentano le stesse caratteristiche di inevitabilità, nel senso che si impongono al lavoratore indipendentemente dalla sua volontà e dalla sua possibilità di scelta.
È chiaro, perciò, come - una volta riconosciuto che il rischio ambientale comprende, oltre ai pericoli naturali, anche i pericoli sociali del contesto in cui si svolge il lavoro - si riproponga il problema di perimetrare l’ambito di applicazione di questo criterio, esattamente negli stessi termini già esaminati per le ipotesi di rischi ambientali di tipo naturalistico. Si tratta, cioè, di decidere se la “concreta possibilità” del fatto delittuoso cui si riferisce la sentenza n. 9801/1998 assuma rilievo assicurativo solo in circostanze eccezionali (come nella particolare situazione della Libia) o se, piuttosto, non possa considerarsi connaturata alle condizioni di violenza diffusa che connotano, ormai strutturalmente, il moderno tessuto sociale.
Si ritiene, che la soluzione, ancora una volta, non possa che rinvenirsi nella particolarmente ampia e comprensiva interpretazione dell’occasione di lavoro che emerge dalla più recente ed avanzata elaborazione giurisprudenziale illustrata nei precedenti paragrafi 1 e 2.
Se, infatti, si tengono fermi i criteri interpretativi richiamati al precedente punto 3.1, e che per comodità di lettura si ripetono:
- la prestazione di lavoro determina l’esposizione a rischi anche attraverso le condizioni dell’ambiente in cui deve essere resa;
- nel rischio tutelato rientrano anche le circostanze “straordinarie ed imprevedibili”;
- il rischio generico si trasforma in rischio generico aggravato se è affrontato per finalità lavorative, senza necessità di ulteriori fattori specificanti;
allora non vi è ragione di escludere dalla tutela l’infortunio accaduto in attualità di lavoro, allorché esso è provocato da fatti delittuosi di terzi, purché il fatto abbia colpito il lavoratore nel corso di una attività resa necessaria dall’espletamento del suo lavoro e, ovviamente, purché i moventi di quel fatto non siano riconducibili a ragioni extraprofessionali proprie dell’assicurato.

4 Chiarimenti sulla nozione di rischio estraneo al lavoro, o con il lavoro solo marginalmente collegato.
Si è visto, passando in rassegna le sentenze in cui si esprime l’orientamento più recente ed avanzato della Corte di Cassazione, che sono oggetto della copertura assicurativa tutti i comportamenti del lavoratore che sono in rapporto finalistico-strumentale con le prestazioni lavorative, nonché quelli rispondenti ad esigenze essenziali della persona il cui soddisfacimento è condizionato dalle circostanze di tempo e di luogo imposte dal lavoro.
Si è visto, inoltre, che la maggiore o minore entità del rischio che quei comportamenti implicano non è rilevante, in quanto anche azioni con il “grado minimo di rischio” (come camminare o prendere l’autobus) rientrano nella protezione assicurativa.
Se ne deduce che rischio estraneo al lavoro, o ad esso collegato solo marginalmente, è principalmente quello derivante da condotte che il lavoratore pone in essere per ragioni riconducibili unicamente a sue autonome scelte ed iniziative.
Si tratta, “in definitiva” (per usare l’espressione della stessa Cassazione), del rischio elettivo che, secondo una massima costantemente ripetuta, è il rischio scaturito da una scelta arbitraria del lavoratore il quale, mosso da impulsi personali, crei ed affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento.
Benché la nozione di rischio elettivo sia pacifica, non sempre la sua applicazione è agevole, come testimonia anche la cospicua produzione giurisprudenziale sul tema.
Si ritiene, perciò, utile, pur senza alcuna pretesa di esaustività e di definitività, analizzare alcune tra le sentenze più significative, con lo scopo di offrire criteri orientativi di carattere generale e con la riserva di tornare sull’argomento qualora dovessero intervenire mutamenti di indirizzi della giurisprudenza della Suprema Corte.
Prima, però, è opportuna una avvertenza.
La nozione di rischio elettivo, pur essendo sostanzialmente univoca, viene dalla Cassazione modulata diversamente a seconda che si tratti di situazioni propriamente lavorative o di situazioni che si collocano al di fuori della materiale attività di lavoro, e cioè precedenti o successive al lavoro oppure nelle pause.
