Cassazione Penale, Sez. 4, 10 marzo 2023, n. 10089 - Pericoloso lavoro di potatura in quota affidato ad un pensionato "in nero". Responsabilità colposa del proprietario committente


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente -

Dott. FERRANTI Donatella - Consigliere -

Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere -

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere -

Dott. D’ANDREA Alessandro - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


sul ricorso proposto da:

dalla parte civile A.A., nato a (Omissis);

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA;

nel procedimento a carico di:

B.B., nato a (Omissis);

C.C., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 22/12/2020 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO D'ANDREA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore SILVIA SALVADORI che ha concluso chiedendo.

Fatto

1. Con sentenza del 22 dicembre 2020 la Corte di appello di Bologna ha confermato la pronuncia del Tribunale di Forlì dell'8 gennaio 2019 con cui B.B. e C.C. erano stati assolti - rispettivamente, per non aver commesso il fatto e perchè il fatto non costituisce reato - dall'imputazione loro ascritta ai sensi degli artt. 113, 40 cpv., 590, commi 1, 2, 3 e 6 c.p..

1.1. Agli imputati era stato contestato, in particolare, di avere, in cooperazione tra loro, per negligenza, imperizia, ed imprudenza, il B.B. in qualità di proprietario dell'abitazione e del pertinente giardino teatro dell'infortunio, la C.C. per aver dato materiale incarico alla vittima - e quindi entrambi nella veste di committenti dei lavori, titolari di specifica posizione di garanzia - cagionato a A.A. lesioni personali gravissime.

Secondo la ricostruzione accusatoria, gli imputati avevano commissionato un pericoloso lavoro di potatura in quota ad un pensionato assunto "in nero", non dotato di adeguata esperienza tecnica e di idonee attrezzature (casco protettivo, piattaforma o altri presidi antinfortunistici), svolgente in modo autonomo l'attività di giardinaggio. A causa dell'utilizzo di un'attrezzatura da lavoro inadeguata - per come, invero, facilmente percepibile da parte degli stessi committenti - per tagliare un grosso ramo di un albero di robinia alto circa dieci metri, il giorno (Omissis) il A.A. era salito su una scala prestatagli dal conoscente D.D., legando con una corda il ramo da recidere e consegnando l'altra estremità alla C.C. e allo D.D., dicendo loro di non tirarla finchè costui non fosse ridisceso dalla scala. Tagliato il ramo, il A.A. era, quindi, sceso dalla scala, nel mentre la C.C. e lo D.D., del tutto improvvidamente, avevano tirato la fune, causando la caduta del ramo che, colpendo la vittima, aveva causato a quest'ultima lesioni personali gravissime, consistite in "tetraplegia ipertronica incompleta asia a livello neurologico c7 post-traumatica con vescica neurogena ed infezioni delle vie urinarie recidivanti".

1.2. Il giudice di primo grado aveva escluso la responsabilità degli imputati ritenendo in primo luogo accertato, quanto alla ricostruzione fattuale, che il A.A., al fine di consentire una caduta controllata, avesse, in realtà, attaccato l'altro capo della corda ad un albero vicino, per poi essere stato improvvisamente colpito, non appena disceso dalla scala, dal ramo dell'albero, reciso solo parzialmente ed inaspettatamente distaccatosi.

Il Tribunale aveva escluso la ricorrenza di un'ipotesi di culpa in eligendo nei confronti degli imputati, sul presupposto che il A.A., al momento del fatto, già da tempo stava svolgendo attività di giardinaggio, tanto da divenire un suo vero e proprio lavoro, possedendo un camioncino ed essendo dotato di scarponi, di tuta antinfortunistica e di sega elettrica. Per la C.C., pertanto, il A.A. si sarebbe posto come persona del tutto idonea ad eseguire i lavori di potatura richiesti, da lui, peraltro, già reiteratamente eseguiti presso altre abitazioni, senza la necessità di predisposizione di particolari presidi.

