Cassazione Penale, Sez. 3, 13 settembre 2018, n. 40679 - Caduta da una scala a pioli durante la saldatura di una condotta per la fornitura del gas. Mancata predisposizione delle misure di sicurezza per i lavori in quota


 

 

Presidente: SAVANI PIERO Relatore: CIRIELLO ANTONELLA Data Udienza: 23/02/2018

 

 

Fatto

 


1. Con sentenza del 11.01.2017 la Corte di Cassazione, IV Sezione, ha, per quanto qui rileva, rigettato i ricorsi, proposti da B.D., C.G. e S.O., confermando la sentenza del 21.09.2015 della Corte d'appello di Ancona, con la quale i medesimi erano stati condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, in quanto riconosciuti colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 589, primo e secondo comma, c.p., per aver cagionato, in qualità di responsabili legali e soci della Tecnokalor s.r.l., per colpa, consistita nell'aver omesso di verificare l'utilizzo di idonei mezzi ad evitare cadute dell'alto (in particolare del trabattello), la morte di C.L., caduto dall'altezza di tre metri da una scala a pioli mentre effettuava la saldatura di una condotta per la fornitura del gas.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso straordinario per errore di fatto gli imputati, congiuntamente, chiedendone l'annullamento per l'errore di fatto in cui sarebbe incorsa la corte, condividendo il giudizio formulato dalla corte di appello, nonostante gli imputati ne avessero sottolineato la contraddittorietà ( ove affermava che gli imputati, pur essendosi preoccupati di fornire sufficienti mezzi di salita per effettuare i lavori, non si fossero preoccupati di fornire ai lavoratori strumenti adeguati sotto il profilo antinfortunistico, e al tempo stesso riconoscendo che i datori di lavoro avevano messo a disposizione solo due trabattelli ed una scala che, nella prospettazione difensiva, erano appunto i mezzi idonei a prevenire le cadute previsti nel POS, dovendosi escludere l'obbligo di fornire altri e diversi mezzi non identificati).
2.1. Si dolgono, altresì, i ricorrenti, che anche la motivazione circa la mancata istruzione delle procedure da seguire sarebbe frutto di un errore percettivo della Corte, atteso che i testimoni escussi al dibattimento hanno riferito, sul punto, solo in merito alle proprie posizioni personali, non dichiarando alcunché circa le informazioni che erano state fornite dagli imputati al C.L., risultando quindi non provata la circostanza che la persona offesa avrebbe operato in assenza di corrette informazioni.
2.2. Sarebbe, altresì, incorsa in errore di fatto la Corte di Cassazione, in ordine alle doglianze relative alla causa del decesso della persona offesa, che nella loro prospettazione era riferibile ad infarto che avrebbe dovuto essere accertato con perizia, illogicamente esclusa dalla corte di appello (versione suffragata dalla circostanza che la caduta era avvenuta da una altezza di soli due metri)
 

 

Diritto

 