Nella prima ipotesi, e cioè in situazioni propriamente lavorative, l’insegnamento della giurisprudenza è fermo nel sostenere che, per eccepire il rischio elettivo, occorre “una indagine che deve essere particolarmente attenta ed esauriente” (n. 1193/1980) e “una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza della condotta (del lavoratore) dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro e, con essa, della estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro svolto” (tra le altre, n. 1269/1995).
Nella seconda ipotesi i margini del rischio elettivo sono invece più ampi, in quanto le attività non strettamente lavorative, proprio in quanto tali, rientrano nel rischio protetto solo se si accerti la loro necessità ed improcrastinabilità e la loro diretta riconducibilità alle esigenze lavorative o alle condizioni di tempo e di luogo in cui si svolge il lavoro.

4.1 Rischio elettivo in attività propriamente lavorative.
Non sembra necessario riportare le numerose sentenze, alcune delle quali ormai “classiche”, con le quali è stata negata l’indennizzabilità ad assicurati rimasti vittime di infortuni dovuti a loro esibizionismo, curiosità, comodità, interessi personali, esigenze voluttuarie, o comunque ad atteggiamenti e condotte non giustificabili, superflue ed in ogni caso controindicate rispetto al risultato da raggiungere.
È più produttivo, invece, soffermare l’attenzione su alcune sentenze dalle quali si può desumere il significato e la portata che la Cassazione attribuisce alla “indagine particolarmente attenta” e alla “rigorosa dimostrazione” dell’esigenza del rischio elettivo.
Non si sono ravvisati gli estremi del rischio elettivo, e si è riconosciuta, perciò, l’indennizzabilità dell’infortunio, nelle seguenti situazioni:
- lavoratore che, mentre attendeva, in adempimento di direttive del datore di lavoro, il mezzo di trasporto che doveva ricondurlo a casa, si era steso a terra e si era addormentato, ed era stato investito da un altro mezzo condotto da un compagno di lavoro. Uno dei presupposti su cui si fonda questa decisione è che non può considerarsi atto volontario puramente arbitrario “il comportamento inavvertito o determinato da un bisogno improvviso e non controllabile, in sostanza non riconducibile ad una scelta del lavoratore” (n. 1269/1995);
- manovale di cava infortunatosi mentre faceva esplodere i detonatori da lui rinvenuti tra le pietre, secondo la pratica invalsa tra i manovali, e non concretamente impedita dall’imprenditore, di far esplodere direttamente i congegni rinvenuti tra il materiale da rimuovere. Questa decisione, tra l’altro, afferma che, “nell’indagine circa la sussistenza dell’occasione di lavoro, si debba tenere conto della concreta esplicazione dell’attività, a prescindere cioè dalle mansioni contrattualmente attribuite al singolo lavoratore” (n. 1193/1980). Nello stesso senso va la sentenza n. 11683/1995, che ha riconosciuto indennizzabile l’infortunio occorso ad un autista trasportatore, investito mentre transitava a piedi sul piazzale della ditta per procurarsi un passaggio su altro veicolo onde raggiungere il proprio, secondo una prassi “consigliata” dal datore di lavoro;
- lavoratore che, per recarsi dalla cava all’officina in esecuzione di un ordine ricevuto, e avendo disponibili due percorsi, entrambi pericolosi dovendosi comunque attraversare una strada ferrata, aveva scelto quello più rischioso subendo l’infortunio. Questa decisione si fonda sul presupposto che la condotta con la quale il lavoratore aggrava il rischio proprio delle mansioni affidategli non concretizza una situazione di rischio elettivo (n. 1412/1968);
- pastore che, mentre custodiva il gregge stando a bordo di una autovettura ferma sul ciglio della strada, subiva un tamponamento. La Corte non ha ritenuto che queste inusuali modalità di svolgimento delle prestazioni configurassero un rischio elettivo, perché “un rischio siffatto ricorre solo se possa escludersi del tutto la natura lavorativa dell’infortunio”, mentre nella fattispecie la condotta del lavoratore era “comunque inerente all’esecuzione del lavoro e posta in essere in connessione con lo svolgimento del medesimo” (n. 3995/1997);
- lavoratore che, per risalire dalla cava alla mensa raggiungibile solo percorrendo un tratto con notevole pendenza, si era servito di un mezzo improprio, normalmente usato anche dagli altri operai nonostante il divieto, e si era infortunato discendendo dal veicolo che era lentamente in modo in salita. Questa decisione, benché non riguardi una attività propriamente lavorativa, viene qui segnalata per dimostrare l’accuratezza e la minuziosità del ragionamento con il quale la Cassazione perviene a riconoscere l’indennizzabilità, dando rilievo alla brevità dell’intervallo per il pranzo, alla misura della pendenza della strada, alla stanchezza accumulata nella prima parte della giornata ed alla esigenza di non aumentarla ulteriormente, alla necessità di prolungare il più possibile il riposo, all’eventualità della pioggia, alla abitualità dell’uso del veicolo improprio utilizzato anche dal direttore dei lavori e “persino” dal figlio del titolare dell’azienda; e negando, al contrario, rilievo alla imprudenza del lavoratore (n. 1750/1996).