Per il giudice di primo grado, quindi, non era esigibile nessuna condotta alternativa da parte della C.C., anche considerato che l'uso di un casco o di altri presidi antinfortunistici non avrebbe comunque evitato il trauma lesivo alla vittima. Con riguardo alla posizione del B.B., invece, era stata esclusa ogni sua responsabilità per non aver partecipato alla vicenda, non avendo avuto contatti con il A.A. e non essendo stato neppure presente sui luoghi in occasione del sinistro.

1.3. Interposto appello dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna e dalla parte civile, la Corte territoriale ha confermato la decisione assolutoria di primo grado, ritenendo che la rinnovazione istruttoria svolta, mediante l'esame testimoniale del A.A., non fosse risultata idonea a modificare la ricostruzione fattuale operata da parte del primo giudice.

E' stato condiviso, quindi, il giudizio del Tribunale circa l'insussistenza di una culpa in eligendo da parte degli imputati, osservato che il B.B. non aveva assunto nessuno specifico obbligo di garanzia, stante l'univoca prova rappresentata dalla mera sua titolarità formale dell'immobile, e che non era stata fornita nessuna indicazione alternativa da parte degli appellanti idonea a modificare la valutazione ex ante operata dai par t21 primo giudice in ordine all'inesigibilità di una condotta alternativa da parte della C.C., congruamente limitatasi ad affidare la potatura di un albero ad un soggetto esperto, senza poter concretamente prevedere la pericolosità del lavoro e la necessità di predisposizione di particolari presidi.

2. Avverso la sentenza della Corte di merito hanno proposto ricorso per cassazione, con due differenti atti, la parte civile costituita A.A. ed il Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna.

2.1. La parte civile ha dedotto tre motivi di doglianza, con il primo dei quali ha eccepito vizio di mancanza e manifesta illogicità della motivazione.

La Corte di appello avrebbe, in particolare, errato nel non aver valorizzato alcune dichiarazioni rese dal ricorrente nel corso dell'escussione svolta dinanzi al secondo giudice, quali il fatto che costui si fosse inizialmente rifiutato di effettuare il lavoro, adducendo che lo stesso, stante la particolare altezza, dovesse essere espletato con l'utilizzo di una piattaforma, da costui non posseduta, ed infine accettando il lavoro solo in conseguenza della particolare insistenza avuta da parte dei committenti. Lamentava, inoltre, che, pur avendo nuovamente ribadito la versione dei fatti per cui il capo della corda cui era attaccato il ramo era stato da lui collocato nelle mani della C.C. e dello D.D. - che l'avevano inopinatamente tirato, a seguito di un'incomprensione o per difetto di udito -, tale dichiarazione era stata ingiustamente svilita dalla Corte di merito, senza che fosse stata adeguatamente vagliata la sua attendibilità di testimone.

A differenza delle dichiarazioni rese dallo D.D., che ben potevano essere mendaci per il timore di rendere propalazioni di natura auto-accusatoria, le dichiarazioni della parte civile erano da ritenersi assolutamente credibili, in quanto del tutto coerenti, prive di astio nei confronti degli imputati e tali da corrispondere, quanto alla modalità di verificazione dell'accaduto, con quanto ritenuto presumibilmente avvenuto secondo il locale funzionario comunale responsabile del verde pubblico, sentito dal Tribunale ai sensi dell'art. 507 c.p.p..

Con la seconda censura il ricorrente ha lamentato contraddittorietà della motivazione con riguardo alla disposta assoluzione degli imputati dalla condotta omissiva impropria loro ascritta, osservando che, quale che fosse stata la reale dinamica dell'incidente, sussisteva comunque la prevedibilità del rischio e la pericolosità del lavoro, considerato che, per come accertato dai giudici di merito: il lavoro era stato svolto in quota, con i connessi pericoli di precipitazione di cose dall'alto; il A.A. era sprovvisto di casco e di idonei sistemi di protezione; non era stato previsto l'utilizzo di una piattaforma; la persona offesa aveva svolto il lavoro utilizzando tecniche considerate ormai desuete. Di tutto ciò ben potevano essere consapevoli gli imputati, apparendo di facile percezione che l'attrezzatura utilizzata dal A.A. fosse palesemente inadeguata rispetto allo svolgimento della potatura di un albero in quota.