3. Il ricorso è manifestamente infondato perchè non viene prospettato un difetto riconducibile alla nozione di errore di fatto rilevante ai sensi della norma evocata.
Ed infatti, l’errore di fatto idoneo a dare luogo ex art. 625 bis c.p.p. all’annullamento della sentenza della Corte di cassazione è solo quello costituito da sviste o errori di percezione nei quali sia incorsa la Corte nella lettura degli atti del giudizio di legittimità: errore connotato dall’influenza esercitata sulla decisione dalla inesatta percezione di dati processuali, il cui svisamento conduce ad una sentenza diversa da quella che sarebbe adottata senza l’errore di fatto (cass. Sez. 6, Sentenza n. 25121 del 02/04/2012 Cc. dep. 22/06/2012 Rv. 253105; Sez. un. 27 marzo 2002, dep. 30 maggio 2002, n. 16103) con esclusione di ogni errore valutativo o di giudizio.
E' stato correttamente osservato come:
- l’errore di fatto censurabile, secondo il dettato dell’art. 625 bis c.p.p., deve consistere in una inesatta percezione di risultanze direttamente ricavabili da atti relativi al giudizio di legittimità, e, per usare la terminologia dell'art. 395 c.p.c., n. 4, cui si è implicitamente rifatto il legislatore nella introduzione dell'art. 625 bis c.p.p., nel supporre "la esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa" ovvero nel supporre "l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita", e tanto nell'uno quanto nell'altro caso "se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunziare";
- l'errore di fatto deve inoltre rivestire "inderogabile carattere decisivo", deve cioè necessariamente tradursi, per legittimare il ricorso straordinario, "nell'erronea supposizione di un fatto realmente influente sull'esito del processo, con conseguente incidenza effettiva sul contenuto del provvedimento col quale si è concluso il giudizio di legittimità";
- deve escludersi che nell'area dell'errore di fatto denunziabile con ricorso straordinario possa essere ricondotto l'errore percettivo non inerente al processo formativo della volontà del giudice di legittimità;
- il preteso errore di fatto non deve consistere in un errore già commesso, eventualmente, dai giudici di merito, e che, in quanto tale, avrebbe dovuto essere tempestivamente denunciato attraverso gli specifici mezzi di impugnazione proponibili avverso le relative decisioni.
3.1. In sintesi, esulando dall'errore di fatto ogni profilo di diritto o valutativo esso coincide con l'errore revocatorio - secondo l'accezione che vede in esso il travisamento degli atti nelle due forme della "invenzione" o della "omissione", - in cui sia incorsa la stessa Corte di cassazione nella lettura degli atti del suo giudizio.
3.2. Ciò premesso, nel caso di specie, tutte le doglianze proposte esulano dai confini del rimedio esperito, avendo la corte svolto correttamente il proprio giudizio di legittimità, senza incorrere in alcun errore di fatto.
In particolare, la corta ha correttamente evidenziato , esaminando la censura in relazione alla quale si era dedotto, tra l'altro, che il C.L. lavorava maniera autonoma e che nulla potevano fare i committenti che quel giorno non si trovavano in cantiere, come il C.L. fosse inserito organicamente all'interno dell'impresa e come, dunque, dato l'effettivo rapporto di dipendenza sia pure temporanea, con gli odierni imputati, suoi datori di lavoro, gli stessi potessero ritenersi responsabili dell'infortunio lavorativo in ragione della mancata predisposizione, nel cantiere ove la persona offesa in era stato chiamato a svolgere la sua prestazione lavorativa, di tutte le misure idonee ad evitare le cadute dall'alto, consentendo che il lavoratore eseguisse il dovuto in condizioni di pericolosità, escludendo il rilievo della comprovata esperienza professionale del C.L., poiché lo stesso, che rivestiva la qualifica di saldatore, non aveva assunto il rischio specifico del lavoro in quota, che era stato, peraltro, espressamente previsto nel POS relativo al cantiere, senza però una corretta istruzione e vigilanza sulle giuste procedure da seguire (in tal senso le deposizioni testimoniali indicate nell'impugnata sentenza ed il riscontro di due soli trabattelli ed una scala).
Del pari in alcun errore incorre la corte nell'affermare che la Corte territoriale abbia motivatamente disatteso la doglianza relativa al mancato nesso di causalità tra l'evento mortale e l'omessa istruzione/adozione delle normative sulla sicurezza nel lavoro, avendo i datori di lavoro non adempiuto alla propria obbligazione di garanzia in favore degli operatori esposti al rischio, consistente nel verificare sul rispetto delle norme antiinfortunistiche da parte dei lavoratori, il che comporta la responsabilità datoriale anche quando lo stesso comportamento del lavoratore infortunato abbia dato occasione all'evento, essendo questo da ricondurre alla mancanza di quelle cautele che, se adottate, lo avrebbero neutralizzato, con il solo limite del comportamento anomalo, assolutamente estraneo alle mansioni attribuite esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere (Sez.4, 5 marzo 2015 n. 16397, Rv.263386; Sez.4,  n.22249 Rv 259228, Sez.4, n. 18202 del 22 aprile 2016, imp. Ganau.)
Parimenti infondata è -infine- la doglianza relativa al mancato espletamento della perizia in ordine alle reali cause del decesso della persona offesa. La Corte ha osservato, riguardo a tale censura, formulata nel primo ricorso per cassazione, che i Giudici di merito avevano già riscontrato la doglianza, in base agli accertamenti in atti, mediante una motivazione immune da qualsivoglia vizio, evidenziando come il lavoratore, precipitato al suolo, aveva subito, a causa dell'impatto con il terreno, gravissimi e plurimi traumi, con inarrestabile emorragia interna, che ne aveva determinato l'immediato decesso. Un eventuale infarto come causa ultima dell'evento mortale è stato perciò ritenuto irrilevante, essendo incontrovertibile il nesso di causalità ex artt.40 e 41 c p.
4. Ne consegue che i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00. 
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara, inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00.
Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2018