Dalle pronunce esaminate si desume, oltre a quelli già enucleati, l’ulteriore criterio interpretativo che il nesso di occasionalità non è interrotto dal comportamento colposo dell’infortunato e, quindi, va riconosciuto indipendentemente dal fatto che il sinistro avrebbe potuto, in ipotesi, essere evitato, o ridotto nelle sue conseguenze, da una di lui maggiore prudenza, diligenza o perizia. Si tratta, peraltro, di un criterio costantemente affermato dalla giurisprudenza della Cassazione e confermato dalla Corte Costituzionale (già citata sentenza n. 462/1989 secondo la quale l’infortunio può dipendere anche da “cause straordinarie o imprevedibili, da fatto di terzi o da colpa dello stesso infortunato”).

4.2 Rischio elettivo in attività precedenti o successive al lavoro oppure nelle pause lavorative.
Le attività precedenti e successive al lavoro sono sostanzialmente riconducibili alla figura dell’infortunio in itinere, per la quale si rimanda alle direttive impartite con le Linee-guida del 4 maggio 1998, nonché a quanto esposto al precedente paragrafo 1.
Resta da esaminare il problema degli infortuni avvenuti durante le pause lavorative, rispetto alle quali la Cassazione fa una distinzione che si basa sostanzialmente sulla essenzialità e sulla improcrastinabilità dell’esigenza che in quelle pause viene soddisfatta:
- rientrano nel rischio protetto le pause per i “pasti principali (segnatamente il pranzo), da consumare in un apposito intervallo lavorativo all’uopo utilizzabile simultaneamente da tutti i dipendenti dello stabilimento o ufficio” (n. 6088/1995 ed altre), trattandosi di soddisfare una esigenza “funzionalmente collegata al corretto espletamento dell’attività lavorativa” (n. 2849/99). Inoltre vi rientrano le indilazionabili pause per i bisogni fisiologici (n. 12652/1998 già citata, ma anche nn. 131/1990 e 8292/1991);
- le altre pause invece sono, di norma, da considerare rientranti nel rischio elettivo, salvo che non si accerti la loro necessità ed improcrastinabilità e la loro riconducibilità alle esigenze lavorative oppure alle condizioni di tempo e di luogo in cui si svolge il lavoro.
In applicazione di questi criteri, è stata negata l’indennizzabilità nelle seguenti situazioni:
- dipendente INAIL caduta mentre si recava a piedi al bar per la colazione, “posto che non può scambiarsi per necessità quella che è una semplice abitudine, che serve ad appagare un semplice (per quanto intenso possa essere) desiderio” (n. 6088/1995). Nello stesso senso è la sentenza n. 3620/1998, riguardante un informatore scientifico caduto per le scale mentre andava a prendere il caffè nel bar interno all’ospedale dove si trovava per impegni di lavoro;
- artigiano muratore caduto per le scale mentre, sospeso il lavoro verso le ore 11, si recava ad acquistare il necessario per “uno spuntino”, posto che “lo spuntino a metà mattinata non rappresenta, di solito, una necessità fisiologica improcrastinabile, né l’interessato ha provato che sue particolari esigenze di vita richiedono frequenti pasti a brevi intervalli” (n. 10910/1996);
- lavoratore caduto mentre, durante la pausa mensa, si allontanava dal cantiere per recarsi a piedi ad un vicino bar per prendere il caffè e comprare le sigarette, posto che si trattava di soddisfare “un bisogno certamente procrastinabile e non impellente” (n. 4492/1997).