Rispetto alla decisività del superiore assunto, sarebbero del tutto inconferenti, quindi, le argomentazioni, invece utilizzate dai giudici di merito, per cui il casco protettivo, ovvero la predisposizione di una piattaforma, non avrebbero potuto comunque scongiurare le lesioni riportate dalla vittima, così come la circostanza che quest'ultima avesse già in precedenza svolto diverse attività di potatura di alberi.

Con il terzo motivo, il A.A. ha eccepito, infine, inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 590, 113, 40, comma 2, c.p., nonchè degli artt. 107 e 122 D.Lgs. n. 9 aprile 2008, n. 81, lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe correttamente applicato le disposizioni indicate, non avendo, in particolare, chiarito le ragioni per cui: gli imputati, ed in particolare il B.B. proprietario del fondo, non fossero committenti dei lavori, e quindi titolari della posizione di garanzia; i prevenuti non avrebbero potuto immediatamente percepire l'inadeguatezza delle misure precauzionali adottate dal E.E.; vi sarebbe stata la mancanza di adozione delle precauzioni normativamente richieste per l'espletamento dei lavori in quota; a fronte di tutte le indicate omissioni, fosse stato dato comunque rilievo al mero accertamento dei motivi per cui si era verificata in concreto la caduta del ramo dall'alto.

2.2. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna ha eccepito, con un unico motivo di doglianza, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione riguardo all'applicazione della legge penale in relazione all'assoluzione per il reato omissivo improprio ex art. 590 c.p..

In seno al suo ricorso, infatti, il Procuratore generale ha dedotto doglianze del tutto coincidenti con quelle eccepite dalla parte civile, in particolar modo riguardanti la prevedibilità della pericolosità del lavoro e l'inadeguatezza dell'attrezzatura avuta dal E.E..

Il ricorrente ha, altresì, precisato che il B.B., in quanto proprietario del terreno e committente del lavoro, ricopriva in modo effettivo, unitamente alla di lui consorte, la posizione di garanzia ex art. 40, comma 2, c.p., avendo avuto contatti con il E.E. presso il suo negozio, e quindi avendo avuto piena consapevolezza dell'espletamento del lavoro da parte di costui.

Dovrebbe conseguentemente essere responsabile, al pari della coimputata, della mancata adozione di adeguate misure precauzionali da parte del lavoratore ferito.

3. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto, in accoglimento dei proposti ricorsi, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

4. Il difensore della parte civile ha depositato successiva memoria, con cui ha insistito per l'accoglimento del ricorso.



Diritto


1. Il ricorso della parte civile è fondato, con conseguente pronuncia di annullamento della sentenza impugnata agli effetti civili con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, mentre deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna.

2. Con riferimento, infatti, a tale ultima impugnazione, deve essere osservato come il reato contestato ai prevenuti risulti estinto per intervenuta prescrizione, essendo decorso il relativo termine in data 17 giugno 2021, e come, quindi, il ricorso sia stato proposto da soggetto privo dell'interesse ad impugnare, conformemente all'esegesi resa da questa Corte di legittimità per cui è inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto qualora, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, sia maturata la causa estintiva del reato, salvo che emerga un interesse concreto del pubblico ministero alla decisione rispondente a una ragione esterna al processo obiettivamente riconoscibile - nel caso di specie, invero, non ravvisabile - (cfr. Sez. 4, n. 44951 del 15/10/2021, Capozzo, Rv. 282243-01; Sez. 6, n. 34069 del 29/09/2020, Cozzolino, Rv. 279928-01).

In termini generali, nel rispetto dei principi fissati dagli artt. 591 e 568, comma 4, c.p.p., per proporre impugnazione occorre avervi interesse, e tale ultimo deve essere concreto - e cioè mirare a rimuovere l'effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato - e persistere sino al momento della decisione (così, tra le tante, Sez. 1, n. 1695 del 19/03/1998, Papajani, Rv. 210562-01). L'interesse ad impugnare, concreto ed attuale, deve sorreggere anche il ricorso proposto dal pubblico ministero, che, pertanto, può essere ravvisato solo qualora l'impugnazione sia presentata dall'organo dell'accusa per far valere l'illegittimità della situazione derivante dal provvedimento la cui rimozione o modifica sia tale da incidere in modo effettivo sulla posizione dell'imputato, e cioè, nella prospettiva accusatoria, per comportare la condanna del medesimo o, quantomeno, l'aggravamento delle conseguenze sanzionatorie lato sensu intese. Il mezzo di impugnazione, pertanto, deve perseguire un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. 4, n. 16029 del 28/02/2019, Briguglio, Rv. 275651-01).