È stato, invece, giudicato tutelabile il caso di un lavoratore addetto ad attività di palificazione elettrica lungo la strada, il quale, avendo ultimato il pranzo prima che trascorresse l’intera ora di pausa concessa, era seduto su un muretto sul luogo di lavoro in attesa di riprendere le sue mansioni ed era rimasto investito da un’auto sbandata per eccessiva velocità. La Cassazione, dopo aver ribadito che le breve soste per il pasto non valgono ad interrompere il nesso causale, ha riconosciuto indennizzabile l’infortunio “non potendo ritenersi il rischio di investimento stradale estraneo ed anomalo rispetto alla esecuzione di un lavoro che si svolge in prossimità della sede stradale” (n. 6904/1983).
Tra le pause non necessitate, e quindi elettive, vanno ricomprese anche:
- le interruzioni di lavoro per l’esercizio del diritto di sciopero, in quanto riconducibili a “ragioni di autotutela... la cui liceità non vale tuttavia a funzionalizzare l’allontanamento (ed il conseguente ritorno) allo svolgimento dell’attività lavorativa” (n. 956/1988); lo stesso dicasi per ogni altra interruzione dovuta alla effettuazione di attività sindacale, essendo questa “estranea alla finalità produttiva perseguita dal datore di lavoro” (da ultimo, n. 1220/1996). Sullo specifico argomento si rimanda anche il Notiziario n. 48/1991;
- le brevi assenze autorizzate dal datore di lavoro per soddisfare esigenze personali prive di attinenza con il lavoro (n. 3708/1982, che negò l’indennizzabilità dell’infortunio occorso al lavoratore nel recarsi a visitare un congiunto usufruendo di un permesso).

4.3 Comportamenti finalizzati al lavoro ma del tutto estranei alle specifiche competenze del lavoratore.
Si tratta di situazioni che, al di là della loro frequenza, meritano comunque una riflessione perché consentono di meglio delineare l’ambito del rischio “estraneo” all’attività lavorativa. Si può prendere avvio dalla recente decisione n. 5047/98, che ha negato la tutela ad un impiegato di una Compagnia assicuratrice caduto da una sedia sulla quale era salito per sostituire una lampadina fulminata. Il tribunale aveva, invece, riconosciuto l’indennizzabilità, considerato che si trattava di una attività elementare alla portata di qualunque lavoratore, che non giustificava perciò la richiesta di intervento del personale addetto e, nelle more, la sospensione del lavoro. La Cassazione, però, pur riconoscendone la finalità lavorativa, ha qualificato l’azione come rientrante nel rischio elettivo, in quanto “non connessa alla specifica mansione del lavoratore né riferibile alle normali, abituali e prevedibili modalità di esecuzione delle sue prestazioni”.
Al riguardo, va innanzitutto fatta chiarezza sui termini del problema.
Apparentemente questa pronuncia sembra in linea con le precedenti sentenze n. 959/1985, che aveva negato la tutela ad un impiegato di una ditta commerciale, caduto per le scale mentre portava un telex urgente ad un altro ufficio sostituendosi al commesso, e n. 3794/1986, che pure aveva giudicato non indennizzabile l’infortunio di un impiegato contabile di una ditta, caduto per le scale mentre accedeva, per ragioni di lavoro, al reparto produttivo “di sua iniziativa e non per obbligo”.
Un attento esame, però, mostra che queste due precedenti decisioni sono espressione di un orientamento giurisprudenziale, non solo completamente diverso da quello manifestatosi nella sentenza n. 5047/1998, ma che sembra anche lecito considerare, oggi, superato.
Infatti, le pronunce del 1985 e 1986 si muovevano ancora in una prospettiva di rigido ancoraggio della tutela al rischio specifico proprio dell’attività assicurata, in un periodo in cui era in discussione, per la categoria impiegatizia, addirittura l’obbligo assicurativo.
La recente decisione n. 5047/1998, invece, si colloca in un quadro nel quale è ormai data per acquisita l’elaborazione giurisprudenziale che, sulla base del principio che a parità di rischio deve corrispondere parità di tutela, ha condotto all’estensione della protezione assicurativa al lavoro impiegatizio alle stesse condizioni e negli stessi termini di ogni altro lavoro dipendente. Non a caso il ragionamento svolto dal Collegio muove proprio dalla considerazione che la progressiva “tecnologizzazione” dei processi produttivi ha determinato un notevole ampliamento della platea degli assicurati ricomprendendovi tutti i lavoratori che, a prescindere dalla loro qualifica, sono esposti ad apparecchiature “entrate ormai nell’uso comune, quali macchine elettriche e meccanografiche, terminali, affrancatrici, telex, centralini, nonché a qualsiasi macchina azionata da corrente elettrica, indipendentemente dalla potenza della stessa”.
E significativamente aggiunge che l’utilizzo di queste apparecchiature, “strumento insostituibile per il normale espletamento delle... mansioni, ha di fatto reso abituale il compimento di atti prodromici, strumentali ed in qualche modo connessi all’uso dei suddetti macchinari, che non possono non considerarsi anche essi rientranti nell’ambito della tutela assicurativa”.
Questa sentenza, perciò, è confermativa dell’ampia estensione dell’occasione di lavoro che emerge dal più avanzato insegnamento della Cassazione ed esprime, unicamente, la preoccupazione di confinarne l’ambito entro i limiti segnati dalle esigenze e dalle modalità organizzative dell’azienda.
Ed infatti in essa si legge che la “opportuna e doverosa interpretazione estensiva” delle norme del T.U. non può portare a ritenere assicurativamente coperte anche le attività “non rientranti, in alcun modo, nell’ambito delle mansioni e delle specifiche competenze del lavoratore” e che fuoriescono da un “assetto organizzativo e produttivo improntato ad una razionale ripartizione di compiti tra dipendenti, ed al doveroso rispetto delle specifiche professionalità, attitudini e capacità di ogni singolo lavoratore, quale standard sul quale parametrare l’entità del rischio lavorativo e la sua ripartizione tra gli obbligati all’assicurazione”. L’analisi di questa decisione porta, quindi, a concludere che, per gli impiegati come per ogni altra categoria di lavoratori, la valutazione dell’occasione di lavoro, pur comprensiva non solo delle mansioni contrattualmente attribuite ma anche di quelle svolte di fatto e autorizzate, o tollerate o, comunque, non concretamente impedite dal datore di lavoro, e pur comprensiva di circostanze anche straordinarie (dettate ad es. dalla urgenza), deve tuttavia pur sempre includere l’esame della necessarietà della condotta del lavoratore in relazione alle finalità dell’attività lavorativa, quale organizzata dall’azienda.
E ciò a prescindere dalla fattispecie esaminata dalla Cassazione, nella quale la “elementarità” (come si esprime il tribunale), e si potrebbe aggiungere l’abitualità in ambito domestico, dell’azione e, quindi, la sostanziale automaticità della condotta dell’assicurato avrebbero, forse, permesso una diversa decisione.

5 Rapporto tra l'attività per la quale il lavoratore rientra tra le persone assicurate e attività nell'attuazione della quale subisce l'infortunio.
La sentenza appena esaminata offre l’opportunità di introdurre l’ultimo argomento della presente trattazione, e cioè il rapporto tra l’attività lavorativa per la quale il lavoratore rientra nel campo di applicazione della normativa infortunistica (fermi restando ovviamente gli altri requisiti) e la concreta attività che sta svolgendo al momento dell’infortunio.
Si tratta di un problema che, se in passato ha avuto alterne soluzioni, oggi può considerarsi superato alla luce delle decisioni giurisprudenziali fin qui analizzate.
Infatti, l’ampia e sempre più comprensiva nozione di occasione di lavoro cui è approdata l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità consente di affermare che lo svolgimento di “attività protette”, sebbene continui a definire l’ambito dei beneficiari delle garanzie assicurative, non delimita però la sfera di operatività della tutela che si estende, come si è visto, a tutti i rischi riconducibili alle finalità e alle condizioni lavorative.