Ciò, all'evidenza, non è dato ravvisare nel caso di specie, essendo venuta meno agli effetti penali la res iudicanda per l'intervenuta prescrizione del reato.

3. Invece fondati sono i motivi di censura dedotti dalla costituita parte civile A.A. in ordine ai dedotti vizi inerenti alla mancata adeguata valutazione della titolarità da parte degli imputati della posizione di garanzia, in quanto committenti dei lavori, nonchè della prevedibilità da parte di costoro del rischio e della pericolosità insiti nel lavoro affidato alla persona offesa, con conseguente configurabilità di una culpa in eligendo nei loro confronti.

3.1. Di certo l'indicata conclusione non attiene all'aspetto concernente la ricostruzione della vicenda fattuale e, quindi, alla determinazione della concreta modalità con cui l'infortunio del A.A. si è effettivamente verificato.

Come osservato, infatti, sussiste un'evidente discrasia tra la ricostruzione effettuata dalla persona offesa - ancora ribadita nella svolta rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, disposta ai sensi dell'art. 507 c.p.p. - per cui il ramo sarebbe caduto, colpendo il A.A., a causa della condotta imprudente della C.C. e dello D.D. che, per una incomprensione o per un difetto uditivo, avrebbero impropriamente tirato la corda assicurata al suddetto arbusto, ovvero quella, ritenuta in sentenza, per cui, invece, il ramo, tagliato solo parzialmente, sarebbe caduto verticalmente, senza sollecitazioni esterne, nel mentre la persona offesa si trovava ai piedi della scala.

L'accertamento della dinamica del sinistro attiene, infatti, ad una valutazione afferente al merito, e dunque ad un aspetto non sindacabile in questa sede di legittimità laddove, come nel caso di specie, la stessa sia stata rappresentata con motivazione adeguata e congrua, esente da vizi logici.

3.2. Invece fondate sono le ulteriori censure eccepite dal A.A. in ricorso, ed in primo luogo quella per cui vi sarebbe contraddittorietà ed illogicità della motivazione, per essere stata disposta l'assoluzione degli imputati pur a fronte di una palese prevedibilità del rischio e della pericolosità del lavoro, derivante dal fatto che, a prescindere dall'esatta dinamica di verificazione dell'infortunio, per come era facilmente percepibile da parte degli imputati: il lavoro era stato svolto in quota, con i connessi pericoli di precipitazione di cose dall'alto; il A.A. era sprovvisto di casco e di idonei sistemi di protezione; non era stato previsto l'utilizzo di una piattaforma; la persona offesa aveva eseguito il lavoro utilizzando tecniche ritenute ormai desuete.

In tale ottica, inoltre, risulta anche corretta la considerazione espressa dalla parte civile in ricorso per cui la Corte di merito avrebbe illogicamente omesso di conferire rilievo al fatto che, per quanto dichiarato dal A.A. nel corso della sua escussione in appello, costui si era inizialmente rifiutato di effettuare il lavoro, adducendo che lo stesso, stante la particolare altezza, dovesse essere espletato con l'utilizzo di una piattaforma, da lui non posseduta, ed infine accettando di eseguire la potatura solo in ragione della particolare insistenza da parte dei committenti.

A fronte delle indicate considerazioni, sono di insufficiente e non decisivo rilievo le valutazioni, invece rese dai giudici di merito, per cui il casco protettivo, ovvero la predisposizione di una piattaforma, non avrebbero comunque potuto scongiurare le lesioni riportate dalla vittima.