Ritrova, perciò, piena ed attuale validità, pur in un contesto socio-economico e giuridico profondamente mutato, quanto affermato nel lontano Notiziario n. 10 del 9 marzo 1974, secondo il quale - ovviamente all’interno dello stesso rapporto di lavoro - “la tutela di legge si estende a tutti gli infortuni dovuti a rischio lavorativo o aggravato dal lavoro, anche se l’incombenza svolta al momento del sinistro non rientri tra quelle che abbiano determinato l’inclusione degli interessati tra le persone assicurate”.
Precisato che per i lavoratori autonomi l’applicazione di questa regola trova un limite nello svolgimento di attività imprenditoriali - argomento sul quale si conta di tornare quanto prima con apposito documento - restano da esaminare le due ultime questioni che seguono.

5.1 Lavoratori assicurati ai sensi dell’art. 4, terzo comma, T.U. (conduzione personale e non occasionale di veicoli a motore per l'esercizio delle proprie mansioni).
Al precedente punto 5 si è affermato che il lavoratore subordinato, una volta entrato nel campo di applicazione dell’assicurazione, è tutelato per tutti i rischi collegati alle finalità ed alle condizioni lavorative.
Si deve ora aggiungere - peraltro in coerenza con quanto già chiarito a pagina 5, punto 3, delle Linee-guida del 4 maggio 1998 sull’infortunio in itinere - che tale criterio si applica indipendentemente dal tipo di attività per la quale il lavoratore è assicurato in quanto, diversamente operando, si verrebbe a determinare una disparità di trattamento tra lavoratori assicurati difficilmente giustificabile.
Ne consegue che la suddetta regola vale anche per i lavoratori assicurati ai sensi dell’art. 4, terzo comma, del Testo Unico.
D’altronde, in tal senso può essere letta la sentenza n. 10896/1993, con la quale la Cassazione ha riconosciuto ad un vigile urbano assicurato, in quanto “addetto in qualità di tecnico presso il gruppo autoradio e impiegato anche nella frequente guida di autoveicoli”, una malattia professionale dell’apparato respiratorio provocata dall’atmosfera inquinata della città. Ed è significativo che la successiva sentenza n. 4940/1995, con la quale la stessa Corte ha negato l’indennizzo ad un vigile urbano addetto solo alla viabilità, e perciò non assicurato, infortunatosi a seguito di investimento automobilistico, richiami la precedente decisione sottolineando che si trattava di “diversa” fattispecie riguardante un soggetto per il quale era “operante la garanzia dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL”.
Si deve inoltre ricordare che, già alla fine degli anni settanta, la Direzione Generale ebbe ad autorizzare, proprio in applicazione del suddetto criterio, l’indennizzo per casi di infortuni al cui accadimento era estraneo il rischio dell’automezzo.
Si ritiene che, oggi ancor più che allora, la norma di cui si tratta debba essere oggetto di una lettura che tenga in considerazione le sue effettive finalità di tutela, svincolandola da una interpretazione puramente letterale che darebbe inevitabilmente luogo - come già detto - a disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori assicurati.
Sembra infatti che, se l’originaria ratio della disposizione era quella di garantire la tutela anche a soggetti “vincolati da rapporto impiegatizio” e, dunque, in deroga al criterio della manualità, oggi, tenuto conto delle trasformazioni subite dal concetto di manualità e considerate le modifiche intervenute nel contesto produttivo, la norma abbia assunto un diverso e più largo significato, il veicolo a motore essendo orami diventato - per alcune categorie - uno strumento insostituibile e trasversale di lavoro che, non diversamente da quanto accade per l’utilizzo del personal computer da parte di altri lavoratori “non manuali”, condiziona e, per questo verso, unifica le pur differenziate attività svolte dal lavoratore.
Per tutte le sopraindicate ragioni si ritiene conclusivamente che, anche per questa categoria di assicurati, tutti i rischi collegati al lavoro e ad attività connesse ed accessorie, e non solo quelli propri dell’uso del veicolo a motore, rientrino nella copertura assicurativa.

5.2 Soggetti assicurati ai sensi del combinato disposto degli articoli 1, punto 28, e 4, punto 5, T.U.
Nel settore della scuola e della formazione professionale, dove la tutela INAIL è circoscritta ai soli rischi di esperienze tecnico-scientifiche e di esercitazioni pratiche e di lavoro (e, da una data più recente, di educazione fisica) ed è, quindi, sostanzialmente residuale, si pone con maggiore evidenza l’esigenza di un complessivo ripensamento dei limiti storici inevitabilmente presenti nel modello che sta alla base del Testo Unico del 1965.