La Corte di appello ha, infatti, inequivocabilmente osservato che, anche a voler ritenere che la dinamica del sinistro sia stata quella più favorevole agli imputati - e cioè quella per cui il ramo sarebbe caduto da solo e non perchè tirato dalla corda tenuta in mano dalla C.C. - la persona offesa aveva riportato lesioni a causa "di una metodologia operativa desueta tanto che, per un errore di calcolo nella profondità del taglio, mentre il A.A. era a terra, veniva colpito dal ramo e sbalzato all'indietro".

Orbene, l'indicato aspetto, giudizialmente accertato dai giudici di merito, risulta non logicamente e congruamente valutato dalla Corte di appello, laddove ha ritenuto di escludere la responsabilità dei prevenuti sul generico e diverso presupposto per cui, comunque, l'utilizzo dei dispositivi di protezione non avrebbe potuto impedire la verificazione dell'evento.

Rispetto, poi, alla ritenuta carenza di prova circa la sussistenza negli imputati della consapevolezza della difficoltà del lavoro e dei rischi ad esso connessi, il Collegio rileva come la motivazione resa dalla Corte territoriale pecchi di non sufficiente ragionevolezza, posto che la persona offesa era stata richiesta di intervenire in solitudine ad oltre tre metri di altezza - tanto da richiedere l'aiuto, per lo svolgimento delle operazioni, della C.C. e dello D.D. - con una motosega in mano, senza alcuna attrezzatura di appoggio, ma solo legato a delle corde, per procedere ad un taglio di rami che, come è ovvio, sarebbero pericolosamente caduti dall'alto.

La mancata presa di coscienza dei rischi connessi all'intervento, pertanto, è tema che non è stato adeguatamente vagliato dalla Corte di appello, presentando indubbie aporie logiche ed incertezze argomentative le valutazioni espresse in proposito, mentre esso, invece, assume un imprescindibile rilievo ai fini della valutazione della sussistenza di una culpa in eligendo nella condotta riferibile agli imputati, invece irragionevolmente e contraddittoriamente esclusa, conseguente al fatto che costoro si erano rivolti, per lo svolgimento del lavoro, ad un soggetto privo di adeguata preparazione professionale e di un'attrezzatura idonea, nonchè incapace di adottare una metodologia operativa consona alla specifica prestazione cui era stato chiamato.

3.3. Parimenti fondato è il motivo con cui il A.A. ha lamentato vizio di violazione di legge, per non essere state chiarite le ragioni per cui gli imputati, ed in particolare il B.B. proprietario del fondo, non fossero titolari di una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa.

La Corte di appello, infatti, non ha affrontato, in modo puntuale, la valutazione delle ragioni per cui il B.B. non avrebbe avuto nessuno specifico obbligo di garanzia nei confronti del A.A., avendo solo genericamente affermato che, rispetto a costui, sarebbe "stata provata esclusivamente la titolarità formale del terreno".

In termini ancor più generali, la Corte di merito non ha compiutamente e logicamente valutato la questione relativa alla riferibilità colposa dell'evento agli imputati, quali di titolari di una specifica posizione di garanzia.

Tale aspetto, invero, discende nei loro confronti - in quanto committenti del lavoro di potatura dell'albero posto nella loro proprietà - in ragione di quanto previsto dall'art. 89 D.Lgs. n. 81 del 2008, per il quale è committente il soggetto per conto del quale l'intera opera viene realizzata, indipendentemente da eventuali frazionamenti della sua realizzazione.

L'indicata qualifica, allora, può indubbiamente fondare un giudizio di responsabilità colposa per un eventuale infortunio derivante dalla scelta dei lavoratori, prevedendosi un vero e proprio obbligo in capo al proprietario committente di verificare l'idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi prescelti, in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (così, tra le tante, Sez. 4, n. 5409 del 16/11/2021, dep. 2022, Vidiri Tavassi, Rv. 282606-01).

4. Rilevano, dunque, plurime incoerenze, illogicità e carenze nella motivazione resa con il provvedimento impugnato che rendono necessario procedere, in accoglimento del ricorso proposto dalla parte civile A.A., all'annullamento agli effetti civili della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui deve essere anche demandata la regolamentazione delle spese tra le parti relative a questo giudizio di legittimità. Contestualmente, deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili e rinvia, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità. Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale.
Così deciso in Roma, il 22 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2023