Non è casuale, a questo riguardo, che nel corso del tempo alcune Regioni, nell’ambito della loro autonomia, abbiano stipulato polizze con Compagnie private e che lo stesso Ministero della Pubblica Istruzione abbia favorito la stipula di polizze assicurative volontarie. Neppure è casuale, si ritiene, la crescente attenzione che dopo il D.Lgs. n. 626/94 viene prestata ai problemi della sicurezza e della prevenzione nell’attività scolastica.
In realtà, il mondo della scuola è attraversato, soprattutto in quest’ultimo periodo, da processi di riforma di largo respiro, che si muovono lungo più direttrici alcune delle quali di immediato interesse assicurativo (sempre maggiore diffusione di strumenti tecnologici a supporto dell’attività didattica; crescente spinta alla integrazione dei percorsi didattici e dei percorsi di formazione al lavoro anche durante i normali corsi di studio; intensificazione dei programmi di educazione alla salute e di educazione all’ambiente; apertura al mondo esterno e rapporti interattivi con il territorio, ecc.).
Ne discende che è sempre meno agevole scindere le attività teoriche da quelle pratiche e sempre meno ragionevole limitare la tutela di legge ai rischi strettamente connessi alle tradizionali “esercitazioni”.
È pur vero, d’altro canto, che la questione si presenta particolarmente complessa e richiede di essere approfondita da più angolazioni, coinvolgendo vari interlocutori, pubblici e privati, e implicando un bilanciamento di diversi interessi. Proprio per questo l’INAIL ha già programmato un confronto, innanzitutto con il Ministero della Pubblica Istruzione, per tentare di avviare iniziative congiunte mirate ad una organica soluzione del problema.
Nel frattempo, peraltro, almeno con riguardo agli insegnanti ed agli istruttori assicurati - e cioè a soggetti titolari di rapporti di lavoro - non si ravvisano valide ragioni che giustifichino una tutela più ristretta rispetto a quella che, sulla base dei più avanzati ed estensivi orientamenti della giurisprudenza, viene oggi riconosciuta a tutti gli altri lavoratori assicurati. Pertanto, pure per questa categoria di lavoratori vale il criterio che la tutela di legge ricomprende, oltre ai rischi specifici della “attività protetta” per la quale sono assicurati, anche i rischi generici aggravati dalle finalità e dalle condizioni di lavoro (incluso, quindi, il rischio in itinere).
Lo stesso criterio si applica, pur in assenza di un rapporto di lavoro, ai tirocinanti assicurati con l’INAIL ai sensi dell’art. 18 della legge n. 196/1997, in quanto il Regolamento di attuazione della suddetta norma, emanato con Decreto interministeriale del 25 marzo 1998, n. 142, all’art. 3 prevede che le garanzie assicurative riguardano le attività rientranti nel progetto formativo e di orientamento anche se eventualmente svolte fuori dell’azienda, senza alcuna indicazione limitativa.

* * *

Non è possibile concludere il discorso fin qui condotto senza fare almeno un cenno a due problemi che, già presenti in passato, assumono oggi maggiore evidenza per effetto dell’ampliamento di tutela indotto dai più recenti sviluppi giurisprudenziali e dalle conseguenze logico-giuridiche che in questo documento se ne sono desunte.
Il primo riguarda l’esigenza di garantire una più puntuale corrispondenza tra forme di tutela e previsioni tariffarie e sarà affrontato dall’INAIL, di concerto con gli interlocutori istituzionali, in sede di elaborazione della nuova Tariffa dei Premi.
Il secondo riguarda la necessità di riconsiderare le regole di definizione del campo di applicazione dell’assicurazione, allo scopo di ricomprendere nella tutela lavoratori che oggi ne sono esclusi in quanto non adibiti ad una delle attività indicate dall’art. 1 T.U., benché anch’essi siano esposti, non meno dei lavoratori assicurati, a rischi collegati alle finalità ed alle condizioni lavorative.
La risposta a quest’ultimo problema, peraltro, è rimessa esclusivamente alla volontà del legislatore, non essendone possibile una soluzione in via interpretativa come più volte affermato dalla giurisprudenza anche costituzionale.